Questa capitolo è dedicato alla lunga e affascinante storia della Luce, di quello che noi conosciamo di essa e delle ipotesi sulla sua natura che sono state avanzate nel corso dei secoli. Nella necessaria brevità della trattazione si è tentato di dare una quadro abbastanza completo dei fenomeni luminosi più importanti, sviluppandone alcuni anche matematicamente per esigenze didattiche, e solo accennando ad altri. La luce e la sua natura Da sempre la ricerca sulla vera natura della luce costituisce un argomento centrale di ogni Scienza o Filosofia Naturale. Nella sua vasta fenomenologia, la luce mostra aspetti misteriosi e oggettivamente inafferrabili, anche per il fatto che fino a tempi recenti l’unico strumento per indagarla e misurarla era l’occhio, quindi uno strumento imperfetto e soggetto all’arbitrio e ai limiti psicologici e fisiologici dell’osservatore. Nonostante ciò, alla luce è stato riservato un posto di primo piano tra i fenomeni naturali; possiamo ricordare ad esempio che nella Genesi si racconta che la luce viene creata prima del Sole (la sorgente della luce) e molto prima dell’Uomo (l’osservatore che ne attesta l’esistenza), chiara manifestazione del pensiero filosofico secondo il quale la luce ha un proprio essere, indipendente dall’esistenza di altre entità. In questi brevissimi appunti (minuscoli rispetto alla vastità dell’argomento) discutiamo alcune leggi fondamentali sulla luce e dell’ottica, accennando anche alla prospettiva storica nella quale queste leggi sono state formalizzate come oggi sono conosciute e utilizzate. 1) I raggi luminosi L’osservazione dei fenomeni di ombra e luce, penetranti attraverso finestre e fessure, e lo studio del meccanismo della visione nell’occhio portano in maniera abbastanza naturale a pensare che la luce, qualunque cosa possa essere, “si muova” o “si propaghi” in linea retta. Questa è in realtà una semplificazione piuttosto drastica, come oggi riconosciamo, perché vi sono fenomeni come la diffrazione (vedi), legati alla natura ondulatoria della luce, che implicano un allargamento del fronte luminoso ben oltre la sezione di un fascio rettilineo, come quello di un raggio di sole che passa attraverso una fessura in una stanza buia. Dall’antichità, e fino a tutto il ‘700, si è comunque ammesso che i punti dell’oggetto osservato e la pupilla dell’occhio dell’osservatore fossero connessi da segmenti di retta detti raggi luminosi. Che cosa poi fosse realmente trasportato da questi raggi era materia di discussione, sia per la mancanza di dati sperimentali, sia per la pratica impossibilità di una misura della velocità di propagazione della luce. La codifica e l’uso del raggio luminoso, e quindi della propagazione rettilinea, era già stato ampiamente studiato geometricamente da Euclide, che lo utilizzava anche per spiegare la riflessione e i principi della prospettiva. Bisogna tuttavia ricordare che secondo Euclide (e molti altri filosofi) è l’occhio ad emettere “raggi”, i quali gli permettono di osservare e acquisire informazioni sugli oggetti osservati. Questa era una delle teorie prevalenti nell’antichità, che si contrapponeva alla tesi secondo la quale l’oggetto osservato emetteva dei “simulacri” o “scorze” che ne conservavano la forma e il colore, e che entrando nella pupilla stimolavano la visione; naturalmente, esisteva un vasto spettro di posizioni intermedie tra le due teorie. Dal medioevo arabo al rinascimento europeo, in base a sperimentazioni e ricerche di qualità sempre migliore sul meccanismo della visione λ nell’occhio, si è comunque affermata la visione “moderna” di un qualcosa di immateriale, spesso dotato di proprietà calorifiche, che viene emesso dall’oggetto ritenendone le proprietà, e arriva grande intensità d all’occhio, e in particolare sulla retina. Oggi si preferisce parlare di approssimazione dei raggi luminosi: la luce è un’onda e come tale si muove in tutte le direzioni, ma la sua intensità (vedi la definizione in fondo) si propaga lungo la direzione dei raggi luminosi (le frecce in figura), che sono perpendicolari al fronte d’onda (linee nere in figura), cioè al piano ideale in cui tutti i punti piccola intensità dell’onda sono nello stesso stato di oscillazione, cioè hanno la stessa fase (vedi il principio di Huygens, nella seconda parte). Nel caso di fronti d’onda piani, i raggi sono paralleli e quindi l’energia dell’onda si mantiene concentrata; nel caso di fronti d’onda curvi, i raggi si allargano e l’energia dell’onda si disperde e si annulla rapidamente (proporzionalmente a 1/r2 nello spazio tridimensionale). Di conseguenza a grande distanza, se il fronte d’onda è sufficientemente piano, si osserva che l’energia dell’onda (la “luce”!) si propaga praticamente in linea retta. Una regola pratica per la validità dell’approssimazione dei raggi luminosi è la seguente: bisogna che la lunghezza d’onda λ dell’onda luminosa sia più piccola della dimensione del fronte d’onda d (o dell’apertura da cui emerge il fronte d’onda, o dell’oggetto illuminato), ovvero λ << d come si può vedere anche dalla figura. L’approssimazione dei raggi luminosi funziona ed è usata nell’ottica geometrica, cioè per tutto quanto riguarda lo studio di lenti, cannocchiali, microscopi etc., e nell’ottica fisiologica, cioè nello studio dell’occhio. Infatti, la lunghezza d’onda della luce visibile va da 0.4 µm a 0.8 µm, e quindi di qualche ordine di grandezza più piccola delle dimensioni di questi strumenti. 2) La riflessione Il fenomeno della riflessione permette di poter osservare un oggetto anche se questo non è visibile direttamente in linea retta, utilizzando una superficie piana liscia (detta riflettente, o specchio). Questo fatto, che sembra porre qualche dubbio sulla connessione rettilinea tra occhio e oggetto osservato, veniva spiegato nell’antichità ammettendo che i raggi luminosi che connettono occhio e oggetto, potessero dividersi in due parti, secondo la legge della riflessione: le due parti del raggio rettilineo e la normale alla superficie riflettente stanno sullo stesso piano, e gli angoli tra i raggi e la normale sono uguali. normale In linguaggio moderno, sulla superficie riflettente incide un raggio di un fascio di luce, che raggio incidente forma l’angolo θ i detto angolo di incidenza, con la raggio riflesso retta normale alla superficie. Dal punto di arrivo sulla θi θr superficie, e sullo stesso piano delle rette precedenti, emerge il raggio riflesso, che forma con la normale l’angolo θ r detto angolo di riflessione, e si ha: θi = θr In generale il raggio riflesso può avere intensità inferiore a quello incidente, sia perché l’efficienza dello specchio nel riflettere non é mai del 100%, sia perché possono intervenire altri fenomeni. Le caratteristiche della riflessione possono essere estese subito a fasci di raggi luminosi ravvicinati e paralleli, e a specchi curvi o di forma qualsiasi, in quanto il punto di contatto tra raggio incidente e superficie é idealmente infinitesimo. Più in generale, se un fascio luminoso arriva alla superficie di separazione tra due mezzi materiali (uno di questo può essere anche il vuoto) si ha sempre una certa percentuale di energia che viene riflessa, a meno di fenomeni di interferenza (vedi). Se la superficie non è liscia ma ha delle rugosità, i raggi riflessi si troveranno in direzioni diverse e viene persa quindi la coerenza dell’informazione trasportata dai raggi inizialmente paralleli. La legge della riflessione può ricavarsi in modo elementare sia da teorie corpuscolari che da teorie ondulatorie (vedi), per cui non essa non ha mai costituito un banco di prova per discriminare tra le diverse idee sulla natura del fenomeno luminoso. E’ da notare che già nell’antichità era stato proposto che la legge della riflessione, come anche la successiva della rifrazione, nascesse dalla necessità della Natura di “seguire la via più semplice”, ovvero “la via più breve” (vedi il principio di Fermat), e questo senza avere informazioni di alcun genere sulla velocità che potesse avere il fenomeno luminoso nell’aria o nei mezzi materiali. 3) La rifrazione Il fenomeno della rifrazione consiste nel cambiamento di direzione che i raggi luminosi subiscono nell’attraversare la raggio incidente superficie di separazione tra due diversi mezzi materiali trasparenti. Una nota conseguenza di tale fenomeno è la θ1 difficoltà di individuare esattamente la posizione di un oggetto sott’acqua, per un osservatore all’esterno. Il fenomeno della rifrazione è ampiamente utilizzato nelle lenti e negli strumenti ottici. Molti scienziati si dedicarono alla ricerca di una legge della rifrazione, la quale, oggi nota come legge di Snell, venne finalmente stabilita da Snell e Cartesio nel 1600 nella seguente forma: un raggio luminoso incidente forma un angolo θ1 (angolo di incidenza) con la retta normale alla superficie di separazione tra due mezzi; nell’altro mezzo e sullo stesso piano, emerge un raggio rifratto, formante un angolo θ 2 con la normale, detto angolo di rifrazione e in generale diverso dal precedente, e si ha la relazione: sen(θ1 ) sen(θ 2 ) = costante sen(θ1) normale θ2 raggio rifratto r=1 cioè il rapporto tra i seni degli angoli di incidenza e di rifrazione è una costante, il cui valore dipende dai due mezzi sen(θ2) considerati. Questa legge ha un contenuto solo geometrico, nel senso che stabilisce una precisa relazione tra gli angoli sopra indicati. Nella figura è rappresentato il caso θ1 > θ 2 , ma si può verificare anche il caso opposto (reversibilità dei raggi luminosi). Il valore della costante è specifico e caratteristico dei due mezzi trasparenti, e doveva essere ricavato sperimentalmente. Si verifica che, in generale, più un mezzo è denso rispetto all’altro mezzo, più l’angolo di rifrazione nel primo mezzo è inferiore (in figura, il mezzo 2 è più denso del mezzo 1). La legge della rifrazione è stata uno dei terreni di scontro tra le diverse teorie sulla natura della luce, non essendo chiaro come e perché il raggio luminoso dovesse “piegarsi” nel passare da un mezzo all’altro. Solo dopo la formulazione precisa della legge si è cominciato a capire che la velocità di propagazione dell’oggetto “luce” nei diversi mezzi vi gioca un ruolo essenziale (e a questo proposito è curioso che Cartesio fosse fermamente convinto che la luce avesse velocità infinita!). Le due principale teorie, quella corpuscolare e quella ondulatoria, fornivano spiegazioni opposte al problema della rifrazione. La teoria corpuscolare era sostenuta dai seguaci di Newton (sebbene la posizione di Newton fosse in realtà assai più complessa) e afferma che la luce sarebbe costituita da minuscole particelle in moto rettilineo secondo le leggi della meccanica; queste particelle hanno masse diverse, il che darebbe una spiegazione dei diversi colori (vedi), e vengono attirate dai mezzi materiali più densi. A causa di ciò, quando queste particelle attraversano la superficie di separazione, ricevono una forza attrattiva verso il mezzo più denso, la quale aumenta la componente della velocità normale alla superficie, e di conseguenza “piega” la traiettoria verso la normale. Naturalmente, il fatto che la velocità delle particelle di luce sia maggiore nei materiali più densi non era una cosa facile da accettare. D’altra parte Fermat aveva mostrato come dalla sola ipotesi intuitiva che nel mezzo più denso la velocità del raggio luminoso sia inferiore che nel mezzo meno denso, e dal principio che la natura “segue la via più breve” (vedi) sia possibile dedurre la legge di Snell. Anche la teoria ondulatoria introdotta da Huygens riesce a ricavare la legge della rifrazione da questa ragionevole ipotesi sulle velocità. Ricordiamo che la prima misura attendibile della velocità della luce nel vuoto (che oggi sappiamo eguale a c = 3 x 108 m/s) fu realizzata con metodi astronomici solo nel 1676 da Roemer, mentre all’epoca non sarebbe stato tecnologicamente possibile ottenere alcun genere di informazione riguardo la velocità della luce nei mezzi materiali. Nel tempo, la teoria ondulatoria si andava via via imponendo, perché in grado di spiegare elegantemente una grande quantità di fenomeni ottici, ma la prova definitiva della sua correttezza riguardo alla spiegazione della rifrazione (e la fine di tutte le discussioni al proposito) si ebbe solo nel 1849, quando Foucalt e Fizeau riuscirono a misurare per la prima volta la velocità della luce in un mezzo diverso dal vuoto (in tubi pieni d’acqua). La forma esplicita della legge di Snell risultò quindi quella di Fermat e Huygens: sen(θ 1 ) sen(θ 2 ) = v1 v2 dove v1 e v2 sono rispettivamente le velocità della luce nei due mezzi materiali. 4) L’indice di rifrazione Per caratterizzare il comportamento delle sostanze rispetto alla trasmissione dei raggi luminosi, conviene definire il parametro adimensionale indice di rifrazione n, definito dal rapporto tra la velocità della luce nel vuoto (che secondo il principio di relatività di Einstein è la velocità massima in assoluto, e quindi anche per la luce stessa) e quella nel mezzo: n = c v n è quindi un numero sempre maggiore di 1 (e generalmente minore di 5), e per definizione identicamente uguale a 1 per il vuoto. L’indice di rifrazione è noto e misurato sperimentalmente per un gran numero di sostanze. Ad esempio per l’acqua abbiamo n = 1.33, per il vetro flint n = 1.66; ne segue che la velocità della luce in questo vetro è v = c/n = 1.81 x 108 m/s, decisamente ridotta rispetto a quella nel vuoto, ma sempre elevatissima. Potremmo chiederci fino a che valore sia possibile ridurre la velocità della luce. Oggi, in particolari condizioni realizzabili con sofisticati esperimenti e tecniche laser, si può manipolare e rallentare la luce fino a 1/100 e oltre della sua velocità nel vuoto, fin quasi a “fermarla”, una cosa impensabile fino a pochi anni fa. Tornando alla legge della rifrazione, avendo definito n si può scrivere: n1 sen (θ 1 ) = n 2 sen (θ 2 ) che è la forma più usata della legge di Snell: si ha uguaglianza tra i prodotti del seno dell’angolo di incidenza (o di rifrazione) con l’indice di rifrazione del mezzo corrispondente. 5) La riflessione totale Il fenomeno della rifrazione ha una conseguenza molto particolare quando il raggio luminoso esce da un mezzo materiale più denso, o più rifrangente (il mezzo 1 in questa 2 figura), per entrare in mezzo meno denso (il 2), e quindi con n1 θa > n2 (il caso opposto a quello mostrato nella pagina precedente). Ad esempio, questa situazione si realizza quando osserviamo 1 dalla riva degli oggetti sott’acqua. θb Se il raggio luminoso, proveniente da un oggetto, forma θc con la normale un angolo maggiore di un angolo critico θc, non può uscire dal mezzo e viene totalmente riflesso indietro; nell’esempio precedente, dalla riva non possono essere visti oggetti in direzione troppo “obliqua”, ma solo quelli in direzione vicina alla verticale. Una spiegazione intuitiva di questo fenomeno è schematizzata in figura: il raggio emesso dalla sorgente forma l’angolo θa con la normale, ed esce dal mezzo 1 più inclinato verso l’esterno; se il raggio aumenta la sua inclinazione fino all’angolo critico θc , il raggio uscente è parallelo alla superficie (la situazione limite) e infine se il raggio emesso ha inclinazione θb > θc è costretto a tornare nello stesso mezzo, e seguirà la normale legge della riflessione. Dalla legge di Snell ricaviamo l’angolo critico θc : ponendo θ1 = θc, e l’angolo di uscita θ2 = 900 (raggio uscente perpendicolare alla normale) abbiamo: n1 sen( θ c ) = n 2 sen( 90 0 ) θc n1 sen( θ c ) = n 2 ⋅ 1 sen( θ c ) = n2 n1 = arcsen( n2 / n1 ) Notiamo che queste formule hanno senso solo se n1 > n2 (date le caratteristiche della funzione seno); il fenomeno della riflessione totale è possibile soltanto se si passa da un mezzo più rifrangente a un meno rifrangente. Per un raggio luminoso uscente dall’acqua, si ha che n1 = 1.33 mentre per l’aria è praticamente n2 = 1, così che l’angolo critico risulta θc = 48.80. Il fenomeno della riflessione totale suggerisce che la luce possa essere “confinata” in un materiale ad alto n, quando i raggi incidono sulle sue superfici ad angoli sufficientemente elevati; difatti le fibre ottiche (fibre flessibili costituite di materiale vetroso in varie composizioni) sono progettate proprio a questo scopo, e costituiscono un “tubo” che guida il segnale luminoso anche per migliaia di chilometri senza disperderlo. Tra le numerose applicazioni già in opera, ricordiamo la diagnostica medica non invasiva (non chirurgica), e le comunicazioni che si basano non più soltanto su segnali elettrici trasmessi tramite cavi, ma su segnali ottici in fibre. 6) I colori Nell’antichità i colori sono stati oggetti di studio e meraviglia più per poeti e letterati che per filosofi e scienziati. Il colore veniva attribuito ad una proprietà specifica dei corpi in esame, analoga al peso e alla consistenza, e non era direttamente collegato con la luce. Infatti, per luce si intendeva solo la “luce bianca”, cioè la luce comune emessa dal Sole (o dall’occhio dell’osservatore); in determinate condizioni i raggi luminosi, entrati in contatto con corpi colorati, si limitavano a prenderne una traccia e a trasportarla, come un veicolo trasporta un messaggio o un’informazione. L’occhio poi aveva il compito di classificare i colori come “specie visuali”, cioè percezioni diverse della visione, come ad esempio l’amaro e il dolce sono diverse percezioni del gusto. Del resto non esisteva una scienza sperimentale come la intendiamo noi oggi, e l’unico strumento di analisi era l’occhio. Dal 1600, quando il dibattito sulla natura della luce divenne un argomento centrale della “filosofia naturale”, e i mezzi tecnici migliorarono nettamente, cominciò a farsi strada l’idea che i colori fossero particolari tipi di luce, e dovessero derivare da diversi stati di “moto” vibratorio od oscillatorio (teorie avanzate da padre Grimaldi e da Hooke). Fu Newton, a partire dal 1666, ad affrontare il problema in modo nuovo e sistematico, da vero scienziato “moderno”. Con una serie di esperimenti che utilizzavano fasci di luce bianca rifratti su prismi di vetro dimostrò che: (a) la luce bianca è composta da raggi luminosi diversi, cui possiamo attribuire un “colore”; il colore è quindi una delle proprietà intrinseche del raggio luminoso; (b) ogni raggio colorato subisce diversa rifrazione, in altre parole l’indice di rifrazione non è costante ma varia con il colore del raggio, secondo il fenomeno noto come “dispersione”. Egli classificò i colori sulla base di sette colori fondamentali (il numero di 7 venne scelto in realtà su base puramente filosofica): dal meno rifrangente, il rosso, al più rifrangente, il violetto. Inoltre attribuì il colore alla diversa massa delle ipotetiche particelle costituenti il raggio luminoso, e la percezione del colore all’azione di queste diverse particelle sull’occhio. La teoria del colore di Newton è stato uno dei grandi successi dell’ottica, soprattutto perché ha fatto entrare anche questo argomento pienamente nell’ambito della scienza. Nella teoria ondulatoria di Huygens, le conclusioni di Newton rimangono perfettamente valide, me vengono modificate la causa e la teoria della percezione del colore. Infatti, esso viene attribuito alle diverse lunghezze d’onda che può avere un’onda luminosa, partendo da 0.4 µm per il violetto per arrivare a 0.7 µm per il rosso. L’indice di rifrazione di un mezzo diminuisce leggermente all’aumentare della lunghezza d’onda, per cui il violetto è il colore che subisce la maggior rifrazione (deviazione del raggio) mentre il rosso ha la minore rifrazione. A tutt’oggi questo rimane il fondamento della scienza del colore. L’insieme dei diversi colori costituisce lo spettro visibile. Dobbiamo ricordare che in realtà il “colore” è una caratteristica che dipende dalla struttura dell’occhio dell’osservatore umano; è noto infatti che la percezione del colore da parte degli occhi di altri animali può essere sostanzialmente diversa. Dal punto di vista strettamente scientifico, si può discutere solo di raggi luminosi di diversa lunghezza d’onda; a questo proposito lo spettro visibile è solo una piccolissima parte, l’unica cui siamo direttamente sensibili, dello spettro delle radiazioni elettromagnetiche. Per lunghezze d’onda appena più piccole della luce visibile si entra nella regione dei raggi ultravioletti, noti tra l’altro per le abbronzature; per lunghezze d’onda più grandi si va nella regione dei raggi infrarossi, i cui effetti si hanno soprattutto nella trasmissione del calore e furono presto riconosciuti dagli scienziati. 7) Il principio di Fermat Il principio di Fermat, enunciato nel 1664, è uno dei pilastri su cui si basa la teoria della propagazione della luce; la sua semplice e potente idea filosofica di base, di cui tracce si trovano anche nell’antichità, è stata poi estesa in altri campi della Fisica, in altre forme e sotto altre denominazioni, e si ritrova finanche nella Fisica moderna. Ecco l’idea: il percorso di un raggio luminoso per andare da un punto di partenza a un punto di arrivo è tale da richiedere il minimo tempo (secondo l’ipotesi per cui la natura tende alla semplicità!). Con le conoscenze di oggi una simile affermazione sembra elementare, ma all’epoca restava un mistero persino se e come la luce si muovesse. La propagazione della luce in linea retta nei mezzi omogenei consegue immediatamente; anche la legge della riflessione si ricava abbastanza facilmente (lasciamolo per esercizio). Col principio di Fermat si possono anche affrontare problemi più complessi di fisica moderna relativistica, come la curvatura dei raggi luminosi emesse da stelle lontane, nel passare vicino ad una grande massa come quella del Sole. Vediamo ora come si ricava la legge della rifrazione, che è anche stato il primo motivo ispiratore del principio d di Fermat. In figura è mostrata una situazione tipica, in cui P vi sono due mezzi con indice di rifrazione diverso n1 > n2 , θ1 e un raggio luminoso emesso dal punto P nel primo r1 mezzo, a distanza a dalla superficie di separazione, che a θ1 n1 arriva al punto Q posto nel secondo mezzo a distanza d-x x b dalla superficie. La velocità della luce nel primo mezzo è v1 = c/n1, mentre nel secondo mezzo è v2 = c/n2 . Se d è b n2 θ2 la distanza orizzontale tra P e Q, essa sarà divisa nelle due θ 2 parti x e d − x dal punto di coordinata x in cui il raggio r2 attraversa la superficie. Usando la geometria della figura, il tempo necessario perché il raggio vada da P a Q sarà: Q r r t= 1 + 2 = v1 v 2 (d − x) 2 + b 2 x2 + a2 + c / n1 c / n2 che ci mostra come il tempo in questione è una funzione del punto di attraversamento x . Per trovare il tempo minimo, dobbiamo ricavare il minimo di questa funzione della variabile x ; uguagliando a zero la derivata di questa funzione rispetto a x e usando le regole delle derivate: ( ) ( ) n d dt n1 d = ⋅ x2 + a 2 + 2 ⋅ (d − x)2 + b2 = dx c dx c dx = n1 1 2x n 1 2(d − x) ⋅ (−1) ⋅ ⋅ + 2⋅ ⋅ c 2 x2 + a2 c 2 (d − x)2 + b2 = Osserviamo che si ha sen(θ1 ) = x x = r1 x 2 + a2 ; sen(θ 2 ) = n1 x c x2 + a 2 − n2 (d − x) c (d − x)2 + b2 =0 d−x d−x = r2 (d − x) 2 + b2 e quindi sostituendo: n1 n sen(θ1 ) − 2 sen(θ 2 ) = 0 c c n1 sen(θ1 ) = n2 sen(θ 2 ) ritrovando infine la legge di Snell. L’applicazione del principio di Fermat, come si vede, presenta calcoli laboriosi; la sua importanza è soprattutto concettuale, perché dà indicazioni di tipo globale sul fenomeno, per esempio in questo caso il comportamento dei raggi luminosi (in un certo senso è come se la luce “sapesse” quale traiettoria seguire!). Principi simili a questo entrano anche nella moderna Meccanica Quantistica, cioè nella teoria che spiega il comportamento degli atomi e del mondo microscopico in generale. 8) Il principio di Huygens e l’ottica ondulatoria Lo scienziato olandese C. Huygens fu il principale propugnatore della teoria ondulatoria della luce, da lui esposta per la prima volta nel 1678, e subito contrapposta alla teoria corpuscolare che viene fatta risalire a Newton, secondo cui la luce sarebbe composta da particelle in moto, le quali obbedirebbero alle leggi della Meccanica. La lotta tra le due teorie si risolse soltanto nel corso del XIX secolo, quando Young - con gli esperimenti sull’interferenza (vedi) - e soprattutto Fresnel - con la spiegazione ondulatoria di tutti i fenomeni ottici noti all’epocadimostrarono che la luce è in effetti un’onda trasversale, cioè un movimento oscillatorio microscopico nella direzione perpendicolare alla direzione di propagazione del raggio luminoso (anche se la natura del mezzo che supportava l’onda, il cosiddetto etere, non era ancora del tutto chiarita). Huygens considera un punto di partenza completamente diverso da quello di Newton. Se per lo scienziato inglese era evidente che la luce viaggiasse in linea retta, e la sua attenzione era puntata soprattutto sulla teoria del colore e sugli aspetti meccanici, Huygens sceglie invece di trascurare il colore, mentre punta su fenomeni come la diffrazione (che rende poco nitidi i contorni delle ombre, mentre allarga e complica le immagini osservate attraverso piccole fenditure) già scoperta da padre Grimaldi, e analizza accuratamente le analogie tra la luce e il suono, già evidenziate sin dall’antichità. Giunge quindi ad affermare che “la luce arriva da un corpo luminoso a noi come un moto impresso alla materia interposta”. In particolare la luce appare come un moto oscillatorio di una sostanza particolare presente in tutto l’universo (anche nel vuoto!), diversa dalla materia ordinaria, che prenderà poi il nome di “etere”. Questo etere oscilla elasticamente, e i punti in cui ad un certo istante vi è la massima ampiezza di oscillazione vanno a costituire i fronti d’onda (o in altre parole, le creste dell’onda). Per spiegare la propagazione della luce e prevedere il movimento di un fronte d’onda, si ricorre al seguente principio: tutti i punti di un fronte d’onda fungono da sorgenti di onde elementari sferiche secondarie; dopo un intervallo ∆t la fronte a t1 nuova posizione del fronte d’onda sarà la tangente fronte a t2 superficiale alle onde secondarie. Nella figura abbiamo un semplice esempio: al tempo t1 il fronte d’onda è rappresentato dalla linea nera. I punti del fronte (ne sono segnati alcuni) sono sorgenti di onde sferiche che si allargano alla velocità v dell’onda luminosa (come i cerchi sull’acqua, il raggio cresce come v·t). La tangente a questi archi, detta inviluppo, è il nuovo fronte d’onda al tempo t2 = t1 + ∆t; la distanza tra i due fronti d’onda sarà ∆x = v·∆t . Il raggio luminoso, che noi interpretiamo come la direzione di movimento dell’energia luminosa, è perpendicolare al fronte d’onda, come già discusso nella parte I. Il principio di Huygens permette di giustificare le leggi della riflessione e della rifrazione, cosa che lasciamo come esercizio. Il fatto che ogni punto del fronte d’onda sia sorgente di onde sferiche giustifica i fenomeni in cui si osserva un allargamento del fascio luminoso, come nel caso in cui la luce passa attraverso piccole fessure; l’immaginare l’onda che si propaga come data dalla sovrapposizione di onde sferiche elementari è in grado inoltre di spiegare anche i fenomeni di interferenza (vedi). La natura ondulatoria della luce è pienamente affermata, ed è oggi incorniciata nella teoria dell’elettromagnetismo, per cui ad oscillare è il campo elettromagnetico; poiché tale oscillazione può avvenire anche nel vuoto, oggi non è più necessario introdurre alcun “etere”. Come considerazione finale, ci poniamo la domanda di cosa succeda alla luce nel passaggio dal vuoto, dove la sua velocità è c, ad un mezzo rifrangente di indice n1 = c/v1 . Nel mezzo la velocità della luce è v1 , inferiore a c, i fronti d’onda che entrano nel mezzo sono rallentati e quindi si “schiacciano” gli uni sugli altri. In altre parole, consideriamo la relazione fondamentale c = λ·ν dove c è la velocità della luce nel vuoto, λ è la lunghezza d’onda e ν la frequenza dell’onda (supposta monocromatica). Nel mezzo si avrà v1 = λ1·ν essendo λ1 la lunghezza d’onda della luce nel mezzo; la frequenza è sempre la stessa perché il periodo di oscillazione di ogni punto fisso nello spazio è imposto dall’onda incidente. Ricavando quindi la frequenza ν dalla prima relazione e sostituendo nella seconda: v1 = λ1 ⋅ c λ λ1 = λ n1 cioè la lunghezza d’onda nel mezzo risulta più corta di quella nel vuoto di un fattore 1/n1 , e i fronti d’onda sono più ravvicinati. Relazioni analoghe possono essere ricavate tra le lunghezze d’onda della luce che propaga in mezzi diversi. Infine notiamo che se facciamo convergere nello stesso punto due onde, partite dallo stesso punto in fase (massima ampiezza nello stesso istante), ma che si muovono in mezzi con diverso indice di rifrazione (per cui si parla di “cammino ottico” differente) si ottengono fenomeni di interferenza; infatti, essendo diversa la lunghezza d’onda ne consegue che le onde possono non essere più in fase quando si incontrano di nuovo (avranno massima ampiezza in istanti diversi), e quindi è possibile osservare luce, buio o gradazioni intermedie a seconda del punto di convergenza. Tale fenomeno viene sfruttato in certi tipi di microscopi e in apparecchiature ad uso degli ottici. 9) Le lenti La storia delle lenti è una delle più singolari che si possano ritrovare nell’ambito scientifico. Fin dall’antichità i fenomeni della riflessione e della rifrazione nei vetri sono sempre stati ampiamente sfruttati su specchi e lenti, per osservare, per ottenere immagini più o meno modificate e anche come mezzo per accendere il fuoco. Il più antico documento conosciuto è un brano di una commedia di Aristofane (IV secolo prima di Cristo) in cui si fa cenno al fatto che nei negozi di Atene si potevano acquistare dei “cristalli ustori”, che fatti attraversare dalla radiazione solare potevano fondere la cera. E’ noto poi che verso la fine del XIII secolo fanno la loro comparsa, ad opera di sconosciuti artigiani, i primi occhiali, cioè le prime lenti utilizzate per la correzione di difetti della vista. E presto, nelle regioni attorno a Firenze e Venezia, accanto all’industria del vetro si sviluppa una fiorente produzione e commercio di occhiali. Ma in tutta questa lunga storia vi è un aspetto incredibile: come è testimoniato dai trattati filosofici e scientifici dell’epoca, in cui non vi è traccia di lenti e occhiali, sembra che gli uomini di scienza non abbiano mai avuto particolare interesse per questi oggetti di uso pratico, ignorando totalmente quanto si stava sviluppando nelle botteghe degli artigiani. Probabilmente questo ostracismo derivava dalla prepotente convinzione filosofica di antica origine che la luce fosse il mezzo con cui uno dei cinque sensi, la vista, comunicava col mondo esterno, e quindi non poteva interporsi nulla tra l’occhio e l’oggetto “visto” per il rischio di “ falsificare” le sensazioni visive ricevute. O più semplicemente, data la scarsa qualità delle lenti fabbricabili nell’antichità e nel medioevo, il loro uso poteva avere effetti totalmente incomprensibili, che quindi non ricadevano nell’ambito dei fenomeni interpretabili razionalmente, oggetto della Scienza; le lenti erano indegne di essere oggetto ricerca scientifica, e non potevano servire che a usi pratici e artigianali, ma non per il nobile intento di indagare la Natura. Fatto sta che solo a partire del 1500 le lenti fanno la loro timida comparsa in qualche trattato scientifico, in concomitanza col miglioramento delle tecniche di fabbricazione. Un particolare interesse suscita poi l’invenzione del cannocchiale (di cui in realtà non si conosce il primo costruttore!). Soprattutto con l’uso che Galileo fece del cannocchiale nel 1609, costringendo il mondo intero ad accostare l’occhio ad uno strumento ottico per scoprire nuove meraviglie della Natura, le lenti si imposero come l’oggetto di studio centrale di tutta l’ottica geometrica, cioè la scienza della propagazione dei raggi luminosi. Da questo momento gli strumenti ottici fanno la loro comparsa ufficiale nel panorama della scienza, affiancandosi all’occhio, che era stato per millenni l’unico strumento a disposizione, e provocando una completa rivoluzione nella branca della scienza denominata Ottica. Per ora ci fermeremo qua, senza addentrarci nello studio della geometria della propagazione dei raggi luminosi, e della formazione delle immagini con l’uso di lenti, che può essere trovata in ogni testo di Fisica. L’introduzione delle lenti, seguite presto da cannocchiali e microscopi, è stata feconda di risultati nello studio della Natura. Essa aprì la strada a un vero studio sperimentale della luce e dei suoi fenomeni, basato sull’uso di opportuni strumenti; basti pensare all’uso che Newton fece del prisma triangolare, con cui risolse il problema del colore. 10) L’interferenza di onde luminose Si è detto dell’idea propugnata da Huygens che la luce fosse un moto ondulatorio di un mezzo detto “etere”, contrapposta all’idea meccanica che la luce fosse composta da particelle materiali. La prova sperimentale della correttezza della natura ondulatoria della luce si ebbe per la prima volta nel 1801 ad opera di Young, mettendo in evidenza un fenomeno di interferenza delle onde luminose, e riuscendo a misurare per la prima volta, studiando la luce proveniente dal Sole, l’ordine di grandezza delle lunghezze d’onda del visibile. I fenomeni di interferenza sono caratteristici delle onde: nel caso più semplice, quando due onde della stessa frequenza e ampiezza si sovrappongono, a seconda della loro differenza di fase (cioè se lo stato di massima ampiezza viene raggiunto dalle onde in diversi istanti di tempo) si ottiene un’onda la cui ampiezza varia tra il doppio dell’ampiezza originaria a zero (lo strano caso in cui luce + luce dà ombra!). L’esperimento di Young consiste nel far sovrapporre su uno schermo la luce proveniente da P r1 due sorgenti puntiformi coerenti e monocromatiche (cioè emettenti onde luminose della stessa frequenza r2 e con una fissata differenza di fase), che vengono θ facilmente ottenute illuminando due piccoli buchi con la stessa sorgente luminosa; per il principio di ∆r Huygens ogni piccolo buco è una sorgente di onde sferiche, la cui unica differenza può essere solo nella fase relativa. Sullo schermo si potevano osservare strisce chiare e scure alternate, cosa spiegabile solo con la presenza di fenomeni di interferenza costruttiva o distruttiva tra onde che raggiungono lo stesso punto P percorrendo lunghezze diverse (cioè con un diverso cammino ottico) e ritrovandosi così a sovrapporsi con differenze di fase diverse da punto a punto dello schermo. La descrizione matematica del fenomeno si può trovare in tutti i libri. Qua ci preme sottolineare come soltanto con la natura ondulatoria della luce è possibile spiegare questo esperimento. Anzi, misure della distanza tra le strisce chiare e scure sono state il primo mezzo per determinare sperimentalmente la lunghezza d’onda della luce. Fenomeni di interferenza ondulatoria sono anche alla base di altre manifestazioni mai sufficientemente chiarite prima del 1800; un esempio è il caso della diffrazione, quando la luce si allarga oltre il percorso rettilineo del raggio creando immagini complesse, o quello delle strisce luminose colorate alternate a strisce scure che si osservano quando la luce passa attraverso lamine sottili (bolle di sapone, macchie d’olio etc.). 11) la natura della luce ormai svelata? Nella prima metà del secolo XIX si poteva dire di aver ormai definito la natura della luce e di aver spiegato completamente tutti i fenomeni luminosi. Un quadro sintetico delle conoscenze sulla natura della luce avrebbe compreso i seguenti punti: a) La luce è composta da onde trasversali di lunghezza d’onda compresa tra 0.8 µm e 0.4 µm, che viaggiano a c = 3x108 m/s (e la pulsazione ω di queste onde risulta dell’ordine di 5x1015 Hz) che vibrano in un mezzo elastico detto etere, di cui si possono dedurre alcune proprietà, anche se la sua esistenza non è ancora stata dimostrata. b) Quando le onde luminose arrivano sulla materia, o attraversano diversi materiali, subiscono riflessione e rifrazione, a seconda del parametro detto indice di rifrazione n, che è variabile con la lunghezza d’onda e quindi può provocare la dispersione cromatica. c) La propagazione delle onde è regolata dal principio di Huygens, per cui ogni punto investito dalla radiazione diventa sorgente di onde elementari, la cui somma dà il fronte d’onda che si propaga. d) Quando le onde incontrano ostacoli o fessure si osservano fenomeni complessi che si riassumono nel gruppo dei fenomeni di diffrazione (es. immagini sfumate). e) Quando due onde coerenti con la stessa lunghezza d’onda si sovrappongono si hanno fenomeni di interferenza (luce + luce può anche produrre buio). Questo sintesi delle proprietà della luce è a tutt’oggi sostanzialmente corretta. Certo, permaneva il problema dell’etere, sostanza misteriosa e inafferrabile, che lasciava ancora qualche dubbio agli scienziati. Ma la scoperta delle onde elettromagnetiche prima, e la nuova fisica sviluppata a partire dal 1900 cambieranno totalmente i termini della questione, come vedremo più avanti. 12) La polarizzazione della luce Abbiamo appena affermato che la luce è un’onda trasversale, cioè con il piano di oscillazione perpendicolare alla direzione di propagazione. Questo fatto non può in realtà essere messo in evidenza con nessuno degli esperimenti visti; l’oscillazione potrebbe essere sia trasversale sia longitudinale, e in entrambi i casi i fenomeni ottici già visti non cambierebbero. La trasversalità dell’oscillazione luminosa fu provata dall’ingegnere francese Fresnel nel 1820, come ciliegina sulla torta della teoria ondulatoria da lui stesso (in poco più di 5 anni!) analizzata, sperimentata, sviscerata, formulata matematicamente e dimostrata in grado di spiegare qualunque fenomeno luminoso, sulla base delle prime idee di Young. Si pensi che a tutt’oggi l’ottica ondulatoria usa i metodi di Fresnel! Restava in effetti da affrontare un ultimo scoglio, il fenomeno della doppia rifrazione, o birifrangenza, scoperto da più di un centinaio d’anni in un cristallo trasparente particolare, lo spato d’Islanda, un particolare tipo di calcite. In questo cristallo un ordinario raggio luminoso incidente produce, oltre al normale raggio rifratto (detto ordinario) un secondo raggio (detto straordinario) ad un angolo diverso e non nello stesso piano del raggio ordinario. Questo strano fenomeno non è mai stato spiegato in modo soddisfacente, sia nell’ambito dell’ottica corpuscolare sia in quella straordinario ondulatoria. Fresnel, con abili esperimenti, riuscì a far convergere sullo stesso schermo i due raggi ordinario e straordinario, originati dallo stesso raggio incidente, per osservarne l’interferenza. Ma con sua sorpresa notò che non vi era nessuna interferenza, ma solo un’illuminazione uniforme! Questa era una cosa assolutamente strana, perché due raggi provenienti dalla stessa sorgente, quindi con la stessa lunghezza d’onda, avrebbero dovuto mostrare le strisce chiare e scure come nell’esperimento di Young. In qualche modo i due raggi uscenti erano diventati totalmente “diversi” e incoerenti, non avevano più nessuna relazione tra loro (come la luce proveniente da due lampadine diverse). Il problema poteva essere risolto soltanto ammettendo che l’onda luminosa avesse un’ulteriore caratteristica, oltre a lunghezza d’onda, frequenza e ampiezza, che veniva evidenziata solo quando la luce entrava in questo cristallo particolare (che ha un reticolo cristallino di tipo trigonale romboedrico, con particolari piani di simmetria). x Consideriamo la figura, in cui vi è una terna di assi cartesiani ortogonali: se un’onda polarizzazione su x oscilla trasversalmente alla direzione di propagazione z, si possono realizzare effettivamente due situazioni ben diverse: una in cui la direzione di oscillazione è sull’asse x, y z una in cui essa è sull’asse y (perpendicolare a x). Nel primo caso si dice che l’onda è polarizzazione su y direzione dell’onda polarizzata x, nel secondo caso si dice polarizzata y. Questo discorso vale per qualsiasi onda, ad esempio anche per le onde che si propagano lungo una corda, purché siano di tipo trasversale. Finalmente Fresnel ebbe l’idea di attribuire anche alle onde luminose la caratteristica di essere onde trasversali, e quindi dotate di due diverse direzioni di polarizzazione. In particolare i due raggi che si formano nel cristallo birifrangente avranno direzioni di polarizzazione fra loro ortogonali, in modo che diventano effettivamente onde diverse; la struttura cristallina è tale da riuscire a separare la parte dell’onda oscillante sull’asse x dalla parte oscillante sull’asse y (teniamo comunque presente che le direzioni e i nomi degli assi sono convenzionali). Con successivi esperimenti si vide inoltre che le velocità di propagazione dei due raggi, ordinario e straordinario, nel cristallo risultano ben diverse; questo fatto attribuisce la causa del fenomeno all’interazione tra l’onda luminosa e gli atomi del cristallo, nella loro particolare disposizione spaziale. Analizziamo ora nel dettaglio la proprietà della luce di avere una direzione di polarizzazione, o in altre parole di essere polarizzata. La luce emessa dal Sole, da una lampada o da altre sorgenti di luce non particolari, chiamata comunemente luce bianca, non ha in realtà nessuna proprietà di polarizzazione; essa è composta dalla sovrapposizione di tante onde luminose emesse da singoli atomi o molecole, che non hanno nessuna direzione preferenziale nello spazio. Di conseguenza si parla di luce non polarizzata, l’oscillazione può avvenire in qualunque direzione sul piano x-y, e può cambiare istante per istante; c’è una simmetria completa sul piano x-y . Consideriamo ora un cristallo birifrangente, o un oggetto oggi più comune, una lente polaroid come quelle che si trovano nei migliori occhiali da sole. Queste lenti, grazie alla particolare struttura molecolare, hanno la proprietà di consentire all’onda luminosa di oscillare solo in una piano ben definito (che chiameremo asse x), mentre bloccano (assorbono) completamente l’oscillazione nella direzione perpendicolare a questa (i cristalli birifrangenti si comportano allo stesso modo se investiti dalla luce da certe direzioni, e infatti vengono usati in laboratorio per lo scopo che ora vedremo). Dunque, se un raggio di luce bianca luce non incide sulla superficie di una lente polaroid, lente polarizz. ogni singola oscillazione viene scomposta polarizz. secondo le due direzioni x e y (secondo le luce solite regole di scomposizione di vettori su polarizzata x assi ortogonali), ma soltanto l’oscillazione su x può passare. Si ottiene quindi un raggio di luce polarizzata x, cioè un raggio di luce in cui le oscillazioni trasversali non sono più in direzioni a caso ma in una direzione ben definita (si parla spesso anche di piano di polarizzazione, il piano definito dalla direzione di oscillazione e quella di propagazione, nel nostro caso il piano x-z). Se l’intensità del raggio originario di luce era I0, si avrà che l’energia luminosa si ripartisce equamente nelle due direzioni di polarizzazione, e quindi l’intensità della luce polarizzata trasmessa dalla lente risulta dimezzata: I1 = I 0 / 2 e questo spiega l’uso prevalente delle lenti polaroid come occhiali da sole: esse riescono a bloccare ben metà del flusso di energia luminosa della luce solare. Un altro interessante fenomeno avviene se un raggio di luce polarizzata, uscente da una lente polaroid o da un cristallo birifrangente, viene fatta incidere su un’altra lente che può avere una direzione di polarizzazione diversa. Per capire quello che succede osserviamo la prima figura, in y cui vi è un’onda polarizzata in una certa direzione che forma un angolo θ con l’asse x. L’oscillazione si può scomporre nelle due A direzioni ortogonali, e in particolare, se l’ampiezza massima Ay θ dell’oscillazione è A, l’ampiezza delle oscillazioni relative ai due x Ax assi risulta ovviamente: Ax = A cos(θ ) ; Ay = A sen(θ ) Quando una luce polarizzata di intensità I0, incide su una lente la cui direzione caratteristica di polarizzazione è orientata di un angolo θ rispetto alla direzione di polarizzazione dell’onda incidente, soltanto la componente dell’oscillazione di ampiezza Ax può passare, per cui si realizza la situazione descritta dalla seconda figura. Dato che l’intensità dell’onda è, come già visto, proporzionale all’ampiezza della oscillazione al quadrato se ne ricava subito che l’intensità di luce I1 che passa oltre la seconda lente: I 1 = I 0 ⋅ cos2 (θ ) relazione nota come Legge di Malus. La cosa notevole è che l’intensità luminosa osservata θ I0 dipende da una funzione angolare al quadrato, che ha valori tra 1 e 0. In particolare se θ = 00 , cioè la polarizzazione della luce incidente è I1 allineata con la seconda lente, si ha I1 = I0 , tutta la luce passa. Se invece θ = 900 (π/2 rad) cioè la lente è incrociata rispetto alla polarizzazione della luce incidente (ovvero incrociata rispetto alla prima lente) si ha I1 = 0 e la luce viene completamente assorbita, e si osserva buio. Al variare dell’angolo θ sono ovviamente possibili anche le situazioni intermedie. Questo fenomeno fornisce un modo semplice di misurare la direzione e il grado di polarizzazione di un raggio luminoso, o la capacità, propria di determinate sostanze, di polarizzare la luce: è sufficiente far incidere il raggio luminoso uscente su una lente polaroid o su un cristallo birifrangente, orientabili ad angoli controllati, ed osservare il grado di luce o di buio. Questo è il procedimento seguito per studiare i cristalli, ma anche, per esempio, le penne dei pavoni (che sfruttano abilmente fenomeni di polarizzazione per le loro colorazioni iridescenti). Un altro fenomeno che si studia, in chimica e in biologia, è la rotazione del piano di polarizzazione che alcune sostanze, come certi aminoacidi e proteine, operano sui raggi luminosi che attraversano una loro soluzione; si dice che queste sostanze hanno un’attività ottica, ed essa è un indice importante della loro struttura molecolare. La luce polarizzata è uno strumento fondamentale per analisi e studi in vari settori della scienza. 13) Ancora sulla natura della luce: una brevissima storia Nonostante i successi della teoria ondulatoria non tutto è stato svelato! Che cosa è veramente la luce? E che cosa è il mezzo nel quale essa oscilla, il misterioso “etere”? Quando Maxwell nel 1865 riunì in una mirabile sintesi tutti i fenomeni dell’elettricità e del magnetismo, trovò teoricamente che la combinazione delle due entità chiamate campo elettrico e magnetico potevano produrre delle onde che si propagavano alla stessa velocità della luce. La coincidenza non poteva essere casuale e, infatti, poco dopo Hertz produsse in laboratorio le onde elettromagnetiche, mostrando che queste davano origine a tutti i fenomeni osservati per le onde luminose (riflessione, rifrazione, polarizzazione etc). Quindi, definitivamente, la luce entrò a far parte della grande famiglia delle onde elettromagnetiche, di cui copre l’intervallo di lunghezze d’onda da 0.4 µm a 0.8 µm. Rimaneva ancora da chiarire la natura dell’etere, mentre nuovi esperimenti venivano fatti, nuovi fenomeni attiravano l’attenzione degli scienziati, e la certezze sulla natura della luce, ottenute dopo tante ricerche, venivano nuovamente messe in discussione. In particolare alcuni esperimenti gettavano dubbi sulle singolari proprietà del “mezzo luminifero”, l’etere, mentre le osservazioni dell’interazione microscopica tra la radiazione luminosa e la materia sembravano essere in contraddizione con la spiegazione ondulatoria. Una nuova teoria fu allora genialmente avanzata da Albert Einstein, nel 1905. La sua proposta, in seguito confermata sperimentalmente, sosteneva che: a) le onde elettromagnetiche oscillano e si autosostengono nel vuoto, e non esiste nessun “etere”; la velocità di queste onde (la velocità della luce) non può essere in alcun modo superata, mentre il tempo e lo spazio non esistono più come entità assolute (l’universo Newtoniano e la velocità infinita di Cartesio vengono definitivamente archiviati in un capitolo della storia della scienza) b) l’energia luminosa non è continua come immaginato nel modello ondulatorio classico, ma è distribuita in pacchetti detti “quanti” o “fotoni” (ricompare in qualche modo la vecchia teoria corpuscolare!); si dice che l’energia è quantizzata, e in particolare si ha che l’energia di un fotone è proporzionale alla frequenza dell’onda corrispondente secondo la legge: E = h⋅v dove h = 6.626 x 10-34 J·s è la “costante di Planck” che entra nella fisica dei fenomeni microscopici a livello atomico (la nuova fisica quantistica, creazione del secolo XX e chiave per entrare nel mondo degli atomi e nel mondo subatomico). La visione attuale è quindi la seguente: per quanto riguarda i fenomeni della propagazione della luce, dell’interferenza, della polarizzazione etc. il modello su cui si basa la teoria ondulatoria è pienamente valido, e la luce si comporta effettivamente come un’onda. Per quanto riguarda i fenomeni atomici, o di interazione con particelle elementari come gli elettroni, la luce si comporta piuttosto come una particella, il fotone, di energia data dalla formula precedente; un fotone può urtare un elettrone, può essere creato o assorbito, e per far questo deve essere scambiata la quantità di energia discreta E. La natura della luce ha quindi questo aspetto molto particolare: nei termini del nostro linguaggio scientifico moderno presenta due aspetti complementari. Da un lato quello di un’onda, un oggetto continuo e diffuso nello spazio; dall’altro quello di un corpuscolo discreto e localizzato. Per certi versi questa doppia natura può sembrarci strana e insoddisfacente, perfino incomprensibile. Ma del resto, perché dovremmo pretendere che la Natura si adegui alle nostre idee? O che abbiamo ormai scoperto tutto quello che c’è da scoprire? In questa breve storia della luce, quante volte la nostra interpretazione dei fenomeni luminosi è cambiata, a mano a mano che nuovi aspetti cadevano sotto la nostra osservazione! Complementi A1) La legge della riflessione dal Principio di Fermat Un raggio luminoso uscente da un punto P, posto a distanza a da una superficie riflettente, incide su di essa con un angolo θi rispetto alla normale, e viene riflesso ad un angolo θr , fino a raggiungere il punto Q, posto a distanza b dalla superficie, come mostrato in modo schematico (non realistico) nella figura. La relazione tra questi due angoli, ovvero tra le direzioni dei raggi incidente e riflesso, può essere trovata con il Principio di Fermat: il percorso di un raggio luminoso per andare da un punto di partenza a un punto di arrivo è tale da richiedere il minimo tempo. Detta d la distanza orizzontale tra i punti P e Q, e detta x la coordinata del punto di impatto del raggio sulla superficie, il tempo d necessario alla luce di velocità v per andare da P a Q col percorso P disegnato sarà: • t= r1 + r2 1 = v v (x 2 + a 2 + ( d − x) 2 + b 2 ) r1 che ci mostra come il tempo è funzione del punto x , variabile sulla superficie. Per trovare il tempo minimo del viaggio, si uguaglia a zero la derivata rispetto alla variabile x ( θi a r2 • Q θr b x d-x ) dt 1 d = ⋅ x2 + a2 + (d − x)2 + b2 = dx v dx 1 1 2x 1 2(d − x) ⋅ (−1) ⋅ ⋅ + ⋅ v 2 x2 + a2 2 (d − x)2 + b2 = = Notiamo che sen(θ i ) = x = r1 x x2 + a2 sen(θ r ) = ; e quindi sostituendo: sen( θ i ) − sen( θ r ) = 0 1 ⋅ v x x +a 2 2 − (d − x) (d − x) + b 2 2 =0 d−x d−x = r2 (d − x ) 2 + b 2 θi = θr (uguaglianza possibile perché sono entrambi angoli minori di un angolo retto). Concludiamo quindi che gli angoli devono essere uguali, e questa è la legge della riflessione. A2) La legge della rifrazione dal Principio di Huygens Un’onda luminosa si muove con velocità v1 in un mezzo di indice di rifrazione n1 , verso la superficie di separazione con un altro mezzo di indice di rifrazione n2 > n1 , nel quale quindi ha velocità v2 < v1. Come si vede in figura, l’onda incidente è rappresentata dai suoi fronti d’onda (linee nere). Ogni fronte d’onda è costruito dal precedente, prendendo la tangente delle onde sferiche elementari sviluppate da ogni punto; eseguendo questa operazione su un fronte d’onda piano ad intervalli temporali corrispondenti al periodo T dell’oscillazione, la successione dei fronti d’onda è costituita da rette parallele la cui distanza è λ1 , la lunghezza d’onda nel mezzo 1. v1 La direzione in cui si muove l’onda è rappresentata dai raggi, perpendicolari al fronte d’onda, di cui in figura ne λ1 θ1 è disegnato uno che passa per i punti a e b a• n1 (quest’ultimo punto è sulla superficie) e formanti un c angolo θ1 (angolo di incidenza) rispetto alla normale alla • •b •d superficie. n2 λ2 Quando parte del fronte d’onda attraversa la superficie e si trova nel mezzo 2, la luce è costretta a θ2 viaggiare alla velocità inferiore, per cui il fronte rallenta v2 rispetto alla sua parte che sta ancora nel mezzo 1; si osserva quindi un “piegamento” e uno “schiacciamento” dei fronti d’onda, che si troveranno a distanza λ2 tra di loro (la nuova lunghezza d’onda) e la cui direzione di propagazione, rappresentata dal raggio che passa per i punti c e d , forma il nuovo angolo θ2 (angolo di rifrazione) con la normale. Dato che l’intervallo di tempo perché un fronte d’onda si muova a raggiungere la posizione prima occupata dal fronte successivo (il periodo T dell’onda) è sempre lo stesso, le lunghezze d’onda saranno proporzionali alle velocità per cui possiamo scrivere: λ1 v1 λ1 : λ2 = v1 : v 2 = λ2 v 2 Osservando la geometria dei raggi e dei fronti d’onda, vediamo che: ab λ1 cd λ2 sen(θ1 ) = = ; sen(θ 2 ) = = cb cb cb cb Dividendo membro a membro e usando la prima formula abbiamo: sen(θ1 ) λ1 v1 = = . sen(θ 2 ) λ2 v 2 Introducendo l’indice di rifrazione n =c/v arriviamo infine a : n1 sen(θ 1 ) = n2 sen(θ 2 ) dimostrando così la legge della rifrazione nella forma usuale. Definizioni utili a) Energia: energia meccanica nel caso di onde meccaniche, energia elettromagnetica nel caso di onde elettromagnetiche, e quindi anche di onde luminose. L’energia è in generale proporzionale al quadrato dell’ampiezza massima dell’onda; questo ad esempio è vero per le oscillazioni di una molla, in cui E = ½ k A2, e vale anche per le onde elettromagnetiche per le quali E è proporzionale al quadrato del campo elettrico massimo. b) Densità di energia: la quantità di energia trasportata da un’onda per unità di volume, ovvero l’energia contenuta nell’unità di volume E [u ] = J/m 3 u = ; V dove E è l’energia misurata nel volume V. L’uso di questa quantità è utile e necessaria perchè in un’onda l’energia tende a disperdersi nello spazio, come l’onda stessa. c) Intensità: l’ energia che passa attraverso l’unità di superficie nell’unità di tempo E I = ; [I ] = J/m 2 ⋅ s = W/m 2 S ⋅ ∆t dove E è la quantità di energia che, portata dall’onda, attraversa una superficie S nell’intervallo di tempo ∆t. Questa grandezza descrive l’aspetto di propagazione e di trasporto dell’energia delle onde. Si vede facilmente che se v è la velocità dell’onda, vale: I = u⋅v