Relazione di Lorenzo Picotti - Centro di Diritto Penale Tributario

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Lorenzo Picotti
Professore ordinario di diritto penale presso l’Universita’ degli studi di Trento
Avvocato del Foro di Verona - Presidente vicario del Centro di diritto penale tributario
L’attuazione in Italia della Convenzione dell’Unione europea
relativa alla protezione penale degli interessi finanziari
comunitari
SOMMARIO: 1. Introduzione – 2. Il quadro degli atti dell’Unione europea da attuare in
Italia – 3. Il quadro normativo delle fattispecie penali a protezione degli interessi
finanziari comunitari preesistente alla novella del 2000 – 3.1. Le vicende della
fattispecie penale di “acquisizione indebita” di fondi agricoli (art. 2 legge n.
898/1986) – 3.2. Le novelle degli anni ’90 sulla pretesa natura “sussidiaria” dell’
art. 2 legge n. 898/1986 e la nuova disciplina della truffa aggravata per il
conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.) – 3.3. La
malversazione di fondi pubblici (art. 316-bis c.p.) – 4. I contenuti essenziali
della legge n. 300/2000 di attuazione della Convenzione TIF – 5. Il nuovo
delitto di “indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato” (art. 316-ter
c.p.) ed il suo effetto di mitigazione della disciplina vigente - 5.1. La
depenalizzazione della “frode lieve” - 5.2. L’anomala collocazione sistematica
della nuova fattispecie - 5.3. Le modalità di realizzazione dell’indebita
percezione di sovvenzioni (art. 316-ter c.p.) ed i rapporti con la truffa (art. 640bis c.p.) - 5.4. Critica della recente ordinanza della Corte costituzionale n.
85/2004 - 5.5. Altre insufficienze e lacune nella disciplina penale delle falsità
strumentali alla frode – 5.5.1. Sull’inadeguatezza della locuzione “attestanti cose
non vere” - 5.5.2. La mancata incriminazione autonoma delle c.d. falsità
strumentali – 6. La riduzione della truffa aggravata in pubbliche sovvenzioni
(art. 640-bis c.p.) a mera circostanza aggravante - 6.1. La sentenza del 2002
delle sezioni unite della Corte di Cassazione - 6.2. La violazione della primazia
del diritto comunitario e dell’obbligo di rinvio pregiudiziale alla Corte di
Giustizia delle Comunità europee in sede interpretativa - 6.3. Sulla diversità
strutturale della frode in sovvenzioni rispetto alla truffa comune - 7. La mancata
previsione di una specifica disciplina della responsabilità penale dei dirigenti
delle imprese – 8. Valutazioni critiche conclusive e prospettive di tutela penale
degli interessi comunitari.
1. Introduzione - La Convenzione per la tutela degli interessi finanziari delle
Comunità europee (d’ora in poi: Convenzione TIF), approvata dal Consiglio
dell’Unione in data 26 luglio 19951, è stata solo recentemente ratificata da parte
di tutti gli Stati membri2.
1
Pubblicata in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee del 27 novembre 1995, C
316/48.
2
Solo in data 15 febbraio 2003 si è infatti avuto il deposito dell’ultimo strumento di
ratifica.
1
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In Italia essa ha asseritamente ricevuto “piena ed intera” attuazione tramite la
legge 29 settembre 2000 n. 3003, dopo che già alcuni anni prima diverse
disposizioni interne avevano recepito esigenze d’incriminazione penale di fatti
lesivi degli interessi finanziari comunitari (par. 3), della cui più organica tutela la
Convenzione si è fatta portatrice, con il complesso di “protocolli addizionali”
che l’hanno accompagnata (par. 2).
Tuttavia una compiuta indagine sull’effettività di tale proclamata “esecuzione”
nel nostro ordinamento (par. 4), svolta alla luce della prassi giudiziaria che ne è
seguita (par. 5 e 6), porta a conclusioni assai critiche (par. 8), non essendo
sufficienti le enunciazioni normative della legislazione nazionale (già di per sé
non prive di significative lacune: cfr. par. 7) a garantire il pieno adempimento
degli obblighi nascenti dagli atti dell’Unione europea, come da tempo rileva la
giurisprudenza della Corte di Giustizia con riferimento ai rapporti fra diritto
comunitario e diritto interno4.
2. Il quadro degli atti dell’Unione europea da attuare in Italia - La legge n.
300/2000 ha invero autorizzato la ratifica di ben cinque Atti convenzionali di
diritto internazionale, specificamente indicati nel suo art. 1. Solo i primi tre 5
L’art. 2 l. n. 300/2000 recita infattti: “Piena ed intera esecuzione è data gli Atti
internazionali indicati nell’art. 1 a decorrere dalla data della loro entrata in vigore, in
conformità a quanto rispettivamente disposto da ciasuno di essi”. Un’analisi dell’intera
legge, articolo per articolo, è svolta da PELISSERO M., Commento L. 29.9.2000, n.
300, in Leg. pen., 2001, n. 3/4, p. 991 s.; più sinteticamente cfr. anche MANACORDA
S., Corruzione internazionale e tutela degli interessi comunitari, in Dir. pen. proc.,
2001, p. 415 s.
4
Il principio, da considerarsi pacifico con riferimento ai rapporti fra diritto comunitario
e diritto interno (cfr. ex multis Corte di Giustizia della Comunità europea, sentenze 10
aprile 1984, causa C 14/83, von Coloson e Kamann/Land Renania del Nord-Westfalia,
in Racc. uff., 1984, p. 1891 s.; e causa C 79/83, Harz/Dutsche Tradax, ivi, p. 1921 s.), si
basa, invero, sul c.d. principio di solidarietà comunitaria contenuto nell’art. 10 (già art.
5) TCE, su cui si veda anche la successiva nota 16. Ed è da ritenere estensibile
all’attuazione degli strumenti del c.d. terzo pilastro dell’Unione europea, specie in
quanto - come nel caso della Convenzione TIF e dei relativi Protocolli aggiuntivi – sono
relativi alla tutela degli interessi finanziari, oggetto specifico degli obblighi stabiliti
dall’art. 280 TCE. Con specifico riguardo al tema degli strumenti in materia di
corruzione cfr. PARISI N., RINOLDI D., L’applicazione in Italia di strumenti giuridici
internazionali contro la corruzione, in FORTI G. (cur.), Il prezzo della tangente. La
corruzione come sistema a dieci anni da ‘mani pulite’, Milano 2003, p. 191 s., in specie
p. 212 s.
5
Oltre alla citata Convenzione del 26 luglio 1995 per la tutela degli interessi finanziari
delle Comunità europee, è stata data esecuzione al suo primo Protocollo, fatto a Dublino
il 27 settembre 1996, che riguarda la lotta alla corruzione che lede detti interessi
finanziari (in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee del 23 ottobre 1996 C 313/1,
con “Relazione esplicativa” approvata dal Consiglio il 19 dicembre 1997 pubblicata in
Gazzetta ufficiale delle Comunità europee del 15 gennaio 1998 C 11/5) ed al Protocollo
concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di Giustizia delle
Comunità Europee, di detta Convenzione, con annnessa dichiarazione, fatto a Bruxelles
3
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riguardano però la tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee e
quindi interessano direttamente in questa sede, mentre gli altri due concernono la
lotta alla corruzione internazionale, prevedendo l’estensione della disciplina
penale interna a fatti che riguardino funzionari dell’Unione europea o di Stati
membri, anche a prescindere dall’ambito della tutela dei suoi interessi
finanziari6; ovvero commessi in “operazioni economiche” internazionali e
riguardanti funzionari anche di altri Stati esteri e di organizzazioni pubbliche
internazionali7.
Quest’ultima convenzione è stata promossa dall’Organizzazione per la
cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), mentre tutti gli altri strumenti
convenzionali sono atti dell’Unione europea, elaborati in base all’art. K.3
(attuale art. 29) del Titolo VI del Trattato sull’Unione (d’ora in poi: TUE),
dedicato alla cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale, nell’ambito
del cosiddetto “terzo pilastro”.
Ma per tutti l’entrata in vigore e la relativa attuazione sono rimaste affidate alla
volontà politica degli Stati, la cui lentezza nelle procedure di ratifica ha
dimostrato i limiti di questo tipo di fonti del diritto dell’Unione europea, che
sostanzialmente non si distinguono dai tradizionali strumenti del diritto
internazionale. Tanto che con l’entrata in vigore del Trattato di Amsterdam, nel
1999, per armonizzare e ravvicinare le legislazioni penali nazionali sono state di
il 29 novembre 1996 (in Gazzetta ufficiale delle Comunità europee del 20 maggio 1997,
C 151/1). Sull’attuale inoperatività di tale Protocollo cfr. infra, nota 9, nonché par. 6.2.
Non è invece stata data esecuzione al secondo Protocollo del 19 giugno 1997 (in
Gazzetta ufficiale delle Comunità europee del 19 luglio 1997 C 221/12, la cui
“Relazione esplicativa”, approvata dal Consiglio il 12 marzo 1999, è pubblicata in
Gazzetta ufficiale delle Comunità europee del 31 marzo 1999 C 91/8), che riguarda la
lotta al riciclaggio e prevede altresì l’obbligo di stabilire una responsabilità delle persone
giuridiche, il sequestro e la confisca dei proventi delle infrazioni in questione, oltre a
disposizioni relative alla cooperazione c.d verticale fra la Commissione europea e gli
Stati membri, nonché altre norme in materia di protezione e trasferimento di dati.
Sull’introduzione, peraltro, di una responsabilità “amministrativa” delle persone
giuridiche si veda infra, par. 7.
6
Convezione relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari
delle Comunità europee o degli Stati membri dell’Unione europea, fatta a Bruxelles il 26
maggio 1997.
7
Convenzione OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nell’ambito
del commercio internazionale, con annesso, fatta a Parigi il 17 dicembre 1997. Sui
complessi rapporti tra i vari strumenti internazionali in materia si veda il quadro offerto
da HUBER B. (ed.), Combating Corruption in the European Union, Köln 2002; ed in
lingua italiana ID., La lotta alla corruzione in prospettiva sovranazionale, in Riv. trim.
dir. pen. econ., 2001, p. 467 s.; PARISI N., RINOLDI D., L’applicazione in Italia, cit.,
in specie p. 197 s.; nonché già SALAZAR L., Recenti sviluppi internazionali nella lotta
alla corruzione (e conseguenti obblighi di recepimento da parte italiana), in Cass. pen.,
1998, p. 1529 s. Per l’approfondimento di alcuni specifici profili penalistici si veda
MANACORDA S., La corruzione internazionale del pubblico agente, Napoli 1999.
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fatto abbandonate le convenzioni e si fa piuttosto ricorso all’inedita fonte
rappresentata dalle “decisioni-quadro” da esso introdotte8.
Nel caso specifico della Convenzione TIF sono trascorsi quasi otto anni dalla sua
approvazione prima che potesse entrare in vigore: ed ancor oggi non sono stati
ratificati tutti gli strumenti ad essa collegati – pur ritenuti dal Consiglio
dell’Unione europea necessari per una completa protezione – mancando
all’appello la ratifica del secondo Protocollo del 19 giugno 1997 da parte di
alcuni paesi, fra cui l’Italia, che non ha ritenuto di includerlo fra gli atti oggetto
della citata legge di ratifica del 20009.
Di fronte a tale lentezza, se non inerzia degli Stati, la Commissione europea ha
deciso qualche anno fa d’intervenire con un più stringente strumento di diritto
comunitario, ed in specie con una proposta di direttiva datata 23 maggio 2001,
COM (2001) 272 def., al fine dichiarato di garantire l’implementazione rapida e
soprattutto “equivalente” delle disposizioni sanzionatorie per la tutela degli
interessi finanziari della Comunità in tutto il suo territorio10.
Nel testo della proposta, che trova la sua base giuridica nel “nuovo” art. 280 del
Trattato istitutivo della Comunità europea (d’ora in poi: TCE), parimenti
introdotto dal Trattato di Amsterdam11, sono state riprodotte e riordinate quasi
Le decisioni-quadro sono previste dall’art. 34, par. 2, lettera b) TUE “per il
ravvicinamento delle disposizioni legisaltive e regolamentari degli Stati membri”. Esse,
pur non avendo “efficacia diretta”, sono “vincolanti […] quanto al risultato da ottenere,
salva restando la competenza delle autorità nazionali in merito alla forma ed ai mezzi”.
Le convenzioni restano previste dalla lettera d) della norma citata, ma rispetto ad esse il
Consiglio, che le stabilisce e ne “raccomanda l’adozione”, può solo fissare un “termine”
entro cui vanno “avviate” le procedure di ratifica. Da tale ben diversa capacità
vincolante discende quindi la netta preferenza per il primo strumento.
9
Criticamente, al riguardo, MANACORDA S., Corruzione internazionale, cit., p. 415.
Va altresì segnalato il mancato completamento della procedura di esecuzione relativa al
Protocollo concernente l’interpretazione in via pregiudiziale, da parte della Corte di
Giustizia delle Comunità Europee, di detta Convenzione, fatto a Bruxelles il 29
novembre 1996 e solo nominalmente ratificato, non essendo ancora stato emanato il
decreto attuativo previsto dall’art. 12 legge n. 300/2000, che aveva conferito delega
legislativa al Governo, da esercitare entro il termine di 8 mesi, ormai abbondantemente
scaduto. In argomento si tornerà anche infra, par. 6.2.
10
Come si legge nella Relazione che accompagna la proposta di Direttiva - in specie p. 5
s. - il Trattato di Amsterdam del 1997, che ha introdotto l’art. 280 TCE, e quello di
Nizza del dicembre 2000, che “ha ancora confermato che la tutela degli interessi
finanziari comunitari dipende essenzialmente dal primo pilastro” richiedono un
adeguamento degli strumenti TIF al nuovo quadro di competenze “tanto più che tali
strumenti non sono ancora entrati in vigore” (oggi: non ancora tutti).
11
Sul dibattito relativo alla portata dell’art. 280 TCE, quale base giuridica per misure di
diritto comunitario derivato, vale a dire prese nell’ambito del “primo pilastro”,
contenenti disposizioni penali per combattere la frode e le altre attività illecite che
ledono gli interessi finanziari comunitari, sia consentito rinviare alla tesi favorevole ed
alle argomentazioni ermeneutiche già esposte in PICOTTI L., Potestà penale
dell’Unione europea nella lotta contro le frodi comunitarie e possibile “base giuridica”
del Corpus Juris. In margine al nuovo art. 280 del Trattato CE, in GRASSO G. (cur.),
La lotta contro la frode agli interessi finanziari della Comunità europea tra prevenzione
8
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tutte le disposizioni della Convenzione TIF e dei suoi Protocolli addizionali che
concernono il diritto penale sostanziale12: in particolare la definizione delle
fattispecie incriminatrici da armonizzare (frode, corruzione e riciclaggio:
rispettivamente artt. 3, 4 e 6)13, le regole sulla responsabilità penale dei dirigenti
delle imprese (art. 8) e sulla responsabilità delle persone giuridiche (art. 9), le
previsioni sui livelli e tipi di sanzioni da applicare a persone fisiche e giuridiche
(rispettivamente artt. 10 e 11), compresa la confisca (art. 12), le disposizioni
definitorie (artt. 2 e 5), di carattere generale (artt. 1 e 7) e finali (artt. 14-17), in
specie in materia di cooperazione verticale con la stessa Commissione europea
(art. 13).
Ma i limiti della base giuridica invocata, menzionati in specie dal par. 4 dell’art.
280 TCE, che esclude nella sua ultima parte - come sottolinea la stessa
Commissione - la possibilità d’intervenire con strumenti di diritto comunitario
derivato (di “primo pilastro”) sull’“applicazione del diritto penale nazionale e
sull’amministrazione della giustizia negli Stati membri”14, hanno suggerito di
e repressione. L’esempio dei fondi strutturali (Atti del seminario di Catania, 19-20
giugno 1998), Milano 2000, p. 357 s., in specie 364 s., con relativi richiami
bibliografici; cui si aggiunga ancora il nostro Presupposti e prospettive di un “sistema”
di diritto penale comunitario. Aspetti sostanziali, in BARGIS M., NOSENGO S. (cur.),
Corpus Juris, pubblico ministero europeo e cooperazione internazionale (Atti del
Convegno di Alessandria del 19-21 ottobre 2001), Milano 2003, p. 95 s., in specie p.
118 s. In posizione critica, più di recente, si veda GRASSO G., Prefazione. Il Corpus
Juris e il progetto di “Costituzione per l’Europa”, in GRASSO G., SICURELLA R.
(cur.), Il Corpus Juris 2000. Un modello di tutela penale dei beni giuridici comunitari,
Milano 2003, p. 1 s., in specie p. 12-15; e SICURELLA R., Il Corpus juris e la
definizione di un sistema di tutela penale dei beni giuridici comunitari, ivi, p. 31 s., in
specie p. 186 s., con ulteriori riferimenti bibliografici.
12
Per un quadro sinottico delle singole disposizioni riprodotte e di quelle invece escluse
dal testo della proposta di direttiva si veda la citata Relazione d’accompagnamento, p. 810.
13
Per la comparazione di tali formulazioni con quelle previste dal “Corpus Juris per la
tutela degli interessi finanziari comunitari”, si rinvia a PICOTTI L., Le fattispecie della
“parte speciale” del Corpus Juris. Profili sistematici, in BARGIS M., NOSENGO S.
(cur.), Corpus Juris, pubblico ministero europeo, cit., p. 237 s. ed in specie p. 240 s.
14
Sul punto specifico, per un’interpretazione restrittiva della clausola, che comunque
esclude la possibilità di interventi diretti nell’ambito della procedura penale nazionale, o
comunque attinenti l’organizzazione giudiziaria (quale sarebbe l’istituzione del
Procuratore europeo prevista dal Corpus Juris), si veda in particolare TIEDEMANN K.,
EG und EU als Rechtsquellen des Strafrechts, in Festschrift für Roxin, 2001, p. 1401 s.,
in specie p. 1406, in cui sviluppa sue precedenti prese di posizione (ID., Pour un espace
juridique commun après Amsterdam, in Agon, 1997, n. 17, p. 12-13; ID., Reflexion sur
la base juridique du Corpus Juris, ivi, 1999, n. 23, p. 7-8). In argomento sia consentito
rinviare anche a PICOTTI L., Potestà penale dell’Unione, cit., in specie p. 370. In
posizione critica verso tale interpretazione si veda invece da ultimo, con ampi richiami
bibliografici, SICURELLA R., Il Corpus juris e la definizione di un sistema di tutela
penale di beni giuridici comunitari, in GRASSO G., SICURELLA R. (cur.), Il Corpus
Juris 2000, cit., p. 31 s., in specie p. 187, in cui peraltro adduce, più che argomenti
ermeneutici, ragioni attinenti alla “natura politica dei trattati” ed alla nacessità di
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non includere, nel testo della proposta, disposizioni incidenti anche sul diritto
processuale penale degli ordinamenti nazionali: come quelle sulla competenza
(art. 4 Convenzione TIF ed art. 6 primo protocollo), l’estradizione e l’esercizio
dell’azione penale (art. 5 Convenzione TIF), la cooperazione orizzontale fra
Stati, che regolano anche il trasferimento dell’azione penale e l’esecuzione delle
sentenze (art. 6 Convenzione TIF), la disciplina del ne bis in idem (art. 7
Convenzione TIF) ed altro. Per tutte queste previsioni convenzionali la
Commissione ha prospettato, piuttosto, la possibilità di inserirle in un’eventuale
successiva proposta di decisione-quadro, basata sulle competenze di “terzo
pilastro” dell’Unione europea15. Ma l’iniziativa non ha poi avuto alcun seguito,
forse perché nel frattempo si è ritenuto raggiunto lo scopo di far pressione sugli
Stati membri, affinché accelerassero le procedure interne di ratifica, sotto la
minaccia che potevano essere altrimenti introdotte prescrizioni penali mediante
vincolanti atti di diritto comunitario.
La vicenda dimostra come perfino per la tutela degli interessi finanziari, di cui la
Comunità stessa è senz’altro titolare, e nonostante il tenore dell’art. 280 TCE, il
quadro delle fonti europee resti complesso e poco efficiente, frammentato
nell’incerta divisione di competenze fra “primo” e “terzo pilastro”, così da non
garantire pronta ed equivalente applicazione del diritto europeo negli
ordinamenti interni.
Il rilievo critico non giustifica però il bilancio deficitario degli interventi
d’attuazione operati dagli Stati membri, su cui incombe lo specifico obbligo di
protezione anche penale degli interessi comunitari, nascente dall’art. 10 (già art.
5) TCE16 ed esplicitato, per quelli finanziari, dall’art. 280 TCE.
Oltre ai tempi inaccettabilmente lunghi intercorsi prima dell’effettiva entrata in
vigore della Convenzione europea e delle relative norme attuative, anche il loro
contenuto appare invero assai lacunoso e scarsamente efficace, oltre che per
nulla “equivalente” nei diversi ordinamenti, come dimostra proprio l’analisi
dell’esperienza italiana che verrà svolta nei paragrafi seguenti.
3. Il quadro normativo delle fattispecie penali a protezione degli interessi
finanziari comunitari preesistente alla novella del 2000 - Il legislatore italiano
del 2000 è partito dall’erroneo presupposto che la disciplina penale vigente nel
nostro ordinamento prima della Convenzione TIF fosse già sostanzialmente
adeguata alle esigenze di tutela penale degli interessi finanziari comunitari di cui
la stessa si è fatta portatrice. Per cui si sarebbe trattato solo di “completare” il
quadro esistente, colmando le marginali lacune di disciplina evidenziate dai
sopravvenuti strumenti dell’Unione europea attraverso un’unica nuova norma
“un’esplicita attribuzione” di competenza penale alla Comunità da parte degli Stati
membri (ivi, p. 188).
15
Relazione, cit., p. 7, che peraltro sottolinea come sia “più opportuno” che si completi
il processo di ratifica in corso.
16
Obbligo affermato per la prima volta in modo espresso dalla Corte di Giustizia delle
Comunità europee con la nota sentenza 21 settembre 1989, causa C 68/88, sul c. caso
del mais greco, in Cass. pen. 1992, m. 904, p. 1654 s., con nota di SALAZAR L., Diritto
penale e diritto comunitario: la strana coppia.
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incriminatrice (art. 4 legge n. 300/2000: cfr. infra, par. 5), introdotta quasi per
eccesso di scrupolo nel corso dei lavori parlamentari rispetto all’originario
disegno di legge governativo, che nulla prevedeva al riguardo 17, accanto a poche
altre disposizioni integrative e modificative di singoli istituti e discipline (cfr.
infra, par. 4).
In realtà il legislatore italiano ha ignorato o malamente apprezzato, in questa
scelta “riduttiva” e nella stessa formulazione normativa della nuova fattispecie,
le pregresse vicende giurisprudenziali circa i tormentati rapporti sistematici fra le
disposizioni precedentemente vigenti, cui l’ultima è andata ad aggiungersi
accentuando, anziché eliminando, le contraddizioni emerse da tempo nel sistema.
3.1. Le vicende della fattispecie penale di “acquisizione indebita” di fondi
agricoli (art. 2 legge n. 898/1986) – A cavallo fra gli anni ’80 e ’90 erano state
effettivamente introdotte, nell’ordinamento penale italiano, tre nuove
disposizioni aventi ad oggetto la tutela degli interessi finanziari comunitari.
Dapprima era stata prevista, al dichiarato scopo di “rafforzare” la tutela degli
interessi finanziari della Comunità europea18, una specifica fattispecie
incriminatrice, contenuta nell’art. 2 legge 23 dicembre 1986, n. 898, che punisce,
con una sanzione più mite di quella stabilita per la truffa (eventualmente
aggravata), di cui all’art. 640 c. p., nonché per l’ipotesi speciale di “indebita
percezione” dell’integrazione di prezzo dell’olio d’oliva, di cui all’art. 9 decreto
legge 21 novembre 1967, n. 105119, comportamenti di acquisizione indebita di
sovvenzioni comunitarie ai quali, nella prassi, si applicavano queste due ultime
disposizioni, tanto da costituire una paradossale modifica di favore rispetto alla
disciplina anteriormente vigente20.
17
Si veda la Relazione di accompagnamento al disegno di legge ed i successivi atti
parlamentari, minuziosamente analizzati da SEMERARO P., Osservazioni in tema di
indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato, in Cass. pen., 2001, n. 1270, p.
2563 s., richiamati anche dall’ordinanza della Corte cost. 8-12 marzo 2004, n. 95 che si
esaminerà infra, par. 5.4.
18
Così si esprimeva il Ministro dell’agricoltura nella seduta della Camera dei deputati
del 17 dicembre 1986, IX Legislatura, p. 50918, in sede di discussione della legge di
conversione (che prenderà poi il n. 898/1986) del decreto legge 27 ottobre 1986, n. 701.
19
Nonostante la conversione nella legge 18 gennaio 1968, n. 10, si era posto il problema
se la disposizione avesse efficacia limitata all’annata agraria 1967-1968: questione
risolta negativamente dalla giurisprudenza, che – ribadendo la legittimità della
fattispecie sul piano costituzionale, pur riferita ad un precetto costituito da un
regolamento comunitario, con richiamo sul punto anche a Corte cost., 28 luglio 1976, n.
205 – non mancava di sottolineare come “l’attività truffaldina di colui che tenta di
ottenere ed ottiene indebitamente l’integrazione del prezzo dell’olio con false notizie e
dati, in mancanza del citato art. 9 sarebbe punita nel nostro ordinamneto giuridico con la
sanzione più grave dell’art. 640 cpv. c.p.”: riconoscendo così chiaramente la sussistenza
di un rapporto di specialità rispetto alla fattispecie codicistica (Cass., sez. V, 1 luglio
1977, Manzari, in Giust. Pen., 1978, II, p. 86 s., in specie p. 89).
20
Il giudizio è sostanzialmente concorde in dottrina: cfr. già puntualmente GRASSO G.,
L’armonizzazione e il coordinamento delle disposizioni sanzionatorie nazionali per la
tutela degli interessi finnanziari delle Comunità europee, in Riv. it. dir. proc. pen., 1990,
7
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Due norme più severe sono poi state inserite nel codice penale: rispettivamente
l’art. 316-bis, che punisce il delitto di “malversazione” a danno dello Stato
(aggiunto dall’art. 3 legge 26 aprile 1990, n. 86) ed - a seguito della “rettifica”
contenuta nell’art. 1 legge 7 febbraio 1992, n. 181 - anche a danno delle
“Comunità europee” (infra, par. 3.3); nonché l’art. 640-bis (introdotto dall’art.
22 legge 19 marzo 1990 n. 55, contro la criminalità organizzata e mafiosa), che
prevede la “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche”
menzionando espressamente anche quelle comunitarie (infra, par. 3.2 e par. 6).
Muovendo dall’analisi della fattispecie della legislazione complementare per
prima citata - che punisce chiunque “consegue indebitamente […] aiuti, premi,
indennità, restituzioni, contributi o altre erogazioni” a carico del fondo europeo
agricolo di orientamento e garanzia (FEOGA), mediante “esposizione di dati o
notizie falsi” - va subito sottolineato che essa riprendeva sostanzialmente la
formulazione del citato art. 9 decreto legge n. 1051/1967, senza richiedere
(almeno esplicitamente) gli specifici requisiti della truffa comune, di cui all’art.
640 c.p., quali in particolare l’“induzione in errore” di taluno mediante “artifici o
raggiri” ed il doppio evento consumativo dell’“ingiusto profitto con altrui
danno”.
Ma già da tempo la giurisprudenza riteneva che nel “conseguimento indebito” di
fondi pubblici, compresi quelli comunitari, si dovesse ravvisare l’evento
consumativo integrante il “vantaggio ingiusto” con “altrui danno” proprio della
truffa21; e che l’“esposizione di dati o notizie falsi”, di fronte all’obbligo di verità
del richiedente, equivalesse agli “artifici o raggiri” determinanti (con
l’“induzione in errore”) la decisione di concedere sovvenzioni in realtà non
dovute22. Per cui veniva applicata, all’indebita percezione di fondi pubblici,
p. 836 s., in specie p. 846, che ricorda la più severa pena (da 1 a 4 anni di reclusione),
anche rispetto alla truffa non aggravata, prevista dalla fattispecie sull’olio d’oliva del
1967 per la semplice “esposizione di dati e notizie inesatti”; SPAGNOLO G., Breve
commento alle “Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso
e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale” (l. n. 55/1990), in Riv.
it. dir. pen. econ., 1990, p. 695 s., in specie p. 703; PALERMO FABRIS E., La recente
legislazione italiana in tema di frodi nelle sovvenzioni comunitarie, in Riv. it. dir. pen.
econ., 1993, p. 810 s., p. 812.
21
Cfr., riassuntivamente, Cass., sez. un., 24 gennaio-15 marzo 1996, Panigoni, in Cass.
pen. 1996, m. 1609, p. 2892 s., ed in specie p. 2900-2901, in cui afferma testualmente
che tali elementi non sono affatto “assenti”, ma “sostanzialmente previsti” dall’art. 2
legge n. 898/1986, “essendo evidente che l’esposizione di dati falsi è funzionale
all’induzione in errore” dell’ente erogatore “e che il conseguimento indebito dei
contributi, conseguente all’attività ingannatoria dell’esposizione di dati falsi e
all’induzione in errore, costituisce ingiusto profitto, con danno” dell’ente predetto.
Isolatamente in dissenso, nella dottrina, PALERMO FABRIS E., La recente
legislazione, cit., p. 813.
22
Così ancora Cass., sez. un., 24 gennaio-15 marzo 1996, Panigoni, cit., p. 2901, che pur
risolvendo poi in termini di sussidiarietà, anziché di specialità, il problema del rapporto
fra il delitto di cui all’art. 2 legge n. 898/1986 e la truffa, finiva per ricondurre anche il
mero mendacio, insito nell’“esposizione di dati o notizie falsi” prevista dal primo, al
“vastissimo ventaglio” del concetto di “artifici o raggiri” di cui all’art. 640 c.p. (ivi, p.
8
©Picotti/ConvenzioneTIF
l’incriminazione della truffa, di cui all’art. 640 c.p., aggravata ai sensi del
comma 2, n. 1, per la qualificazione anche delle Comunità europee come “ente
pubblico” danneggiato23.
Con la nuova fattispecie relativa ai fondi FEOGA non solo la pena prevista è
però stata stabilita in misura (da 6 mesi a 3 anni di reclusione) assai meno severa
di quella (da 1 a 5 anni di reclusione congiunta alla multa da 309 a 1549 euro)
prevista per la truffa aggravata a danno di “ente pubblico” (art. 640, comma 2, n.
1 c.p.), ma i fatti aventi ad oggetto un importo fino a 20 milioni di lire24 (limite
abbassato a 7 milioni e 745.000 lire, pari ad euro 3999,96, solo in forza della
novella portata dall’art. 10 della citata legge n. 300/2000)25 sono divenuti non più
punibili, in quanto “depenalizzati” in mero illecito amministrativo.
E proprio perché la nuova previsione si presentava con un carattere di
“specialità” – per quanto concerne la tutela degli specifici fondi FEOGA –
rispetto alla truffa comune, era inevitabile, nella prassi giudiziaria, che
2902). Per la specifica affermazione che “il silenzio maliziosamente serbato su alcune
circostanze da parte di chi abbia il dovere giuridico di farle conoscere integra […] un
raggiro idoneo a determinare il soggetto passivo a prestare un consenso che altrimenti
non avrebbe dato”, con conseguente applicabilità del delitto di truffa, cfr. di recente (in
un’ipotesi di mancata comunicazione, da parte di un inquilino assegnatario di alloggi
popolari, del venir meno delle condizioni legittimanti la permanenza dell’assegnazione)
Cass. sez. VI, 3 aprile-13 maggio 1998, n. 5579, Perina, in Cass. pen., 1999, m. 856, p.
1825, con motivazione e richiami ad altri precedenti, nonché nota di commento secondo
cui si tratterebbe di “principio pacifico in giurisprudenza”.
23
Si vedano Cass., sez. II, 28 settembre 1988, Corleone, in Cass. pen. 1991, m. 815, p.
1062 s.; Cass., sez. VI, 13 maggio-26 giugno 1992, Micheloni, in Cass. pen. 1993, m.
1690, p. 2846; nonché Cass., sez. un., 24 gennaio-15 marzo 1996, Panigoni, cit., p. 2903
s.; e con riferimento alla fattispecie di cui all’art. 9 decreto legge n. 1501/1967, Cass.,
sez. V, 1 luglio 1977, Manzari, cit. sopra a nota 19.
24
Inizialmente si richiedeva, oltre a tale condizione, anche il superamento di una soglia
percentuale di indebito non inferiore al 10% di quanto spettante. La riformulazione della
fattispecie, nel 1992, ha fatto cadere tale seconda condizione, cui peraltro era stata
dedicata addirittura una specifica norma d’interpretazione autentica (art. 5, comma 3-bis
del decreto legge 7 settembre 1987, n. 370, introdotto in sede di conversione dalla legge
4 novembre 1987, n. 460), per chiarire che si trattava di condizioni “cumulative”.
25
La curiosa determinazione dell’importo in euro 3999,96, comunque inferiore a quello
limite di euro 4000, è dipesa dal calcolo, nella nuova valuta europea – e senza
l’arrotondamento, previsto eliminando i decimali solo per le sanzioni pecuniarie, ai sensi
dell’art. 51, comma 3, decreto legislativo 24 giugno 1998, n. 213 – dell’importo già
espresso in lire 7 milioni 750.000 dall’art. 9 legge n. 300/2000, che ha implicitamente
ribadito la volontà di avvalersi della possibilità concessa agli Stati membri dall’art. 2,
par. 2, Convenzione TIF, di stabilire “sanzioni di natura diversa” da quelle penali
previste dal par. 1 dello stesso articolo, in “casi di frode di lieve entità”.
Senonché tale nozione deve comprendere ipotesi che non solo riguardino un importo
totale inferiore al predetto limite di 4000 ECU (ora: euro), ma che altresì “non
presentino aspetti di particolare gravità secondo la legislazione nazionale”: requisito,
quest’ultimo, invece del tutto ignorato dal legislatore nazionale nella formulazione
dell’art. 2, comma 2, legge n. 898/1986, come pure nella successiva formulazione
dell’art. 316-ter c.p. (cfr. infra, par. 5.1).
9
©Picotti/ConvenzioneTIF
determinasse un’estesa deroga alla più severa disciplina del codice prima
applicata, in ossequio al principio di specialità di cui all’art. 15 c.p., con un
clamoroso effetto di attenuazione, se non esclusione pratica della repressione
penale proprio delle frodi comunitarie in agricoltura26.
Con l’entrata in vigore della nuova legge, i fatti anteriormente commessi, già
rientranti nei considerevoli limiti monetari (lire 20 milioni) stabiliti per l’illecito
amministrativo, non sono più stati assoggettati alle pene previste dall’art. 640
c.p., in forza del principio generale di cui all’art. 2, comma 2, c.p., che stabilisce
la retroattività della legge abolitiva delle incriminazioni penali e, quindi, anche
della loro depenalizzazione; ma neppure alle nuove sanzioni amministrative, in
quanto commessi prima dell’entrata in vigore della relativa previsione, per il
principio generale di irretroattività anche di questo tipo di sanzioni, fissato
dall’art. 1, comma 1, legge 24 novembre 1981, n. 68927.
I limiti edittali più miti hanno poi determinato una più rapida maturazione dei
termini di prescrizione del reato, rispetto a quelli della truffa aggravata, rendendo
sempre applicabili quelli della fascia più bassa stabilita per i delitti dall’art. 157
c.p. Ed oltre a consentire sempre la concessione della sospensione condizionale
della pena e addirittura la sostituzione della pena detentiva con una anche
meramente pecuniaria28, previo riconoscimento di qualsivolgia circostanza
attenuante, compreso quello pressoché abituale delle “attenuanti generiche” di
cui all’art. 62-bis c.p. - nonché, dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di
procedura penale nel 1989, anche di quelle connesse alla scelta dei “riti
alternativi”29 – il nuovo regime sanzionatorio ha subito reso applicabili tutti i
26
Si vedano Cass. Sez. III, 19 agosto 1987, Coluccio, in Cass. Pen., 1988, m. 1240, p.
1447, che ha annullato il mandato di cattura emesso nei confronti dell’imputato
ricorrente ed ha esplicitamente ravvisato nella nuova norma “speciale” la volontà
legislativa di predisporre un trattamento di maggior favore; Cass. Sez. III, 23 ottobre
1990, Girardi, in Il fisco, 1991, p. 5269; Cass., 19 settembre 1992, Archibusacci, in Dir.
e giur. agraria e amb., 1993, p. 367 s. (con motivazione e nota di MAZZA L.). Nella
giurisprudenza di merito si vedano esemplarmente cfr. Trib. Lecce, 24 novembre 1992,
Vergine, in Cass. pen. 1994, m. 485, p. 748 s., con nota critica di SALAZAR L., Tutela
penale nei confronti della frode comunitaria: “incontrollabile frenesia” del nostro
legislatore od intervento necessario?; e Corte App. Napoli, 6 giugno 1989, Avino, in
Foro it., 1990, II, p. 30 (con nota critica di FIANDACA G., che denunciava la malcelata
volontà di rendere più blando il trattamento penale delle frodi agricole comunitarie) e in
Cass. pen. 1989, m. 886, p. 1117 s., con nota di GIGLIO V., Il controllo sanzionatorio
delle indebite fruizioni di sovvenzioni comunitarie.
27
Sull’astratta possibilità di deroga a tale meccanismo d’impunità totale, attraverso una
disciplina transitoria, peraltro nel caso di specie non prevista dal legislatore, cfr. infra,
par. 5.1, nonché note 69 e 70.
28
Ai sensi dell’art. 53 legge n. 689/1981 e successive modifiche (la più recente con
legge 12 giugno 2003, n. 134) la pena detentiva fino a 12 mesi (anteriormente: fino a 6)
può essere sostituita dalla libertà controllota e quella fino a 6 mesi (anteriormente: fino a
3) dalla sola pena pecuniaria.
29
In forza degli art. 442, comma 2 e 444, comma 1, c.p.p. la definizione del processo
rispettivamente con “rito abbreviato” ovvero con “applicazione della pena su richiesta
10
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provvedimenti di amnistia emanati in quegli anni, come ben documentano le
sentenze coeve dei giudici di merito, che ricorrendo allo jus superveniens
favorevole al reo hanno prontamente derubricato le iniziali contestazioni di truffa
aggravata e dichiarato l’estinzione dei reati, pur se consistenti in “frodi
comunitarie” assai rilevanti30.
Un simile impatto di forte attenuazione - se non addirittura immunizzazione,
nella concreta prassi giudiziaria - del controllo penale sulle frodi ai fondi
FEOGA ha rappresentato una palese violazione del principio di solidarietà
comunitaria, di cui all’art. 5 (ora art. 10) TCE, non solo sotto il profilo della
mancata applicazione di sanzioni “proporzionate, efficaci e dissuasive” ai fatti
lesivi degli interessi comunitari, ma anche sotto quello del mancato rispetto del
principio di assimilazione, parimenti affermato come vincolante dalla
giurisprudenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee31 e recepito
espressamente dall’art. 209-A TCE (introdotto dal Trattatto di Maastricht del
1992), secondo cui il “livello minimo” di tutela che gli Stati devono apprestare
agli interessi comunitari deve essere equivalente a quello stabilito per gli
interessi nazionali corrispondenti32.
Viceversa, nelle ipotesi esaminate, soltanto per questi ultimi ha continuato ad
operare a pieno campo la più severa fattispecie di truffa aggravata.
Un tentativo di porre parziale rimedio a questa deficitaria situazione è stato
operato da quell’orientamento giurisprudenziale33, per lo più non condiviso dalla
delle parti” (c.d. patteggiamento) comporta la diminuzione della pena “di un terzo” o
“fino a un terzo”.
30
L’amnistia concessa con decreto Presidente della Repubblica 16 dicembre 1986, n.
865 - appena una settimana prima dell’approvazione della legge n. 898/1986, e di cui
quindi il Parlamento era ben consapevole al momento della votazione – è stata
“puntualmente” applicata dalla Corte d’appello di Napoli con la sopra citata sentenza 6
giugno 1989, Avino; mentre quella concessa dal decreto Presidente della Repubblica 12
aprile 1990, n. 75 è stata applicata dal Tribunale di Lecce nella citata sentenza 24
novembre 1992, Vergine, in cui i giudici hanno peraltro criticato l’effetto
“indulgenziale” determinato dalle scelte legislative, segnalando che sarebbe stato
“interessante, per la Commissione parlamentare antimafia, accertare attraverso quali vie
si era pervenuti all’approvazione dell’art. 2 l. 898/1986” (ivi, p. 751). Anche SALAZAR
L., Tutela penale, cit., in specie p. 753, sottolinea nel suo commento questo “ulteriore”
effetto di immunizzazione pratica dei fatti di reato, inizialmente contestati come truffa
aggravata.
31
A partire dalla nota sentenza della Corte di Giustiza CE sul c.d. caso del mais greco,
in data 21 settembre 1989, cit. supra a nota 16.
32
Sottolinea tale profilo e, nel contempo, le difficoltà di attuazione per le diversità di
disciplina negli Stati membri JESCHECK H.-H., Possibilità e limiti di un diritto penale
per la protezione dell’Unione europea, in PICOTTI L. (cur.), Possibilità e limiti di un
diritto penale dell’Unione europea, Milano 1999, p. 13 s., in specie p. 25-26. In
argomento si veda GRASSO G., La formazione di un diritto penale dell’Unione
europea, in ID. (cur.), Prospettive di un diritto penale europeo, Milano 1998, p. 1 s.
33
Cass. Sez. II, 13 giugno 1988, Fani, in Riv. pen., 1989, p. 751; Cass. Sez. II, 6
novembre 1992, Sarno, in Rep. Foro it. 1993, voce Agricoltura, n. 73; nonché – dopo la
novella legislativa del 1992 e la sentenza della Corte costituzionale del 1994, di cui
11
©Picotti/ConvenzioneTIF
dottrina34, che ha attribuito alla disposizione extracodicistica carattere
“sussidiario” anziché “speciale” rispetto alla truffa aggravata, per evitare la
generalizzazione dell’effetto derogatorio sopra descritto e lasciare un esiguo ma, in effetti, solo nominale - spazio applicativo anche alla più grave
incriminazione codicistica, nelle ipotesi caratterizzate da un asserito quid pluris
di attività fraudolenta rispetto alla semplice “esposizione di dati falsi”, tipizzati
dall’art. 2 legge n. 898/1986.
Soluzione peraltro artificiosa ed in contrasto con la consolidata tendenza della
stessa giurisprudenza a dilatare, anziché restringere, l’interpretazione del
requisito degli “artifici e raggiri” previsto dal delitto di truffa, da tempo esteso
fino a comprendere, oltre che la produzione ed allegazione di documenti falsi,
anche le mere dichiarazioni menzognere ed addirittura la semplice omissione di
dichiarazioni doverose35.
Per cui, lungi dal coprire un ambito di comportamenti che altrimenti non
sarebbero stati sanzionabili a titolo di truffa aggravata, la norma
sull’acquisizione indebita di fondi FEOGA li ha in realtà sottratti a quella
disciplina, rendendoli immuni o sottoponendoli ad un trattamento senz’altro più
mite.
3.2. Le novelle degli anni ’90 sulla pretesa natura “sussidiaria” dell’art. 2 legge
n. 898/1986 e la nuova disciplina della truffa aggravata per il conseguimento di
appresso si dirà – Cass., sez. un., 24 gennaio-15 marzo 1996, Panigoni, cit., p. 2892 s.,
ed in specie p. 2901-2902, con nota adesiva di CESQUI E., Il rapporto tra truffa
aggravata e legislazione speciale nelle frodi ai danni del Feoga, ivi, p. 2906 s.
34
Nella prospettiva della “sussidiarietà” si veda (prima della novella del 1992)
sostanzialmente il solo PELISSERO M., Truffa aggravata per il conseguimento di
erogazioni pubbliche, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1991, p. 923 s., in specie p. 958-959;
mentre per la “specialità” – pur criticando la formulazione legislativa – cfr. GRASSO
G., L’armonizzazione, cit., p. 845 s.; SPAGNOLO G., Breve commento, cit., p. 703; ed anche dopo la novella del 1992 - MEZZETTI E., La tutela penale degli interessi
finanziari dell’Unione europea, Padova 1994, p. 47.
35
Su tale tendenza si vedano già PEDRAZZI C., Inganno ed errore nei delitti contro il
patrimonio, Milano 1955, p. 180 s.; SAMMARCO G., La truffa contrattuale, Milano
1988, p. 3 s. e 160 s.; e riassuntivamente DE FRANCESCO G. V. (agg. Di MASPERO
M.), in CRESPI A., STELLA F., ZUCCALÀ G. (cur.), Commentario breve al codice
penale, 4^ ed., Padova 2003, sub art. 640, IV-6, 7 e 8, p. 2178-2181, con ampi richiami
di dottrina e giurisprudenza; nonché VASCIAVEO M. T., in DOLCINI E.,
MARINUCCI G. (cur.), Codice penale commentato, II: Parte speciale, Milano 1999,
sub art. 640, II-7 e 10, p. 3497-3498. In contrasto con tali conclusioni CESQUI E., Il
rapporto, cit., p. 2913, che dopo una ridotta rassegna di precedenti giurisprudenziali
ritiene che non sarebbe “un dato interpretativo incontroverso”, ma soltanto un “filone
minoritario, anche se significativo, della giurisprudenza di legittimità” quello secondo
cui la falsità delle dichiarazioni, in presenza di un obbligo giuridico di dire la verità,
sarebbe sufficiente ad integrare il delitto di truffa. Per la più recente giurisprudenza sulla
sufficienza addirittura del mero silenzio (“maliziosamente” serbato) per intergrare gli
artifici o raggiri richiesti dalla truffa, cfr. Cass. sez. VI, 3 aprile-13 maggio 1998, n.
5579, Perina, cit. a nota 22.
12
©Picotti/ConvenzioneTIF
erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.) – La soluzione giurisprudenziale “di
compromesso”, offerta dalla tesi minoritaria della sussidiarietà, è stata fatta
propria dal legislatore dei primi anni ’90, allorché ha tentato di porre rimedio, sul
piano normativo, al manifesto deficit di tutela degli interessi finanziari
comunitari, denunciato da una parte della dottrina36. Ma poiché ancora una volta
l’intervento legislativo non ha saputo esprimere chiare scelte politico criminali,
che trovassero coerente riflesso sul piano tecnico e sistematico, il suo impatto è
stato più apparente che reale.
Innanzitutto, il legislatore ha inserito nel codice penale una nuova norma
rubricata: “truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche” (art.
640-bis c.p.), che ha previsto una pena solo lievemente più alta (da 1 a 6 anni di
reclusione, ma senza alcuna pena pecuniaria37), rispetto a quella della truffa
aggravata comune, “se il fatto […] riguarda contributi, finanziamenti, mutui
agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate,
concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità
europee”.
Tuttavia il legislatore non si è affatto preoccupato di offrire anche un’autonoma
ed adeguata riformulazione del fatto punibile, che anticipasse il momento
consumativo, rispetto all’evento di danno patrimoniale richiesto dalla truffa
comune, o quantomeno cogliesse le peculiarità dei modi di realizzazione delle
“frodi in sovvenzioni”38, sancendo esplicitamente la punibilità, per un autonomo
più grave titolo, dei comportamenti con cui normalmente si commettono: vale a
dire con la “semplice” presentazione di istanze contenenti esposizione di dati
36
SPAGNOLO G., Breve commento, cit., p. 703, parlava addirittura, ma con troppo
ottimismo, di una “vera e propria inversione di tendenza” con riguardo ai fatti commessi
in danno delle Comunità europee.
37
Quella accessoria dell’“incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione”
(ex art. 32-quater c.p.) è stata poi opportunamente inserita dall’art. 3 decreto legge 17
settembre 1993, convertito nella legge 15 novembre 1993, n. 461, al pari di quanto ha
successivamente previsto anche l’art. 6 della legge n. 300/2000, per gli autori del nuovo
delitto di “indebita percezione di sovvenzioni pubbliche” di cui all’art. 316-ter c.p. che
verrà esaminato infra, par. 5.
38
Sulla fondamentale esigenza di superare – con un’autonoma riformulazione – le
insufficienze della fattispecie codicistica della truffa, per incriminare le frodi in
pubbliche sovvenzioni, la migliore dottrina si era da tempo espressa in termini molto
puntuali: cfr. già ROMANO M., Diritto penale in materia economica, riforma del
codice, abuso di finanziamenti pubblici, in Comportamenti economici e legislazione
penale, Milano 1979, p. 183 s., in specie p. 210s.; BRICOLA F., Sovvenzioni
all’industria e diritto penale (1982), ora in Scritti di diritto penale, II/2, Milano 1997, p.
3121 s., in specie p. 3133; FIANDACA G., MAZZAMUTO, Abuso di sovvenzioni e
controllo sanzionatorio da parte del soggetto beneficiario, in COSTI R., LIBERTINI
M. (cur.), Problemi giuridici delle agevolazioni finanziarie all’industria, Milano 1982,
p. 383 s.; nonché altri contributi ivi pubblicati ed altresì editi in MAZZAMUTO (cur.),
Il finanziamento agevolato alle imprese, Milano 1987.
13
©Picotti/ConvenzioneTIF
falsi o dichiarazioni ed allegazioni di documenti non corrispondenti al vero,
ovvero omesse od incomplete39.
Il legislatore si è piuttosto limitato a rinviare integralmente alla descrizione del
“fatto di cui all’art. 640” c.p., dando così vita a controversie ed incertezze
applicative, che si sono protratte fino ad oggi (cfr. infra, par. 6).
Ed è mancato anche il necessario chiarimento sistematico dei rapporti fra le
diverse fattispecie confinanti (in particolare con gli artt. 640 c.p. e 2 legge n.
898/1986), con la conseguenza che non può tuttora dirsi rispettato il principio di
assimilazione della tutela penale degli interessi comunitari rispetto a quella degli
interessi nazionali corrispondenti, essendo solo apparente la portata generale
della nuova norma – di per sé riguardante erogazioni pubbliche di qualsiasi
provenienza, sia statali che comunitarie – che si scontra con la mantenuta
operatività, per le sole sovvenzioni comunitarie su fondi FEOGA, della ben più
mite fattispecie di cui all’art. 2 legge n. 898/1986, che prevede una pena
detentiva esattamente pari alla metà, sia nel minimo che nel massimo, di quella
introdotta dall’art. 640-bis c.p.40.
Di fronte alla predominante prassi giudiziaria, il legislatore è perciò intervenuto
nuovamente, due anni dopo, ma con un intervento di “basso profilo”, limitato a
riformulare (con l’art. 73 legge 19 febbraio 1992, n. 142: c.d. “legge comunitaria
per il 1991”) il primo comma della fattispecie extracodicistica – nell’occasione
rubricata: “Acquisizione indebita di erogazioni FEOGA” – cui ha premesso la
clausola: “ove il fatto non configuri il più grave reato previsto dall’art. 640-bis
del codice penale”, al dichiarato scopo di affermarne il rapporto di sussidiarietà
rispetto a questo, secondo l’orientamento giurisprudenziale già richiamato.
Tale soluzione è infine stata fatta propria dalla giurisprudenza della Corte
costituzionale, con una sentenza del 199441, e della Corte di Cassazione con una
sentenza a sezioni unite del 199642, con cui si è cercato di superare il permanente
39
Sottolinea sinteticamente tali profili empirici, a conclusione della sua indagine,
ZANNOTTI R., La truffa, Milano 1993, in specie p. 149-153. In argomento si vedano
anche i rilievi di BONFIGLIOLI A., L’indebita captazione di sovvenzioni pubbliche tra
specialità e sussidiarietà, commento a Cass., sez. VI, 24 settembre-23 novembre 2001,
n. 41928, Tammerle, in Cass. pen. 2003, n. 255, p. 915 s., in specie 923 s.
40
Sull’opportunità di abrogare l’art. 2 legge 898/1986 si veda, per tutti, ZANNOTTI R.,
La truffa, cit., p. 150. Esigenza autorevolmente riproposta, dopo l’entrata in vigore della
legge n. 300/2000, da ROMANO M., Abusi di finanziamenti comunitari ed indebita
percezione di erogazioni a danno dello Stato, in Dir. pen. proc., 2002, n. 3, p. 269 s., in
specie p. 273.
41
Corte cost., 26 gennaio-10 febbraio 1994, n. 25, in Giur. cost. 1994, I, p. 177 s., con
osservazioni critiche di MAZZA L., L’indebita captazione di erogazioni a carico del
FEOGA tra specialità e sussidiarietà; ed in Cass. pen. 1994, m. 1806, p. 2870 s., con
commento invece adesivo di FELICETTI F., Frodi comunitarie: norme penali di favore,
rilevanza della questione nei giudizi di legittimità costituzionale in via incidentale e
“principio di legalità”.
42
Cass., sez. un., 24 gennaio-15 marzo 1996, Panigoni, cit., p. 2892 s. ed in specie p.
2901-2902.
14
©Picotti/ConvenzioneTIF
dissidio presente nella prassi giudiziaria e di offrire una qualche soluzione
all’evidente irrazionalità del sistema, rimasto tuttavia, nella sostanza, immutato43.
Premesso, infatti, che la citata clausola avrebbe “inteso semplicemente
esplicitare, a fronte di contrastanti interpretazioni applicative”, quella che
sarebbe stata “chiaramente, fin dall’origine, l’intenzione del legislatore”44, la
Corte costituzionale, seguita due anni dopo dalle sezioni unite della Cassazione,
ha optato per l’interpretazione, fra le possibili, ritenuta conforme al dettato
costituzionale, secondo cui la fattispecie meno severa andrebbe applicata solo
quando l’indebita erogazione si realizzi “soltanto mediante l’esposizione di dati
o notizie falsi”, non potendo viceversa essere applicata quando – nonostante la
speciale tipologia dei fondi tutelati – vi siano “elementi o modalità ingannevoli
diversi e ulteriori rispetto alla mera falsa dichiarazione”45, dato che l’illecito
minore consiste proprio nella “semplice esposizione di dati falsi”46.
La tesi, pur se espressa ai massimi livelli, è rimasta priva di vincolante forza
giuridica, trattandosi di pronuncia interpretativa di rigetto della Corte
costituzionale e di sentenza, sia pur a sezioni unite, della Corte di Cassazione,
tanto da essere presto disattesa da altra pronuncia della medesima Corte47, oltre
che dai giudici di merito, evidentemente non convinti neppure sotto il profilo
della persuasività logico-giuridica.
Ed invero, come si legge nella motivazione del giudice costituzionale - ripresa
pedissequamente dalle sezioni unite della Cassazione - l’“esposizione di dati e
E’ la stessa Corte costituzionale (nella sentenza 26 gennaio-10 febbraio 1994, n. 25,
cit., p. 184) a riconoscere che “non sarebbe possibile ipotizzare alcuna ragionevole
spiegazione per una norma che riservasse un trattamento sanzionatorio più favorevole ad
una sottospecie del reato di truffa, enucleata dalla figura generale in ragione di un
elemento specializzante sostanzialmente unico, rappresentato dal fatto che l’ingiusto
profitto perseguito dall’agente sia un’indebita erogazione a carico totale o parziale del
FEOGA”.
44
Corte cost., 26 gennaio-10 febbraio 1994, n. 25, cit., p. 186, con ampio rinvio ai lavori
preparatori puntualmente citati; pressoché negli stessi termini Cass., sez. un., 24
gennaio-15 marzo 1996, Panigoni, cit., p. 2901 s.
45
Corte cost., 26 gennaio-10 febbraio 1994, n. 25, cit., p. 186-187, la cui ratio decidendi
è ripresa, in termini testuali, da Cass., sez. un., 24 gennaio-15 marzo 1996, Panigoni,
cit., p. 2902, cui si rinvia anche per l’affermazione della sussistenza implicita, nella
fattispecie minore, degli altri requisiti della truffa (ivi, p. 2900-2901).
46
Così, adeguandosi all’indirizzo esaminato, Cass. Sez. II, 18 settembre 1997-13
gennaio 1998, n. 375, Gennarelli, in Cass. pen. 1999, m. 339, p. 885 s.; nonché Cass.
Sez. II, 3 giugno 1997, Ulderico, in Cass. pen. 1998, m. 828, p. 1377, ed in Foro it.,
1999, II, p. 130 s., con motivazione e commento critico di LA SPINA P., Ancora sul
rapporto tra il delitto di ottenimento di indebite sovvenzioni comunitarie ed il delitto di
truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.
In argomento si veda anche il precedente par. 3.1 ed in specie le note 22 e 23.
47
Cass., ord. 21 gennaio 1998, Palazzo, in Gazz. Uff. n 15, serie spec., del 15 aprile
1998, che ha riproposto, sotto altri profili, la questione di costituzionalità, rilevando la
sussistenza di un rapprto di specialità fra le due norme. Ad essa ha sbrigativamente
risposto, con pronuncia di manifesta infondatezza, la Corte costituzionale, con ordinanza
23 dicembre 1998, n. 443, in Giur. cost., 1998, p. 3672 s.
43
15
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notizie falsi” sarebbe da riconoscere, alla stregua del diritto vivente48, quale
peculiare e sia pur minima ipotesi rientrante nel più ampio concetto di “artifici e
raggiri” richiesti dalla fattispecie di truffa49: ma se così stanno le cose, rispetto ad
essa la norma più mite si pone proprio in un classico rapporto di species ad
genus, non certo di sussidiarietà50.
La prassi ha continuato, pertanto, a fare ampia applicazione della meno severa
fattispecie “speciale”, anziché della truffa aggravata, proprio (e solo) per le
acquisizioni illecite di fondi comunitari nel settore agricolo, in palese violazione
– come detto - del principio di assimilazione, oltre che di uguaglianza e di
ragionevolezza, visto che vengono ricondotti alla truffa comune e, se del caso,
alla truffa aggravata di cui all’art. 640-bis c.p. (quantomeno fino all’entrata in
vigore della legge n. 300/ 2000) tutti gli analoghi fatti, consistenti nella mera
presentazione di istanze menzognere, cui conseguano erogazioni di fondi aventi
diversa natura e provenienza51.
48
Entrambe le sentenze escludono però la necessità di risolvere la questione generale, se
il concetto di “artifici e raggiri” sia integrato dalla “menzogna pura e semplice […] che,
anche senza modalità ingannatorie aggiuntive, abbia deteminato l’errore nel soggetto
passivo” (Cass., sez. un., 24 gennaio-15 marzo 1996, Panigoni, cit., p. 2902; ed in
termini simili già Corte cost., 26 gennaio-10 febbraio 1994, n. 25, cit., p. 187). La tesi
negativa assumerebbe peraltro un ruolo del tutto marginale ed ipotetico, in entrambe le
motivazioni, non trovando concreto conforto nella prassi giudiziaria, bensì soltanto in
autorevoli, ma isolate opinioni dottrinali: MANTOVANI F., Diritto penale. Parte
speciale. Delitti contro il patrimonio, Padova 1989, p. 162; FIANDACA G., MUSCO
E., Diritto penale. Parte speciale. II/1: I delitti contro il patrimonio, 3^ ed., Bologna
2002, p. 172 s.
49
Secondo Corte cost., 26 gennaio-10 febbraio 1994, n. 25, cit., p. 187, solo per uno dei
due orientamenti interpretativi da essa richiamati il “semplice mendacio” sarebbe “il
meno ingannevole tra i comportamenti sussumibili […] nella nozione degli artifici e
raggiri”, esistendo una tesi diretta a negare che esso sia mai sufficiente ad integrarli.
Tuttavia quest’ultima posizione non trova effettivo seguito, come sostanzialmente
ammette la stessa Corte di Cassazione, che pur ribadendo che non occorrerebbe
risolvere tale questione, per stabilire la natura sussidiaria o speciale della norma in
esame, imposta il proprio percorso argomentativo sul rilievo che l’art. 2 legge n.
898/1986 avrebbe enucleato “nel vastissimo ventaglio degli artifici e raggiri […] quello
di gravità minore, rappresentato dalla semplice esposizione di dati e notizie falsi non
accompagnata da ulteriori malizie dirette all’induzione in errore del soggetto passivo”,
per collegarvi “conseguenze più favorevoli in termini sanzionatori di quelle previste per
il diritto di truffa” (Cass., sez. un., 24 gennaio-15 marzo 1996, Panigoni, cit., p. 29012902).
50
La Corte costituzionale (op. loc. ult. cit.) afferma in realtà che vi sarebbe un “elemento
negativo”, implicitamente desumibile dalla norma di cui all’art. 2 legge n. 898/1986,
“costituito dall’assenza di elementi o modalità ingannevoli diversi e ulteriori rispetto
alla mera falsa dichiarazione”, in forza del quale si applicherebbe invece, in loro
presenza, il più grave reato di truffa. Ma di tale elemento, che dovrebbe comunque
anch’esso essere riconosciuto come specializzante, non vi è traccia nel testo della legge.
51
Basti al riguardo rinviare a Cass., ord. 21 gennaio 1998, cit., che nel sollevare ancora
la questione di costituzionalità, per violazione dell’art. 3 Cost., dell’art. 2 legge n.
898/1986, ha rilevato che - poiché anche il semplice mendacio è da ritenere idoneo a
16
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Il paradossale effetto “derogatorio” della norma del 1986 è in effetti da correlare
alla difficoltà pratica, se non rarità empirica, di ravvisare nella prassi usuale
delle indebite acquisizioni di fondi, quei requisiti di artificiosità e fraudolenza
“ulteriori”, rispetto all’esposizione di dati falsi, che secondo la giurisprudenza
costituzionale e di legittimità dovrebbero essere coperti dalla più rigorosa
disciplina del codice.
3.3. La malversazione di fondi pubblici (art. 316-bis c.p.) – L’insoddisfacente
disciplina penale concernente il momento della percezione delle sovvenzioni è
stata integrata, sul versante della loro effettiva destinazione ai fini prescritti,
dall’art. 316-bis c.p., introdotto dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 di riforma dei
delitti contro la pubblica amministrazione. Ma solo a seguito della successiva
novella apportata dalla legge 7 febbraio 1992, n. 181 è stato inserito anche un
espresso riferimento alle “Comunità europee”, prima inspiegabilmente ignorate,
quale possibile soggetto passivo. E tuttora la rubrica fa riferimento alla sola
“malversazione a danno dello Stato”.
La norma è impropriamente collocata nel capo I del titolo II del libro II del
codice penale (vale a dire fra i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione)52, pur trattandosi – a dispetto della parimenti insolita
denominazione di “malversazione” – di un reato comune commissibile dal
“privato” (“chiunque, estraneo alla pubblica amministrazione”), che “avendo
ottenuto […] sovvenzioni o finanziamenti […] non li destina alle […] finalità”
per cui erano stati concessi.
La pena prevista (da 6 mesi a 4 anni di reclusione) si colloca in una fascia
intermedia tra le più severe sanzioni stabilite per il reato di truffa aggravata (sia
ex art. 640, comma 2, n. 1, che ex art. 640-bis c.p.) e quelle più miti previste per
l’acquisizione indebita di fondi agricoli.
Per cui emerge un’ulteriore contraddizione sistematica, nell’ipotesi in cui i fondi
indebitamente conseguiti non siano poi destinati alle finalità alle quali erano
comunque vincolati.
Secondo la dottrina maggioritaria si dovrebbe escludere, in questi casi, la
possibilità di concorso (materiale) del reato di “malversazione” di cui all’art.
316-bis c.p. con il reato di truffa aggravata in erogazioni pubbliche, di cui all’art.
640-bis c.p., per l’“assorbimento”, in tale più grave reato, del successivo
integrare l’elemento dell’artificio o raggiro – si verifica in realtà che fatti che
integrerebbero il delitto previsto dall’art. 640-bis c.p. vengono a questo sottratti, per
essere sanzionati più lievemente: per cui anziché estendere la tutela penale, la norma
censurata la restringe, con un’“irragionevole” e “discriminatoria” differenziazione di
disciplina.
52
Sottolinea tale aspetto, e l’inaccettabile conclusione di una pretesa “coloritura”
pubblicistica del soggetto attivo, invece mero destinatario di finanziamenti pubblici,
ROMANO M., I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici
ufficiali. Artt. 314-335-bis cod. pen., Milano 2002, p. 61.
17
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comportamento di abusiva utilizzazione dei fondi, il cui disvalore sarebbe –
secondo il principio di consunzione – già interamente sanzionato dal primo53.
Ma tale argomentazione non sembra convincentemente sostenibile, se solo si
considera che le fattispecie di cui all’art. 2 legge n. 898/1986 ed, oggi, di cui
all’omologo art. 316-ter c.p. – che sarà esaminato nel successivo par. 5 – pur
procurando l’identico evento d’indebita percezione dei fondi, oggetto poi della
“mancata destinazione” alle finalità per essi stabilite, sono punite in modo più
mite di quest’ultima incriminazione54. Dunque essa non può certo ridursi ad un
irrilevante post factum non punibile.
Deve allora concludersi per il possibile concorso materiale fra l’illecito “a
monte”, attinente all’indebita percezione dei fondi, e quello “a valle”, di mancata
destinazione alle finalità per essi previste, se autonomamente realizzato – come è
in effetti realizzabile – dopo la consumazione del primo55.
In tal modo, l’area di punibilità indicata dalla definizione di frode comunitaria di
cui all’art. 1 della Convenzione TIF del 1995, salve le analizzate lacune e
contraddizioni, era ed è da considerarsi coperta per la materia delle “spese” a
carico del bilancio europeo, con riferimento sia al percepimento indebito di
somme56, che alla distrazione dei fondi ottenuti.
In materia di “entrate” la tutela penale rimane invece interamente affidata alla
comune disciplina tributaria ed, in specie, a quella doganale57, su cui la legge n.
300/2000 è intervenuta soltanto con marginali modifiche dei regimi sanzionatori,
cui si farà cenno nel seguente paragrafo.
53
ROMANO M., I delitti, cit., p. 72 s., in specie p. 74; PAGLIARO A., Principi di
diritto penale. Parte speciale. I delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione, 9^ ed., Milano 2000, p. 104; PELISSERO M., Osservazioni, cit., p.
201; SEMINARA S., in CRESPI A., STELLA F., ZUCCALÀ G. (cur.), Commentario
breve, cit., sub art. 316-bis, VIII, p. 901.
A favore però del concorso materiale di entrambi i delitti si è espressa Cass., 1 ottobre-7
novembre 1998, in Riv. pen. 1998, p. 1111 (CED n. 211.494); ed in dottrina
ANTOLISEI F., Manuale di diritto penale. Parte speciale, vol. II, 13^ ed. a cura di
CONTI L., Milano 2000, p. 304; PISA P., Commento art. 3 L. 26/4/1990, n. 86, in Leg.
pen., 1990, p. 285.
54
Tale anomalia, già rilevata da PELISSERO M., Commento, cit., sub art. 4, p. 1053,
non sfugge a SEMINARA S., in CRESPI A., STELLA F., ZUCCALÀ G. (cur.),
Commentario breve, cit., sub art. 316-ter, VIII-2, p. 904, che però rinuncia a trarne le
doverose conclusioni ermeneutiche, appellandosi ad un metagiuridico criterio di
giustizia sostanziale, secondo cui “un errore del legislatore” non potebbe “tradursi in un
ingiustificato aggravamento del carico sanzionatorio”.
55
In tal senso PELISSERO M., Commento, cit., sub art. 4,, p. 1053.
56
CARACCIOLI I., MENSI M., Frodi comunitarie: novità normative e
giurisprudenziali, in Riv. trim. dir. pen. econ., 1997, p. 819 s., in specie p. 822,
sostengono che al riguardo “almeno sul piano normativo l’Italia non può meritare
censura alcuna in sede comunitaria”.
57
Cfr. al riguardo GRASSO G., L’armonizzazione, cit., p. 842 s.
18
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4. I contenuti essenziali della legge italiana n. 300/2000 di attuazione della
Convenzione TIF – Le modifiche ed aggiunte che il legislatore italiano ha
apportato al descritto contesto normativo e giurisprudenziale, per dare “piena ed
intera esecuzione” alla Convenzione TIF del 1995, oltre che alla pluralità di atti
internazionali sopra menzionati (par. 2), si riducono alla sola nuova fattispecie
incriminatrice introdotta dall’art. 4 legge n. 300/2000 e ad alcune singole norme
estensive ed integrative.
La prima disposizione citata ha aggiunto al codice penale il nuovo art. 316-ter
che punisce il delitto di “indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato”,
questa volta espressamente comprensivo anche di quelle concesse “dalle
Comunità europee”, pur se non menzionate nella rubrica.
Le altre disposizioni riguardano, invece, l’applicabilità del concetto di “pubblico
ufficiale” ed “incaricato di pubblico servizio” a funzionari non italiani, in
attuazione degli strumenti relativi alla corruzione internazionale58, la previsione
di nuove ipotesi di confisca obbligatoria (art. 3 legge n. 300/2000)59; l’estensione
della punibilità in Italia di delitti commessi all’estero “a danno delle Comunità
europee” (art. 5 legge n. 300/2000)60; l’applicabilità della pena accessoria
dell’incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione al nuovo delitto di
cui all’art. 316-ter c.p., oltre che a quelli di corruzione internazionale ed altro,
In particolare l’art. 3 della legge n. 300/2000 ha introdotto nel codice penale l’art.
322-bis, rubricato “Peculato, concussione, corruzione ed istigazione alla corruzione di
membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e
di Stati esteri”, avente portata meramente estensiva delle indicate fattispecie penali ai
predetti soggetti, “assimilati” ai pubblici ufficiali, “qualora esercitino funzioni
corrispondenti”, ed agli incaricati di un pubblico servizio “negli altri casi”, con
implicito rinvio alle definizioni dell’ordinamento interno contenute negli artt. 357 e 358
c.p. Una specifica estensione delle sole fattispecie di corruzione attiva (art. 321 c.p.) e di
istigazione alla corruzione attiva (art. 322, primo e secondo comma, c.p.) è poi stabilita
nei confronti di “funzionari di altri Stati esteri o organizzazioni pubbliche
internazionali, qualora il fatto sia commesso per procurare a sé o ad altri un indebito
vantaggio in operazioni economiche internazionali”. Per un ampio commento cfr.
PELISSERO M., Commento, cit., sub art. 3, p. 998 s.
59
E’ prevista (dal nuovo art. 322-ter c.p.) la confisca obbligatoria, anche “per
equivalente” (“di beni, di cui il reo ha la disponibilità, per un valore corrispondente” al
prezzo o profitto del reato), nell’ipotesi di condanna ovvero di applicazione della pena
ex art. 444 c.p.p. (c.d. patteggiamento) per i delitti menzionati alla nota precedente,
come pure (dal nuovo art. 640-quater c.p.) per quelli di truffa aggravata a danno di ente
pubblico (ex artt. 640, comma 2, n. 1, c.p.), ovvero per il conseguimento di erogazioni
pubbliche (ex 640-bis c.p.), nonché di frode informatica aggravata (ex art. 640-ter,
comma 2, c.p.).
60
Tali delitti sono stati equiparati, per i fini in questione, ai fatti commessi a danno di
uno Stato estero o di uno straniero, con applicazione delle condizioni di procedibilità
stabilite rispettivamente dall’art. 9, comma 3 c.p. nel caso di delitto commesso da un
cittadino italiano e dall’art. 10, comma 2 c.p. nel caso di delitto commesso da uno
straaniero. In argomento cfr. PELISSERO M., Commento, cit., sub art. 5, p. 1054 s.
58
19
©Picotti/ConvenzioneTIF
previsti dal nuovo art. 322-bis c.p.61, ai quali tutti viene altresì estesa la speciale
circostanza attenuante del “fatto di particolare tenuità” prevista dall’art. 323-bis
c.p. (art. 6 legge n. 300/2000); l’adeguamento della misura delle pene e sanzioni
amministrative, stabilite per reati doganali e per il delitto di indebita percezione
di sovvenzioni agricole (FEOGA), di cui all’esaminato art. 2 legge n. 898/1986,
all’entità degli importi oggetto di frode, secondo le fasce stabilite dall’art. 1, par.
1 e 2 Convenzione TIF (artt. da 7 a 10 legge n. 300/2000)62; infine, deleghe al
Governo per la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone
giuridiche e degli enti privi di responsabilità giuridica (art. 11 legge n.
300/2000)63, nonché in materia di interpretazione, in via pregiudiziale, della
Convenzione TIF da parte della Corte di Giusitizia delle Comunità europee (art.
12 legge n. 300/2000)64, oltre a singole disposizioni di dettaglio sull’Autorità
responsabile e sull’esercizio delle deleghe, nonché transitorie (in specie si veda
l’art. 15 legge n. 300/2000, che dispone l’inapplicabilità delle nuove ipotesi di
confisca ai fatti pregressi).
Di per sé non sembra criticabile il tentativo di dare attuazione, nell’ordinamento
interno, alla menzionata pluralità di strumenti internazionali con un unico atto di
ratifica, dato che essi intervengono su materie identiche o confinanti. La scelta
potrebbe, anzi, riflettere l’apprezzabile esigenza di inserire organicamente, nel
sistema nazionale, le diverse modifiche imposte dalle varie fonti sopranazionali,
con un effetto migliore di quello che si potrebbe conseguire con distinti atti di
ratifica di ogni singolo strumento, destinati ad intervenire frammentariamente,
anziché in un quadro d’insieme65.
Quest’obiettivo non può però dirsi in concreto raggiunto, perlomeno per quanto
riguarda la materia delle frodi e “malversazioni” comunitarie oggetto d’esame. I
61
Tale pena accessoria era già stata estesa ai delitti di malversazione a danno dello Stato
(art. 316-bis c.p.) e di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art.
640-bis c.p.) dall’art. 3 del decreto legge 17 settembre 1993, n.369, convertito nella
legge 15 novembre 1993, n. 461.
62
Le modifiche hanno riguardato in specie gli artt. 295, 295-bis e 297 del testo unico
doganale approvato con decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43;
ed il già citato art. 2 legge n. 898/1986, per adeguare la previsione delle ipotesi di “frode
minore”, soggette a mera sanzione amministrativa, al limite massimo di euro 4000 quale
importo oggetto di frode; e quelle di “frode grave”, passibili invece di pena detentiva
comportante l’estradizione, al limite minimo di euro 50000 quale importo oggetto di
frode.
63
Delega poi esercitata con il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, di cui si dirà
infra, par. 7.
64
Delega al governo che invece non risulta ancora esercitata, benché fosse previsto il
termine di 8 mesi dall’entrata in vigore della norma delegante (e quindi dal 26 ottobre
2000). In argomento si veda la precedente nota 9, ed infra par. 6.2.
65
Per una valutazione complessivamente positiva della scelta del legislatore del 2000,
trattandosi di “convenzioni accomunate da una varietà di temi, opportunamente
affrontati in modo unitario”, si veda PELISSERO M., Commento, cit., p. 992; mentre
MANACORDA S., Corruzione internazionale, cit., p. 415, critica la mancata attuazione
anche del secondo protocollo aggiuntivo della Convenzione TIF nonché della
Convenzione del Consiglio d’Europa sulla corruzione dei pubblici funzionari stranieri.
20
©Picotti/ConvenzioneTIF
difetti di redazione tecnica dell’art. 316-ter c.p. e soprattutto l’omessa
valutazione dei riflessi “sistematici” del suo inserimento nel contesto delle
disposizioni previgenti hanno infatti perpetuato le contraddizioni e difficoltà di
coordinamento sopra rilevate, facendone addirittura sorgere di ulteriori e più
preoccupanti.
5. Il nuovo delitto di “indebita percezione di erogazioni ai danni dello Stato”
(art. 316-ter c.p.) ed il suo effetto di mitigazione della disciplina vigente - La
scelta del legislatore italiano del 2000 lascia profondamente perplessi, perché
ignorando completamente la contraddittorietà dell’esperienza giurisprudenziale
sopra richiamata (par. 3), ha introdotto un’ulteriore fattispecie (art. 316-ter c.p.)
ancora una volta radicalmente più mite della truffa aggravata (di cui agli artt.
640, comma 2, n. 1 e 640-bis c.p., essendo la pena detentiva esattamente pari alla
metà, sia nel minimo che nel massimo, di quella prevista da quest’ultima norma),
senza alcuna contestuale revisione dell’intero “sistema” delle incriminazioni dei
fatti lesivi degli interessi finanziari comunitari, in grado di renderlo
effettivamente conforme alle esigenze di tutela espresse dalla Convenzione TIF.
Anzi: la formulazione tecnica della nuova fattispecie è già a prima vista del tutto
insoddisfacente, perché generalizza il deprecabile modello dell’art. 2 legge n.
898/1986 oltre l’ambito delle sovvenzioni nel settore agricolo (FEOGA).
Non c’è quindi da stupirsi che, nella prassi giudiziaria, vi sia stato un ulteriore
allentamento del controllo penale nel settore, in contrasto con il dichiarato
obiettivo di rafforzarlo e con le obbligazioni assunte dall’Italia con la firma della
Convenzione TIF.
5.1. La depenalizzazione della “frode lieve” - La novella ha innanzitutto sancito
la generale non punibilità dei fatti aventi ad oggetto importi inferiori ad euro
3999,96, data la facoltà concessa agli Stati membri, dall’art. 2, par. 2,
Convenzione TIF, di stabilire “sanzioni di natura diversa” da quella penale
previste dal par. 1, in “casi di frode di lieve entità”.
Tuttavia, per definire tali ipotesi la Convenzione ha posto due requisiti distinti: il
primo - rispettato dal legislatore italiano - riguardante l’importo totale oggetto di
frode, che deve essere inferiore a 4000 ECU (ora: euro); l’altro, invece, del tutto
ignorato dal legislatore nazionale - sia nella formulazione della norma in esame,
che in quella dell’art. 2, comma 2, legge n. 898/1986, pure revisionato dall’art.
10 legge n. 300/2000 - concernente l’esigenza che i fatti “non presentino aspetti
di particolare gravità secondo la legislazione nazionale”.
La norma viceversa consente, in diametrale contrasto con quest’ultima
condizione, che perfino ipotesi prima pacificamente sussunte sotto la fattispecie
di truffa aggravata, perché implicanti l’“utilizzo” o la “presentazione” dolosi di
documenti falsi, rientrino ora nell’area del mero illecito amministrativo, purché soltanto - riguardino importi inferiori al limite soglia66.
66
In tal senso si veda il paradigmatico epilogo del processo deciso da Cass., sez. II, 22
marzo-14 dicembre 2002, n. 23083, Morandell, in Guida al Diritto – Il Sole 24 ore,
2002, n. 37, p. 50 s., avente ad oggetto un fatto consistente nella presentazione di un
21
©Picotti/ConvenzioneTIF
Curiosamente la dottrina ed i primi commentatori si sono preoccupati – pur
muovendo dal corretto rilievo che la distinzione fra illecito penale ed illecito
amministrativo dovrebbe essere basata (anche) sulle note modali della condotta e
sulla colpevolezza, non esclusivamente sul quantum dell’importo che ne oggetto
– di “circoscrivere” l’area della responsabilità amministrativa, ritenendola
irragionevolmente dilatata all’imputazione a titolo di colpa, benché il fatto sia
“quantitativamente” meno grave di quello costitutivo del delitto67. Ma la
prospettiva di valutazione critica deve essere rovesciata68.
Irragionevole non è, infatti, sanzionare in via amministrativa fatti “lievi”
caratterizzati da colpa, in conformità con i comuni requisiti d’imputazione
soggettiva richiesti per questo tipo d’illecito (ex art. 3 legge n. 689/1981), bensì
equiparare a questi ipotesi “gravi” – sul piano della condotta e della colpevolezza
– consistenti in vere e proprie truffe, caratterizzate da intenzionali “artifici e
raggiri”, come sono da ritenere (e sono sempre stati ritenuti, in dottrina e
giurisprudenza) la produzione e l’utilizzo di “documenti falsi” per trarre in errore
il soggetto passivo69.
E’ quindi un altro profilo di non corretta attuazione della Convenzione TIF che
va contestato al legislatore italiano, per l’eccessiva ed indiscriminata estensione
dell’illecito amministrativo a scapito di quello penale, essendo stato considerato
come limite solo quello quantitativo dell’importo massimo oggetto di frode, pari
ad euro 3999,96.
Nessuna disposizione transitoria è inoltre stata prevista, al pari di quanto già
rilevato a proposito dell’art. 2 legge n. 898/1986, per evitare che i fatti commessi
prima dell’entrata in vigore della nuova legge e rientranti nella fattispecie
preventivo di spesa e di una fattura d’importo superiori al reale, per conseguire una
sovvenzione per l’acquisto di un veicolo industriale. La Corte di legittimità ha respinto il
ricorso del pubblico ministero avverso la sentenza del giudice di appello, che aveva
ritenuto applicabile il solo art. 316-ter c.p., anzichè l’art. 640-bis c.p. contestato in primo
grado, rilevando che l’imputato si era “limitato a presentare una fattura attestante cosa
non vera (una somma superiore a quella sborsata), senza mettere in atto ulteriori
malizie” (ivi, p. 52. corsivi aggiunti). Per cui il processo si è concluso con l’assoluzione
dal delitto di truffa aggravata “per non essere il fatto più previsto dalla legge come
reato”, in quanto addirittura depenalizzato, riguardando un importo inferiore ad € 4.000
e perciò integrante il mero illecito amministrativo di cui al comma 2 dell’art. 316-ter
c.p. (frode lieve). È da osservare che la stessa Corte di Cassazione, mentre addiveniva a
questa assoluzione, ha addossato al legislatore la responsabilità di aver “indebolito il
campo della tutela penale degli interessi finanziari pubblici, anche comunitari” (ivi, p.
51).
67
PELISSERO M., Commento, cit., sub art. 4, p. 1048; SEMINARA S., in CRESPI A.,
STELLA F., ZUCCALÀ G. (cur.), Commentario breve, cit., sub art. 316-ter, VI-2, p.
904.
68
Nel senso aurevolmente indicato da ROMANO M., Abusi di finanziamenti, cit., p.
274, che critica l’opzione del legislatore italiano, perché in contrasto con l’ottica “molto
ragionevole” della Convenzione ha voluto ricollegare “la natura dell’illecito alla sola
misura del danno patrimoniale”.
69
Si rinvia al riguardo alle indicazioni bibliografiche e giurisprudenziali sopra riportate
a note 22 e 35.
22
©Picotti/ConvenzioneTIF
depenalizzata godano addirittura di totale impunità, pur se contestati e realizzati
addirittura con gli elementi tipici della truffa aggravata (ex artt. 640 e 640-bis
c.p.).
La mancanza di specifica regolamentazione transitoria ha lasciato pertanto
operare, da un lato, l’art. 2, comma 2 c.p., con connessa inapplicabilità delle
pene stabilite per la truffa, in quanto il fatto non è più previsto come reato; e,
dall’altro, l’art. 1, comma 1, legge n. 689/1981, che affermando il principio
d’irretroattività anche delle sanzioni amministrative è ritenuto ostativo alla loro
irrogazione in ipotesi di sopravvenuta depenalizzazione di fattispecie prima
penalmente sanzionate70.
Si badi: una norma transitoria che eviti questo effetto non sarebbe contraria ai
principi generali, non trattandosi di applicare delle pene (in senso stretto) non
ancora previste al momento della commissione del fatto – cui senz’altro
osterebbe il superiore principio costituzionale d’irretroattività della pena, ex art.
25, comma 2, Cost. – bensì di estendere, di fronte alla sopravvenuta previsione
di sanzioni meramente amministrative, rispetto alle quali il principio
d’irretroattività è stabilito soltanto dalla legge ordinaria, il tradizionale principio
di retroattività del trattamento sanzionatorio più favorevole (perché di natura non
penale), rispetto a quello (penale) vigente al momento della commissione,
secondo una ratio identica a quella su cui si fonda l’art. 2, comma 3 c.p., che
riguarda la successione di leggi, a loro volta ritenute soltanto penali71.
E già in occasione di alcune importanti leggi di depenalizzazione (a partire dalla
stessa legge n. 689/1981, di cui si vedano gli artt. 40 e 41; e da ultimo con gli
artt. 100 e s. legge 30 dicembre 1999, n. 507, di depenalizzazione di molte
fattispecie penali, anche del codice della strada), il legislatore italiano ha previsto
espressamente una disciplina transitoria, per evitare l’indesiderato effetto di
totale impunità delle violazioni per le quali la sanzione penale è stata “sostituita”
da quella amministrativa.
Ma evidentemente questo effetto non era “indesiderato” nel campo delle frodi in
pubbliche sovvenzioni.
5.2. L’anomala collocazione sistematica della nuova fattispecie - Il nuovo
delitto, previsto dal primo comma dell’art. 316-ter c.p., è stato imprecisamente
collocato nel capo I - dedicato ai delitti “propri” dei pubblici ufficiali - del titolo
II del libro II del codice penale, concernente i reati “contro la pubblica
70
Cfr. per tutte, in giurisprudenza, Cass., sez. un., 16 marzo 1994, Mazza, in Cass. pen.
1994, m. 1642, p. 2659 s. e, per ampi richiami normativi e ad altri orientamenti
giurisprudenziali e dottrinali, PICOTTI L., La legge penale, Sez. II: L’efficacia della
legge penale nel tempo, § 9, sub c, in BRICOLA F., ZAGREBELSKY G. (cur.), Il
codice penale. Parte generale. Giurisprudenza sistematica di diritto penale, 2^ ed.,
Torino 1996, I, p. 101 s., in specie p. 103.
71
Peraltro, il comma 3 dell’art. 2 c.p. - a differenza di quanto specificano i primi due
commi - non contiene alcuna espressa menzione del carattere “penale” delle leggi di cui
regola gli effetti nell’ipotesi di successione. Per cui potebbe anche essere diversamente
interpretato ed estendersi a disciplinare la successione di leggi penali con leggi
extrapenali, in specie che prevedano sanzioni amministrative.
23
©Picotti/ConvenzioneTIF
amministrazione”, benché si tratti di reato commissibile tipicamente da “privati”
che percepiscono indebitamente sovvenzioni pubbliche ed abbia un contenuto di
offesa di natura sicuramente anche patrimoniale, non dissimile da quello per cui
la truffa aggravata in pubbliche sovvenzioni è rimasta (seppur discutibilmente)
attratta nell’ambito dei delitti contro il patrimonio.
Preferibile sarebbe stato che la nuova fattispecie assorbisse o quantomeno fosse
collocata accanto a quest’ultima, da differenziare debitamente, previo
spostamento dal campo della mera tutela patrimoniale a quello dei delitti contro
l’economia ed il suo “governo”72, affinché fosse evidente non solo la specificità
del bene giuridico protetto, ma anche la vicinanza strutturale fra le due
incriminazioni: che probabilmente avrebbe anche sottolineato l’opportunità di
fonderle in una sola o di regolarne i rapporti in modo più adeguato agli specifici
fenomeni da contrastare.
Non è un’osservazione critica che abbia mero valore teorico o culturale, visto
che - seppur non vincolando l’interprete - la collocazione sistematica di una
norma (al pari della sua rubrica) ne orienta le scelte applicative e gli consente di
motivarle, avendo così anche un rilievo pratico, come del resto evidenziato dalla
giurisprudenza che si esaminerà a proposito delle vicende ermeneutiche che
hanno, poco dopo, riguardato l’art. 640-bis c.p. (cfr. infra, par. 6).
In ogni caso, anche nell’ambito del titolo II del libro II del codice penale la
nuova fattispecie avrebbe dovuto essere collocata fra i delitti commessi dai
privati contro la pubblica amministrazione, di cui al capo II, non fra quelli
commessi dai pubblici ufficiali, di cui al capo I.
L’impropria collocazione trova occasione – ma non certo giustificazione –
nell’attrazione che può aver esercitato l’art. 316 bis c.p., introdotto, come si è
detto, dalla legge n. 86/1990, per punire la “malversazione” da parte dei privati
di fondi conseguiti ma poi non destinati agli scopi per cui erano stati concessi73.
Per certi aspetti l’erronea collocazione finisce per favorire la tesi – peraltro
giuridicamente infondata: cfr. supra par. 3.3 – dell’asserito “assorbimento”,
anziché dell’eventuale concorso materiale delle due fattispecie, nel caso che
all’indebita percezione dei fondi erogati faccia seguito anche la loro mancata
destinazione ai fini previsti, data l’apparente identità di bene giuridico tutelato e
vicinanza anche topografica della collocazione.
Diverse sono invece le situazioni regolate dalle due norme, che come già
evidenziato (par. 3.3), possono materialmente concorrere. E si aggiunga che nel
caso dell’art. 316-ter c.p. nessuna ragione intrinseca, quale l’assonanza con la
“malversazione” del pubblico ufficiale già punita dall’originario art. 315 c.p. (ora
abrogato)74, milita a favore di una collocazione così forviante.
72
Auspicio già più volte espresso in dottrina: cfr. per un quadro VALENTI A.,
Sovvenzioni pubbliche (frodi nelle), in Dig. disc. pen., XIII, Torino 1997, p. 528 s.; e già
molto chiaramente BRICOLA F., Sovvenzioni, cit., p. 3134.
73
In tal senso cfr. ROMANO M., Abusi di finanziamenti, cit., p. 270.
74
A seguito della riforma di cui alla legge n. 86/1990, che ha parzialmente assorbito la
fattispecie nei due delitti, da essa riformulati, del peculato “per appropriazione” (art. 314
c.p.) e dell’abuso d’ufficio “patrimoniale” (art. 323 c.p.).
24
©Picotti/ConvenzioneTIF
Per cui si può concludere, che il legislatore del 2000 ha avvallato, senza alcuna
plausibile ragione, le sviste del legislatore degli anni ’90 ed ha accentuato il
disordine normativo interno al codice, contribuendo a rendere più insicura e
contraddittoria – se ce ne fosse stato bisogno – l’interpretazione ed applicazione
giurisprudenziale delle fattispecie in esame.
5.3. Le modalità di realizzazione dell’indebita percezione di sovvenzioni (art.
316-ter c.p.) ed i rapporti con la truffa – Il profilo di maggior criticità del nuovo
art. 316-ter c.p. è però quello di non aver sciolto, ed anzi di aver ulteriormente
aggrovigliato, rispetto alla situazione determinata dal già infelice inserimento (e
mantenimento) dell’art. 2 legge n. 898/1986 nell’ordinamento penale italiano75, il
nodo fondamentale di una razionale differenziazione di struttura e di trattamento
sanzionatorio delle “frodi” in sovvenzioni rispetto alla truffa.
La formulazione della nuova fattispecie, in realtà, si discosta da quella del delitto
di “acquisizione indebita di sovvenzioni FEOGA”, che altrimenti sembrerebbe
rappresentarne il modello76, oltre che da quella di “frode comunitaria” contenuta
nella Convenzione TIF, alla quale dovrebbe invece dare piena attuazione, per
dettagli che solo a prima lettura possono sembrare irrilevanti, mentre ad una più
approfondita analisi inducono a dubbiose supposizioni sull’operato del
legislatore italiano, proprio per la loro apparente inspiegabilità.
L’art. 316-ter c.p. incrimina “chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di
dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, ovvero mediante
l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri,
contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo,
comunque denominate, concesse o erogate dallo Stato, da altri enti pubblici o
dalle Comunità europee” (grassetti aggiunti).
Rispetto all’esaminata fattispecie di “acquisizione indebita di erogazioni
FEOGA” (art. 2 legge n. 898/1986), che si limita succintamente a richiedere,
quale modalità di condotta, solo “l’esposizione indebita di dati o notizie falsi”, la
nuova incriminazione codicistica prevede dunque elementi ben più articolati,
conformi (ma solo in parte) alla definizione di “frode comunitaria” di cui all’art.
1, par. 1, lettera a) della Convenzione TIF.
Autorevole dottrina ha rilevato l’attuale inutilità di tale norma, suggerendone la
formale abrogazione, poiché in caso di mera “omissione di informazioni dovute” si
dovrebbe necessariamente applicare la nuova disposizione codicistica, apparendo
altrimenti irragionevole, per disparità di trattamento, considerare irrilevante tale
condotta nel (solo) caso di abusiva captazione di fondi FEOGA (ROMANO M., Abusi
di finanziamenti, cit., p. 273). Né si potrebbe sostenere una sua tacita abrogazione, vista
la già menzionata ridefinizione della sanzione amministrativa e dei suoi limiti, ad opera
dell’art. 10 della stessa legge n. 300/2000 (in tal senso SEMINARA S., in CRESPI A.,
STELLA F., ZUCCALÀ G. (cur.), Commentario breve, cit., sub art. 316-ter, VIII-3, p.
904).
76
Di questa opinione sono i primi commentatori (PELISSERO M., Commento, cit., sub
art. 4, p. 993) e per vero anche la giurisprudenza della stessa Corte costituzionale (cfr.
infra, par. 5.4).
75
25
©Picotti/ConvenzioneTIF
Questa richiama l’“utilizzo o […] presentazione di dichiarazioni o documenti
falsi, inesatti o incompleti” (primo trattino) e la “mancata comunicazione di
un’informazione in violazione di un obbligo specifico” (secondo trattino), cui - in
entrambi i casi - “consegua il percepimento o la ritenzione illecita di fondi”
comunitari ed assimilati.
Cominciando l’analisi da quest’ultima locuzione, che definisce l’evento
consumativo, risulta chiaramente (ed inspiegabilmente) non sanzionata l’ipotesi
omissiva della “ritenzione” illecita dell’erogazione (mancata restituzione di
quanto dovuto), essendo menzionato, dall’art. 316-ter c.p., solo il suo positivo
“conseguimento”, come prevede l’art. 2 legge n. 898/1986, emanato prima della
Convenzione TIF: tanto che, come è già stato rilevato, non risulta punibile
neppure l’omessa informazione di circostanze che rendano indebita la
sovvenzione, successivamente alla regolare percezione77.
Ancor più importante è, nella descrizione delle modalità tipiche della condotta
costitutiva del nuovo reato, il venir meno degli elementi differenziali di struttura
su cui la giurisprudenza di merito, di legittimità e costituzionale hanno
faticosamente fondato la natura “sussidiaria” del meno grave delitto a danno dei
fondi FEOGA rispetto alla truffa aggravata (ex artt. 640 e 640-bis c.p.).
L’art. 316-ter c.p. dilata, infatti, la descrizione delle modalità tipiche di
conseguimento dell’erogazione indebita, rispetto a quelle contenute nell’art. 2
legge n. 898/1986, invocate dai sostenitori della tesi della sussidiarietà per
evidenziarne la marginalità e diversità nei confronti di quelle proprie della truffa.
Ora la nuova fattispecie finisce per “coprire” tutto lo spazio degli “artifici e
raggiri” previsti dal delitto comune, visto che richiama testualmente sia le
modalità più intensamente ingannevoli dell’“utilizzo di documenti falsi o
attestanti cose non vere”, sia le semplici “dichiarazioni” false, che si collocano
in una posizione per così dire intermedia, giungendo ad includere anche la mera
“omissione di informazioni dovute”, che certamente rappresenta il limite
inferiore, di meno intensa fraudolenza, delle condotte produttive di inganno.
Pertanto, l’utilizzo o presentazione di “documenti falsi” coincide proprio con il
quid pluris fraudolento, rispetto alle mere “dichiarazioni menzognere”,
espressamente indicato dalla sopra esaminata giurisprudenza della Corte di
Cassazione fra le modalità “maggiormente ingannevoli” caratterizzanti la figura
codicistica della truffa, su cui si è fondata la tesi del suo residuo spazio
applicativo rispetto al delitto di cui all’art. 2 legge n. 898/1986, proprio per
questa differenza considerato “sussidiario”.
Mentre le mere “dichiarazioni” false, già previste da quest’ultima norma, come
pure la semplice “omissione di informazioni dovute” (il c.d. silenzio malizioso),
rispetto a cui si prospettava qualche dubbio circa la riconducibilità al paradigma
degli “artifici e raggiri” costitutivi della truffa78, trovano ora espressa
ROMANO M., I delitti, cit., p. 87, che sottolinea la “lacuna” rispetto a quanto
richiedeva la Convenzione TIF; in senso conforme SEMINARA S., in CRESPI A.,
STELLA F., ZUCCALÀ G. (cur.), Commentario breve, cit., sub art. 316-ter, II-8, p.
903.
78
Così è stato motivato l’inserimento dell’art. 316-ter c.p. in sede di lavori parlamentari,
con l’emendamento aggiuntivo al testo del disegno di legge governativo, proposto dai
77
26
©Picotti/ConvenzioneTIF
equiparazione normativa all’“utilizzo o presentazione di […] documenti falsi o
attestanti cose non vere”, costituendo perciò modalità alternative e perfettamente
equivalenti per il conseguimento delle erogazioni indebite.
Viene dunque meno, anche sotto questo profilo, ogni incertezza sull’asserita
differenziazione delle modalità di realizzazione del fatto, rispetto a quelle proprie
della truffa, e sul presunto diverso disvalore penale delle varie ipotesi ricadenti
in un tale “ventaglio”, che è stato unitariamente considerato e valutato dal
legislatore del 2000 ai fini sia della tipicità, che della pena.
Alla stregua del testo del nuovo art. 316-ter c.p. perdono conseguentemente ogni
fondamento logico e giuridico le argomentazioni dirette a “salvare”, con la tesi
della pretesa sussidiarietà, già riferita all’art. 2 legge n. 898/1986, la
“ragionevolezza” del trattamento sanzionatorio radicalmente più mite, che la
nuova norma prevede in misura pari alla metà – sia per quanto concerne il
minimo, che per quanto concerne il massimo edittale di pena detentiva – rispetto
a quello della truffa aggravataper il conseguimento di erogazioni pubbliche.
Né possono trarsi elementi di differenziazione strutturale rispetto a quest’ultima
dall’equivoca clausola introduttiva della nuova norma, che si limita a “far salva”
l’ipotesi che il fatto costituisca il reato di cui all’art. 640-bis c.p., senza però
alludere ad un rapporto di consunzione od assorbimento, dato che non è neppure
menzionata la “maggior gravità” di quest’ultimo, invece presente nell’analoga,
ma non identica clausola di cui all’art. 2 legge n. 898/1986 (sul punto cfr. anche
il seguente par. 5.4).
Infine, deve scartarsi la possibilità di cercare in una lettura soggettivizzata degli
elementi della fattispecie di truffa ed, in specie, della locuzione “artifici e
raggiri”, quell’ulteriore intensità o fraudolenza delle malizie dirette ad indurre in
errore il soggetto passivo, che potrebbe differenziarla dal contenuto psicologico
richiesto dalla più asettica fattispecie di “percezione indebita di erogazioni
pubbliche” ora in esame.
Lo spostamento dell’accento dal momento oggettivo di tipicità del fatto a quello
solo soggettivo del dolo, comunque richiesto in entrambe le ipotesi, per salvare
un nominale, ma del tutto indefinibile spazio operativo della truffa, non trova
alcun fondamento normativo e si porrebbe, anzi, in contraddizione con la
tradizione ermeneutica in materia, oltre che con la concezione oggettiva del
“fatto tipico” che, in conformità con le caratteristiche di struttura del reato nel
relatori innanzi alle Commissioni riunite del Senato: cfr. sul punto SEMERARO P.,
Osservazioni, cit., p. 2564. Pur aderendo con molte peplessità alla scelta del legislatore,
ROMANO M., Abusi di finanziamenti, cit., p. 271-272 sottolinea che “la linea di
demarcazione” rispetto alla truffa – tracciata con riferimento alla “mera dichiarazione o
documentazione non veritiera, o alla mera omissione informativa, alle quali sia seguita
(e “causalmente” si debba) l’erogazione” – “è certamente esile”, in ogni caso
concludendo, con un richiamo a discutibili profili processuali e probatori, che “la nuova
figura delittuosa si accontenta di qualcosa di meno, dispensando l’accusa dall’onere di
altri accertamenti, colpendo insomma là dove l’altro più grave delitto non fosse presente
o dimostrabile, compensando in questo modo, anche mediante una semplificazione
probatoria, una tutela sensibilmente meno intensa con una a più ampio raggio”.
27
©Picotti/ConvenzioneTIF
nostro sistema, trova esclusivamente in quello l’oggetto del dolo (ex artt. 43,
comma 1, e 47, comma 1, c.p.).
L’effetto concreto della nuova incriminazione nella prassi giudiziaria consiste, in
definitiva, nella sua esclusiva (od ampiamente prevalente) applicazione, come
conferma la giurisprudenza di merito che (per quel che è dato conoscere dalle
pronuncie pubblicate) ha sistematicamente derubricato le contestazioni
originariamente formulate ai sensi dell’art. 640-bis c.p. nell’ipotesi di cui al
nuovo art. 316-ter c.p.79
Ed è perciò forviante la prospettiva della dottrina, che ne paventa la sostanziale
inutilità, abbagliata dalla sua ipotetica ed astratta “residualità”80. Viceversa, la
sua corposa incidenza pratica è piuttosto nel senso di sottrarre, grazie alla sua
“specialità” sostanziale e formale, ogni effettivo spazio operativo alla severa e
preesistente fattispecie di truffa aggravata.
5.4. Critica della recente ordinanza della Corte costituzionale n. 85/2004 – In
tale quadro normativo non può ovviamente condividersi la posizione
sbrigativamente espressa dalla Corte costituzionale italiana, in una recentissima
ordinanza interpretativa di rigetto - per “manifesta infondatezza” - di
un’articolata questione di legittimità costituzionale81, sollevata dalla Corte
d’appello di Milano, che aveva dedotto, oltre alla violazione del principio di
79
Così Trib. Torre Annunziata, 15 ottobre 2002, in Giur. merito, 2003, II, p. 525 s.
(ipotesi di presentazione di una fattura falsa); GIP Trib. Napoli, 15 luglio 2002, De
Vivo, in Giur. merito, 2003, II, p.733 s. (ipotesi di utilizzo e presentazione di documenti
falsi “senza alcun ulteriore artifico o raggiro”, con conseguente derubricazione e
dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione: ivi, p. 734); GUP Trib. S. Maria
Capua Vetere, 5 dicembre 2000, T.A., in www.penale.it/giuris/meri_089 (che pur
sostenendo, nella motivazione, la tesi della sussidiarietà, derubrica ravvisando un mero
illecito amministrativo); Trib. Bolzano 21 novembre 2000-21 gennaio 2001, Tammerle,
in www.penale.it/giuris/meri_090, che ha ravvisato solo un illecito amministrativo; GUP
Trib. Sanremo 20 novembre 2001, n. 532 (le ultime citate da BONFIGLIOLI A.,
L’indebita captazione, cit., p. 919 e note 5 e 21, nel commento a Cass., sez. VI, 24
settembre-23 novembre 2001, n. 41928, Tammerle - che leggesi anche in Cass. pen.
2002, n. 1145, p. 3469 s., con motivazione e nota di richiami – la quale ha cassato la
pronuncia del Tribunale di Bolzano, richiamandosi alla tesi della sussidiarietà).
80
Cfr. ROMANO M., Abusi di finanziamenti, cit., in specie p. 271, che conclude
l’articolata analisi delle modalità della condotta descritte dall’art. 316-ter c.p.
sostenendo – in sintonia con la posizione dei compliatori della norma – che sarebbe
rinvenibile un “pur esiguo spazio” da assegnargli “in esclusiva”, per occupare il quale il
legislatore sarebbe addivenuto alla sua introduzione. In termini sostanzialmente
conformi BONFIGLIOLI A., L’indebita captazione, cit., p. 923-924, secondo cui
sarebbe addirittura corrispondente ai dettami dell’art. 2, par. 2 Convenzione TIF un
“equo indebolimento della risposta sanzionatoria” nei confronti degli abusi nei
finanziamenti pubblici, data la previsione di sanzioni di minor peso e finanche
amministrative per i casi di frode più lieve.
81
Corte Cost., ord. 8-12 marzo 2004, n. 85, in Dir e giust., 2004, n. 16, p. 21 s., che
dichiara “manifestamente infondata” - con pronuncia interpretativa di rigetto - la
questione sollevata dalla Corte d’appello di Milano per violazione degli artt. 3 e 10 Cost.
28
©Picotti/ConvenzioneTIF
ragionevolezza (desumibile dall’art. 3 Cost.), anche quello di solidarietà agli
obblighi internazionali (riconducibile all’art. 10 Cost.) 82.
La Corte costituzionale italiana si aggrappa infatti alla natura asseritamente
“sussidiaria”, attribuita alla nuova disposizione, richiamando pedissequamente la
propria precedente giurisprudenza sull’art. 2 legge n. 878/1986 (sopra esaminata
e criticata: par. 3.2), per salvare il più mite trattamento penale previsto dal nuovo
reato rispetto a quello della truffa aggravata.
Ma così la Corte manifesta ancor più chiaramente la debolezza delle cadenze
argomentative proprie delle precedenti pronunce, poiché nemmeno considera le
significative e plurime differenze di struttura e di formulazione tecnica appena
evidenziate, fra la fattispecie di cui all’art. 316-ter c.p. e quella di cui all’art. 2
legge n. 898/1986.
Rilievo assorbente viene invero dato alle “intenzioni” del legislatore (ricavate dai
lavori preparatori e sovrapposte alla ratio legis), che dimostrerebbero
un’“inequivoca vocazione sussidiaria” e complementare della nuova norma,
prevista quale mezzo di tutela aggiuntiva rispetto alla truffa, destinata a
“coprire” gli “eventuali margini di scostamento - per difetto - del [suo]
paradigma punitivo”83. Ma tale assunto non trova riscontro nell’effettivo
contenuto normativo della nuova fattispecie, ignorato dalla Corte e non
sottoposto ad analisi comparativa, bensì sbrigativamente assimilato al “modello”
dell’art. 2 legge n. 898/1986, sulla cui “falsariga” sarebbe stato coniato84.
Viceversa, nella nuova incriminazione non è neppure implicito un qualsivoglia
“elemento negativo” di esclusione della fattispecie di truffa (di cui invero la
Corte non fa più menzione), poco convincentemente prospettato nella precedente
sentenza sull’art. 2 legge n. 898/1986, dato che gli elementi positivi che l’art.
316-ter c.p. contempla si sovrappangono direttamente agli “artifici e raggiri”
della truffa, non limitandosi affatto alla mera “esposizione di dati o notizie”, ma
includendo espressamente perfino l’“utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o
documenti falsi”.
L’assunto della sussidiarietà si può perciò agganciare alla sola “clausola di
salvezza” – come la chiama la Corte – posta in esordio dell’art. 316-ter c.p., di
cui però non considera la diversità di contenuto, ben più equivoco di quello della
clausola aggiunta dalla legge n. 142/1992 all’art. 2 legge n. 898/1986.
In luogo della locuzione “ove il fatto non configuri il più grave reato previsto
dall’art. 640-bis …” la nuova disposizione usa, come si è detto, quella: “salvo
che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640-bis…”, con soppressione,
quindi, dell’aggettivo “più grave”, che sembrava alludere ad un rapporto di
consunzione od assorbimento, ora invece ben difficilmente sostenibile, specie
82
Corte Appello Milano, ord. 25 novembre 2002, in Gazz. Uff., n. 13, serie speciale, n.
13/2003. L’ordinanza non ha però collocato la questione anche nella prospettiva più
strettamente comunitaria, deducendo altresì la violazione degli artt. 11 ed, ora, 117
Cost., più immediatamente espressivi del rilievo costituzionale dei “vincoli” derivanti
dall’appartenenza alla Comunità europea.
83
Corte Cost., ord. 8-12 marzo 2004, n. 85, cit., p. 24. In senso conforme anche
SEMERARO P., Osservazioni, cit., p. 2563 s.
84
Così Corte Cost., ord. 8-12 marzo 2004, n. 85, cit., p. 24.
29
©Picotti/ConvenzioneTIF
dopo la svolta giurisprudenziale delle sezioni unite della Cassazione del 2002,
sulla natura di mera circostanza aggravante (anziché di ipotesi autonoma di
reato) assegnata alla norma di cui all’art. 640-bis c.p. (sul punto si veda il
successivo par. 6.1), che la Corte costituzionale peraltro sembra ignorare.
Eppure, a seguito di questo nuovo orientamento della Cassazione, i limiti edittali
della pena base da prendere come riferimento per la commisurazione giudiziale
(ed applicabili concretamente in ogni ipotesi di “bilanciamento” della ritenuta
circostanza aggravante con qualsivoglia attenuante) diventano quelli del comune
delitto di truffa (art. 640 c.p.), pressoché identici – salvo che per la pena
pecuniaria, congiunta alla medesima misura della pena detentiva della reclusione
da 6 mesi a 3 anni – rispetto a quelli stabiliti dall’art. 316-ter c.p.
Non si vede, pertanto, come in assenza di elementi normativi di tipicità che
dimostrino l’effettiva esistenza di un rapporto di sussidiarietà ricavabile dalla
comparazione strutturale delle fattispecie normative fra loro, siffatta clausola “di
salvezza” possa giustificare una deroga al principio di specialità, indicato
dall’art. 15 c.p. quale (primo) criterio di risoluzione dei casi di concorso
apparente di norme, di cui in definitiva si limita soltanto a sancire l’esistenza,
escludendo la possibilità di un concorso materiale fra art. 316-ter ed art. 640-bis
c.p.
Proprio l’ordinanza della Corte costituzionale qui in esame, del resto, non può
non riconoscere che entrambe le disposizioni incriminatrici convergono nella
disciplina del medesimo fatto: tanto che la Corte demanda al giudice di merito il
“compito interpretativo [di] accertare, in concreto, se una determinata condotta
formalmente rispondente alla fattispecie delineata dall’articolo 316-ter c.p.
integri anche la figura descritta dall’articolo 640-bis c.p., facendo applicazione,
in tal caso, solo di quest’ultima previsione punitiva”85.
Ma un tale “rinvio” al caso concreto non rappresenta una soluzione accettabile,
rientrando nella competenza e responsabilità del giudice delle leggi, da valutare
nella loro effettiva formulazione normativa in sede di controllo di
costituzionalità, ricostruire i rapporti astratti fra fattispecie legali, che il
legislatore non abbia, in ipotesi, ragionevolmente definito, e pronunciarsi su di
essi nell’ambito del sindacato voluto dalla Costituzione. Affidare al giudice di
merito un compito che va, invece, oltre la sua funzione di applicazione delle
norme al caso concreto, significa rinunciare all’esercizio pieno dei compiti
costituzionalmente prefissati.
Tanto più che un’ordinanza di manifesta infondatezza, pur formulata quale
pronuncia interpretativa (di rigetto), resta priva di qualsiasi efficacia vincolante
sulla prassi giudiziaria.
Insomma: la tesi della sussidiarietà sembra una mera “foglia di fico” che
nasconde le “vergogne” dell’irragionevole ed illegittimo (sotto il profilo
comunitario e costituzionale) indebolimento della risposta penale nei confronti
delle frodi in sovvenzioni pubbliche in generale e comunitarie in specie, rispetto
a quello vigente prima della legge di “attuazione” della Convenzione TIF e,
comunque, di quello stabilito in genere per il delitto di truffa.
85
Ibidem (corsivi aggiunti).
30
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Se è vero, come obietta la Corte costituzionale al giudice remittente, che “la
Convenzione sulla protezione degli interessi finanziari delle Comunità europee
non imponeva agli Stati membri […] un inasprimento delle sanzioni penali
anteriormente previste, ma solo la comminatoria di sanzioni rispondenti ai
requisiti stabiliti dall’art. 2 della Convenzione stessa”86, è altrettanto innegabile
che l’indebolimento della risposta sanzionatoria, sia rispetto alla disciplina
precedentemente vigente che, soprattutto, rispetto a quella tuttora prevista dal
codice per fatti analoghi ed a tutela di interessi anche meramente privati e
patrimoniali, viola gli obblighi comunitari incombenti sullo Stato italiano, ex artt.
10 e 280 TCE oltre che il principio di proporzionalità e ragionevolezza di cui
all’art. 3 Cost., a prescindere da quelle che potevano essere le insindacabili
intenzioni soggettive dei redattori della norma.
Un’ultima osservazione va sviluppata al riguardo, tenendo conto del punto di
vista criminologico ed empirico relativo alla prassi usuale dei comportamenti
diretti a conseguire indebite erogazioni pubbliche87.
La formulazione dell’art. 316-ter c.p. riprende, seppur non compiutamente,
quella contenuta nella Convenzione europea, che di tale realtà empirica ha tenuto
ampiamente conto, ben più di quanto abbia fatto il legislatore italiano, fermo anche nella formulazione dell’art. 640-bis c.p., introdotto dalla novella del 1990 alla tipizzazione della truffa comune contenuta nel codice del 1930 (art. 640
c.p.), quando lo scopo non era certo di reprimere siffatti fenomeni, all’epoca
molto rari o per nulla diffusi.
E’ quindi logico ed inevitabile che la norma del 2000 sia ben più specifica di
quelle prima vigenti e tolga loro ogni effettivo spazio applicativo nel settore in
esame.
Il “tipo di rapporto” fra privato richiedente la sovvenzione ed ente erogatore si
distingue in effetti strutturalmente da quello che integra la truffa comune,
modellato sul ben diverso “tipo di rapporto” intersoggettivo fra individui privati.
E ben differenti sono infatti le modalità con cui il soggetto agente ottiene,
nell’una e nell’altra ipotesi, l’induzione in errore e, suo tramite, l’artificiosa
“cooperazione” della vittima, la cui volontà si forma e manifesta in specifiche
determinazioni dispositive, molto diverse a seconda delle peculiari “procedure”
da seguire e dell’oggetto cui si riferiscono.
Si badi: non è la diversificazione normativa fra le due ben distinte figure di
frode, sul piano della tipicità penale, che sia da respingere, dovendo anzi di per
sé essere salutata con favore. Il problema è quello del trattamento punitivo di
aperto “favore”, del tutto incongruo, irragionevole e discriminatorio stabilito dal
legislatore del 2000 per la frode od “abuso” in sovvenzioni pubbliche – in
misura, come già detto, precisamente pari alla metà, sia nel minimo che nel
massimo edittali, della pena detentiva già prevista dall’art. 640-bis c.p. – solo
malamente “mascherato” (ma non certo “legittimato”) dalla pretesa sussidiarietà
86
Ibidem (corsivo aggiunto).
Per un’ampia analisi in materia si veda la ricerca empirica diretta e sintetizzata da
SIEBER U., Subventionsbetrug und Steuerhinterziehung zum Nachteil der Europäischen
Gemeinschaft, in Schweizerische Zeitschrift für Strafrecht, 1996, p. 358 s.
87
31
©Picotti/ConvenzioneTIF
dela norma, gracilmente sorretta dalla confusione nella collocazione sistematica,
dall’imprecisione tecnica delle formulazioni, dalla pigrizia od incertezza della
giurisprudenza, purtroppo anche costituzionale.
5.5. Altre insufficienze e lacune nella disciplina penale delle falsità strumentali
alla frode – Nella tipizzazione degli elementi del delitto di cui all’art. 316-ter
c.p. emergono altre lacune, rispetto alle previsioni della Convenzione TIF, che è
doveroso segnalare.
Già si è detto dell’insufficiente descrizione dell’evento consumativo (cfr. supra,
par. 5.3), che non prevede anche l’ipotesi della “ritenzione” illecita
dell’erogazione (mancata restituzione di quanto dovuto), oltre al suo indebito
“conseguimento”, lasciando così senza sanzione le ipotesi omissive, in cui sia
violato un obbligo di restituzione: come nel caso, già segnalato da autorevole
dottrina88, dell’omessa informazione di circostanze, che rendano indebita la
sovvenzione, successivamente alla sua regolare percezione.
Ma altre gravi insufficienze e lacune, nell’attuazione delle specifiche previsioni
contenute nella Convenzione TIF, riguardano le c.d. falsità strumentali alla
frode.
5.5.1. Sull’inadeguatezza della locuzione “attestanti cose non vere” Innanzitutto, riduttiva ed anomala appare la qualificazione delle dichiarazioni o
dei documenti, con cui può essere realizzato il reato di cui all’art. 316-ter c.p.,
come “attestanti cose non vere”.
La formula rappresenta un forte scostamento non solo dalla ben più ampia
locuzione: “dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o incompleti” prevista dalla
citata definizione contenuta nell’art. 1 della Convenzione TIF, ma anche dalla
abituale tecnica di formulazione dei delitti di falso ideologico, che compaiono
nel codice vigente ed in singole leggi speciali.
Questi si aggiungono ai falsi c.d. materiali, riferibili in primis alla non genuinità
o contraffazione del documento (mancanza di autenticità ed integrità), cui allude
solitamente la generica qualificazione dei documenti come “falsi” nella corrente
accezione codicistica, per colpire anche la contraddizione o deviazione del loro
contenuto rappresentativo rispetto alla realtà o verità oggettive (mancanza di
veridicità).
Il paradigma di riferimento delle falsità ideologiche non può però certo essere
costituito dalle “cose”, intese nel loro stretto significato tecnico-normativo di
“oggetti” o beni, cui si riferiscano rapporti giuridici (art. 810 c.c.; artt. 624 s.
c.p.), sostanziandosi la falsità in un giudizio di relazione cognitiva che può essere
operato solo con riguardo a “fatti”, “circostanze”, “dati”, “informazioni”, ecc.,
rispetto a cui abbia senso ipotizzare un contenuto di conforme o difforme
“attestazione” dichiarativa o documentale.
Anche a voler, quindi, intendere la locuzione “cose” nell’improprio significato
atecnico ed indeterminato, frequentemente in uso nella lingua orale familiare,
quale sinonimo di “avvenimenti”, “circostanze”, “fatti”, “eventi”, “situazioni”,
88
Cfr. sopra, nota 77; nonché ROMANO M., Abusi di finanziamenti, cit., p. 274.
32
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“atti”, ecc.89, la variante lessicale resta priva di ogni comprensibile ragione
logico-giuridica, conducendo ad incertezze e conseguenze di non poco conto.
Di certo essa rischia di restringere irragionevolmente l’ambito delle falsità
penalmente rilevanti.
Oltre all’intrinseca difficoltà di concepire e delimitare un’area di “cose” non
corrispondenti alla verità oggettiva (“non vere”), la locuzione porta ad escludere
o, comunque, a rendere estremamente problematica la possibilità di dare rilievo
penale alle “falsità in valutazioni” che, come noto, la giurisprudenza anche
italiana tende a ricondurre alle falsità ideologiche, perlomeno quando vi sia uno
scostamento da criteri condivisi o normativamente riconosciuti ed, in ogni caso,
per l’assunzione di presupposti di fatto, su cui le valutazioni si basano, non
corrispondenti al vero90.
Si tratta, si badi, di situazioni sicuramente ricorrenti con molta frequenza
nell’ambito della documentazione di situazioni economiche, patrimoniali od
aziendali, su cui si basano, per l’appunto, le procedure di richiesta e di
concessione di erogazioni pubbliche.
Appare, perciò, del tutto arbitrario ed irragionevole privarle (o rischiare di
privarle) di rilievo penale, in palese violazione della citata definizione contenuta
nella Convenzione TIF, che invece estende oltre le falsità ideologiche e
materiali, strettamente intese, la rilevanza penale delle condotte e delle modalità
strumentali al conseguimento od alla ritenzione indebiti di fondi comunitari, dato
che menziona – accanto alle semplici “dichiarazioni e documenti falsi” – anche
quelli “inesatti o incompleti”91.
89
Cfr. Il vocabolario Treccani. Sinonimi e contrari, Roma 2003, p. 233 s., secondo cui è
la parola cosa “è tra le più generiche del lessico italiano, destinata per lo più a sostituire
termini non disponibili al momento della conversazione o poco accessibili al livello
culturale del parlante”.
90
La giurisprudenza riconosce la rilevanza penale, come falso ideologico, del c.d. “falso
valutativo”, sia pur con attenti distinguo: per tutte si veda l’ampia trattazione operata da
Cass., sez. V, 9 febbraio-18 marzo 1999, Andronico, in Cass. pen., 2000, n. 210, p. 377
s., in specie p. 380, secondo cui “può dirsi falso ... l’enunciato valutativo che
contraddica criteri di valutazione indiscussi o indiscutibili”, nonché quello “posto a
conclusione di un ragionamento fondato su premesse contenenti false attestazioni”.
A livello normativo la questione è recentemente riaffiorata, in modo sibillino, nel testo
del riformulato reato di false comunicazioni sociali, che dà esplicito rilievo
all’esposizione di “fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di
valutazioni”(artt. 2621 e 2622 c.c. come sostituiti dall’art. 1 decreto legislativo 11 aprile
2002 n. 361). E ricorre spesso nel campo del diritto penale tributario: cfr. per un quadro
della disciplina introdotta dal decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, in particolare dei
suoi artt. 3 (Dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici) e 7 (Rilevazioni nelle
scritture contabili e nel bilancio) i commenti rispettivamente di VENEZIANI P. e di
BERSANI G., in CARACCIOLI I., GIARDA A., LANZI A. (cur.), Diritto e procedura
penale tributaria, Padova 2001, p. 131 s. (in specie p. 179 s.) e p. 245 s.
91
Può essere significativo segnalare che un’espressa incriminazione dei dati o
documenti “inesatti” era già prevista dal menzionato reato di cui all’art. 9 decreto legge
n. 1051/1967, ora abrogato.
33
©Picotti/ConvenzioneTIF
Ed è chiaro che i concetti di “inesattezza” e di “incompletezza” si prestano
proprio ad abbracciare (anche) le stime e le valutazioni non corrette, oltre che
quelle “false”. Per cui è davvero troppo arbitrariamente restrittiva la riduzione di
tutti questi articolati concetti alla sola attestazione di “cose non vere”.
5.5.2. La mancata incriminazione autonoma delle c.d. falsità strumentali – Una
lacuna ancor più palese della legge italiana, rispetto all’obbligo di trasposizione
di tutte le previsioni incriminatrici contenute nella Convenzione TIF, è la totale
assenza di norme che stabiliscano la punibilità in modo autonomo (“altresì”), di
chi rediga o rilasci intenzionalmente “dichiarazioni o documenti falsi, inesatti o
incompleti”, strumentali alla frode (art. 1, par. 3 Convenzione TIF), oltre i casi di
reponsabilità per il titolo principale ovvero per complicità, istigazione o tentativo
di frode.
Questi fatti, singolarmente considerati, sono destinati a restare impuniti nel
nostro ordinamento, perché non sono suscettibili di ricadere, di regola, nelle
comuni fattispecie di falsità in atti o documenti di natura privata, nel cui ambito
sono punibili le sole falsità materiali (cfr. art. 485 c.p. sul falso in scrittura
privata), salve eccezionali previsioni di singole fattispecie o leggi speciali,
relative a determinate categorie di documenti (quali le “comunicazioni
societarie” o singole scritture aventi, in specie, rilevanza fiscale).
Spesso, nei procedimenti per frodi nelle erogazioni pubbliche, viene contestato il
concorrente delitto di cui all’art. 483 c.p. (falsità ideologica commessa dal
privato in atto pubblico). Ma si tratta di fattispecie molto blandamente punita
(reclusione fino a due anni), che viene commessa per lo più dal medesimo
soggetto che realizza anche la frode, con dichiarazioni od “autocertificazioni”
redatte da lui stesso o dai suoi concorrenti.
Lo scopo della disposizione convenzionale è invece quello di colpire già di per
sé i soggetti esterni o terzi, rispetto alla commissione della frode, che rilascino
atti o dichiarazioni al richiedente od anche ad altri soggetti, che poi li possano
trasmettere agli interessati o far comunque circolare.
Inoltre, come si è già sopra accennato, nel nostro ordinamento non sono di per sé
suscettibili d’integrare fattispecie di falsità ideologica punibile le semplici
“inesattezze” od “incompletezze”, che la Convenzione TIF vuole invece ricadano
sempre nella sfera di rilevanza penale, quali possibili strumenti di frode.
Per cui, mentre l’atto dell’Unione europea intendeva che si provvedesse
all’autonoma punibilità dei documenti contenenti “falsità, inesattezze ed
incompletezze” utilizzabili strumentalmente per le frodi, la normativa nazionale
di attuazione non solo non ha provveduto a detta incriminazione delle condotte
propedeutiche e strumentali al conseguimento indebito di erogazioni pubbliche,
ma ha anzi assunto circoscritto le falsità penalmemnte rilevanti, attraverso
l’infelice formula dell’“attestazione di cose non vere”, che compare nella
definizione del reato principale.
6. La riduzione dello spazio applicativo della truffa aggravata in pubbliche
sovvenzioni (art. 640-bis c.p.) a mera circostanza aggravante – Si è già
34
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sottolineato che la clausola con cui si apre il nuovo art. 316-ter c.p. si limita a far
“salva” l’ipotesi che “il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640-bis” c.p.,
per escluderne la possibilità di concorso materiale, ma senza alcuna esplicita
allusione al principio di assorbimento o consunzione, che preupporrebbe anche la
valutazione di maggior gravità della fattispecie di riferimento.
La locuzione, si è detto, è diversa da quella introdotta, all’inizio degli anni ’90,
nell’art. 2 legge n. 898/1986 per tentare di rafforzare il contrasto alla criminalità
mafiosa ed organizzata, limitando l’operatività dell’incriminazione più mite (cfr.
supra, par. 3.1).
Il legislatore del 2000, con il nuovo art. 316-ter c.p., non sembra certo aver
perseguito tale scopo, né comunque ottenuto tale effetto, avendo piuttosto
“anticipato” curiosamente la svolta giurisprudenziale operata nel 2002 dalla
sentenza a sezioni unite della Corte di Cassazione, con cui è stato determinato un
ulteriore indebolimento della repressione e prevenzione del fenomeno delle truffe
“per il conseguimento di erogazioni pubbliche, specialmente comunitarie”92.
6.1. La sentenza del 2002 delle sezioni unite della Corte di Cassazione – Con la
pronuncia in esame è stata inaspettatamente prescelta l’interpretazione, prima del
tutto minoritaria in giurisprudenza93, secondo cui la norma che prevede la “truffa
aggravata in erogazioni pubbliche” (art. 640-bis c.p.) delineerebbe una semplice
“circostanza aggravante” del comune delitto di truffa (ex all’art. 640 c.p.),
anziché un’autonoma fattispecie incriminatrice.
92
La stessa sentenza della Cass., sez. un., 26 giugno-10 luglio 2002, n. 19, Fedi, in Foro
it., 2002, II, p. 626 s., in specie par. 11, p. 634 contrappone consapevolmente la
“preoccupazione”, considerata “apprezzabile” dal punto di vista delle ragioni “di
politica criminale”, di un siffatto indebolimento, all’asserita “volontà oggettiva della
legge” che non potrebbe essere “manipolata” in sede esegetica. La pronuncia è edita
anche in Cass.pen., 2002, m. 1106, p. 3368 s., con motivazione e commento critico di
ARIOLLI G., La truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche è una circostanza
aggravante del reato di cui all’art. 640 c.p., ivi, p. 3378 s.; mentre la massima è
riprodotta ivi, 2003, m. 651, p. 2322, con nota critica di FABBRO A., Truffa per il
conseguimento di erogazioni pubbliche: davvero una circostanza aggravante? Critico
sulle argomentazioni della Corte, non però sulle sue conclusioni, è anche TERRACINA
D., La truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ed il ruolo del
bene giuridico nella fattispecie di reato, in Ind. pen. 2003, n. 2, p. 667 s.
93
Le stesse sezioni unite richiamano un solo vero precedente, che aveva seguito tale tesi
(Cass., sez. II, 8 marzo 2000, Volpe, in Giust. pen., 2001, II, p. 411 s.), mentre dell’altro
richiamato (Cass., sez. I, 4 dicembre 1997, Lazzaro) sottolineano che è privo di
“motivazione specifica sul punto” (Cass., sez. un., 26 giugno 2002, Fedi, cit., par. 6, p.
628). Al contrario tutte le altre pronuncie richiamate dalla stessa pronuncia in esame
sono di segno opposto: fra le molte - i cui estremi di pubblicazione sono riportati nella
nota redazionale in calce alla sentenza - si veda in particolare Cass., sez. II, 15 ottobre- 9
novembre 1998, De Vita, in Dir. pen. proc., 1999, n. 3, p. 341 s., pubblicata con l’ampia
motivazione ed il commento (critico) di PELISSERO M., Truffa per conseguire
erogazioni pubbliche: circostanza aggravante o fattispecie autonoma, cui si rinvia per
gli accurati richiami di dottrina.
35
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Il radicale mutamento di posizione ha determinato l’immediata conseguenza
pratica, che la più grave pena (da 1 a 6 anni di reclusione), prevista dall’art. 640bis c.p. con l’intento d’inasprire la risposta penale ai predetti fenomeni criminali
(cfr. supra, par. 3.2), è ora “bilanciabile”, ai sensi dell’art. 69 c.p., con qualsiasi
opposta circostanza attenuante, che sia ravvisata dal giudice nel caso concreto,
ivi comprese le semplici “attenuanti generiche” di cui all’art. 62-bis c.p., che
nella prassi giurisprudenziale italiana non vengono sostanzialmente negate a
nessuno94.
Per cui la pena edittale si riduce a quella della truffa comune, vale a dire alla
metà per quanto riguarda la pena detentiva (da 6 mesi a 3 anni di reclusione,
oltre alla multa), che sarà concretamente applicata ogni qualvolta si considerino
“equivalenti” le diverse circostanze che concorrono, a prescindere dalla loro
astratta gravità e numero. Se poi, in concreto, saranno considerate “prevalenti” le
circostanze attenuanti, la pena scenderà anche al di sotto di tale limite edittale,
consentendo la sostituzione con la pena soltanto pecuniaria, ex art. 53 legge n.
698/1981 e successive modifiche95. Nel solo caso di ritenuta “prevalenza” della
suindicata aggravante (eventualmente insieme ad altre) si dovrà rispettare il
maggior livello sanzionatorio stabilito dal legislatore del 1990.
Come noto, il giudizio di prevalenza od equivalenza è assolutamente
discrezionale e non sindacabile in Cassazione, sfuggendo di fatto anche all’onere
di motivazione, che pur si ritiene in astratto imposto al giudice dagli artt. 132 e
133 c.p. relativi all’esercizio del potere discrezionale in sede di commisurazione
della pena96.
Per cui appare evidente come, aggiungendosi all’intervento del legislatore del
2000 quello della Cassazione a sezioni unite del 2002, la prassi giudiziaria abbia
ricevuto una “convergente” indicazione ad attenuare fortemente l’intervento
della sanzione penale contro le frodi in pubbliche sovvenzioni, rispetto a quelli
che erano gli intenti - perlomeno dichiarati - del legislatore e della
giurisprudenza dei primi anni ’90.
94
La stessa Cass., sez. un., 26 giugno 2002, Fedi, cit., par. 11, p. 634, riconosce
esplicitamente che “la prevenzione e repressione” del fenomeno criminale in esame
“sarebbe inevitabilmente pregiudicata dalla frequente propensione dei giudici di
considerare prevalenti o equivalenti pur con gracili attenuanti a fronte di circostanze
aggravanti anche di maggior peso”.
95
Come già sopra ricordato, l’art. 4 legge n. 134/2003 ha alzato il limite di
“sostituibilità” della pena detentiva con quella pecuniaria della specie corrispondente,
previsto dall’art. 53 legge n. 689/1986, portandolo da 3 a 6 mesi, mentre quello per la
libertà controllata è passato da 6 mesi ad 1 anno.
96
La “pigra formuletta” abitualmente usata in giurisprudenza è quella sintetica e
apodittica che “si stima equo …” od altra analoga: cfr. in argomento la nitida analisi di
BRICOLA F., La discrezionalità nel diritto penale, Milano 1965, ora in Scritti di diritto
penale, V, Milano 2002, p. . Sullo specifico istituto cfr. STILE A.M., Il giudizio di
prevalenza o di equivalenza tra le circostanze, Napoli 1974, nonché – sugli effetti della
riforma del 1974 – ID., Discrezionalità e politica penale giudiziaria, in Studi urbinati,
1997-98, p. 286 s.; per un quadro più recente ROMANO M., Commentario sistematico
del codice penale, I (artt. 1-84 c.p.), 2^ ed., Milano 1995, sub Art. 69, p. 678;
MELCHIONDA Al., Le circostanza del reato, Padova 2001, in specie p. 689 s.
36
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Lo standard di riferimento è ora quello più mite stabilito dal “nuovo” art. 316-ter
c.p., che si è pressoché allineato a quello della truffa non aggravata, di cui all’art.
640 c.p.: con ogni conseguente effetto anche sui termini di prescrizione dei reati
e la concessione dei benifici di legge.
In questa prospettiva indulgenziale si è “sdrammatizzata” l’alternativa fra
applicazione dell’una o dell’altra fattispecie (o del pur sempre vigente art. 2
legge n. 898/1986, nel caso di fondi FEOGA), dato il generale assestamento
verso il basso dell’intervento penale.
Ma al pari dei già criticati interventi legislativi e della Corte costituzionale,
neppure l’ultimo orientamento giurisprudenziale delle sezioni unite della
Cassazione è condivisibile, non solo dal punto di vista delle scelte di politica
criminale e giudiziaria, ma anche da quello delle argomentazioni ermeneutiche,
logiche e sistematiche, sviluppate per motivarlo.
6.2. La violazione della primazia del diritto comunitario e dell’obbligo di rinvio
pregiudiziale alla Corte di Giustizia delle Comunità europee in sede
interpretativa - Innanzitutto, appare palesemente violato, nella sentenza della
Corte di Cassazione, il principio di primazia ed efficacia diretta del diritto
comunitario, che deve vincolare i giudici nazionali, non meno di tutti gli organi
degli Stati membri, compresi quelli legislativi ed amministrativi, già
nell’interpretazione ed applicazione del diritto interno, anche di natura penale97.
Il giudice nazionale – compresa la Corte di Cassazione – deve infatti seguire, fra
le diverse interpretazioni astrattamente possibili della fattispecie penale, quella
più compatibile con le previsioni sovranazionali.
Viceversa, le sezioni unite hanno esplicitamente sostenuto quella contraria,
affermando che “il principio comunitario non può diventare criterio di
interpretazione della legge nazionale, al punto da capovolgerne il chiaro [!?]
dettato normativo in base ad una supposta ed opinabile violazione del principio
stesso”, e dando perciò prevalenza alla “voluntas legis nell’ordinamento
nazionale, quale si desume da una corretta esegesi”, rispetto alla “valutazione
degli obblighi comunitari”98, evidentemente considerata estranei al momento
esegetico.
Ma sul punto la sentenza è palesemente illogica, perché emerge da tutta la
motivazione e dallo stesso rinvio della questione alle sezioni unite, per dirimere
il contrasto giurisprudenziale insorto, che il dettato normativo non era affatto da
considerare “chiaro”, tantomeno nel senso ritenuto dalla Corte. Anzi, delle due
possibili opzioni ermeneutiche fino ad allora emerse, era prevalente quella
97
Sul punto, ormai acquisito nella giurisprudenza comunitaria e nella dottrina più
attenta, ma non ancora recepito in modo soddisfacente nella prassi giudiziaria nazionale
(come dimostra la pronuncia delle sezioni unite della Corte di Cassazione qui in esame),
sia sufficiente rinviare per un quadro di sintesi a BERNARDI A., L’europeizzazione del
diritto e della scienza penale, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico
moderno, 2002, n. 31/II, p. 461 s., in specie p. 473 s., con ampi richiami bibliografici e
giurisprudenziali.
98
Cass., sez. un., 26 giugno 2002, Fedi, cit., par. 11, p. 634.
37
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conforme alle esigenze di più efficace tutela degli interessi comunitari, viceversa
abbandonata.
In secondo luogo non appare corretto lo sbrigativo rilievo finale, secondo cui
ogni questione al riguardo sarebbe preclusa “manca[ndo] qualsiasi presupposto
per il ricorso alla Corte di giustizia ai sensi dell’art. 234 del trattato di Roma (già
art. 177), non trattandosi d’interpretazione di norme comunitarie”99.
Va obiettato, che la Convenzione TIF non rappresenta un qualsiasi strumento di
diritto internazionale o, più precisamente, dell’Unione europea, cui l’Italia deve
comunque conformarsi, ai sensi degli artt. 10, 11 e 117 Cost.
Essa rappresenta, piuttosto, anche una specifica concretizzazione degli obblighi
di fonte immediatamente comunitaria, incombenti sugli Stati membri ai sensi
dell’art. 209 A (ora 280) TCE, vale a dire nell’ambito del primo pilastro, perché
relativi alla tutela degli interessi finanziari della stessa Comunità.
Viene quindi in rilievo proprio l’interpretazione di quest’ultima norma del
Trattato di Roma, eventualmente in relazione al suo art. 10, al fine di stabilire la
portata e la vincolatività della Convenzione TIF, rispetto alle previsioni
dell’ordinamento interno, nonché la sua compatibilità con la creazione di una
disciplina nazionale di maggior favore per gli autori di frodi, anche comunitarie,
addirittura con dimezzamento del trattamento sanzionatorio rispetto a quello
prima applicato.
Per la Corte di Cassazione, tenuta obbligatoriamente al rinvio pregiudiziale, in
quanto “giudice di ultima istanza”, sarebbe stato doveroso, sulla base delle
premesse da essa stessa indicate, sollevare la questione interpretativa innanzi alla
Corte di Giustizia delle Comunità europee, in conformità con l’art. 234 TCE.
E questo a prescindere dal fatto che il Protocollo sull’interpretazione, in via
pregiudiziale, delle norme della Convenzione TIF da parte della stessa Corte di
Giustizia, fatto a Bruxelles il 29 novembre 1996, già formalmente sottoscritto e
ratificato dall’Italia, non sia ancora pienamente operativo, non essendo stata data
attuazione alla delega legislativa contenuta nell’art. 12 legge n. 300/2000 per
disciplinare le “modalità con cui gli organi giurisdizionali nazionali possono
richiedere che la Corte di Giustizia delle Comunità europee si pronunci in via
pregiudiziale”.
Ritardo che certo costituisce un ulteriore inadempimento del nostro paese,
produttivo di effetti pregiudizievoli per il rispetto degli obblighi nascenti dal
Trattato (come dimostra la pronuncia in esame), ma che non può impedire che le
norme comunitarie vigenti vincolino comunque direttamente i giudici nazionali
al loro rispetto nell’ordinaria attività esegetica.
6.3. Sulla diversità strutturale della frode in sovvenzioni rispetto alla truffa
comune - In ogni caso, le argomentazioni delle sezioni unite della Corte di
Cassazione non convincono neppure alla stregua dei criteri ermeneutici di diritto
interno, adottati per qualificare una fattispecie penale come ipotesi autonoma di
99
Ibidem.
38
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reato ovvero come circostanza di un’altra principale cui acceda, da essa esposti e
passati in rassegna 100.
La Corte segue invero una minuziosa distinzione in tre grandi categorie: quelli di
natura testuale o topografica, quelli di natura strutturale e quelli di natura
teleologica. Ma per semplicità, qui basterà contrapporre quelli di carattere
formale a quelli di carattere sostanziale o, meglio, attinenti alla “struttura” del
reato e, conseguentemente, al bene giuridico protetto.
Quanto ai primi, deve concordarsi che non sono decisivi - pur se molto
significativi - gli indici formali dell’autonomia della previsione normativa,
collocata nell’apposito art. 640-bis, con una propria rubrica, o nomen juris, ma
dal contenuto peraltro ambiguo (“truffa aggravata per il conseguimento di
erogazioni pubbliche”); della procedibilità sempre d’ufficio; nonché del
trattamento sanzionatorio stabilito in modo autonomo (vale a dire con un proprio
minimo e massimo edittali, anziché in termini di semplice variazione frazionaria
rispetto a quello della truffa comune), esistendo, nell’ordinamento positivo,
previsioni normative che presentano tali caratteristiche e sono talora interpretate
in un senso, talora nell’altro101.
Invece, con riferimento ai criteri di natura sostanziale, attinenti alla struttura del
fatto tipico ed al bene giuridico protetto, nonché - secondariamnte - al peso delle
intenzioni del legislatore per enucleare la voluntas legis, le motivazioni e
conclusioni della Corte non sono per nulla persuasive dal punto di vista logicogiuridico.
La pur criticabile (e sopra criticata: par. 3.3) modalità di tipizzazione del fatto di
reato di cui all’art. 640-bis c.p., che rinvia al nucleo essenziale di quello previsto
dall’art. 640 c.p., senza un’autonoma integrale descrizione, non significa affatto
“la volontà di configurare soltanto una circostanza aggravante del delitto di
truffa”102, con la conclusione, sostanzialmente tautologica, che il bene giuridico
sarebbe il medesimo, come se si trattasse soltanto di un grado maggiore della
stessa offesa103.
100
Nella motivazione della sentenza ampia parte è dedicata alla pregevole, anche se
astratta e generale disamina dei “criteri adottati da dottrina e giurisprudenza per
accertare la volontà legislativa in ordine alla qualificazione circostanziale o costitutiva
di una fattispecie, quando – come accade purtroppo nella maggioranza dei casi – essa
non sia espressamente manifestata” (Cass., sez. un., 26 giugno 2002, Fedi, cit., par. 7 e
8, p. 629 s.).
101
Cfr. Cass., sez. un., 26 giugno 2002, Fedi, cit., par. 7.1.1 e 7.2.2, p. 629-631; nonché
par. 9, p. 632, per la specifica applicazione all’art. 640-bis c.p. La pronuncia riconduce
anche il criterio relativo alle modalità di previsione del trattamento sanzionatorio a
quelli di natura “strutturale”, senza però dare adeguato rilievo allo stretto legame fra la
natura del bene giuridico protetto e la tipologia sanzionatoria, circoscritta dal legislatore
del 1990 alla sola pena detentiva, al pari di quanto operato con la riforma dei delitti
contro la pubblica amministrazione, laddove per quelli contro il patrimonio il codice
prevede sempre una pena (anche) pecuniaria.
102
Così, invece, Cass., sez. un., 26 giugno 2002, Fedi, cit., par. 9, p. 633.
103
Così Cass., sez. un., 26 giugno 2002, Fedi, cit., par. 10, p. 633-634.
39
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Attraverso un lungo ed artificioso ragionamento, diretto a sminuire l’importanza
dell’“elemento specifico” introdotto dall’art. 640-bis c.p. accanto agli altri
essenziali della truffa comune - in forza del quale il fatto deve “riguarda[re]
contributi, finanziamenti, mutui agevolati ovvero altre erogazioni dello stesso
tipo comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato o altri enti
pubblici o delle Comunità europee” - la Corte di Cassazione riconosce “come la
specialità che caratterizza la fattispecie (…) sia in realtà duplice, giacché
riguarda sia l’oggetto materiale della condotta dell’agente e della disposizione
patrimoniale del soggetto passivo (sovvenzioni ed erogazioni) sia la natura
pubblica del soggetto passivo medesimo (Stato, Comunità europee, altri enti
pubblici)”104.
Ma non trae poi le doverose conseguenze da tale duplice connotazione di
specialità, che investe sia il lato attivo che il lato passivo della fattispecie,
complessivamente risultante dalla combinazione fra l’art. 640-bis e l’art. 640 c.p.
(ovviamente richiamato dal primo solo per la parte comune).
L’inserzione dei due o fors’anche tre elementi di specialità - se si distingue anche
il peculiare “profitto” del soggetto beneficiato dal “danno” di quello passivo porta senz’altro ad escludere che si possa ancora parlare di un medesimo od
identico “fatto tipico”, visto che essi riflettono normativamente le differenze
strutturali fra frodi in sovvenzioni pubbliche e truffa comune, già evidenziate da
tempo nella dottrina penalistica e confermate empiricamente dall’analisi
criminologica, come sopra si è ampiamente rilevato (in specie cfr. par. 5.4).
E le differenze strutturali del “fatto tipico” incidono anche sul bene giuridico
protetto, che non è affatto il medesimo nei due reati.
Anche sul punto le sezioni unite della Cassazione ricorrono però ad una tortuosa
e contraddittoria motivazione per dimostrare l’opposto, richiamando i più recenti
orientamenti dottrinali, che intendono “la nozione di patrimonio in senso
dinamico o funzionale, come corretta allocazione delle risorse pubbliche, sicché
il danno patrimoniale subito dall’ente pubblico si atteggia come sviamento dal
vincolo di destinazione delle risorse”105.
Tuttavia la sentenza perviene in tal modo ad elaborare e proporre un distinto e
specifico concetto “pubblicistico” di bene giuridico della frode in sovvenzioni,
rispetto a quello patrimoniale privato, che per l’appunto consente di superare la
constatazione di partenza, secondo cui, nelle ipotesi in esame, è “difficile
ravvisare quella effettiva deminutio patrimonii tradizionalmente ritenuta
essenziale per integrare la truffa”106.
Né in senso contrario è probante il rilievo secondo cuiil bene giuridico
patrimoniale non muta nell’ipotesi aggravata di truffa, di cui al comma 2, n. 1,
104
Cass., sez. un., 26 giugno 2002, Fedi, cit., par. 10, p. 633 (corsivi aggiunti).
Cass., sez. un., 26 giugno 2002, Fedi, cit., par. 10, p. 634. Si tratta ovviamente di una
prospettiva dottrinale che afferma la natura circostanziale, e non autonoma, della
fattispecie di frode in sovvenzioni pubbliche: cfr. per tutti PELISSERO M., Truffa, cit.,
in specie p. 347 s.
106
Cass., sez. un., 26 giugno 2002, Fedi, cit., par. 10, p. 633, in conformità con analoghi
rilievi della dottrina, per la quale si rinvia ancora a PELISSERO M., Truffa, cit., p. 348.
105
40
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dell’art. 640 c.p., che concerne “il fatto … commesso a danno dello Stato o di un
altro ente pubblico”, rispetto a quello della comune truffa non circostanziata.
Da un lato, infatti, in questa ipotesi è solo la qualità del soggetto passivo che
viene specificata, senza alcun riflesso diretto sulla tipizzazione del “fatto” (si
pensi al caso ricorrente, in Italia, di truffe a danno di enti pubblici erogatori di
pubbliche forniture, come l’energia elettrica): per cui mancando proprio quella
“duplice specialità” prima rilevata, non viene investito l’oggetto materiale della
condotta, né le modalità causative della deminutio patrimonii107.
Dall’altro, la scelta d’introdurre l’autonoma e più severa previsione di cui all’art.
640-bis c.p., nonostante la preesistente disciplina della truffa comune aggravata a
danno di ente pubblico, è stata motivata dal legislatore del 1990 proprio con
l’esigenza di contrastare più efficacemente il grave e peculiare fenomeno delle
frodi nelle sovvenzioni correlato alla criminalità mafiosa ed organizzata, che si
infiltra e controlla l’ambito dei finanziamenti pubblici in genere e di quelli
comunitari in specie. Per cui è stata data specifica evidenza anche alle frodi a
danno “delle Comunità europee”, ovviando alle carenze di tutela all’epoca
emerse (cfr. supra, par. 3.2).
Non si vede quindi perché, in contraddizione con la sopravvalutazione addirittura
delle “intenzioni” dei redattori degli artt. 2 legge n. 898/1986 e 316-ter c.p.,
emergenti dai lavori parlamentari, che la giurisprudenza costituzionale e di
legittimità, sopra criticate, hanno ampiamente invocato per salvare - con
discutibili soluzioni eremeneutiche in chiave di sussidiarietà - quelle fattispecie
“di favore”, nel caso invece dell’art. 640-bis c.p., che pur presenta ben maggiori
dati positivi di supporto, la voluntas legis venga ricostruita addirittura in aperto
contrasto con le intenzioni dei suoi redattori.
Un ultimo passo della motivazione della sentenza delle sezioni unite merita
quindi la più netta censura: quello in cui i giudici di legittimità, dopo aver così
discutibilmente operato ed argomentato le loro scelte ermeneutiche, hanno poi
addossato interamente al legislatore la responsabilità di aver dato solo parziale
attuazione agli obblighi che derivano all’Italia dall’appartenenza all’Unione
europea, nascenti in particolare dall’art. 280 TCE. Il legislatore sarebbe
intervenuto sul solo versante del principio di assimilazione (art. 280, par. 2
TCE), non anche su quello della “dissuasione efficace” (art. 280, par. 1 TCE), in
cui la normativa italiana lascerebbe “molto a desiderare” proprio per “la
possibilità di controbilanciare l’aggravamento sanzionatorio”108 mediante quel
gioco delle attenuanti che essi stessi giudici, però, hanno reso possibile.
In tal modo è stata la stessa Cassazione, che ha contribuito alla violazione degli
obblighi comunitari di cui si è dichiarata consapevole, perché non ha ritenuto che
essi dovessero portare anche alla doverosa disapplicazione delle norme interne,
comprese quelle penali (benché “di favore”, quali sono gli artt. 2 legge n.
898/1986 e 316-ter c.p. rispetto all’art. 640-bis c.p.), se risultanti con essi in
contrasto, ovvero ad un’interpretazione in termini di compatibilità, se possibile.
107
Per chiare indicazioni in tal senso si vedano già ROMANO M., Diritto penale in
materia economica, cit., p. 210 s. BRICOLA F., Sovvenzioni all’industria, cit., p. 3134.
108
Cass., sez. un., 26 giugno 2002, Fedi, cit., par. 11, p. 634.
41
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7. La mancata previsione di una specifica disciplina della responsabilità penale
dei dirigenti delle imprese – Sotto un ultimo profilo, più strettamente legislativo,
appare carente l’attuazione della Convenzione TIF da parte dell’Italia e, dunque,
violato lo stesso precetto dell’art. 280 TCE, che trova in essa un esplicito
parametro di concretizzazione .
La legge n. 300/2000 nulla ha disposto per dare esecuzione alla previsione di
specifica responsabilità penale dei dirigenti delle imprese.
Secondo l’art. 3 della Convenzione “ciascuno Stato membro prende le misure
necessarie perché i dirigenti delle imprese ovvero qualsiasi persona che eserciti
il potere di decisione o di controllo in seno ad un’impresa, possano essere
dichiarati penalmente responsabili, secondo i principi stabiliti dal diritto
interno, per gli atti fraudolenti commessi ai danni di interessi finanziari delle
Comunità, quali definiti all’art. 1, commessi da persona soggetta alla loro
autorità per conto dell’impresa” (grassetti aggiunti).
Si tratta, dunque, di una forma di responsabilità penale da stabilire in modo
autonomo ed ulteriore non solo rispetto a quella generale dell’autore delle
condotte di frode descritte dall’art. 1, ma anche rispetto a quelle a titolo di
“complicità” od “istigazione”, di cui è già separatamente prescritta
l’incriminazione – accanto a quella per il “tentativo” – dall’art. 2, par. 1, della
Convenzione TIF.
Se queste figure generali di estensione della responsabilità penale fossero state
ritenute sufficienti, accanto alla comune responsabilità per la consumazione
individuale delle fattispecie di frode, non avrebbe infatti avuto senso la distinta
previsione di cui all’art. 3 Convenzione TIF.
Tale norma afferma che si deve trattare di una responsabilità avente natura
“penale”, a differenza di quanto prevedono gli artt. 3 e 4 del secondo Protocollo
aggiuntivo del 19 giugno 1997, a proposito della reponsabilità delle persone
giuridiche e degli enti, in base ai quali gli Stati sono liberi di prevedere una
responsabilità di natura anche soltanto “amministrativa”109.
E ne indica i peculiari presupposti e limiti: vale a dire, quanto ai primi, la qualità
del soggetto responsabile, che deve essere un “dirigente” dell’impresa o
comunque un “esercente un potere di decisione o controllo” nel suo ambito,
nonché l’oggettiva commissione di atti fraudolenti, lesivi degli interessi
finanziari comunitari, da parte di “persona soggetta alla [sua] autorità per conto
dell’impresa”; e, quanto ai secondi, il rispetto dei “principi stabiliti dal diritto
interno” per l’imputazione di responsabilità penale.
“Rispetto” che non può certo significare pedissequa conformità a tutte le norme
già vigenti nei singoli ordinamenti, perché in tal caso la norma convenzionale
non potrebbe avere alcuno spazio innovativo né, quindi, alcun concreto effetto
operativo.
In tal senso è esplicito l’art. 4, secondo cui sono possibili sanzioni di natura anche
solo amministrativa (sul punto cfr. anche la “Relazione esplicativa” del secondo
Protocollo, approvata dal Consiglio il 12 marzo 1999, cit. sopra a nota 5).
109
42
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Si tratta piuttosto, di garantire che la speciale disciplina da introdurre, pur se
innovativa per l’ordinamento nazionale, non ne violi i “principi fondamentali” in
materia di responsabilità penale: quali ad esempio sono, per il nostro sistema,
quelli di riserva assoluta di legge e di “tassatività” delle previsioni incriminatrici
(art. 25, comma 2 Cost.), nonché di “personalità della responsabilità penale” e di
“colpevolezza” (art. 27, commi 1 e 3 Cost.).
Alla luce di tali considerazioni, non possono ritenersi sufficienti a soddisfare le
specifiche esigenze di tutela espresse dalla Convenzione TIF le norme della parte
generale del vigente codice penale italiano, che disciplinano la comune
responsabilità penale a titolo di concorso di persone nel reato (art. 110 e seguenti
c.p.) e per omesso impedimento dell’evento (art. 40, comma 2, c.p.). Si tratta,
infatti, di istituti fondati su presupposti ben diversi da quelli indicati dall’art. 3
Convenzione TIF, meno specifici e più limitativi della sfera di responsabilità
penale dei soggetti da essa presi in considerazione al fine di assicurare la miglior
protezione possibile degli interessi finanziari comunitari.
In particolare, il nostro ordinamento esige, per la responsabilità concorsuale, un
contributo causale oggettivo del partecipe alla realizzazione del fatto e, sotto il
profilo soggettivo, il suo dolo di partecipazione, che deve comprendere sia il
fatto commesso, sia la volontà di concorrervi110.
Mentre il principio di “equivalenza” fra azione ed omissione, stabilito dall’art.
40, comma 2 c.p. - secondo cui “non impedire un evento, che si ha l’obbligo
giuridico di impedire, equivale a cagionarlo” - vale soltanto ai fini
dell’imputazione causale del risultato alla condotta omissiva dell’agente111. Ma
per tutti gli altri requisiti di tipicità e colpevolezza, necessari all’affermazione
della responsabilità penale, valgono i comuni requisiti ricavabili di volta in volta
dalle singole fattispecie incriminatrici e quindi, nel caso di specie, tutti gli
elementi richiesti per la realizzazione della frode, di cui all’art. 1 Convenzione
TIF, compresi quelli relativi alle modalità della condotta ed all’“intenzionalità”
del fatto, che deve abbracciare anche l’evento.
Del resto, i delitti introdotti nell’ordinamento italiano al dichiarato fine di
combattere le frodi comunitarie e sopra esaminati – artt. 2 legge n. 898/1986,
316-bis, 316-ter e 640-bis c.p. – richiedono necessariamente il dolo per la loro
punibilità, in conformità con la regola generale, di cui all’art. 42, comma 1, c.p.,
secondo cui il comune titolo d’imputazione soggettiva per i delitti è il dolo, salvo
che uno diverso (quale ad esempio: la colpa) sia espressamente previsto e
disciplinato dalla legge.
110
Per la vastissima bibliografia e giurisprudenza in materia, basti rinviare alle
indicazioni di GRASSO G., in ROMANO M., GRASSO G., Commentario sistematico
del codice penale, II, 2^ ed., Milano 1996, sub Art. 110, V s., IX, p. 150 s., p. 168 s.; da
ultimo MUSCO E., in CRESPI A., STELLA F., ZUCCALÀ G. (cur.), Commentario
breve, cit., sub art. 110, III-V, p. 476-481, con ulteriori richiami.
111
Anche al riguardo sia in questa sede sufficiente il rinvio ai commentari più
autorevoli, anche per ogni necessario riferimento bibliografico: ROMANO M.,
Commentario sistematico, cit., sub Art. 40, VII, p. 352 s.; da ultimo STELLA F., in
CRESPI A., STELLA F., ZUCCALÀ G. (cur.), Commentario breve, cit., sub art. 40, XI
s., p. 161 s., ed in specie XIII, p. 165.
43
©Picotti/ConvenzioneTIF
Ma proprio una tale disciplina, che stabilisca una specifica forma di
responsabiltà penale per i dirigenti delle imprese in relazione ai fatti dei loro
subordinati, idonea a consentirne la punibilità sulla base dei presupposti indicati
dall’art. 3 Convenzione TIF, non è stata introdotta nell’ordinamento italiano.
La lacuna non può ritenersi colmata neppure dalla previsione, da parte dell’art.
11 legge n. 300/2000, di una nuova e diversa forma di responsabilità - definita
“amministrativa” - delle persone giuridiche e degli enti, relativa ai delitti di frode
comunitaria e di corruzione (non però, stranamente, di riciclaggio),
regolamentata con il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, emanato dal
Governo sulla base dell’apposita delega legislativa conferitagli dal Parlamento
mediante la predetta norma.
Curiosamente è così stata data (parziale) attuazione all’art. 3 del Secondo
protocollo aggiuntivo del 19 giugno 1997, fino ad oggi peraltro non formalmente
ratificato dall’Italia, che prevede sia stabilita una responsabilità (non
necessariamente penale: cfr. art. 4 Protocollo cit.) delle persone giuridiche per i
reati di frode, corruzione e riciclaggio, lesivi degli interessi finanziari comunitari.
Ma paradossalmente non ha attuato il precedente precetto della Convenzione
TIF, già ratificata, in materia di responsabilità penale dei dirigenti delle imprese.
Nonostante gli indubbi profili d’analogia delle due situazioni, quest’ultima non è
“assorbita” dall’altra, del resto attuativa di un distinto precetto di fonte europea.
Ben diversi sono, infatti, sia i destinatari (dato che i dirigenti non si identificano
con gli enti, nel cui “interesse o … vantaggio” i reati sono commessi, ex art. 5,
comma 1, decreto legislativo n. 231/2001), sia le conseguenze sanzionatorie (che
devono essere di natura penale in senso stretto, e non soltanto amministrative).
Tuttavia anche la disciplina della responsabilità delle persone giuridiche e degli
enti “per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato” (art. 1 decreto legislativo
n. 231/2001) concerne la commissione, fra gli altri, dei delitti di cui agli artt.
316-bis, 316-ter e 640-bis c.p., posti a tutela degli interessi finanziari comunitari
(con illogica esclusione, però, delle frodi ai fondi FEOGA di cui all’art. 2 legge
n. 898/1986: cfr. artt. 11, comma 1, lettera a legge n. 300/2000 e 24 decreto
legislativo n. 231/2001).
E presenta importanti tratti comuni alle esigenze di attribuzione delle
responsabilità “sanzionatorie” all’interno delle imprese, in quanto strutture
organizzate in forme complesse, di natura spesso societaria, per le quali il diritto
penale deve creare modelli diversi da quello “classico” della partecipazione
causale dolosa (artt. 110 s. c.p.), in specie ai delitti di evento, su cui si àncora la
formula dell’omesso impedimento (art. 40, comma 2, c.p.).
Sulla traccia indicata dalle fonti europee, il legislatore italiano ha, quindi,
disciplinato la responsabiltà dell’ente differenziando, al suo interno, le ipotesi di
commissione da parte dei soggetti “in posizione apicale” – vale a dire “che
rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente
o di una sua unità organizzativa … nonché … esercitano, anche di fatto, la
gestione o il controllo dello stesso” (art. 5, lettera a, decreto legislativo n.
231/2001, che trova poi puntualizzazione nel successivo art. 6) – da quelle di
commissione da parte di “persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di
uno dei soggetti” in posizione apicale, di cui si è appena detto (art. 5, lettera b,
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decreto cit.) e nel cui ambito sono senz’altro riconducibili anche i “dirigenti”
delle imprese, indicati nell’art. 3 Convenzione TIF.
Rispetto a queste ultime ipotesi, che possono interessare la citata previsone della
Convezione TIF, l’art. 7 decreto legislativo n. 231/2001 specifica i criteri
oggettivi e soggettivi d’imputazione della responsabilità all’ente, stabilendo che
la commissione deve essere stata “resa possibile dall’inosservanza degli
obblighi di direzione o vigilanza”, con esclusione peraltro che sussista tale
“inosservanza”, quando vi sia stata l’adozione ed attuazione efficace di modelli
organizzativi di gestione e di controllo idonei a prevenire reati della specie
verificatasi112.
La responsabilità dell’ente prescinde così dalla prova di un nesso o contributo
causale vero e proprio del soggetto in posizione apicale (e dunque del
“dirigente”) alla commissione del reato da parte del subordinato, bastando che
questa sia stata “resa possibile” dall’inosservanza degli “obblighi di direzione o
vigilanza”. Ed in capo al primo soggetto non è neppure richiesto il dolo del fatto,
né la volontà di parteciparvi, bastando, appunto, la predetta inosservanza.
Per questo si tratta di una responsabilità dichiarata esplicitamente autonoma
rispetto a quella della persona fisica autrice del reato, alla quale si aggiunge,
distinguendosene quanto a presupposti, sanzioni, vicende processuali, esiti (cfr.
art. 8 decreto legislativo n. 231/2001, che comprende anche l’ipotesi in cui non
sia neppure identificato l’autore del reato ovvero questo non sia imputabile,
nonché quella di estinzione del reato per causa diversa dall’amnistia).
Si può, dunque, affermare che un siffatto “nuovo” modello di responsabilità si
basa sullo specifico tipo di rapporto, interno all’impresa od ente, che lega la
posizione di responsabilità del dirigente (che esercitando poteri di decisione e
controllo provenienti dall’ente diviene tramite della relativa imputazione
dell’illecito) a quella subordinata dell’autore materiale del reato, strutturalmente
soggetto a detti poteri.
Su questo medesimo tipo di rapporto fra dirigenti e subordinati all’interno
dell’impresa si può fondare, in termini simili ma ovviamente non identici, anche
la responsabilità penale prevista dall’art. 3 della Convenzione TIF.
Senonché solo un’apposita disciplina penale, di fonte legislativa e tassativamente
formulata (art. 25, comma 2, Cost.), può precisare i requisiti oggettivi e
soggettivi di quella che deve pur sempre essere una responsabilità “personale” e
“colpevole” (art. 27 Cost.), per fatto “proprio”, dei dirigenti dell’impresa.
Se secondo il modello offerto dalla disciplina della responsabilità delle persone
giuridiche, tale disciplina potrebbe superare il requisito di un contributo causale
al fatto del subordinato da parte del dirigente, inteso in termini strettamente
condizionalistici, dando piuttosot rilievo all’oggettivo nesso rappresentato dallo
I commi successivi precisano che il modello deve prevedere “in relazione alla natura
e alla dimensione del’organizzazione, nonché al tipo di attività svolta, misure idonee a
garantire lo svolgimento dell’attività nel rispetto della legge e a scoprire ed eliminare
tempestivamente situazioni di rischio” (art. 7, comma 3), mediante “una verifica
periodica e le’eventuale modifica dello stesso modello” quando necessario (comma 4,
lettera a)., nonché “un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto dle
misure indicate nel modello” (lettera b).
112
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specifico rapporto funzionale fra i due soggetti, in grado di integrare, in termini
tassativi e circoscritti, la generica clausola di equivalenza di cui all’art. 40,
comma 2, c.p. al di là della poduzione naturalistica di un “evento”, anche la
necessità del dolo di partecipazione potrebbe essere superata, secondo canoni più
adeguati alle esigenze di tutela da perseguire, nel pur doveroso rispetto del
principio di colpevolezza.
In particolare, i requisiti soggettivi d’imputazione e rimprovero personali
potrebbero essere basati sulla violazione od inosservanza concreta delle
specifiche misure cautelari o preventive da adottare e far rispettare, ferma la
necessità di verificare la soggettiva esigibilità e possibilità, per il dirigente, di
agire diversamente.
In definitiva, si potrebbe trattare di una forma specifica di responsabilità penale
per inadeguato od omesso impedimento e controllo, riconducibile al campo della
colpa, che ovviamente esige – secondo i ricordati “principi fondamentali” del
diritto interno – un’espressa previsione e disciplina legali, ex art. 42 c.p.
Ma ad essa il legislatore italiano non ha provveduto.
8. Valutazioni critiche conclusive e prospettive di tutela penale degli interessi
comunitari – Tracciando un bilancio conclusivo dell’attuazione (ampiamente
lacunosa) della Convenzione TIF in Italia, il quadro appare insoddisfacente per
una pluralità di aspetti negativi, che sono stati via via evidenziati e possono
essere così sinteticamente riassunti.
I - Innanzitutto non si è posto rimedio, ed anzi si sono perpetuate ed aggravate le
irrazionalità sistematiche e di collocazione delle fattispecie penali, nonché
delle norme che prevedono illeciti amministrativi, per sanzionare comportamenti
e fatti “fraudolenti” lesivi degli interessi finanziari comunitari, stratificatesi negli
anni senza una complessiva razionalità strategica.
I-A - Fra le frodi “a monte”, consistenti nell’indebita percezione di erogazioni
comunitarie, l’art. 2 legge n. 898/1986, relativo ai soli fondi FEOGA, resta in
bilico fra una sostanziale specialità ed una solo “formale” sussidiarietà, che
dovrebbe salvaguardare l’operatività del più grave delitto di truffa aggravata di
cui all’art. 640-bis c.p. e della stessa comune truffa aggravata ex art. 640, comma
2, n. 1 c.p. (cfr. supra, par. 3.2). Ma non solo nella prassi giudiziaria
l’applicazione della norma “speciale” ha già determinato una forte attenuazione
della disciplina penale (cfr. supra, par. 3.1), riguardante (soltanto) i menzionati
fondi comunitari, con violazione del principio di assimilazione, oltre che di
effettività e proporzionalità del regime sanzionatorio: oggi, dopo l’introduzione
del discusso art. 316-ter c.p., il suo mantenimento nel sistema, voluto dalla legge
n. 300/2000, appare fonte soltanto di ulteriori disparità di trattamento.
I-B - L’art. 316-ter c.p., introdotto dalla legge n. 300/2000, ha generalizzato ed
aggravato la situazione di irrazionale favore per le frodi aventi ad oggetto
qualsiasi tipo di sovvenzione, comunitaria e statale, rispettando, sotto questo
profilo, il principio di assimilazione, ma violando palesemente di quello di
efficace dissuasione. La formulazione più analitica della condotta tipica va infatti
a sovrapporsi a quella della truffa, quale viene applicata nel diritto vivente,
sottraendo a quest’ultima un autonomo spazio operativo ed incentivando perciò
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prassi giurisprudenziali irragionevolmente più miti, non solo sotto il profilo
della misura della pena, che scende edittalmente alla metà di quella prevista
dall’art. 640-bis c.p., fino a limiti in cui è sostituibile dalla sola pena pecuniaria,
ma anche sotto il profilo di altri effetti indulgenziali, quali soprattutto il ben più
breve decorso dei termini di prescrizione (cfr. par. 5.3).
I-C - L’art. 316-bis c.p., che dovrebbe intervenire contro le frodi “a valle”,
consistenti nella mancata destinazione dei fondi ai fini per cui sono stati erogati,
ha un’assai ridotta area operativa, specie se si segue l’interpretazione, sostenuta
in dottrina e non esclusa dalla lettera della legge, secondo cui la fattispecie non
sarebbe applicabile nei casi più gravi e frequenti (nell’ambito della criminalità
organizzata e mafiosa), in cui le stesse erogazioni sono il frutto di frodi realizzate
“a monte”, dato che in queste resterebbe addirittura assorbito il delitto “a
valle”, senza alcuna pena ulteriore (cfr. par. 3.3).
II - La nuova interpretazione, data nel 2002 dalle Sezioni unite della Corte di
Cassazione all’art. 640-bis c.p. (che prevede il trattamento sanzionatorio
astrattamente più severo fra tutti quelli stabiliti dalle norme considerate), quale
semplice circostanza aggravante, in quanto tale “bilanciabile” con qualsivoglia
circostanza attenuante, anziché come ipotesi autonoma di reato, quale era prima
prevalentemente ritenuta con esclusione della possibilità di un siffatto
“bilanciamento”, ne indebolisce radicalmente e consapevolmente la capacità
repressiva a tutela degli interessi comunitari, incentivando, anche sotto questo
profilo, soluzioni indulgenziali, sia per il ben più rapido decorso dei termini di
prescrizione, che per l’applicabilità di pene radicalmente più miti, anche di oltre
la metà rispetto a quella originariamente stabilita, sostituibili – specie nel caso di
scelta di riti alternativi – con sanzioni soltanto pecuniarie, ben inferiori ai
proventi della frode (cfr. par. 6).
III - I regimi sanzionatori e l’area d’illiceità soltanto amministrativa sono
irragionevolmente incoerenti anche rispetto al trattamento previsto per gli altri
delitti comuni contro il patrimonio, che non conoscono zone di mera illiceità
amministrativa e prevedono pene in media più severe.
III-1 – Alla degradazione a mero illecito amministrativo delle frodi aventi ad
oggetto un importo fino a 4000 euro è seguita addirittura una totale impunità per
tutti i fatti commessi anteriormente alla nuova legge, essendo mancata
un’apposita disciplina transitoria che evitasse tale effetto (cfr. par. 5.1), peraltro
già verificatosi con l’entrata in vigore dell’art. 2 legge n. 898/1986 (cfr. par. 3.1).
III-2 – L’ambito della “frode lieve”, come tale oggetto di mere sanzioni
amministrative sia ai sensi dell’art. 2, comma 2, legge n. 898/1986, sia ai sensi
dell’art. 316-ter, comma 2, c.p., è stato definito esclusivamente con riguardo alla
soglia quantitativa massima dell’importo oggetto di frode (euro 3999,96), senza
considerare anche l’altro requisito concorrente, che si tratti di fatti che non
presentino aspetti di “particolare gravità” sotto il profilo delle modalità di
realizzazione o della colpevolezza: per cui avrebbero dovuto esserne esclusi
quantomeno quelli che la giurisprudenza riconduce alla fattispecie di truffa
aggravata, ex art. 640-bis c.p. (cfr. par. 5.1).
IV – La prassi applicativa ha ampiamente confermato che gli effetti concreti
della legge di attuazione della Convenzione TIF sono stati di introdurre un
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regime più favorevole al reo (cfr. supra, par. 5.3), in aperta contraddizione con
l’intento dichiarato dai compilatori delle norme, come è stato esplicitamente
rilevato dalla stessa giurisprudenza della Cassazione (cfr. supra, par. 5.1).
V – Gravi lacune sono poi riscontrabili in materia di formulazione tecnica
dell’art. 316-ter c.p.
V-1 – Innanzitutto non è stata incriminata, accanto all’ipotesi di “conseguimento
indebito”, anche quella di “ritenzione” della sovvenzione od erogazione non
dovuta (cfr. supra, par. 5.3).
V-2 – In secondo luogo è stata prevista una punibilità assai limitata delle
falsità ideologiche, attraverso l’improprio riferimento alla mera attestazione di
“cose non vere”, che sembra escludere la rilevanza penale delle falsità
ideologiche riferibili al contenuto valutativo dei documenti strumentali alla
frode, e comunque delle mere incompletezze ed inesattezze, che non sono state
oggetto di espressa incriminazione (cfr. par. 5.5.1).
VI – Manca un’autonoma ed esplicita incriminazione, quale reato ostacolo, della
redazione o preparazione di documenti falsi, che perciò non sono di per sé
punibili, se di natura privata o se consistenti in attestazioni soltanto “inesatte od
incomplete” (cfr. par. 5.5.2).
VII - Non vi è alcuna previsione che introduca e disciplini un’autonoma e
specifica responsabilità penale dei dirigenti delle imprese, al di là delle
comuni ipotesi di complicità, istigazione o comunque concorso doloso nei reati
commessi dai subordinati, non bastando allo scopo la diversa disciplina della
responsabilità amministrativa delle persone giuridiche e degli enti (cfr. par. 7).
VIII – Non è stata ancora data piena attuazione al Protocollo sull’intepretazione
in via pregiudiziale della Convenzione TIF da parte della Corte di Giustizia
delle Comunità Europee, perché non risulta esercitata dal Governo la delega
prevista dall’art. 12 legge n. 300/2000, a sua volta già di per sé impreciso nella
sua formulazione. Le conseguenze di tale carenza si sono manifestate anche nella
prassi, come si evince dallo stesso contenuto della sentenza delle sezioni unite
della Cassazione del 2002 relativa all’interpretazione dell’art. 640-bis c.p. (cfr.
par. 6.2 e 6.3).
IX - Al di là dei segnalati ritardi nei tempi di ratifica degli strumenti dell’Unione
europea, approvati nell’ambito del “terzo pilastro”, resta tuttora
incomprensibilmente privo di ratifica il Secondo protocollo del 19 giugno
1997 (cfr. par. 2, nota 5, e par. 7).
E sia consentita anche un’ultima notazione conclusiva.
Questi plurimi e gravi inadempimenti concernono direttamente la materia della
tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee.
Per cui non rilevano soltanto nell’ambito del diritto dell’Unione e dei relativi
strumenti, ma – in forza dell’art. 280 TCE e della giurisprudenza della Corte di
Giustizia, risalente quantomeno alla nota sentenza del 21 settembre 1989 sul
caso del c.d. mais greco113 – essi rappresentano nel contempo violazioni degli
obblighi direttamente incombenti sugli Stati membri, in forza del diritto
comunitario, ai sensi degli artt. 10 e 280 TCE.
113
Cfr. sopra, par. 2 ed in specie nota 16.
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Sarebbero, quindi, fondate, e sono anzi da attendersi, iniziative della
Commissione europea nell’ambito degli strumenti comunitari (di primo pilastro),
in specie mediante l’attivazione di una procedura di infrazione ex art. 226 TCE.
In ogni caso, l’intera vicenda della tutela penale degli interessi finanziari
comunitari nell’ordinamento italiano, che si è cercato di ripercorrere nei più
importanti passaggi legislativi e giurisprudenziali degli ultimi vent’anni,
dimostra in modo chiaro la necessità di rafforzamento degli stessi strumenti
normativi ed operativi dell’Unione europea, a partire dal superamento della
struttura in distinti “pilastri” delle sue competenze (cfr. supra, par. 2),
dimostratasi inadeguata alla fase d’integrazione, allargamento e sviluppo che ha
oggi raggiunto114.
La prospettiva tracciata dalla Convenzione europea con il Progetto di
Costituzione per l’Europa del luglio 2003, che fra breve potrebbe essere
definitivamente approvato dagli Stati membri, si muove opportunamente nella
direzione di una più ampia ed esplicita attribuzione di potestà legislative in
materia penale agli organi comunitari, a partire dal Parlamento europeo.
E questo non solo per perseguire il fondamentale obiettivo di creare un unico
“spazio di libertà, sicurezza e giustizia” (artt. 3, par. 2, e 41, nonché III-158 s.),
ma anche per garantire, fin da subito, un’efficace ed equivalente protezione degli
interessi finanziari comunitari in tutto il territorio dell’Unione, fornendo con
l’art. III-321 una base giuridica per l’introduzione diretta di fattispecie e norme
penali comuni115, che evitino il riprodursi o protrarsi di inaccettabili ritardi,
inadempimenti ed incertezze da parte degli Stati, quali quelli sopra rilevati.
114
In argomento sia consentito rinviare a PICOTTI L., Presupposti e prospettive, cit., p.
95 s. ed, in specie, p. 99 s.
115
Cfr. da ultimo PICOTTI L., Il Corpus Juris 2000. Profili di diritto penale sostanziale
e prospettive d’attuazione alla luce del Progetto di Costituzione per l’Europa, in ID.
(cur.), Il Corpus Juris 2000. Nuova formulazione e prospettive d’attuazione, Padova
2004, p. 3 s., in specie p. 84 s.
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