Franco-francesi o antiamericani? Pierre Hassner È difficile scrive- Esaminando le varianti dell’antiare dell’antiameri- mericanismo francese, si arriva ancanismo france- che alla conclusione che l’opposiziose, proprio per- ne di Chirac all’intervento militare ché sembra tanto in Iraq non sia stata una espressiofacile farlo. Visto ne di antiamericanismo. I nuovi opil conflitto politi- positori francesi dell’amministrazioco esistente tra ne Bush sono in realtà gli ammiraFrancia e Stati tori dell’America di ieri. A suo modo Uniti sulla guerra anche Chirac. Il vero difetto della in Iraq, l’antiame- sua politica non è di essere antiaricanismo fran- mericana; ma di non essere abbacese sembrereb- stanza europea. be quanto di più facile da documentare: basta consultare la stampa americana per trovare prove dell’ostilità francese nei confronti degli Stati Uniti, di una ingratitudine e di una slealtà che sembrano fondate su vanità e vigliaccheria. Ma dopo aver letto centinaia e centinaia di articoli e vignette, dove i francesi e il loro presidente vengono descritti come ratti, vermi, donnole rinunciatarie, “scimmie mangia-formaggio”1 e quant’altro si è colpiti da due fatti: l’assenza invece di epiteti del genere negli articoli francesi che attaccano politica e leader americani – che come insulto più serio e frequente usano “cowboys”; e l’assenza, tra le ingiurie americane sull’egoismo e la vigliaccheria dei francesi, di accuse precise che avvalorino l’accusa di antiamericanismo. Si è dunque portati a sospettare che l’antiamericanismo francese sia un mito che potrebbe avverarsi, in futuro, proprio grazie all’impatto delle campagne verbali ed economiche americane contro la Francia. Ma si può fare anche un’altra ipotesi: che sia in atto cioè un fenomeno molto più complesso, comprensibile solo distinguendo anzitutto tra un’opposizione alla leadership americana o a sue particolari linee di condotta (cosa che scatena le furie americane), e un’ostilità nei confronti dell’America e degli americani; e distinguendo poi le posizioni della maggioranza dell’opinione pubblica francese e la posizione di gruppi specifici – gli intellettuali in particolare – che contestano l’America sia quale simbolo della moderna società di massa e della globalizzazione, sia come minaccia imperiali- sta a un’Europa indipendente e a un mondo equilibrato. Uno dei sondaggi più recenti dimostra la fondatezza della prima distinzione cui ho fatto riferimento: al 76% dei francesi piacciono gli americani, mentre il 17% non li ama. Ma l’85% contro l’8% si oppone a un intervento militare in Iraq. La categoria di mezzo consiste in quel 70% che ama gli americani ma che si è opposto all’intervento militare in Iraq2. Chi sono gli antiamericani? Questa opinione favorevole agli americani ha sempre avuto la maggioranza in Francia, una maggioranza che però ha fluttuato a seconda delle circostanze. A volte è stata favorita da fattori politici, per esempio durante la metà degli anni Settanta, quando la crescita dell’opinione positiva sugli Stati Uniti è stata conseguenza della crescente opinione negativa sull’Unione Sovietica. Un libro pubblicato all’epoca da tre studiosi francesi aveva come sottotitolo: “Dall’antiamericanismo all’americanofilia”3. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, la popolarità dell’America è tendenzialmente diminuita, anche perché gli americani non venivano più considerati come i difensori contro il pericolo rosso, ma si comin- 243 ciava piuttosto a vederli come pericolosamente potenti o come responsabili di tutte le ineguaglianze e ingiustizie dell’economia mondiale. Questa, comunque, è rimasta un’idea di pochi. Nel 2002, secondo l’inchiesta mondiale del Pew Institute, il 62% dei francesi ha espresso un’opinione favorevole sugli Stati Uniti. Una percentuale minore che in Italia (70%), ma rimasta costante o persino aumentata di un punto in percentuale rispetto al 2000; mentre in Italia la percentuale delle opinioni favorevoli agli Stati Uniti è diminuita di sei punti nello stesso periodo (dal 76%)4. Queste indicazioni complessive non tengono comunque conto dell’attitudine del “pubblico mirato” e delle élite politiche; una situazione che ha due caratteristiche, sintetizzabili nei seguenti termini: divisione e variazione. Cominciamo, per parlarne, dalle indicazioni più recenti. Stanno comparendo in Francia molti libri antiamericani che denunciano l’imperialismo degli Stati Uniti; ma vengono pubblicati altrettanti libri pro americani o “anti-antiamericani”: l’attuale bestseller di Jean François Revel, L’Obsession anti-américaine5 e L’ennemi américain6 di Philippe Roger appartengono Pierre Hassner Pierre Hassner è direttore di ricerca emerito al Centre d’études et de recherches internationales a 244 Parigi e insegna al Johns Hopkins Bologna Center. È autore di Violence and Peace e di Washington et le monde. a questa categoria. Un altro libro pro americano, Les sentinelles de la liberté 7 è stato scritto da un ammiratore di lunga data degli Stati Uniti, Laurent Cohen Tanugi, che già in passato aveva presentato il modello americano di democrazia e di rapporti fra legge e società come preferibile a quello francese. L’autore del più critico best seller in circolazione, Emmanuel Todd8, afferma in maniera piuttosto plausibile di non essere egli stesso antiamericano. Mentre nel 1976 Todd aveva previsto, con il libro che lo ha reso celebre, la fine dell’impero sovietico, oggi annuncia la fine dell’impero americano e auspica il ritorno della Russia come potenza mondiale. Va aggiunto che, negli anni, Todd ha annunciato e sostenuto la vittoria del presidente Chirac, prima di predirne e sostenerne la sconfitta; ha condotto una campagna contro il Trattato di Maastricht e l’euro, prima di annunciare l’ascesa dell’Europa a spese della supremazia americana. Insomma: Todd sembra animato soprattutto dal desiderio di ripetere la sua performance del 1976, piuttosto che da una linea politica convincente o da una tesi teorica coerente. Altri intellettuali hanno dimostrato un mix di continuità e mutevolezza estrema, impegnandosi con passione in un vero e proprio rovesciamento di posizioni. Per il gruppo denominato, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, “Nuovi Filosofi” (principalmente André Glucksmann e Bernard-Henry Lévy), il riconoscimento dei crimini dei regimi comunisti ha determinato una radicale inversione di ruoli: non più il popolo vietnamita come vittima, ma i prigionieri dei Gulag; invece di Che Guevara come eroe, Solženicyn e Walesa; al posto dell’impero americano e del capitalismo come fonte d’ogni male, l’impero sovietico e il totalitarismo. Un altro gruppo, di cui Régis Debray è il rappresentante più significativo, si è spostato dalla sinistra alla destra, da Che Guevara a De Gaulle, passando da François Mitterand, e rimanendo fermo su un solo punto: l’antiamericanismo. Ma che tipo di antiamericanismo? Qui conviene abbandonare questa breve rassegna del grado di popolarità dell’antiamericanismo in Francia e della identità dei suoi esponenti per esaminarne invece il contenuto: il che ci consentirà di porre in una prospettiva più ampia l’attuale crisi politica franco-americana. Le tre varianti della critica agli Stati Uniti. Mi sembra op- portuno fare una distinzione netta fra tre atteggiamenti, dei quali uno solo può essere propriamente definito antiamericano: la critica all’America come cultura e società; la critica dell’eccessivo potere politico, militare ed economico degli Stati Uniti; e la critica alla politica dell’amministrazione Bush. Tra antiamericanismo vero e proprio, opposizione all’unipolarismo o al capitalismo o alla globalizzazione, e opposizione alla politica dell’amministrazione Bush, ci sono ovvi legami ma ci sono anche differenze ancora più ovvie. In ognuno di questi tre casi, gli atteggiamenti della Francia trovano ampia diffusione in molti altri Paesi europei e non, ma tendono a volte ad assumere caratteri distintivi. Questo è vero soprattutto nel primo caso. L’antiamericanismo culturale e sociale, specie se di matrice aristocratica o tradizionalista, è persino più antico dell’indipendenza americana. Il che è molto ben documentato nel libro di Philippe Roger. In virtù di questo atteggiamento, l’America rappresenta la volgarità, l’assenza di tradizioni, il materialismo, la meccanizzazione del lavoro, il livellamento, la cultura pop, la brutalità e la 245 violenza: con un continuum che va dalla mentalità da cowboys ai due odiati simboli, McDonald’s e Coca-Cola. Una critica parallela, che viene dalla sinistra, pone l’accento sull’intolleranza religiosa e la bigotteria, sullo schiavismo e il razzismo. Più specificatamente francese è la critica al multiculturalismo o agli eccessi del femminismo. Va sottolineato, tuttavia, che molte di queste critiche si applicano alla democrazia e alla modernità in quanto tali, di cui gli Stati Uniti sono sia cronologicamente che ideologicamente i portabandiera. Il riferimento inevitabile a questo punto è a Tocqueville, la cui analisi equilibrata e sottile resta di rara lucidità. Ma esiste una corrente di pensiero stabile, parallela e opposta all’antiamericanismo, che vede l’America come terra d’azione, libertà e opportunità illimitate, in contrapposizione al carattere stagnante dell’Europa. Hegel, sostenendo che un’epica autentica fosse possibile solo in America, cita la frase di Napoleone: “Cette vieille Europe m’ennuie”. Esiste insomma una rivalità dei modelli che hanno ispirato democrazia e rivoluzione nel mondo. Ciò che crea frizione tra francesi e americani non è solo la loro diversità (il che appun- Pierre Hassner 246 to conduce allo stereotipo americano dello yankee bonaccione, semplice e ingenuo di fronte al francese aristocratico, astuto, snob e sprezzante), ma anche quello che hanno in comune: due rivoluzioni, due rivendicazioni di essere fonte d’ispirazione universale, sia culturalmente che ideologicamente. E, per certi francesi, due modelli di democrazia: il primo più basato sull’individualismo e la rule of law e l’altro, quello francese, fondato su principi repubblicani. Francia e Stati Uniti sono entrambi Paesi con una tradizione universalista, che rivendicano non solo un interesse specifico nei destini dell’umanità, ma anche il diritto di parlare a nome dell’umanità. E spesso non riescono a capire che altre nazioni possano legittimamente dissentire da loro. Sono quindi tentati, entrambi, di seguire realmente il principio “Chi non è con me è contro di me”. George Bush lo ha dimostrato dall’11 settembre in poi; e Jacques Chirac lo ha applicato nei confronti dei colleghi europei, rimproverando i firmatari delle due lettere a favore della posizione americana sull’Iraq del febbraio 2003. Lo scontro tra i due universalismi è più che mai possibile e probabile quando solo uno dei due ha un potere effettivo per sostenere la propria rivendicazione a una voce e a una posizione dominanti. Ciò conduce a un secondo significato che assume l’antiamericanismo, e cioè l’antimperialismo – che in linea di principio non dovrebbe essere classificato come antiamericanismo. L’idea che un monopolio o una disparità troppo forte del potere sia negativa è condivisa da molti americani: ha costituito il nucleo del concetto kennediano di un’Alleanza atlantica a due pilastri, o dell’idea di Nixon e Kissinger di un mondo guidato da cinque potenze. Quest’ultima tesi, che riproduce il Concerto d’Europa del XIX secolo, era naturalmente anche quella di De Gaulle e oggi la ripete Chirac così come ieri Hubert Védrine (ex ministro degli Esteri del governo Jospin). Presa alla lettera è totalmente irrealistica se si basa sull’assunto di cinque poli con una potenza comparabile e se presuppone una certa equidistanza tra ciascuno di essi. Ma l’idea di ridurre lo scarto di potenza tra gli Stati Uniti e i loro alleati, e di sfidare il monopolio americano sul processo informativo e decisionale all’interno dell’Alleanza atlantica, è parte integrante degli sforzi per l’unità europea. È un obiettivo che non implica necessariamente un’ostilità verso gli Stati Uniti, anche se, se avesse successo, ne diminuirebbe il potere relativo. L’idea che il potere assoluto in generale, e un impero universale in particolare, siano un male non solo per chi viene sottomesso o subordinato ma anche per chi lo detiene, fa parte della tradizione occidentale. Ma è anche vero che i francesi si attribuiscono spesso la missione di guidare la resistenza dei Paesi piccoli o medi contro chiunque rappresenti l’effettivo o potenziale impero – quando non sia la Francia di Luigi XIV o Napoleone I. La mitologia nazionale esalta l’eroe piccolo ma abile, che compensa la minore potenza con una maggiore mobilità, una maggiore inventiva e una forte dose di audacia. Se opporsi a un impero politico e militare sembra essere una particolarità della Francia, l’opposizione a un impero economico, al capitalismo e alla globalizzazione non sono tratti distintivi della Francia. Al contrario, nonostante le origini francesi del movimento ATTACK o del mensile Le Monde Diplomatique – uno degli organi di maggiore successo di quest’ideologia – e nonostante José Bove, i francesi non sono particolar- 247 mente all’avanguardia dell’attuale radicalismo internazionale. Alle dimostrazioni partecipano meno persone, per esempio, che in Italia; slogan come “no global” sono praticamente sconosciuti in Francia. In ogni caso, anche se i bersagli del movimento sono istituzioni e network dominati dagli Stati Uniti, ciò che in realtà si combatte – come sottolineano Negri e Hardt nel loro libro sull’Impero – è un sistema universale astratto e senza volto, piuttosto che un Paese in particolare, siano anche gli Stati Uniti. Se questa definizione di antiamericanismo è, di fatto, più vasta dell’ostilità agli Stati Uniti, la terza e ultima è invece più ristretta: si tratta dell’anti Bushismo, della opposizione alle politiche dell’amministrazione Bush, o, semplicemente, alla guerra in Iraq. Questa ultima versione dovrebbe essere nettamente distinta dalle altre: e la ragione è che l’attuale politica americana si discosta, molto nettamente, dalle politiche tradizionali degli Stati Uniti. Dopo la seconda guerra mondiale, l’America ha adottato, quale potenza dominante, una politica senza precedenti nella storia dell’impero: invece di applicare la consueta Pierre Hassner 248 massima del divide et impera, gli Stati Uniti hanno incoraggiato l’unità europea e quindi l’emergere di un potenziale rivale. Pur riservandosi il diritto alla decisione ultima, gli Stati Uniti hanno tollerato un alto grado di diversità all’interno dell’impero, particolarmente in Europa, e hanno gestito il sistema occidentale usando il soft power (il potere morbido di persuasione) piuttosto che l’hard power (il potere militare duro) – per usare la distinzione di Joseph Nye. Inoltre, l’America non ha mai avuto un’esplicita dottrina imperiale. Oggi, l’amministrazione Bush è più nazionalistica e al tempo stesso più imperiale di quanto non fosse in passato. Rivendica diritti e missione globale propri di un “impero benevolo”; ma non è disposta a sottomettersi alle regole che impone agli altri. Incoraggia le divisioni in Europa, piuttosto che l’unità dell’Europa. Il che significa che l’America sta diventando più simile a un impero classico. Il risultato è che molti dei più radicali oppositori dell’amministrazione Bush, sia tra gli americani sia tra gli europei, sono proprio quelli che avevano accolto con più entusiasmo il ruolo dell’America nel mondo, e specialmente il suo ruolo in Europa. Sono i liberali, i pro umanitari, i fautori di una “terza via”, che avevano visto in Kennedy o Clinton (come nel New Deal di Roosevelt in altri tempi) un interlocutore o un modello. Inchieste sociologiche hanno mostrato le differenze politiche e persino sociali correlate ai tradizionali atteggiamenti antiamericani (forti nella estrema sinistra e nella estrema destra e tra i cittadini meno colti) e ai nuovi atteggiamenti anti Bush (forti nel centrosinistra e tra gli esponenti della fascia intellettuale o colta). La politica di Chirac: le velleità di una media potenza con una missione globale. Nel caso dei francesi, il contrasto è ancora più netto, se compariamo l’atteggiamento verso gli Stati Uniti dopo l’11 settembre 2001 e quello verso la guerra in Iraq. Dopo le Torri Gemelle, si è avuto un grande slancio di simpatia e solidarietà verso gli Stati Uniti, come in tutta l’Europa occidentale, ma forse anche più marcato (si pensi al famoso articolo di Le Monde: “Siamo tutti americani”). Solo una manciata di intellettuali ha dissentito. Ed è stato lo stesso per la guerra in Afghanistan. Il 73% dei francesi (la percentuale più alta nell’Europa occidentale) l’ha approvata. Ma una per- centuale anche più forte disapprova oggi la guerra contro l’Iraq. Questa posizione può quindi essere attribuita all’antiamericanismo? Penso che queste distinzioni servano a spiegare ampiamente (se non a giustificare, almeno per chi scrive) l’attuale politica di Jacques Chirac. Né lui né il suo ministro degli Esteri, Dominique de Villepin, sono antiamericani, nel senso primario e genuino del termine. Hanno entrambi un passato ricco di contatti amichevoli con l’America. Durante il suo primo mandato, Chirac tentò di negoziare il rientro della Francia nel comando militare integrato della NATO e contribuì a spingere il presidente Clinton verso l’intervento militare nella ex Yugoslavia. Chirac crede d’altra parte e fermamente in un mondo multipolare, ed è sensibile a un’antica tradizione francese, quella dell’alliance de revers, del coltivare cioè i rapporti con potenze ideologicamente e geograficamente distanti (i turchi nel caso di Francesco I, i russi alla fine del XIX secolo e di nuovo con De Gaulle e così via), per controbilanciare la potenza imperiale del momento. Per quanto riguarda l’Iraq non ha, tanto per cominciare, sostenuto una posizione antiamericana, ma (a diffe- 249 renza del cancelliere Schröder) una posizione di mediazione e flessibilità, che gli ha permesso di giocare un ruolo centrale nei negoziati con gli Stati Uniti sulla risoluzione 1441, e di contribuire a spingere il dibattito americano verso l’opzione multilateralista. Il rapporto personale tra Dominique de Villepin e Colin Powell sembrava a sua volta costituire, nell’autunno scorso, un fattore stabilizzante per l’elaborazione di una posizione occidentale volta al disarmo di Saddam Hussein. In pochi mesi la scena è cambiata radicalmente. Il nuovo accordo franco-tedesco ha portato la Francia più vicina alla posizione della Germania – nel rifiuto dell’uso della forza – piuttosto che viceversa. La posizione di Powell si è indebolita. La reazione americana alla minaccia francese di usare il potere di veto contro l’interruzione delle ispezioni in Iraq (così come il disappunto verso un asse franco-tedesco che parla in nome dell’Europa senza consultare i suoi partner attuali e futuri), ha avuto come conseguenza la lettera degli Otto e poi dei Dieci a sostegno della posizione americana. Si è così innescato un processo di escalation. Chirac ha attaccato con un insolito e poco diplomatico sfogo i Paesi candidati all’ingresso nell’Unione eu- Pierre Hassner 250 ropea firmatari delle due lettere (lasciando naturalmente fuori dal suo esplicito attacco gli Stati Uniti e quei “vecchi europei” come l’Italia, la Spagna e la Gran Bretagna). Il sostegno di una maggioranza di Stati alle Nazioni Unite e di movimenti di piazza contrari alla guerra in tutti i Paesi dell’Europa occidentale ha dato a Chirac la sensazione di parlare a nome degli europei, contro i loro stessi governi, e quindi di essere il leader dell’opposizione alla guerra, e cioè alla politica americana; ma negando che questa sua posizione voglia ledere il legame transatlantico. Quello che abbiamo cercato di spiegare è che, per molti versi, quest’ultima affermazione è fondata. Ciò che anima Jacques Chirac e la politica francese non è, almeno in partenza, l’antiamericanismo. È, in primo luogo, un atteggiamento critico verso le motivazioni di una guerra all’Iraq in questo momento, atteggiamento che ha portato prima a tattiche diplomatiche e conciliatorie, poi, quando è stato evidente che gli Stati Uniti avevano scelto l’opzione militare, a un’opposizione frontale. Visto che questo atteggiamento è condiviso dalla maggior parte degli europei e da molti americani, Chirac ha avuto la sensazione di esprimere ad alta voce un’opinione giusta e popolare, che altri governi hanno avuto paura di esprimere. Si può, rispetto a questa scelta, apprezzarne il coraggio; o invece disprezzare il populismo, la demagogia e l’opportunismo di Chirac – opportunismo di cui il presidente francese Chirac ha peraltro dato prova in passato, con molti e spettacolari cambi di linea politica. Ci sono infine due elementi cruciali. Uno di tipo personale, insito nelle personalità di Jacques Chirac e di Dominique de Villepin, due persone impulsive pronte ad assumere rischi, più che due freddi strateghi, con visioni a lungo termine. E l’altro tipicamente, inguaribilmente francese: il piacere di avere un ruolo sul palcoscenico mondiale, compensando la relativa debolezza della Francia con una forte dose di esuberanza verbale. Il grosso torto della politica francese non sta nell’essere antiamericana, ma nel non essere abbastanza europea; nel pensare, da Napoleone III a De Gaulle, che la Francia abbia il diritto di parlare per conto dell’Europa, di ignorare i suoi pari, e di sfidare i potenti, chiunque siano. A volte, questo ruolo è lodevole e persino utile alla causa europea e atlantica, come è stato nel caso dell’ex Yugoslavia, caso in cui Chirac ha spronato Clinton a intervenire militarmente, e al tempo stesso ha operato per contenere la strategia di bombardamento dell’aviazione USA. Ma il suo fallimento potenziale è sempre probabile, perché è implicito nell’aperta contraddizione che fa da perno alla classica definizione che la Francia dà di sé: “una media potenza con una missione globale”. 1 Vedi saggi in Timothy Garton Ash, “Anti-Europeanism in America”, The New York Review of Books, 13 febbraio 2003. Per studi precedenti, specificatamente centrati sulla Francia, vedi Justin Vaïsse, “Etats-Unis: le regain francophobe”, Politique Internationale, autunno 2002, e Simon Serfaty, La France vue par les Etats-Unis: réflexions sur la francophobie à Washington, Centre Français sur les Etats-Unis, IFRI, novembre 2002. 2 Jean-Luc Parodi, “Americains, les Français vous aiment, mais…”, Journal du Dimanche, 23 febbraio 2003, Baromètre, IFOP-JDD. 3 D. Lacorne, J. Rupnik e M.F. Toinet (a cura di), L’Amérique dans les têtes. Un siècle de fascinations et d’aversions, Hachette, Parigi, 1986. 4 Pew Research Center, What the World Thinks in 2002, Survey Report, ID-165, 4 dicembre 2002. 5 Editions Plon, Parigi, 2002. 6 Editions du Seuil, Parigi, 2002. 7 Editions Odile Jacob, Parigi, 2002. 8 Emmanuel Todd, Après l’Empire, Gallimard, Parigi, 2002. 251