a Rivolu z Vincenzo Cuomo La Rivoluzione Napoletana del 1799 La Rivoluzione Napoletana del Estratto della1799 pubblicazione La Rivoluzione Napoletana del 1799 Vincenzo Cuomo La Rivoluzione Napoletana del 1799 Esselibri - Simone Estratto della pubblicazione TUTTI I DIRITTI RISERVATI Vietata la riproduzione anche parziale Hanno collaborato il Prof. Cesare Azan e la dott. Magda De Notariis Finito di stampare nel mese di dicembre 1997 dalla «Grafica Sud» - Via Stadera, n. 89 - Casoria (NA) per conto della ESSELIBRI S.p.A. - Via F. Russo, 33/D - 80123 NAPOLI Grafica di copertina a cura di Fabiana Frascà e Giuseppe Ragno Estratto della pubblicazione PREMESSA La Repubblica Partenopea indubbiamente è l’episodio più glorioso della storia di Napoli. Quanti altri avvenimenti ugualmente degni di nota possiamo affiancare ad essa? Forse le “Quattro Giornate”? Il breve ed effimero splendore del Ducato? Oppure il periodo dell’Illuminismo settecentesco? L’esperienza repubblicana tuttavia li supera tutti di gran lunga, sia per nobiltà d’intenti che per la virtù morale dei personaggi. Non va dimenticato che è e resta uno dei momenti di massima espressione della civiltà, del trionfo dell’ intelligenza e dell’affermazione di un concetto politico legato a un autogoverno dei popoli lontano da tirannia e oppressione. Tuttavia, nonostante siano trascorsi da quei giorni quasi due secoli e tanti episodi, ammirevoli e non, si siano succeduti, parte della storiografia ancora si affanna per tentare di sminuire l’importanza dell’avvenimento e il prestigio dei suoi protagonisti. Vana fatica! Il loro impegno è contro la storia. Cercare di demolire tutto ciò è perfettamente inutile. La piramide che essi tanto faticosamente si sforzano di costruire non sfiderà i secoli, la cattiva qualità del materiale di cui è composta la condanna a un rapido deterioramento. Alcuni di questi studiosi, tra l’altro, hanno anche fatto notare che i veri “patrioti” non furono quella sparuta pattuglia di repubblicani che favorirono i francesi, bensì quella moltitudine di lazzari che morì per il re e per la patria. In realtà i lazzari non erano spinti da nessun intento patriottico: non erano legittimisti, nè null’altro, ma solo elemento inconsapevole di una terribile condizione di arretratezza, ignoranza e profonda miseria. Erano completamente all’oscuro del significato di Libertà e Tirannia, non si rendevano conto di nulla e niente attirava veramente la loro attenzione al di là del mero e immediato bisogno materiale del momento. La verifica della poca saldezza del loro ideale l’abbiamo poi con l’ingresso di Championnet a Napoli, quando bastò che san Gennaro compisse il “miracolo” perché da arrabbiati borbonici si trasformassero di colpo in tranquilli giacobini. Ancora va detto che esaltare un governo legittimo solo perché tale, nel nostro caso quello di Ferdinando IV, e condannare i “patrioti” di cui prima, rappresenta una implicita cancellazione dell’impegno e del sacrificio di tutti coloro che lottavano contro il dispotismo e l’arbitrio a favore di libertà e democrazia. A paragone sarebbe come dire che l’intero nostro Risorgimento nazionale sia da disapprovare e biasimare perché combattutto contro un potere legale. Il momento storico trattato in queste pagine quindi, al di là dei vari tentativi di denigrazione, resta Estratto della pubblicazione di eccezionale magnificenza e fulgore, mentre la drammatica conclusione nulla toglie alla sua grandezza, anzi ne accresce il valore e l’importanza. Infine, ho ancora da aggiungere che la rivoluzione partenopea del 1799 non va sottovalutata, in quanto è anche e soprattutto l’alba del risveglio degli italiani. È il primo vero episodio di vivace ripresa di un’attività politica autonoma dopo secoli di torpore e di asservimento allo straniero e al dispotismo. L’epilogo fu tragico, ma non poteva essere che così. Tuttavia, il seme coperto dalla cenere sanfedista non andò perduto, ma, aiutato pure da nuovi eventi, germogliò ancora, sino a dar vita a quel meraviglioso risveglio popolare comunemente noto con il nome di Risorgimento. Allora una gran massa di popolazione, di gran lunga superiore alle poche centinaia di repubblicani del ’99, darà finalmente vita a quello Stato libero e unitario, da secoli ardentemente desiderato dalle menti migliori della Penisola. In questo libro l’argomento viene trattato in tutta la sua completezza, senza però perdere di vista il contesto storico-politico europeo del momento. Si è tentato anche di evitare cronaca, pettegolezzi e aneddoti, privilegiando il più possibile la trattazione storica. Molto spazio è stato dedicato alla politica estera della Francia, dallo scoppio della Rivoluzione sino al 1799, nonchè all’impegno delle Potenze coalizzate contro di essa. Questa ampia introduzione è indispensabile per comprendere l’esperimento giacobino napoletano. In tal modo, arrivato alla Repubblica Partenopea, il lettore avrà già le idee chiare su quello che era il quadro politico generale, gli opposti schieramenti e soprattutto l’orientamento delle varie classi sociali. La parte che riguarda invece specificamente la Repubblica a Napoli, oltre a una narrazione sistematica e cronologica degli eventi che si sono succeduti in quei drammatici mesi, non esclude brevi tratti biografici di personaggi di rilievo inseriti man mano che vengono incontrati. A coloro invece che sono stati i veri protagonisti di questo periodo, non solo per l’impegno e il contributo dato alla Causa, ma anche per la grandezza del pensiero e lo spessore morale, si è dedicato un intero capitolo. Il libro termina poi con l’elenco di tutti i condannati dalla Reazione che, in anticipo sui tempi, dovettero pagare con la vita l’aver aderito a una visione nuova della politica che solo di recente ha trovato piena comprensione e affermazione. Dicembre 1997 V. C. 1 Capitolo La rivoluzione francese e i suoi effetti nella penisola italiana La fine dell’Ancient Régime I l 14 luglio 1789 una notizia allarmante sconvolge le monarchie europee: la Bastiglia, la tetra fortezza parigina, simbolo dell’assolutismo monarchico dove venivano rinchiusi gli oppositori di regime ed i prigionieri politici, è presa d’assalto dal popolo inferocito. È il primo atto della rivoluzione che segnerà la La presa della Bastiglia in una stampa tedesca Estratto della pubblicazione 6 Capitolo Primo fine dell’ancient régime e che introdurrà nella vita dei popoli i princìpi di uguaglianza, di libertà, di solidarietà su cui si basano anche le società di oggi. Non era la prima volta che l’età moderna assisteva a un profondo e violento rinnovamento dell’ordine costituito. Verso la metà del XVII secolo in Inghilterra la rivoluzione di Cromwell aveva portato alla decapitazione del re Carlo I (1645) e alla proclamazione della repubblica mentre la cosiddetta seconda rivoluzione inglese (1688) aveva posto i limiti al potere della Corona rispetto al Parlamento. Circa un secolo più tardi, con la rivoluzione americana, le colonie inglesi d’oltreoceano ottennero l’indipendenza dalla madrepatria. Ma la rivoluzione francese è un evento che segna la nascita di un nuovo mondo, di un sistema in cui ogni individuo diventa arbitro della propria sorte. Cadono così i regimi assoluti basati sullo “stato di polizia” e prendono vita le prime forme di “stato di diritto” che incarnano i nuovi ideali di libertà sanciti nella famosa Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Non fu un caso che l’evento che produsse la rapida e radicale trasformazione della civiltà occidentale prendesse le mosse proprio da Parigi. Il contesto politico e sociale della Francia del Settecento si fondava sui privilegi di nascita e sulla ricchezza fondiaria. L’aristocrazia possedeva estese proprietà terriere, godeva di agevolazioni fiscali, e i suoi membri ricoprivano le cariche più prestigiose della pubblica amministrazione e dell’esercito. Con Luigi XIV si era affermato in Francia un assolutismo che concentrava tutti i poteri nelle mani del re, il quale viveva con la corte nella sfarzosa reggia di Versailles. Anche il clero, nelle sue sfere più alte, godeva di numerosi privilegi. Non era soggetto alla giurisdizione dei tribunali civili e, pur possedendo vasti latifondi, abbazie e vescovati, erano esentati dalle tasse. Diversa era la posizione del basso clero che viveva a contatto con il popolo e ne condivideva le aspirazioni. La pressione del fisco incombeva per lo più sui ceti popolari, mentre gran parte delle risorse veniva destinata alle spese di corte e al mantenimento della burocrazia statale. Le basi del potere aristocratico erano minate, però, dall’espansione economica che aveva per protagoniste le classi borghesi, le quali, ispirandosi alle idee illuministe di una maggiore fiducia negli uomini e nelle scienze naturali, pone- Estratto della pubblicazione La rivoluzione francese e i suoi effetti nella penisola italiana 7 vano in discussione l’ideologia dell’ordine costituito. Politicamente matura, non riuscendo a ottenere dalla monarchia l’accesso alla guida del paese, la borghesia (chiamata anche Terzo Stato) decise di rivendicare i propri diritti con un’azione di forza. Dalla capitale il moto popolare si diffuse nelle province, dove trovò terreno fertile nel malcontento delle masse contadine vessate dai grandi proprietari terrieri. I costumi dei tre ordini L’Assemblea nazionale decretò l’abolizione del regime feudale, sopprimendo le decime da versare ai proprietari terrieri, le tasse e le corvées. Al rifiuto del re Luigi XVI di ratificare il decreto, il popolo marciò su Versailles e costrinse il sovrano a trasferirsi nella capitale. Con la Costituzione promulgata nel settembre del 1791 la Francia divenne una monarchia parlamentare fondata sulla separazione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario. Il re conservava il potere esecutivo e si poteva avvalere del diritto di veto per contrastare le decisioni del parlamento. 8 Capitolo Primo L’assemblea incaricata di promulgare le leggi della nuova Francia si insediò il 1° ottobre 1791. La disposizione dei vari schieramenti politici all’interno dell’aula acquista un significato particolare, perché da questo momento viene seguita dai parlamentari di quasi tutti i paesi. Alla destra del presidente sedevano i foglianti, conservatori e filomonarchici, al centro il gruppo di maggioranza, privo di un chiaro programma e detto perciò la Palude. A sinistra si trovavano i giacobini, lo schieramento più acceso, divisi in girondini e montagnardi. Il dibattito politico, tuttavia, non era circoscritto all’aula: le discussioni continuavano nei vari club, dove i componenti di ogni schieramento si incontravano ed elaboravano progetti. Nonostante la sconfitta, la monarchia non perse la speranza di arrestare gli eventi attraverso l’intervento delle potenze straniere. Il progetto di Luigi XVI era quello di rifugiarsi in Austria e di ritornare poi, con un esercito straniero per ripristinare l’assolutismo. La famiglia reale tentò la fuga, ma venne fermata alla frontiera con il Belgio e costretta a rientrare a Parigi sfilando tra una folla silenziosa e ostile. Il fallimento della fuga del re accrebbe i timori delle grandi potenze, sempre più decise a intervenire militarmente per scongiurare il pericolo che la rivoluzione si allargasse al resto dell’Europa. Anche i girondini erano favorevoli alla guerra, certi che essa avrebbe esportato all’estero le nuove idee di libertà. La rivoluzione in marcia Dopo le vittorie di Valmy e Jemappés la Convenzione — l’organo che aveva sostituito l’Assemblea costituente — stabilì che era compito della Francia rivoluzionaria aiutare quei popoli che intendevano intraprendere una lotta di liberazione contro i propri tiranni. L’intento della dichiarazione era soprattutto quello di stimolare la formazione, all’interno degli altri Stati, di movimenti rivoluzionari che fungessero da sostegno agli eserciti francesi nella lotta contro le monarchie assolute. Nacquero così in vari paesi d’Europa movimenti repubblicani ispirati al modello rivoluzionario francese, anche se diversi per princìpi e metodi di lotta. Intanto l’esercito rivoluzionario mieteva successi e la Francia si annetteva Nizza, la Savoia, il Belgio e la Renania. Anche in Italia gli entusiasmi per gli eventi di Oltralpe mobilitarono intellettuali e uomini di cultura e riscossero vasti consensi tra la borghesia. Dove più Estratto della pubblicazione La rivoluzione francese e i suoi effetti nella penisola italiana 9 erano numerosi gli esponenti della borghesia più era forte il sostegno morale offerto alle idee rivoluzionarie. Nella nostra penisola le idee repubblicane erano già penetrate attraverso le logge massoniche, associazioni che per tutto il Settecento erano state punti di La regina Maria Antonietta incontro dei progressisti illuministi. Dopo la rivoluzione francese i governi avviarono un’azione repressiva contro le associazioni massoniche, le quali in precedenza avevano annoverato tra le loro file persino dei sovrani, mentre ora Estratto della pubblicazione 10 Capitolo Primo vennero a trovarsi al bando. Molti non se la sentirono di sfidare l’autorità costituita e rientrarono nei ranghi, ma altri erano pronti ad affrontare una lotta che avrebbe prodotto una rigenerazione della società in senso democratico. Presso le corti, dove erano più forti le preoccupazioni per l’incalzare degli eventi rivoluzionari, si iniziò a progettare la formazione di una lega fra gli Stati italiani per impedire che la rivoluzione sconfinasse nella penisola, ma anche per evitare le continue ingerenze dell’Austria che governava nel Lombardo-Veneto. Il pericolo divenne reale nel 1792 con l’attacco francese al Regno di Sardegna, ma la lega non fu mai realizzata a causa delle rivalità tra i vari stati italiani. Ma vediamo come reagirono i principali stati italiani agli eventi d’Oltralpe. Il Piemonte, lo Stato più prossimo alla Francia, fu anche il primo a essere interessato alle nuove idee rivoluzionarie. Furono numerose le manifestazioni inneggianti alla rivoluzione tese a ottenere almeno qualcuna delle libertà più elementari conseguite dai francesi. Il sovrano sabaudo non solo si rifiutò di dare ascolto a qualunque tipo di richiesta, ma rispose con l’inasprimento del controllo poliziesco e il rafforzamento della censura. Ciò non impedì che il Piemonte fosse il primo a essere coinvolto nella lotta armata. Nel 1792, allo scoppio della guerra che vedeva contrapposte alla Francia le potenze del vecchio regime, Vittorio Amedeo III, che aveva assunto una decisa posizione a favore dell’Austria, fu costretto ad assistere quasi passivamente all’occupazione di Nizza e della Savoia da parte delle armate rivoluzionarie. Malgrado la sconfitta il re non volle accettare proposte di alleanza provenienti da Parigi e rimase così schiacciato tra i francesi, che gli sottraevano sempre più terreno a Ovest (Savona e Oneglia), e gli alleati austriaci che in cambio del loro sostegno militare chiedevano la restituzione degli antichi possedimenti in Lombardia. Il temperamento reazionario e la scarsa intelligenza politica di questo monarca, che considerava l’alleanza con gli Asburgo il male minore, privarono il Piemonte della possibilità di sfruttare a suo favore i contrasti tra la Francia e l’Austria, così come avevano fatto i suoi predecessori. Infatti la spregiudicata partecipazione dei Savoia, abili militari, alle guerre di successione europee aveva consentito al piccolo Stato sabaudo di allargare i suoi domini e di guadagnare fama e prestigio in Europa. Nel Regno di Napoli, come vedremo meglio più avanti, gli echi della rivoluzione francese preoccupavano non poco il re, la regina Maria Carolina e il primo La rivoluzione francese e i suoi effetti nella penisola italiana 11 ministro John Francis Acton, i quali aderirono incondizionatamente alla nascente coalizione contro la repubblica. Il 16 dicembre del 1792 una flotta francese formata da quattordici navi arrivò in vista del porto di Napoli. L’ammiraglio che la guidava, Latouche-Treville, senza sbarcare, dichiarò che la flotta aveva il compito di appoggiare una richiesta di risarcimento per un torto fatto alla Francia da un ministro napoletano. In realtà la presenza dei vascelli da guerra francesi aveva lo scopo di convincere i Borbone ad abbandonare la coalizione antirepubblicana. Dopo la partenza delle navi francesi l’Inghilterra rafforzò la sua presenza nel Mediterraneo con una flotta che andò a coadiuvare quella borbonica che lo stesso Acton aveva contribuito a costruire. Nell’assedio di Tolone, nel 1794, le due flotte alleate combatterono contro i francesi: fu in quell’occasione che si distinse il Tancredi, il vascello armato di 74 cannoni al comando di Francesco Caracciolo, il valente ammiraglio napoletano destinato a diventare uno degli sfortunati protagonisti degli eventi del ‘99. Papa Pio VI (1775-1799) era stato da subito fermo nel condannare il nuovo ordinamento politico francese, sovvertitore dell’ordine costituito e nemico della religione. Il nuovo governo parigino cercò di infiltrarsi nei territori pontifici inviando, tra gli altri, il diplomatico Ugo de Bassville con il compito di svolgere opera di propaganda. Inizialmente la Curia evitò di osteggiarlo, ma quando questi pretese la sostituzione, davanti alla sede dell’ambasciata francese, dello stemma della monarchia con quello della repubblica, prese posizione con una sottile propaganda antifrancese condotta tra il popolino. La conseguenza fu che, il 13 gennaio 1793, Bassville fu trucidato in un tumulto da una folla inferocita. L’episodio fornì al Monti il soggetto per il poema Bassvilliana, nel quale il poeta condannava la violenza rivoluzionaria, ma anche quella esercitata contro il legato pontificio. Insieme alle Repubbliche di Genova e di Venezia, che conservarono una chiara neutralità, l’unico Stato italiano a non prendere una netta posizione contro i francesi fu il Granducato di Toscana. Ferdinando III, infatti, non solo non aderì alla coalizione antirepubblicana, ma cercò in tutti i modi di favorire un’intesa tra la Francia e i suoi nemici, per quanto ostacolato da Austria e Inghilterra. Quando infine fu obbligato a schierarsi fu poi il primo ad abbandonare le ostilità, stipulando con la Francia un trattato che gli conferiva lo status di non belligerante. Estratto della pubblicazione 2 Capitolo Il regno borbonico di Napoli Carlo III A llo scoppio della guerra di successione polacca, che ancora una volta vide le potenze europee disputarsi un trono rimasto senza eredi, la Spagna si trovò schierata contro l’Austria e a fianco della Francia e del Regno di Sardegna. Don Carlos, figlio del re di Spagna ricevette l’ordine da Madrid di marciare con le sue truppe sul Vicereame napoletano per sottrarlo alla dominazione Caspar Van Wittel, Castel Novo e la Darsena. Estratto della pubblicazione 14 Capitolo Secondo asburgica. La spedizione, al comando nominale del giovane principe, era in realtà guidata dal duca di Montemar, valente generale. La conquista non presentò eccessive difficoltà, in quanto l’esercito austriaco era di scarsa consistenza numerica e non aveva la possibilità di ricevere quei rinforzi che sarebbero stati necessari per poter fronteggiare validamente l’invasione. La marcia di avvicinamento, superato lo Stato pontificio, si svolse senza rilevanti episodi di guerra. Napoli si predispose in tal modo a resistere agli spagnoli, ma solo quanto bastava per salvare l’onore delle armi asburgiche. Nel 1744 gli austriaci tentarono la riconquista del Reame, ma furono sconfitti nella battaglia di Velletri; il Regno di Napoli rafforzava così il suo prestigio, soprattutto agli occhi delle altre monarchie europee. Il 10 marzo 1734 Carlo di Borbone, designato sovrano di Napoli, faceva solenne ingresso nella città. Dopo 230 anni durante i quali era stata governata dai viceré di Spagna, Napoli aveva nuovamente un proprio sovrano e una Corte. Il giovane re era nato nel 1716 da Filippo V di Spagna e da Elisabetta Farnese. La madre, donna ambiziosa e autoritaria che per tutta la vita interferì negli affari di Stato, sia in Spagna che a Napoli, lo aveva affidato fin da piccolo a precettori noti più per lo zelo religioso che per le qualità intellettuali. Don Carlos era cresciuto taciturno, profondamente religioso e tollerante. Il nuovo re trovava nel Regno una situazione non delle più favorevoli alla monarchia. L’aristocrazia, rissosa e prepotente, non aveva più le doti politiche e militari che l’avevano distinta nei secoli precedenti ed era formata da due ceti diversi per origini e tradizioni: una nobiltà “generosa” di origine normanna, sveva o angioina e una nobiltà “di privilegio” legata servilmente alla classe dominante spagnola. In comune queste due classi avevano soltanto il desiderio di conservare i poteri esercitati nel periodo vicereale e che ora potevano essere messi in discussione dalla presenza di un sovrano. Il clero viveva staticamente arroccato nelle sue prerogative e rappresentava il principale garante del potere feudale. Il popolino, miserabile e analfabeta, non era in grado di capire i problemi politici e sociali e confondeva una rivolta per abolire una gabella con una rivoluzione. Una vera e propria classe borghese illuminata che potesse recepire nuove istanze non esisteva ancora. Al nuovo re spettavano compiti gravosi: ridimensionare il potere feudale, limitare l’ingerenza della Chiesa e migliorare la qualità della vita dei sudditi. Il regno borbonico di Napoli 15 Nel 1737 Carlo sposò, per volontà materna, Maria Amalia di Sassonia, figlia del re di Polonia Federico Augusto. L’opera riformatrice del giovane Borbone a Napoli si colloca nella temperie del riformismo illuminato che in molti paesi d’Europa, sotto lo stimolo e l’influenza dei grandi intellettuali illuministi, preparava una radicale trasformazione della società. Carlo iniziò subito un’opera di ammodernamento dello Stato, aiutato dal ministro Bernardo Tanucci, già professore di diritto all’università di Pisa, che aveva conosciuto in Toscana e portato con sé a Napoli. Il sovrano attuò una politica tesa a ridimensionare l’influenza della Chiesa. Nel 1741 strinse un Concordato con la Santa Sede con cui venivano stabilite una serie di restrizioni: ridusse della metà o abolì completamente le tradizionali esenzioni fiscali delle proprietà ecclesiastiche; restrinse alle sole chiese il diritto di asilo e soltanto in caso di reati non gravi; limitò l’ambito di competenza del tribunale ecclesiastico; chiarì in modo definitivo che l’Inquisizione non avrebbe mai potuto varcare i confini del Regno. Il Concordato del 1741 fu perfezionato più tardi, ponendo fine allo strapotere del clero all’interno del Regno ed ottenne il suo risultato più significativo con l’allontanamento dei Gesuiti. Il catasto fu un’altra delle iniziative di Carlo III per realizzare una forma di tassazione equa. Cercò di svecchiare la giurisprudenza del Regno, imponendo un nuovo Codice, il quale non riuscì a sostituire la legislazione vigente, di memoria secolare e fatta di decreti che si annullavano l’un l’altro, ma servì ad attenuare gran parte degli abusi perpetrati ai danni delle classi più povere. Nei quindici anni in cui governò il Reame, Carlo avviò la costruzione di imponenti opere architettoniche come il nuovo palazzo reale di Caserta, che avrebbe dovuto eguagliare in magnificenza la reggia di Versailles, e il teatro San Carlo, che da lui prese il nome. A Capodimonte impiantò una fabbrica di ceramiche che raggiunse in breve tempo grande notorietà, sia per il pregio artistico che per la qualità dei manufatti. Promosse anche l’archeologia, ordinando di portare avanti gli scavi di Pompei e di Ercolano e fondò l’Accademia ercolanense per catalogare e studiare gli oggetti rinvenuti negli scavi. Ancora oggi gli scavi dimostrano l’importanza delle ricerche compiute nel Settecento, tanto che gli studiosi si servono ancora delle mappe redatte in Estratto della pubblicazione 16 Capitolo Secondo epoca borbonica, trovando esatte le individuazioni e le ricostruzioni da loro operate. Il fervore di rinnovamento che animò il regno di Carlo III e l’impegno proteso al miglioramento delle condizioni di vita di un popolo mortificato da secoli di servitù si rispecchiava nell’opera degli intellettuali che sostenevano la politica di riforme del Tanucci. Napoli era, assieme a Milano, il centro più fecondo della cultura illuminista italiana. L’illuminismo napoletano si innestava su una tradizione giusnaturalistica che aveva dato personalità di spicco già all’inizio del secolo, come lo storico Pietro Giannone, autore di una Istoria civile del Regno di Napoli dai toni anticurialistici. Un’opera che esercitò un influsso decisivo sul miglioramento della cultura fu poi la Scienza nuova di Gianbattista Vico, che ebbe però una diffusione europea soltanto nell’Ottocento. Tra gli illuministi napoletani si distinsero anche l’economista Antonio Genovesi, titolare della prima cattedra universitaria di economia politica, il giurista Gaetano Filangieri, autore della Scienza della legislazione e l’abate Ferdinando Galiani, economista e letterato, che visse a lungo a contatto con la cultura francese come ambasciatore e fiduciario del Tanucci alla Corte di Parigi. Ferdinando Nel 1759 moriva Ferdinando IV di Spagna e Carlo, per testamento del defunto, era destinato a succedergli come re di Spagna. Il re fu costretto suo malgrado ad abbandonare Napoli e si imbarcò sul vascello Fenice salutato da una folla addolorata per la sua partenza. Il figlio a cui lasciò un regno ormai compatto e una dinastia consolidata non fu il primogenito, che aveva fatto dichiarare inabile, né il secondo, destinato al trono di Spagna, ma Ferdinando, allora minorenne. A causa della minore età dell’erede venne subito creato un Consiglio di Reggenza, al cui vertice spiccava il principe di San Nicandro. Quantunque avesse poco più di otto anni, Ferdinando era già stato liberato dalla tutela del padre, affinché fosse chiaro che il Reame andava a un nuovo re che non doveva rispondere del suo operato a nessun altro sovrano. Un accordo con l’Austria aveva fatto in modo che la successione avvenisse pacificamente e senza ostacoli. Il regno borbonico di Napoli 17 Il principe di San Nicandro aveva più che altro un ruolo di rappresentanza. A guidare di fatto lo Stato era sempre il Tanucci, che finalmente poté portare a compimento quell’azione riformatrice che i pur tenui scrupoli religiosi di Carlo avevano in parte ostacolato. Abolì infatti le decime e ordinò che le Bolle papali all’interno dello Stato non avessero alcun valore se non approvate prima dal re. Re Ferdinando IV 18 Capitolo Secondo Il 12 gennaio del 1767 Ferdinando veniva ufficialmente dichiarato maggiorenne, mentre il Consiglio di Reggenza si trasformava in Consiglio di Stato. Iniziava così uno dei regni più lunghi della storia: Ferdinando sarebbe rimasto su quel trono per ben 65 anni. Il nuovo re, che era nato a Napoli il 12 gennaio 1751, appariva molto diverso da suo padre. Alto, solenne nel portamento e di robusto impianto, era semplice e gioviale, ma, al di là di ciò, sembrava non avere qualità da uomo di Stato. Sin da quando ebbe l’uso della ragione si mostrò refrattario ad ogni serio impegno e responsabilità, nonchè alieno da qualunque attività intellettuale e spirituale. È vero che non ebbe valenti maestri, ma è pur vero che neanche insigni pedagoghi avrebbero potuto educare al sapere una persona che alla cultura si dimostrava insensibile. Non fu pertanto possibile insegnargli neanche scarse nozioni di matematica e letteratura. Aveva poca dimestichezza anche con la lingua italiana, in quanto si serviva solo ed esclusivamente del napoletano. Fu la sua grossolanità a procurargli il soprannome di Re lazzarone, oltre al fatto che con i “lazzaroni” della capitale amava vivere e trascorrere il suo tempo, che era tantissimo avendo — anche dopo l’ascesa al trono — lasciato il potere nelle mani del Tanucci e degli altri ministri per potersi tranquillamente dedicare alla caccia, sua attività prediletta. Era attratto altresì dagli amori ancillari e popolari, dalla buona tavola e dalle compagnie chiassose e rumorose, che preferiva ai personaggi della Corte e del governo. Come sovrano fu pavido e imbelle, vile nel pericolo e vendicativo nella vittoria. Come il popolino, con il quale così bene si identificava, fu religiosissimo, ma di una fede che sconfinava nella superstizione. A ben ricercare, un lato positivo della sua personalità aveva riscontro in quella bonomia che in tante occasioni diede prova di possedere, ma che era insufficiente per colmare un così gran vuoto di spiritualità e giustificare la sua presenza su un trono. Nel corso dei secoli la sua figura è stata oggetto di satira da parte dei detrattori della Dinastia, tanto da farlo diventare un re da aneddoti triviali e burleschi. Maria Carolina Nel 1768, per volontà di Carlo, il fido Tanucci si prodigava nella ricerca di una moglie per il sovrano. La scelta cadde su una delle numerose figlie di Maria Teresa d’Austria. Morta improvvisamente di vaiolo la sposa prescelta, la desi- Estratto della pubblicazione Il regno borbonico di Napoli 19 gnazione restò in famiglia, passando alla figlia prediletta dell’imperatrice: Maria Carolina. Il matrimonio, così come all’epoca era costume, avvenne per procura e il 22 maggio la regina fece solenne ingresso nella capitale. L’incontro avvenne sul confine e per entrambi il sentimento prevalente fu lo stupore: Ferdinando per la signorilità della sposa, Maria Carolina per la rozzezza del consorte. La regina Maria Carolina 20 Capitolo Secondo La sposa era una donna vivace e raffinata, che aveva ricevuto l’educazione che si confaceva a un’arciduchessa di un prestigioso impero. Un carattere impetuoso e poco riflessivo la conduceva però ad essere poco profonda nelle valutazioni e troppo impulsiva nelle decisioni. Ovviamente, e come era da prevedere, stentò molto ad adattarsi a quel marito così zotico e incivile. Dal canto suo Ferdinando, dopo un primo momento di soggezione, superò felicemente il disagio, mentre si scavava tra loro un solco d’incomprensione che non fu mai colmato. Anche i rapporti della regina con Tanucci furono pessimi fin dall’inizio, soprattutto perché li divideva un opposto orientamento politico: mentre il vecchio ministro mirava a conservare il Regno nell’orbita spagnola, Maria Carolina avrebbe voluto portarlo a gravitare in quella austriaca. I suoi progetti iniziarono a realizzarsi allorquando mise al mondo l’erede al trono. Con la nascita di un figlio maschio, infatti, la regina ebbe accesso al Consiglio della Corona e poté esercitare continue ingerenze nel governo dello Stato. La fine del Tanucci era segnata: dopo oltre quarant’anni di fedeltà alla Dinastia, l’anziano giurista veniva allontanato. A causa di un intervento diretto di Carlo III sul figlio, indignato per ciò che era accaduto, la sovrana non potè ancora imporre un ministro filoasburgico e la carica venne assegnata a La Sambuca, anch’egli di orientamento borbonico. Dopo breve tempo veniva però messo in disparte per essere sostituito prima dal marchese Caracciolo, esperto economista, e poi da John Francis Acton, un irlandese che era stato per lungo tempo alle dipendenze del granduca Leopoldo di Toscana. La regina di Napoli, apprezzandone le qualità di abile organizzatore e di valente ammiraglio, contava sul suo aiuto per creare una potente marina da guerra che fosse un sostegno navale anche per l’impero asburgico. Acton, in realtà, per quanto la regina gli avesse assegnato uno strapotere, in fondo non era altro che l’esecutore materiale della volontà dell’imperiosa figlia di Maria Teresa e una pedina della sua politica antiasburgica. L’ammiraglio irlandese si mostrò tuttavia anche in grado di realizzare abbastanza compiutamente quel programma di rinascita della Marina napoletana per il quale — almeno inizialmente — era stato fatto venire a Napoli. Impostò, infatti, un ambizioso piano di ampliamento dell’organico, dando inizio alla costruzione di nuovi e potenti vascelli di linea. Concesse pure maggior impor- Il regno borbonico di Napoli 21 tanza e prestigio alla scuola per ufficiali e ordinò la realizzazione di un nuovo cantiere navale a Castellammare di Stabia. Resosi poi conto che i quadri ufficiali mancavano di esperienze dirette e di conoscenze approfondite, volle che i migliori e i più preparati tra essi svolgessero un periodo di addestramento sulle navi da guerra di altri Stati. Nonostante l’impiego di una squadra navale a sostegno delle forze spagnole che combattevano contro i pirati barbareschi di Algeri, la flotta non trovò mai occasione autonoma e ufficiale per mostrare le sue qualità operative. Le fu negato anche di opporsi ai vascelli francesi che, nel dicembre del 1792, si presentarono all’imbocco del porto di Napoli minacciando rappresaglia. Al di là delle occasioni di impiego in operazioni di guerra, va detto che l’operato dell’Acton era rivolto soprattutto a compiacere la regina e questo finiva per provocare episodi di malcontento tra le forze armate. A partire dal 1789, da quando cioè cominciarono a giungere notizie di ciò che stava avvenendo a Parigi, Maria Carolina, da sovrana illuminata quale era apparsa in un primo momento, divenne ostile ad ogni innovazione in senso libertario. La decapitazione di Luigi XVI e di Maria Antonietta, sorella della regina di Napoli, nel 1793 fece poi il resto, tanto da creare nel Regno un clima di sospetto e uno stato di polizia volto a controllare soprattutto intellettuali e uomini di cultura. Nel Reame aveva così termine quel processo di rinnovamento iniziato da Carlo III. Si ritornava a un regime non solo ottusamente reazionario, ma anche corrotto e inetto e si generava tra la Dinastia e l’intellighenzia del Paese un divario destinato ad aumentare nel tempo. Estratto della pubblicazione Estratto della pubblicazione 3 Capitolo L’espansione rivoluzionaria nel Regno di Napoli Fermenti rivoluzionari in Italia V erso la fine del 1793 si ebbe un progressivo aumento della cospirazione giacobina in tutta Italia, a cui fece seguito un inasprimento delle misure repressive dei governanti. In Piemonte i movimenti rivoluzionari facevano sempre più proseliti tra la media e la piccola borghesia tanto da progettare un’insurrezione che avrebbe dovuto portare all’eliminazione del re e alla proclamazione della repubblica. La congiura venne però scoperta grazie a una delazione e i congiurati arrestati e fucilati dopo un sommario processo. A Roma, dopo l’assassinio di Bassville, le istanze rivoluzionarie si erano diffuse soprattutto negli ambienti intellettuali e progressisti. Nel 1794 la polizia ricorse a un’azione di forza arrestando una ventina di persone allo scopo di reprimere preventivamente qualunque tentativo insurrezionale. A Bologna uno studente, Luigi Zamboni, fu il promotore di una rivolta che avrebbe dovuto liberare la città dal dominio papale e avviare l’instaurazione di un governo democratico. La sommossa fallì a causa della scarsa adesione popolare, Zamboni fu arrestato e morì suicida in carcere. Questo episodio, tuttavia, aprì la strada alla repubblica Cispadana. In Lombardia non ci furono episodi di rivolta, ma si respirava comunque un clima contestatario nei riguardi del governo austriaco. Soprattutto la frangia progressista dell’aristocrazia, alla quale appartenevano tra gli altri Francesco Melzi e Pietro Verri, non nascondeva la propria ostilità al regime e allo stato di polizia che vigeva nel Lombardo-Veneto. Nelle Repubbliche di Genova e di Venezia, che avevano conservato ufficialmente una posizione di neutralità nei confronti della Francia e non avevano inasprito i controlli di polizia, si formarono gruppi filogiacobini che però si limitavano a svolgere attività di propaganda, senza tentativi insurrezionali. Estratto della pubblicazione 24 Capitolo Terzo Anche in Sicilia esistevano movimenti rivoluzionari. Nel 1794 a Palermo un gruppo di simpatizzanti giacobini progettava la creazione di una repubblica ispirata ai principi di eguaglianza di Rousseau. Al movimento, guidato da Francesco Paolo Di Blasi, appartenevano anche nobili e ufficiali. Quando la trama fu scoperta, la reazione fu spietata e Di Blasi e i suoi collaboratori furono giustiziati, mentre nell’isola si inaspriva il regime repressivo. Nonostante il suo isolamento geografico la Sicilia venne ugualmente raggiunta dal credo sovversivo, che in questa regione assunse soprattutto un carattere antifeudale. Dopo i successi iniziali, tuttavia, i moti vennero duramente repressi e i benefici autonomistici ottenuti dai rivoluzionari furono modesti. I giacobini a Napoli Fu soprattutto a Napoli che il movimento giacobino giunse a conseguire la prima significativa affermazione, anche se il risultato finale non fu molto dissimile da quello delle altre città della penisola. Un primo avvenimento favorevole fu l’arrivo nel golfo, nel dicembre 1792, di quattordici navi da guerra francesi al comando dell’ammiraglio Latouche-Treville. La missione, di cui si è già parlato, aveva lo scopo di convincere i pavidi sovrani del Regno a non aderire alla coalizione delle monarchie europee contro la Francia. Raggiunto lo scopo, la flotta ripartì, ma una tempesta la costrinse a un fortunoso e immediato rientro nel porto. La permanenza forzata favorì scambi intellettuali e convergenze ideologiche tra gli ufficiali francesi e i giovani napoletani di tendenze democratiche, contribuendo a radicare idee libertarie nelle coscienze delle classi più elevate. D’altronde a Napoli l’abate Antonio Jerocades aveva già guidato alcune logge massoniche di ispirazione giacobina, chiuse con editto regale nel 1789. La prima loggia, sorta sulla collina di Capodimonte, annoverava intellettuali, ma anche rappresentanti della borghesia e della nobiltà, tutti animati dal desiderio di trasformare radicalmente la società in senso rivoluzionario e di abbattere il tirannico regime dei Borbone. Questo club costituì il primo di una serie: in ogni angolo della città ne nacquero altri, poiché, non appena gli adepti di un’associazione crescevano di numero, alcuni componenti si allontavano per dare origine a nuove cellule. In breve tempo quasi ogni quartiere venne ad avere una piccola centrale rivoluzionaria che propagandava il nuovo credo di libertà. Nel 1792 si giunse alla fondazione Estratto della pubblicazione