1 UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA TOR VERGATA FACOLTA’ DI GIURISPRUDENZA SCUOLA DI SPECIALIZZAZIONE PER LE PROFESSIOLI LEGALI Anno Accademico 2013/2014 II Anno Docente Materia Prof. Giovanni Diurni Fondamenti di Diritto Europeo Lezione del Ora Venerdì 11 aprile 2014 17,00/19,00 Il diritto di famiglia in Italia dalla Rivoluzione ai codici 1.- Il regime giuridico della famiglia tra autonomia e codificazione. La storia del diritto di famiglia che vi illustrerò in questa breve lezione è la storia di una parabola che parte dalla completa deregolazione della materia passando per istanze di libertà e laicizzazione per giungere a comporre un quadro disciplinatorio articolato e ricco di profili anche ulteriori rispetto a quelli regolati nella struttura codicistica. La storiografia segue la stessa parabola. Le prime analisi sul regime giuridico della famiglia risalgono agli anni 60 dello scorso secolo e sono di Manlio Bellomo, uno storico del diritto1, che annotava allora la diffidenza della storiografia giuridica per il tema della famiglia, ma soprattutto l’indifferenza o disattenzione determinate dall’assunto che il diritto non abbia il compito di dare una 1 Cfr. la sintesi di M. BELLOMO, Famiglia e rapporti parentali nella società europea del medioevo , in AA.VV., pagg. 39-49. 2 veste giuridica né quello di imbrigliare in una griglia astratta i vincoli affettivi, le relazioni interpersonali, il modo stesso di vivere la famiglia nel suo mantenimento e nella fase di crisi e di dissoluzione. Il diritto di famiglia, appunto per i suoi caratteri peculiari e naturali, anche sotto il profilo strettamente storiografico è pertanto avaro di nuovi risultati; ci si limita a ricognizioni, benchè puntuali, sul tema, ci si limita cioè a prendere atto dell’evoluzione della materia, aggiornata alla cultura del momento, un’evoluzione che ha confermato nel tempo l’inquadramento del diritto di famiglia nell’ambito privatistico, come è avvenuto con il codice civile italiano vigente del 1942. Peraltro la disciplina codicistica in materia non ha cambiato forma o natura con l’inserimento nella Costituzione italiana del 1947 degli articoli 29, 30 e 31. Semplicemente il carattere dell’autonomia della famiglia accanto a quello dell’uguaglianza tra coniugi, si è arricchito del principio di tutela dei figli nati fuori dal matrimonio, di quello dell’autonomia educativa della prole, assegnando inoltre allo Stato il compito di sostenere pubblicamente tali compiti. L’ordinamento giuridico, tenuto per definizione a ordinare gli status che derivano dal nucleo di ogni comunità, la famiglia, è andato nel tempo normativizzando vieppiù le condizioni esterne, gli esiti patrimoniali per la famiglia sia in vita sia in morte di un suo membro. Così facendo, a partire dalla riforma del diritto di famiglia attuata dalla legge 19 maggio 1975, n. 151 (preceduta dalla legge n. 898/1970 sul divorzio) sono stati ampliati i mezzi che l’ordinamento ha adottato in tema di famiglia, di fatto non propriamente ricomprendibili nell’ambito del diritto privato2. Come non lo sono la legge n. 121/1985 sul matrimonio concordatario, la legge n. 40/2004 sulla procreazione assistita e la recente la legge n. 54/2006 sull’affidamento condiviso, che ridisegna il rapporto tra genitori e figli, privilegiando l’interesse del minore quale soggetto autonomamente tutelabile tramite il giudice della famiglia. Vi racconterò ora questa storia, partendo cronologicamente dall’esperienza dei sistemi a diritto comune, con fonti normative a formazione plurima, mantenuto nella struttura dell’assolutismo regio d’Ancien régime. La famiglia ante codicem si presenta all’osservatore diacronico e veniva considerata dagli attori dell’epoca quale comunità organizzata, come tale distinta e separata dalla collettività, con un suo peculiare statuto normativo: sebbene non gestibile nell’ambito dell’autonomia privata, essa era però qualificabile nell’esperienza di società particolari, società ove diviene essenziale il raccordo delle istituzioni pubbliche ed ecclesiastiche nella 2 Non a caso è lo stesso M. BELLOMO, ibidem, pag. 40 che rammenta i dibattiti degli anni 40, a ridosso del codice, sulla collocazione del diritto di famiglia nell’ambito del diritto privato, ma piuttosto di porlo a metà strada tra il diritto privato e il diritto pubblico. 3 formazione stessa della famiglia, della collocazione in essa dei soggetti legati da vincoli di sangue, e della gestione del patrimonio familiare. Questa microsocietà è come la macrosocietà dell’epoca, ossia una società di diseguali e gerarchica, con a capo il pater. In questa veste si raccordava sia al diritto pubblico sia al diritto civile. Si tratta però di regimi giuridici, che si autogiustificano, si riferiscono cioè non al diritto dello Stato, bensì ad una competenza che coinvolge le credenze religiose e le istituzioni che le governano. In essi avveniva ciò che Arturo Carlo Jemolo lamentava rispetto al diritto di famiglia codificato: non solo la relazione personale tra i coniugi, ma l’intera famiglia gli appariva come «un’isola che il mare del diritto può lambire, ma lambire soltanto». Jemolo usava fare questo paragone: «La famiglia è la rocca sull’onda, ed il granito che costituisce la sua base appartiene al mondo degli affetti, agl’istinti primi, alla morale, alla religione, non al mondo del diritto»3. E’ appunto questo regime che viene legificato con la Restaurazione dell’a. 1815 in altri ordinamenti europei, compresi gli Stati italiani. In quel periodo si assiste all’adozione dell’assolutismo legislativo, che è l’esito positivo della rivoluzione francese, e che inaugura l’età della codificazione. Il modello è il Code civil del 1804. L’introduzione generalizzata del code Napoléon in Europa ne aveva fatto apprezzare l’unità del sistema e aveva diffuso l’impiego di figure che, al di là della loro provenienza dalla tradizione, si imponevano soprattutto per la loro intrinseca validità di forma e di sostanza. Il salto di qualità, il cambio di prospettiva legata alla scelta –tutta politica- dell’assolutismo legislativo da parte dei governi della Restaurazione si dimostrerà irreversibile, anche perché non era più strumentalmente diretta alla regolamentazione degli interessi, ma alla costruzione di un sistema di diritti. 2.- “LA FAMIGLIA LEGITTIMA” COME BASE ESSENZIALE DELLA NUOVA SOCIETÀ CIVILE DISEGNATA DALLA RIVOLUZIONE Quando nel giugno ‘894 Luigi Filippo d’Orléans propose agli Stati generali l’introduzione del divorzio nell’ordinamento francese, non poteva neppure immaginare che di lì a poco il sovvertimento generale del 14 luglio avrebbe portato a ridisegnare l’intera materia matrimoniale e familiare. Le argomentazioni poste a base del cahier erano di una tale banalità e inconsistenza da far 3 A.C. JEMOLO, La famiglia e il diritto, ora in ID., Pagine sparse di diritto e storiografia, scelte e coordinate da L. Scavo Lombardo, Milano, 1957, pag. 241. Cfr. le osservazioni DI S. CAPRIOLI, La riva destra dell’Adda, lettura a F. VASSALLI, Del Ius in corpus del debitum coniugale e della servitù d’amore ovverosia la dogmatica ludicra, ristampa anastatica, Bologna, 1981, pagg. 4-12. Il dibattito è stato di recente ripreso in sede canonistica: cfr. E. DIENI, Il diritto come «cura» Suggestioni dall’esperienza canonistica, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), giugno 2007. 4 Traité philosophique, theologique et politique de la loi du divorce demandée aux Etats-Généraux par S.A.S. Mgr Louis-Philippe-Joseph d’Orléans, premier Prince du Sang [s.l., ma Paris], Juin 1789. 4 offesa al conservatorismo di matrice feudale ed ecclesiastica, profondamente radicato nel sociale. Tra le tante, una delle ragioni principali a sostegno del divorzio era quella di favorire una maggiore dignità e saldezza per il matrimonio contro le unioni illegittime e illecite; nel contempo si voleva così incentivare l’incremento demografico della popolazione, per fronteggiare i popoli settentrionali più numerosi. Anzi proprio queste argomentazioni, come si dirà tra breve, furono tra le ragioni principali per accogliere nel successivo codice un regolamento della famiglia a base gerarchica, pur se aggiornata agli interessi e alle necessità della nuova classe dirigente. Per altro già in piena confusione istituzionale, nel 1787 non erano stati opposti eccessivi ostacoli al rescritto sovrano favorito da Chrétien Guillaume de Malesherbes5. Con tali disposizioni istitutive del matrimonio civile, da tempo sollecitate, si consentiva per la prima volta in termini precisi ai sudditi protestanti di contrarre matrimonio civile e di conseguenza di legittimare la propria prole con la costituzione di una famiglia legittima a tutti gli effetti, anche e soprattutto successori. Era una rivoluzione prima della Rivoluzione e il dibattito non si fece attendere6, anche se il fine conclamato era ovviamente quello di sottrarre la materia matrimoniale e familiare alla imperante ed esclusiva disciplina ecclesiastica; in tal modo superando il rigido regime giurisdizionalista, per escludere definitivamente la questione religiosa dalla costruzione di uno stato laico. Il giacobinismo di prima maniera non perse l’occasione di rendere in tal modo concreto un modello di matrimonio, per altro – badate bene! - già in discussione in Polonia7, correlato alle necessità della società rivoluzionaria: il suo fondamento era nella volontà sempre revocabile dei nubendi, i soli titolari di diritti. La conseguenza nei fatti era l’impraticabilità del matrimonio religioso, che diviene un mero fatto, privo di rilevanza giuridica (soprattutto in termini di indissolubilità), con un conseguente e parallelo dibattito sullo stesso celibato ecclesiastico. Sta di fatto che fin dalla costituzione del 3 settembre ’91 si dichiara con sovrana enfatizzazione (art. 7 titolo II) che la legge non considera il matrimonio che come contratto civile. Saranno le leggi del 20-25 settembre 1792, votate dall’Assemblea generale, a sancire l’introduzione definitiva 5 Cfr. P.GROSCLAUDE, Malesherbes témoin et intreprète de son temps, II, Paris ,1961, pagg. 559 e ss. 6 Cfr., tra i tanti, ABBE DE BARRUEL, Lettres sur le divorce à un deputé de l’Assemblée nationale, Paris, 1789; ABBE DE RASTIGNAC, Accord de la révélation et de la raison contre le divorce, Paris, 1790; COMTE D’ANTRAIGUES, Observations sur le divorce, Paris, 1789; L. THIEBAUT, Adresse aux membres honorables de l’Assemblée Nationale sur la liberté du divorce et sur le célibat, Metz, 1790; CHARRIER DE LA ROCHE, Examen du décret de l’Assemblée constituante du 27 août 1791 où l’on traite la question du célibat ecclesiastique, de l’indissolubilité du mariage, Paris, 1792; L. MARTORELLI, Errori correnti sul divorzio, Roma, 1792. 7 Cfr. Pétition à l’Assemblée Nationale par Montaigne, Charron, Montesquieu et Voltaire, suivie d’une consultation en Pologne [s.l.d.]; Questions envoyées de France en Pologne et reponses envoyées de Pologne en France sur le divorce en Pologne, Paris, 1792; 5 dell’ordinamento dello stato civile dei cittadini, che regolava il matrimonio civile, il divorzio, le condizioni della sua ammissibilità, tutto fondato sul mutuo consenso dei coniugi, il cui corollario è costituito dalla “dichiarazione di incompatibilità di umori e caratteri”, di uno dei coniugi nei confronti dell’altro8. Si realizza così nella realtà giuridica una scelta irreversibile: il rivolgimento rivoluzionario rende infatti definitiva nel nuovo modello di sistema giuridico fondato sulla Costituzione la potestà assoluta della legge: ciascun cittadino (principio di nazionalità) vi è sottomesso, ricevendone in cambio la tutela dei suoi diritti, con la derivata negazione di ogni rilevanza a fatti e istituzioni esterne concorrenti o antagoniste dello Stato9. Questi sono i presupposti; chiediamoci ora quale è la famiglia legittima disciplinata dalla legislazione francese. Ogni situazione di fatto collegabile o collegata alla famiglia viene a perdere ogni rilevanza, prima tra tutte anche quella situazione, abbastanza diffusa nelle società di Ancien régime, costituita dal rapporto di concubinato. La prima conseguenza dell’inquadramento del matrimonio civile come contratto, basato sulla volontà dei nubendi, è l’assoluta parità dei coniugi relativamente sia al matrimonium in fieri sia al matrimonium in facto esse. Ad essa si affiancano alcuni rilevanti corollari, prima tra tutte l’estensione alla moglie della titolarità della patria potestà sui figli, non sussistendo più la necessità e l’inderogabilità dell’autorizzazione maritale. La stessa scelta legislativa della comunione legale dei beni tra coniugi ridimensiona, la potestà maritale ed elimina il divieto di donazione tra coniugi. Quest’ultimo è uno degli aspetti, forse, più dirompenti del nuovo modello di famiglia legale, anche per la contemporanea abolizione dei fedecommessi e dei diritti di primogenitura. La successiva legge di completamento del 14 giugno 1793 equiparerà di fatto la prole naturale a quella legittima, ammettendo il diritto di successione testamentaria e di quella ab intestato dei figli naturali, senza esclusione di quelli incestuosi e adulterini. La legge 2 novembre 1793 poi riconoscerà a tutti i figli naturali una quota di eredità pari a quella riservata ai figli legittimi. Attenzione! Per queste due leggi fu sancita la retroattività dal giorno della rivoluzione del 14 luglio ’89; ciò ci conferma la scelta consapevole del disegno riformatore del 8 Le altre condizioni sono collegate al ricorso di uno dei coniugi fondato: a) sulla demenza, follia o furore dell’altro coniuge; b) sulla condanna a pene afflittive e infamanti; c) su delitti, sevizie o ingiurie gravi di un coniuge a danno dell’altro; d) su grave notoria sregolatezza; e) su assenza ultraquinquennale immotivata e priva di notizie; f) su emigrazione per motivi politici. Il procedimento per altro era abbastanza articolato, e doveva essere rimesso su domanda ad un istituendo Consiglio di famiglia, che doveva valutare la necessitata dichiarazione dello stato di coniugio da parte dell’istituito ufficiale dello Stato Civile. Conseguenza più vistosa dell’introduzione del divorzio era la soppressione nei fatti della separazione coniugale. 9 L’articolata analisi, tra i tanti, di A.C. JEMOLO, (in particolare) Il matrimonio, Torino, 1937 (1a ed.), passim; ID, La disciplina del matrimonio civile nella riforma del Codice, in Giur. Ital., 1934, IV, pagg.69 e ss., mostra tutte le implicazioni della scelta irreversibile del matrimonio civile negli ordinamenti attuali, che ha offerto inaspettatamente maggiore visibilità e incisività al matrimonio canonico. La ricognizione della materia ha prodotto una vasta letteratura, anche recente 6 legislatore rivoluzionario10. La conseguenza più vistosa in tema di rapporti tra coniugi è quella che ogni violazione dei doveri coniugali viene inquadrata nell’inadempimento contrattuale con il correlato diritto del coniuge tradito di richiedere lo scioglimento del matrimonio, e non più e non solo la separazione coniugale, di fatto abolita. L’adulterio viene valutato esclusivamente nell’ambito del principio inadimplenti non est adimplendum11, perdendo così rilievo penale il fatto illecito compiuto. Questo cambio di prospettiva operato in sede di rivoluzione venne perseguito con – se è possibile – ancora maggiore lucidità ed efficacia durante il governo di Napoleone, che portò alla promulgazione del Code civil nel 1804. La codificazione, infatti, altro non è che lo strumento per eccellenza del legalismo legislativo che assolutizza il dato, formalizzandolo; che tipicizza le situazioni soggettive collegate all’esercizio dei diritti individuali; che attua un’ugualianza “indiscriminata”. Quel che avviene per la disciplina della proprietà, depurata da qualsiasi limitazione, (introdotta dal Code civil, cardine fondamentale della intera struttura normativa, quale principale ed essenziale espressione delle prerogative private), si riproduce dunque relativamente al matrimonio civile e alla famiglia legale. L’assolutezza dell’impianto del matrimonio civile e della formula legale scaturisce dal divieto espresso e formale contenuto negli artt. 1383 e 1839 del Code civil a qualsiasi convenzione matrimoniale che derogasse alle norme sulle successioni. E qui c’era l’intento di vietare i matrimoni, c.d. de la main gauche (o morganatici)12 permessi dalla Chiesa perché a tutti gli effetti validi ed efficaci, in quanto riguardano due soggetti capaci di contrarre matrimonio perché liberi da precedenti vincoli. La particolarità dello speciale matrimonio concerne la differente condizione e il diverso possesso di stato tra i soggetti contraenti; la prole, infatti, da un alato viene considerata 10 La reazione alla rivoluzionaria disciplina non tardò neppure in Italia, dove, ad esempio, fin dalla Forma di governo repubblicano provvisorio del ’96 della nascente Repubblica piemontese, all’art. 56 viene disposto che le cause di matrimonio (civile) o di divorzio sono portate “avanti il Prefetto della Provincia”, che le avrebbe istruite e decise, con la precisazione che “le cause che secondo la legge fanno luogo alla separazione di corpo indefinita, o per un tratto più lungo di anni due, faranno sempre luogo al vero divorzio, qualora non vi esiste prole dei coniugati”. 11 La disciplina tridentina del matrimonio (Concilii Tridentini acta et decreta, Sess. XXIV) diviene, pertanto, impraticabile anche relativamente alle conseguenze. Il can. 7, ad esempio, conferma la natura sacramentale e indissolubile, dichiarando che il matrimonio monogamico non può essere sciolto dal peccato d’adulterio di uno dei coniugi, e che il coniuge incolpevole non può contrarre altre nozze in vita dell’adultero, pur avendolo allontanato o abbandonato (cfr. cann. 8 e 9 sulle pene canoniche-scomunica e penali-rimesse al braccio secolare per le unioni illecite, compreso il concubinato). 12 Tale tipo di unione, di risalenza salica [matrimonium ad legem salicam], ebbe per altro scarsa diffusione, pur se utilizzato dallo stesso Luigi XIV per impalmare la favorita Madame de Maintenon. Cfr., per tutti, il classico J.M. PARDESSUS, Loi Salique ou Recueil contenant les anciennes rédactions de cette loi e le texte connu sous le nom de “Lex emendata”, inserito in ID., La Legislation du mariage, Paris, 1843, Dissertation XIII et XIV. Cfr.,inoltre, G. ASTUTI, Lezioni di Storia del diritto italiano- Le Fonti Padova,1954, pagg.183 e ss. e soprattutto R.J. POTHIER, Traité du contrat de mariage, in Oeuvres, cit., VI, pag. 392. Cfr., infine, il più successivo caso di re Vittorio Emanuele II, che si unì in matrimonio con Rosa Vercellana, contessa di Mirafiori. 7 legittima e capace di succedere, dall’altra viene esclusa dalla dignità e dallo stato, di cui sono titolari i genitori. Vorrei però chiarire che se codificazione e rivoluzione si inseriscono nello stesso processo di legalizzazione, la prima come prodotto dell’altra, la disciplina sostanziale del Code civil relativamente sia al matrimonio sia al divorzio sia alla famiglia legale è diversa dalla legislazione rivoluzionaria: direi, non nei principi di fondo, che anzi vengono ancor più enfatizzati nella prerogativa esclusiva dello Stato di costruire gli istituti legali, ma non c’è dubbio che la materia familiare e successoria per alcuni versi cozza con i principi solennemente dichiarati dalla Costituzione rivoluzionaria. Viene sostituita ad una sentita eguaglianza di tutti, velleitaria forse per i tempi e per le radicate tradizioni del mondo rurale, una dichiarata preminenza dell’uomo, sposo e padre, sulla donna e sui figli. Il decisionismo di stampo bonapartista si auto esalta, ma al tempo stesso traccia già il suo irrimediabile declino. Non è di certo la politica dirigista e di ammodernamento del regime napoleonico che si realizza nella nuova struttura della famiglia. La nuova struttura della famiglia è il prodotto di due cause concorrenti (almeno due): la prima è certamente la scelta della proprietà, quale centro di interessi e di visibilità del nuovo cittadino. Questo istituto, che diverrà di lì a poco una ideologia da praticare e per alcuni da sopprimere al più presto non può sopportare contrasti e dissidi all’interno del nucleo familiare. Neppure sono ammissibili, e dunque da evitare, eventuali ambiguità e increspature, che ne possano mettere in crisi la sua espansività. La seconda ragione è la stessa posizione di preminenza, giuridica e sociale insieme, dell’uomo, il solo cittadino con piena capacità giuridica, titolare dei diritti politici. Solo lui può, anzi deve, sovrintendere agli interessi della famiglia e dei suoi membri (moglie e figli). Certamente il modello non è quello del pater familias di tradizione romana. Il père de famille è e vuole essere il borghese, padrone assoluto del patrimonio e dei suoi mezzi economici, della posizione sociale e del suo futuro. Proprio a lui lo Stato ha assegnato il compito fondamentale, quello di essere al tempo stesso e con la stessa pienezza cittadino, proprietario, marito e padre13.. La struttura, organizzata normativamente su base gerarchica, viene rafforzata per rendere la famiglia una entità idonea ad offrire adeguati strumenti sia di stabilità interna che di operatività esterna. 1) Il matrimonio civile, pertanto, è l’atto di nascita esclusivo della famiglia legittima, che si realizza attraverso la volontà dei nubendi espressamente dichiarata e con l’inderogabile celebrazione davanti all’ufficiale di stato civile, il quale, a pena di nullità assoluta, lo trascrive negli atti. 2) Il 13 Se dovessimo andare a rapportare le cause, più strettamente attinenti al matrimonio e alla famiglia, assumerebbero rilievo anche i contenuti culturali e ideologici, primo tra tutti quello illuminista, antesignano di uno stato etico e del contemporaneo affrancamento dell’uomo dagli imposti e limitati orizzonti della tradizione e del dogma, per la conquista di una libertà non solo nell’essere, ma nel dover essere. In questa sede è impossibile tracciare un quadro, anche se d’insieme, di una problematica, che attraversa trasversalmente i diversi campi del sapere, compresi quelli teologico e filosofico, tenuto conto altresì delle antitetiche concezioni di Kant e di Hegel: cfr. G. SOLARI, Appunti di filosofia del diritto, Torino, 1932, pagg.258 e ss.; ID. La dottrina kantiana del matrimonio, in Riv. Filos. , I, (1940), pagg. 1 e ss. 8 divorzio, pur ammesso, viene di fatto ostacolato con l’introduzione di un procedimento complesso e poco duttile con una serie di adempimenti (artt. 234, 305 Code civil), che ne inceppano l’iter. [Già il decreto 20 marzo 1803, poi trasfuso nel titolo VI del I libro del Code civil (artt. 229-239), aveva ridotto drasticamente i motivi, che ne legittimavano la richiesta e lo consentiva al marito per il caso di adulterio della moglie; alla moglie per il caso di mantenimento di una concubina da parte del marito nella casa comune; ad entrambi nel caso di violenza, eccessi, sevizie o ingiurie gravi, o di condanna a pena infamante.] La richiesta di divorzio per mutuo e perseverante consenso dei coniugi, prevista nell’art. 233, doveva comunque offrire la prova non agevole dell’insopportabilità della vita in comune. Viene opportunamente reintrodotta una norma finale (art. 306 Code civil), che disciplina la separazione coniugale, non solo fisica (séparation des corps), che consente di abbandonare la coabitazione; ma anche dei beni (art. 311 Code civil) per una maggiore tutela del coniuge più debole. La pratica delle separazioni si diffuse soprattutto tra la borghesia cittadina, che in tal modo evitava scandali e maldicenze, ma soprattutto l’ostracismo sociale, conseguente al divorzio, diffuso negli ambienti vicini alla Chiesa. 3) Relativamente, poi, all’adulterio il Codice penale del 1810 lo reintroduce sanzionando, con pena detentiva, la moglie (art. 337), e con semplice ammenda il marito (art. 339), per la comprovata relazione extra coniugale. Viene, altresì, completamente rivista la materia della filiazione, con la netta distinzione e discriminazione tra figli legittimi ed illegittimi. Per il figlio bastardo è soppresso qualsivoglia diritto di successione e contemporaneamente viene vietata la ricerca del padre naturale (art. 340), seppure a soli fini alimentari14. Era – mi si consenta il giudizio – il prodotto di una società amorale, avvelenato dal maschile egoismo, mascherato dall’intoccabile diritto di libertà individuale. 3.- LE LIBERE UNIONI TRA EFFETTIVITÀ E DEFINIZIONE NORMATIVA Abbiamo visto, dunque, che la normatività quale innovativa e originale esperienza del legislatore del Code civil assolutizza e incanala l’intera materia del diritto di famiglia nell’ottica dello Stato laico aconfessionale. La libera convivenza sia di chi, per scelta di fede, intenda unirsi in matrimonio secondo la disciplina ecclesiastica, sia di chi, ancora libero da vincoli matrimoniali, voglia intrecciare una relazione, non mostra alcuna apprezzabile differenza, se non per i contenuti etici e sociali della scelta. In concreto la irrimediabile separazione tra Chiesa e Stato comportò – e comporta tuttora nella maggior parte dei sistemi giuridici europei - per i fedeli la necessità di una 14 Cfr. P. UNGARI, Il diritto di famiglia in Italia dalle costituzioni giacobine al codice civile del 1942, Bologna, 1970, pagg.99 e ss. G. VISMARA, Il diritto di famiglia in Italia dalla riforma ai codici. Appunti, Milano, 1978 9 doppia celebrazione, quella necessaria del matrimonio civile e quella di irrilevanza giuridica del matrimonio religioso. La libera unione resta, pertanto, la situazione di fatto per eccellenza, che, però, non si pone in alcun modo sotto il profilo giuridico in contrasto o in antagonismo alla famiglia legittima; non riceve comunque alcuna tutela, anche se limitata o circoscritta ad eventuali effetti prodotti, né una qualsivoglia legittimazione, neppure sussidiaria, nell’interesse del soggetto più debole o della eventuale prole, che rimane a totale carico della sola madre naturale. La famiglia legittima è, concludendo, l’unica che riceve una regolamentazione, per altro molto articolata e di sicura efficacia, e che non sopporta modelli concorrenti o alternativi o suppletivi. La negazione di qualsivoglia rilevanza giuridica comporta l’impossibilità di una estensione analogica della disciplina legale alle libere unioni: tanto è vero che sono qualificate come convivenza “more uxorio”, lasciando il termine concubinato a particolari situazioni di mantenimento di un’amante da parte di un uomo legittimamente sposato. Ma la storia non finisce qui. Gli avvenimenti successivi alla recezione della codificazione napoleonica infatti sono di diverso valore e significato, in quanto da un lato le società, che praticavano il culto cattolico, erano restie ad accettare l’introduzione del modello del matrimonio legittimo e dall’altro lato la natura stessa del matrimonio, come disegnato dal Code civil, cozzava con radicate tradizioni e culture, che non potevano prescindere dall’indissolubilità e dalla perpetuità del rapporto, per non infrangere il contenuto sacramentale del matrimonio stesso. Spostandoci in chiusura in Italia, bisogna premettere che, nonostante l’intransigenza di Napoleone nell’imporre il suo codice, il modello francese di diritto di famiglia e successorio ebbe scarso rilievo e poca incidenza nella tradizione della società italiana del primo ‘800. Ma non tutto l’impianto del diritto di famiglia del Code civil andò perduto nel periodo della Restaurazione, (tranne alcune insignificanti eccezioni del tutto inopportune, quale reazione più politica che di opposizione giuridica avvenuta nel regno di Sardegna di Re Vittorio Emanuele I). I tentativi degli Stati italiani successori si mossero su due concorrenti settori: il primo con l’abbandono delle premesse giusnaturalistiche del matrimonio civile regolato nel codice di Napoleone; il secondo nel trovare una linea di condotta, che non cozzasse con la imperante tradizione cattolica, pur se consapevolmente diretto a mantenere allo Stato la competenza in tema matrimoniale e familiare. La prima conseguenza fu quella della immediata soppressione del divorzio, inammissibile per la coscienza sociale oltre che contrario ad una radicata tradizione religiosa. Lo stesso disegno della famiglia e della successione fu raccordato alla tradizione, dando prevalenza alla potestà maritale. Furono ribadite, inoltre, le limitazioni dei diritti successori ai figli legittimi e la potestà esclusiva del padre su di essi, con la reintroduzione anche del fedecommesso e della primogenitura. Il corso delle 10 istituzioni fu tanto rapido e segnato in Italia da un aperto dissidio fra Stato e Chiesa, anche riferito alla stessa costituzione di uno Stato laico. Il codice civile del 1865 portò infatti all’introduzione nel sistema del matrimonio civile quale unico vincolo giuridicamente rilevante per l’ordinamento, tanto rilevante da esserne ribadita l’indissolubilità, anche dai giuristi di formazione laica. La crisi del rapporto coniugale poteva sfociare unicamente nella separazione personale dei coniugi, per casi tassativamente previsti dalla legge (art. 150 c.c. 1865). In tale norma viene riprodotta senza eccessiva originalità la materia del Code civil (art. 306) ed in essa si fa menzione del rapporto concubinario, considerato quale ingiuria grave alla moglie da parte del marito. Le basi giuridiche della famiglia, comunque, sono quelle già disegnate dal Code civil, prevale cioè la base gerarchica della famiglia (artt. 130, 131, 132). Relativamente al nostro tema, la conseguenza è un dichiarato atteggiamento di avversione, non più solo di indifferenza, verso le unioni di fatto e gli stessi matrimoni celebrati solo secondo la disciplina ecclesiastica, benchè continuasse ad assumere rilevanza penale solo la relazione adulterina, prevista e sanzionata nel codice penale del 1889. Rispetto alla Francia, in cui – come si è visto – la scelta sociale favorì l’unione civile, in Italia la separazione fra Stato e Chiesa ebbe effetto contrario e conseguenze dirompenti, in quanto fece aumentare i matrimoni religiosi con contemporaneo crollo dei matrimoni civili. L’irrilevanza delle libere unioni, ignorate ed in alcun modo sanzionate, non portò viceversa ad un’espansione del fenomeno, trattandosi di una società – quella italiana - essenzialmente rurale. Casi limitati e circoscritti avvenivano in settori particolari, quali quello dei militari di carriera o quello dei funzionari statali. L’impossibilità del riconoscimento dei figli naturali comportava che le convivenze more uxorio venissero affiancate al matrimonio religioso ovvero che, nel corso del tempo, si normalizzassero in matrimonio civile, allo scopo di legittimare la prole e consentire un adeguato sostegno economico alla donna, in caso di vedovanza, purtroppo non infrequente nell’Italia di allora. Il fenomeno famiglia di fatto ha comunque in sé dei caratteri del tutto differenti, primo tra tutti l’insussistenza del vincolo connotato etimologicamente come coniugio, scaturente dall’atto costitutivo del matrimonio, e la sua stessa natura e funzione di legame temporaneo. La espansività odierna di tali situazioni sono un concreto segno di crisi dell’istituto famiglia a base etica, disegnato dalla legislazione codicistica. Ci si domanda tuttavia se possano situazioni di famiglia contingenti, che relativizzano i rapporti in base alla libertà individuale dei soggetti restare nella irrilevanza e insignificanza giuridica, quando sussistono effetti anche permanenti, che hanno necessità quanto meno di tutela, oltre che di regolamentazione. Il noto detto attribuito a Napoleone: “I concubini ignorano la legge, la legge li ignora”, offre icasticamente il reale significato della iniziale 11 costruzione codicistica, che ingabbia e assolutizza il fenomeno, divenendone la fonte esclusiva ed ineludibile. Con la definitiva scelta dello Stato laico, che assolutizza il dato normativo, non solo la famiglia di fatto è fenomeno ignorato; bensì diventa vieppiù indifferente il matrimonio religioso e le sue finalità di carattere religioso ed etico. Non di meno le situazioni di fatto, anche nella varietà dell’esperienza, sussistono e da esse scaturiscono comunque effetti. Attenzione, però, a non confondere negli effetti la famiglia di fatto dalla famiglia naturale. Se la prima è spontaneamente incentrata più sui rapporti tra conviventi, la seconda concerne i rapporti tra genitori e figli, che nella legislazione attuale, dopo la novella del ’75 (L. n. 151 del 19 maggio 1975), è costituita quale entità giuridica tipica. Tutto ciò rende ancor più evidente che la convivenza more uxorio è inidonea a proiettare i propri effetti al di là del tempo della convivenza stessa; diversamente dal matrimonio, i cui effetti sono permanenti e possono essere anche successivi alla morte di uno dei coniugi. Si aggiunga che se si vuole offrire alla famiglia di fatto garanzie più o meno ampie, tese a disciplinare gli effetti della convivenza more uxorio, non può che procedersi attraverso un’apposita legge, e non come di fatto avviene, utilizzando la riconosciuta autonomia privata. Non posso però chiudere questo racconto senza concedermi un’incursione nel presente con l’osservazione anche nel contemporaneo di un persistente (benché a volte eccessivamente insistente) anelito alla giuridicizzazione dei vincoli affettivi e delle relazioni interpersonali, contrario ai consiglio dei primi storiografi, di cui ho dato conto all’inizio di questa lezione.