"Secondo alcuni filosofia e musica si rincorrono. Il tentativo filosofico

Articolo tratto da “Il Manifesto” del 2014
"Secondo alcuni filosofia e musica si rincorrono. Il tentativo filosofico di svelare
l’indicibile, di andare oltre la dimensione ordinaria del discorso, di indicare ciò che può
essere davvero portato a parola e ciò che invece non può essere detto, ma magari solo
mostrato o indicato, appare in effetti come una sorta di sfida che la ragione concettuale
intrattiene con quella forma peculiare di pensiero che è la musica, produzione di senso mai
riducibile a categoria intellettuale.
Altrettanto la musica, nelle sue forme più profonde e articolate tenta sempre di liberarsi
della propria riduzione a sfondo, ornamento o svago, per mostrarsi piuttosto, attraverso la
geometria dei suoni e le aritmetiche dei silenzi, come significato, come concetto in forma di
suono, come pensiero di ciò che non può essere semplicemente interpretato nella forma del
discorso. E se questo carattere attraversa tutta la grande tradizione musicale, si rende
evidente nel momento in cui l’epoca moderna, a partire dal XIX secolo, si fa pensiero di sé,
si fa cioè autoriflessione e cerca di portare a evidenza le fratture e le lacerazioni che la
attraversano, fino a diventare, nel XX secolo, esperienza esplicita del dolore, della perdita,
dello straniamento, dell’impossibilità di dire dentro una qualche forma di ordine
rassicurante l’esperienza che l’uomo fa di se stesso e del mondo.
Viene da pensare al rapporto fra filosofia e musica leggendo il piccolo e prezioso libro di
Mario Brunello dedicato al Silenzio e inserito da il Mulino nella collana «Parole
controtempo». Viene da pensarci perché se c’è un luogo nel quale forse musica e filosofia si
incontrano nell’esperienza novecentesca da cui proveniamo, questo luogo è proprio quello
dischiuso dall’esperienza del silenzio. Non è forse un caso, in questa prospettiva, se i due
pensatori che più di altri hanno segnato in modo indelebile l’esperienza filosofica del
Novecento, e cioè Martin Heidegger e Ludwig Wittgenstein, si rivolgono al termine dei loro
rispettivi capolavori – Essere e tempo e ilTractatus logico-philosophicus – a una dimensione
che pone al centro proprio il silenzio. Per Heidegger la possibilità del passaggio dalla
dimensione inautetica nella quale ciascuno di noi è gettato a vivere, alla dimensione
autentica, alla dimensione cioè nella quale l’esistenza si fa pienamente consapevole del
proprio essere finito e assume dunque – attraverso la decisione – la morte come costituente
del proprio esserci, passa attraverso quella che egli indica come la chiamata della coscienza:
una chiamata che parla nel silenzio, che non dice nulla, che non dà nessuna indicazione o
prescrizione, nessun permesso e nessun divieto, ma che attraverso una voce silente consente
all’esistenza che si è messa in ascolto di uscire dalla dimensione alienata e espropriante
dell’appiattimento collettivo e di guardare in faccia il proprio essere per quello che è.
Altrettanto, la proposizione conclusiva del Tractatus – di ciò di cui non si può parlare si
deve tacere – non è semplicemente un ‘altolà’ alle pretese fagocitanti del pensiero, non è
solo un segnale di pericolo come quello che si trova ai bordi dei precipizi, dove si dice che
se ci sporgiamo troppo rischiamo di cadere nel nulla dell’insensatezza, quanto l’indicazione
di un limite costitutivo che è dato al linguaggio inteso innanzitutto come pensiero verbale,
l’esplicitazione cioè dell’impossibilità di tradurre tutto ciò che fa parte della nostra
esperienza del mondo all’interno della grammatica e della sintassi del discorso e della
parola. Perché ciò su cui si deve tacere, secondo Wittgenstein, non è affatto il superfluo,
l’ininfluente, l’accessorio: il silenzio lo si deve semmai, secondo Wittgenstein, proprio a
quella sfera dell’esistenza che è per noi forse la più essenziale, certamente quella a cui
teniamo di più: ovvero, ad esempio, alle questioni etiche relative al bene e al male, al giusto
e all’ingiusto, alle questioni estetiche, relative alla bellezza o in generale all’esperienza di
senso che è legata alla dimensione dell’opera d’arte, oppure ancora al mondo della fede e
della religione. Di tutto questo, secondo Wittgenstein, non si può fare davvero parola,
perché queste esperienze in qualche modo sfuggono alla logica del discorso. Per
Wittgenstein questo tipo di esperienze appartengono al ‘mistico’, ovvero possono essere
mostrate, indicate, vissute, ma non imbrigliate dentro la grammatica che è condizione di
senso del nostro discorrere.
Questa centralità del silenzio, rimessa poi in parte in discussione sia dal cosiddetto
«secondo» Wittgenstein – quello delle Ricerche filosofiche – come anche dal cosiddetto
«secondo» Heidegger – quello del pensiero poetante – è l’espressione di un’urgenza che è
bene messa in luce da Brunello in relazione alla musica: «cercare il silenzio – scrive infatti
Brunello – dare spazio al silenzio nell’arte, nella musica, aiuta a concentrarsi sul senso
profondo della vita in generale e distoglie l’attenzione dall’esigenza dell’uomo di fare della
sua centralità, anche nell’arte, il fine di ogni atto creativo».
Il silenzio è in qualche modo l’esperienza attraverso la quale il soggetto cerca di
desoggetivizzarsi, di pensarsi fuori da una dimensione di sostegno e fondamento nei
confronti della realtà, di cogliersi dentro una rete di nessi da cui riceve senso, senza per
questo pretendere di essere l’alfa e l’omega di ogni senso possibile.
Il pericolo di qualsiasi discorso sul silenzio è una retorica della debolezza e della fragilità
che rischia sempre di farsi alibi rispetto a un modo, alla fine ancora una volta
soggettivistico, di praticare il mondo. E questo accade quando viene caricato sul silenzio il
bisogno di dare risposte alle questioni che ci vedono coinvolti e che chiamano in causa la
nostra responsabilità; quando il silenzio diventa cioè la rinuncia al faticoso esercizio della
articolazione razionale del significato, alla necessità di un discorso che renda ragione delle
nostre scelte, delle nostre azioni e dei nostri stessi pensieri. Un pericolo, questo, dal quale
Brunello – dal canto suo – si tiene alla larga, da un lato articolando il Finale di questa sorta
di Sonata in forma di discorso dedicata al Silenzio, a un verso di Wislawa Szymborska,
«Quando pronuncio la parola silenzio, lo distruggo», dall’altro lato concedendo alla fine
del libro un «bis» che è un vero e proprio elogio del rumore."