Modigliani e Keynes

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Modigliani e Keynes
ROBERT M. SOLOW …
Non devono essere molti gli economisti la cui pubblicazione d’esordio
ha raggiunto la fama e l’influenza dell’articolo scritto da Franco Modigliani nel 1944, “Liquidity preference and the theory of interest and
money”. Allora aveva 26 anni; si trattava della sua tesi di dottorato
presso la New School of Social Research di New York, verso la quale
aveva gravitato (insieme ad altri rifugiati in fuga da fascismo e nazismo) dopo avere abbandonato l’Italia di Mussolini nel 1939. L’articolo
non contiene alcun ringraziamento e solo pochi riferimenti alla letteratura. Si può ritenere che il suo principale relatore, ammesso che ne
abbia avuto uno, sia stato Jacob Marschak. In altre occasioni Franco ha
indicato Marschak come suo insegnante e mentore; fu lui a far conoscere a Franco le idee di Keynes (lo chiamerò Franco perché troverei
del tutto artificioso chiamare il mio caro amico in altro modo).
Da dottorando, sei o sette anni dopo Franco, ho studiato con i
miei colleghi di corso l’economia keynesiana, non tanto attraverso la
Teoria Generale in sé, ma tramite alcuni articoli che condensavano il
pensiero di Keynes in una semplice e precisa forma matematica o
grafica. Esistevano molte di queste trasposizioni: le più importanti
erano quelle di John Hicks (1937), di Oskar Lange (1938) e di Franco.
Lui aveva letto i primi due articoli e imparato molto da essi, anche
prima di leggere la Teoria Generale, ma la sua enfasi principale era
leggermente diversa, e più in particolare monetaria.
Franco e io condividevamo l’opinione che Keynes fosse il più
importante economista del XX secolo e la Teoria Generale il lavoro più
rilevante. Perché allora non ne abbiamo fruito direttamente e non
l’abbiamo fatta leggere ai nostri studenti? (La prima esposizione di
James Tobin all’economia keynesiana avvenne attraverso il testo
stesso, quando era ancora studente universitario; ma fu un puro caso.)
––––––––––
… MIT, Department of Economics, Cambridge, Mass. (USA).
Moneta e Credito, vol. LVIII, nn. 230-231, giugno-settembre 2005, pp. 11-20.
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Non ricordo di averne mai discusso con Franco. La mia impressione è
che la Teoria Generale sia un testo che genera confusione, e molto
difficile per gli studenti. Contiene molte linee di pensiero diverse che
non vengono legate tra loro in modo coerente. Per certi aspetti possono risultare persino reciprocamente incompatibili.
Gli articoli che ho citato non si concedevano quel lusso. La loro
virtù consisteva nel rappresentare le proprietà di un’“economia modello” descritta precisamente. Ciascuno di essi perseguiva una singola
linea di pensiero e la coglieva. In tal modo, come ho detto all’inizio,
offrono un’esposizione semplificata.
Quel che ho descritto come una virtù – e Franco sarebbe stato
certamente d’accordo – alcuni economisti keynesiani lo ritenevano un
vizio. Essi preferivano trovare nel testo qualche altro filone di idee, di
solito non ben specificato, o reputavano che in realtà il valore del
lavoro di Keynes risieda nella molteplicità di intuizioni coordinate tra
loro in modo imperfetto, e che pertanto la sua semplificazione in un
modello specifico diviene una falsificazione. Non intendo discutere
tale questione in questa sede; gli stessi scritti di Franco hanno mostrato
da che parte stesse, ed è la sua versione dell’economia keynesiana che
mi interessa.
Come il titolo anticipava, l’articolo del 1944 verteva per lo più
sulla teoria dell’interesse di Keynes, in particolare sul concetto della
preferenza per la liquidità come determinante del tasso d’interesse e
sulla funzione del tasso d’interesse e dell’offerta di moneta nella teoria
macroeconomica. È interessante, allora, il fatto che l’influenza principale esercitata dall’articolo risieda altrove. Franco ribadì esplicitamente
che le tradizionali tesi keynesiane sul prodotto aggregato, sull’occupazione e sulla politica macroeconomica erano in sostanza le conseguenze della rigidità dei salari nominali (almeno verso il basso) e non della
particolare teoria dell’interesse di Keynes. La moneta e la politica
monetaria hanno conseguenze sull’economia reale perché quando il
reddito e la spesa monetari diminuiscono, i salari monetari non si
riducono in misura proporzionale.
Come si vedrà, su questo aspetto Franco non ha mai cambiato
idea. Se altri hanno sostenuto che tale lettura costituiva una svendita
della “rivoluzione keynesiana”, perché non vi è nulla di sorprendentemente originale nell’idea che la rigidità salariale può generare disoccupazione involontaria, Franco rimaneva fermo nelle proprie convinzioni. Anzitutto, diceva, nell’economia moderna la rigidità dei salari è
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un dato di fatto, e non un’interessante eventualità teorica; in secondo
luogo, rimane molto da imparare sui meccanismi che convertono la
rigidità salariale in fluttuazioni economiche reali, e sulle misure di
politica economica che possono porvi rimedio. In questo dovrebbe
consistere la teoria macroeconomica.
La strada seguita da Franco nel formalizzare la rigidità dei salari
consisteva nel definire il pieno impiego come una situazione nella
quale l’occupazione era pari all’offerta di lavoro, definita anch’essa, nel
modo consueto, come funzione del salario reale (ed eventualmente di
altri fattori). Supponiamo che l’occupazione corrente sia a un livello
inferiore a quello di pieno impiego, e che il salario monetario corrente
sia pari a w0. In tal caso, a seguito di un aumento nella domanda di
lavoro l’occupazione può aumentare; di fatto aumenterà, a parità di
salario nominale, fino a quando il mercato del lavoro non avrà raggiunto o approssimato una situazione di pieno impiego. A quel punto,
la relazione tra salario monetario e occupazione viene ricavata in
modo del tutto conforme al modello classico dal volume di occupazione e dal livello del prezzo lungo la curva di offerta di lavoro.
Il versante della domanda, nel modello del 1944, era ripreso direttamente dall’articolo di Hicks “Keynes e i ‘classici’”; quello dell’offerta affermava solo che il livello del prezzo sarebbe stato pari al costo
marginale in corrispondenza del livello di prodotto determinato dalla
domanda effettiva. Franco ricavò e fece muovere le curve IS e LM nel
modo standard, sebbene rispetto alla maggior parte degli studiosi sia
stato un po’ più attento alla loro forma in corrispondenza dei casi
estremi. Questo fu il modello che divenne l’“economia keynesiana”,
per la soddisfazione di alcuni e il rammarico di altri. Quelli di noi che
erano più o meno soddisfatti della struttura di base, compresi Franco e
io, ritenevano anche che il modello andasse seriamente migliorato ed
esteso, sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta. Il perseguimento di quel programma costituiva la “scienza normale” di allora in
macroeconomia.
Può essere opportuno ricordare che Franco esprime i tre blocchi
portanti della teoria, cioè la funzione d’investimento, la funzione del
risparmio e la domanda di moneta da detenere, interamente in termini
nominali (ad esempio, la domanda d’investimento nominale è funzione del reddito nominale e del tasso d’interesse nominale, e lo stesso
avviene per le altre funzioni). Alcuni autori preferiscono considerare
nel modello l’investimento reale o la domanda reale di moneta come
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funzione del reddito e del tasso d’interesse reali. All’occorrenza, Franco era pronto a invocare le opportune proprietà di omogeneità, in
modo che il modello non dipendesse più di tanto da tale distinzione.
Nell’articolo, Franco considera tale modello come una sorta di
teoria “generale”, e individua due casi particolari. Il “caso keynesiano”
è quello che noi chiamiamo “trappola della liquidità”, sebbene non
ricordi che allora lui adottasse tale denominazione, come invece fece in
seguito. La domanda di moneta e la curva LM divengono infinitamente elastiche a un tasso d’interesse sufficientemente basso, pari a r''.
«Abbiamo il caso keynesiano quando il “tasso d’interesse di equilibrio
di pieno impiego” è inferiore a r''». Gli incrementi dell’offerta di
moneta non possono accrescere l’occupazione perché saranno assorbiti
senza che vi siano effetti sensibili sul tasso d’interesse. La posizione
della curva IS determina il reddito e l’occupazione reali.
Il “caso classico” si verifica quando il tasso d’interesse di equilibrio è tanto elevato che la domanda di moneta non a scopo di transazione (cioè in quanto attività finanziaria) è sostanzialmente nulla (la
curva LM è perpendicolare all’asse del reddito). Le variazioni del tasso
d’interesse lasciano invariata la domanda complessiva di moneta, ma
solo un cambiamento della domanda di moneta può modificare produzione e occupazione. Un mutamento nei comportamenti di risparmio e investimento può influenzare solo il tasso d’interesse.
Ritengo che tale terminologia sia troppo restrittiva. Quasi in ogni momento agiscono forze keynesiane e forze classiche (è solo una
leggera distorsione pensare a esse come a forze dal lato della domanda
effettiva e dal lato dell’offerta). I casi limite sono solo casi limite; un
economista keynesiano e uno classico sufficientemente sofisticati non
desidereranno limitarsi agli estremi.
L’elemento decisivo da ricordare è presentato come una delle
“conclusioni preliminari” del lavoro (Modigliani 1944, pp. 75-76):
«la teoria della preferenza per la liquidità non è necessaria per spiegare l’equilibrio di sottooccupazione; è sufficiente solo in un caso
limite, quello “keynesiano”. Nel caso generale non è necessaria né
sufficiente; può spiegare tale fenomeno solo con l’ulteriore assunzione di salari rigidi».
Inoltre, come egli dimostra, anche la combinazione tra rigidità salariale
e una semplice teoria quantitativa della moneta si comporta in modo
“keynesiano”, non secondo lo spirito “classico”.
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Desidero solo attirare l’attenzione sull’uso del termine “equilibrio”. Tutto quel che esso indica, in tale contesto, è una soluzione alle
equazioni del modello composto dalle curve IS-LM e da un elementare
lato di offerta. Il salario nominale “rigido” è quel che è, un fatto storico. Franco sostiene che la soluzione del modello può essere chiamata
equilibrio perché nessun prezzo o quantità che possono variare mostrano alcuna tendenza a muoversi; domanda e offerta sono uguali
ovunque tranne che nel mercato del lavoro, ma il salario non ha alcuna
tendenza a variare, perché è rigido.
Numerosi economisti successivi, compresi alcuni keynesiani consapevoli, hanno espresso scetticismo nei confronti della pretesa di
Keynes di avere trovato e spiegato un “equilibrio di disoccupazione”.
Per avvalorare tale pretesa, secondo loro, si sarebbe dovuto dimostrare
che nessun soggetto economico – datore di lavoro, lavoratore, consumatore, investitore – ha un valido motivo per modificare il proprio
comportamento. In tale contesto, ovviamente, la “rigidità” del salario
monetario in presenza di disoccupazione va necessariamente spiegata
dal punto di vista comportamentale e motivazionale, e non può essere
assunta come un dato.
Keynes stesso offrì una simile spiegazione. Se ciascun gruppo di
lavoratori si preoccupa anzitutto del proprio salario relativo confrontandolo con quello di qualche gruppo di riferimento naturale, allora
qualunque riduzione di un determinato tasso salariale incontrerebbe
resistenza, perché deve necessariamente riflettere un salario relativo in
via di deterioramento in quell’industria o in quella occupazione. I
lavoratori non sono in grado di negoziare il tasso salariale generale.
Keynes suggerì che una riduzione nei salari reali provocata da un
aumento del livello dei prezzi sarebbe stata accettata, perché avrebbe
riguardato allo stesso modo tutti i salari, senza alterarne i rapporti. Più
di recente sono state suggerite altre spiegazioni. Franco non provava
molto interesse per questo tipo di analisi. La mia impressione è che a
tale stadio Franco non avrebbe insistito su questa rigorosa nozione di
equilibrio. Era il dato di fatto della viscosità dei salari a risaltare. Se
questa situazione dovesse essere invece denominata disequilibrio persistente era una questione che non lo interessava molto.
A partire da quei giorni, numerosi economisti hanno approfondito la nozione di equilibrio con disoccupazione “involontaria”, ma
nel 1944 tali sviluppi erano di là da venire. Dall’altro lato della strada,
per così dire, altri (ad esempio Frank Hahn e io) hanno dimostrato che
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anche una completa flessibilità salariale può presentare problemi. Nel
nostro esempio, che consiste in un esplicito modello intertemporale, la
flessibilità dei salari può mantenere un continuo pieno impiego ma
solo a spese di fluttuazioni chiaramente patologiche degli investimenti
e del prodotto. Tale possibilità era stata vagamente prevista da Keynes
nella Teoria Generale: la temporanea esigenza di deflazione “di equilibrio” può far salire i prezzi e quindi scoraggiare gli investimenti (e
dunque la produzione futura) anche in assenza di disoccupazione
involontaria. In seguito Franco avrebbe indicato, con approvazione,
un altro difetto delle riduzioni salariali come ricetta per il pieno impiego: se i prezzi diminuiscono in misura proporzionale ai salari, il
salario reale potrebbe rimanere costante o addirittura aumentare, e
non si avrebbe alcuno stimolo alla domanda di lavoro.
Sessant’anni più tardi, sul finire della sua carriera, Franco ha
pubblicato un articolo destinato principalmente a studenti universitari:
“The Keynesian gospel according to Modigliani” (2003). Ancora una
volta spiega loro (ibid., pp. 6-7) che l’economia keynesiana
«inizia rifiutando come favola irrealistica il postulato classico che i
salari e i prezzi sono sufficientemente flessibili in entrambe le direzioni da fare in modo che la domanda di moneta si adegui rapidamente a qualunque livello di offerta. Almeno in questo secolo […]
la flessibilità verso il basso dei salari nominali non esiste, ammesso
che sia mai esistita».
Franco spinge tale ragionamento un passo oltre, nel definire la
differenza tra le prospettive “keynesiana” e classica. La presunzione
pre-keynesiana consisteva nel fatto che un eccesso di domanda di
moneta avrebbe indotto le singole imprese e le singole famiglie a
tentare di accrescere le proprie scorte di moneta rispettivamente vendendo più e acquistando meno beni. Se l’offerta di moneta è rigida, il
tentativo di accrescere le disponibilità aggregate di moneta è destinato
a fallire. Tuttavia la conseguente diminuzione di salari e prezzi aumenterebbe l’offerta di moneta reale e riequilibrerebbe in tal modo il
mercato della moneta. Tale meccanismo è invece bloccato quando i
salari nominali, e di conseguenza i prezzi, sono rigidi (in questa fase
Franco sosteneva esplicitamente una teoria del livello dei prezzi basata
sul mark-up).
Il ruolo della preferenza per la liquidità (cioè della dipendenza
della domanda di moneta dal tasso d’interesse) consisteva nel fornire
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un sentiero alternativo, dal lato delle attività, verso l’equilibrio nel
mercato monetario. Un eccesso di domanda di moneta condurrebbe a
vendite nette di titoli. Il risultato consisterebbe in tassi d’interesse più
elevati e questo diminuirebbe la domanda di moneta a fini speculativi
fino al riequilibrio del mercato.
Tuttavia nel 2003, come nel 1944, Franco insistette sul fatto che
la possibilità e la stabilità di una disoccupazione “di equilibrio” risiedevano nella rigidità verso il basso, ovvero nella viscosità dei salari nominali. In termini più generali, si tratta di un meccanismo attraverso il
quale eventi nominali possono avere conseguenze reali: detto in modo
più esplicito, esso dimostra come la variabile che si adegua immediatamente alle perturbazioni nominali non sia il livello dei prezzi bensì il
reddito reale, attraverso la sensibilità degli investimenti al tasso
d’interesse e attraverso il meccanismo del moltiplicatore. È questa,
secondo Modigliani, l’“essenza della Teoria Generale”. Tale insieme di
idee è quel che dopo la seconda guerra mondiale divenne noto, in
modo un po’ denigratorio, come il “keynesismo americano”. È piuttosto divertente che tra i suoi fondatori figurino un inglese, un rifugiato
polacco e un rifugiato italiano, insieme a un ristretto gruppo di americani come Samuelson, Tobin e Solow.
Non ho accennato alla teoria del ciclo vitale del risparmio perché
viene discussa da altri. Per un aspetto, tuttavia, essa ha una particolare
rilevanza ai fini di questa versione dell’economia keynesiana. Al pari
della teoria del reddito permanente, la teoria del ciclo vitale rende la
spesa reale o nominale per consumi relativamente insensibile al reddito
corrente. Il risultato, ovviamente, è che il moltiplicatore di breve
periodo risulta molto più contenuto. In altri termini, una parte maggiore dell’efficacia della politica monetaria è costituita da spesa per
investimenti indotta. Anche le dinamiche di periodo intermedio assumono maggiore importanza mentre maturano gli effetti di lungo
periodo, ma tali questioni non possono essere affrontate nel presente
lavoro. I recenti avvenimenti negli Stati Uniti indurrebbero chiunque,
compreso Franco, a convincersi che il comportamento dei consumi nel
breve-medio periodo può essere condizionato in misura decisiva da
forze irregolari ma relativamente persistenti. Alcune di queste possono
essere ricondotte al modo in cui i consumatori interpretano l’effetto
esercitato da eventi una tantum sulle loro prospettive di ciclo vitale o
sul loro reddito permanente, ma è nella natura delle forze irregolari il
fatto di essere di difficile classificazione.
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Nell’ultima parte dell’articolo del 2003, Franco accenna a due altri argomenti che per completezza andrebbero ricordati. Il primo
consiste in una breve e convenzionale discussione della politica fiscale
come strumento di stabilizzazione del ciclo, che pone enfasi sulla
rilevanza del grado di disponibilità a cooperare della banca centrale: i
casi estremi prevedono che la banca mantenga costante l’offerta di
moneta o che la espanda o la contragga in modo da mantenere costante
il tasso d’interesse. Desidero riportare e sottoscrivere l’ultimo paragrafo di tale passaggio (ibid., p. 22).
«Il riconoscimento, da parte di Keynes, dei possibili effetti della politica fiscale sull’occupazione ha dato origine a una diffusa opinione
secondo la quale l’essenza di Keynes consiste nell’invocare disavanzi fiscali. Sebbene tale associazione possa avere avuto qualche fondamento […] subito dopo la grande depressione, oggi è del tutto errata. In particolare, la mia idea, che ritengo ampiamente accettabile
da chi comprende il messaggio fondamentale di Keynes, è che la
stabilizzazione dell’occupazione dovrebbe essere compito anzitutto
delle politiche monetarie, ad eccezione degli stabilizzatori fiscali anti-ciclici automatici, mentre andrebbe riconosciuto che il principale
effetto dei disavanzi di bilancio non ciclici consiste nella redistribuzione delle risorse tra le generazioni».
Aggiungerei solo che la politica fiscale discrezionale svolge poche altre
funzioni: incidere sull’allocazione statica delle risorse, sulla distribuzione del reddito e, se necessario, su eccessi e carenze persistenti di
domanda effettiva.
La seconda osservazione riguarda la possibilità di rigidità del salario reale e il più o meno insolubile problema che essa pone per una
politica monetaria di reazione a uno shock avverso dal lato dell’offerta,
quale ad esempio le grandi crisi petrolifere degli anni ’70. Il problema è
che i lavoratori tentano di recuperare le perdite provocate dall’iniziale
aumento dei prezzi, e le imprese tentano di compensare l’aumento dei
costi unitari del lavoro attraverso un ulteriore innalzamento dei prezzi. La rigidità nominale verso il basso persiste, e in tal modo l’aumento
del costo del denaro ha effetti realmente restrittivi.
«Questo dilemma tra un atteggiamento accomodante nei confronti
dell’inflazione e il rischio di elevata disoccupazione emerge ogni
qualvolta vi sia un tentativo di perseguire un obiettivo per il salario
reale che risulta incompatibile con il mark-up di riferimento scelto
dalle imprese» (ibid., p. 23).
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Il dilemma esiste anche in assenza di un meccanismo di fissazione dei
prezzi rigidamente fondato sul mark-up, perché nessuno è preparato a
sopportare il costo imposto dalla perdita iniziale di produttività effettiva. Si sarebbe tentati di cercare una soluzione politica, se solo ve ne
fosse una. Il keynesismo moderno è disposto almeno ad affrontare il
problema.
Infine, desidero tornare alla questione del ruolo del “keynesismo
americano”. Non sono certo che Franco sarebbe stato d’accordo con
me – sebbene immagino che avrebbe potuto esserlo – ma non ritengo
che sia minimamente importante se tale approccio alla macroeconomia
rappresenti “l’essenza di Keynes” o qualcos’altro. Axel Leijonhufvud
scrisse un libro a suo tempo molto discusso, dal titolo L’economia
keynesiana e l’economia di Keynes. Sosteneva che tra le due vi fosse una
differenza, e che l’economia di Keynes fosse quella rilevante. Ritengo
che indagare su “cosa intendeva veramente Keynes” sia interesse da
antiquari. Il fatto che si possa porre tale domanda già suggerisce che si
tratta di un libro confuso. A mio modo di vedere è l’economia keynesiana – fondata, come ho detto, da una compagine multinazionale – ciò
che conta davvero, nei suoi successi e nei suoi fallimenti. La scienza
normale costituisce il prodotto di una comunità di ricerca.
Un paragone istruttivo è quello con la teoria evoluzionistica.
Charles Darwin ha dato origine a una grande rivoluzione intellettuale.
I biologi evoluzionisti possono leggere oggi L’origine della specie per il
suo interesse storico generale, perché rappresenta una pietra miliare
del pensiero biologico. Tuttavia il “darwinismo” odierno è costituito
da quel che i biologi evoluzionisti successivi ne hanno fatto. Parte di
quel corpo di conoscenze riprende ed estende gli scritti di Darwin.
Un’altra parte deve essere in contrasto con le sue stesse idee e convinzioni. La maggior parte riguarda questioni nelle quali Darwin non
poteva essersi imbattuto perché dipendono da concetti e da osservazioni che si sono accumulati dopo di lui. Così non vi è dubbio su
quale, tra la biologia darwiniana e quella di Darwin, andrebbe oggi
insegnata agli studenti.
In tal modo, gli architetti dell’economia keynesiana moderna
(non realmente americana), tra i quali Franco Modigliani ricopre una
posizione d’onore, hanno costruito un corpo di teoria macroeconomica. In realtà, per ragioni discutibili, esso attualmente non incontra
molto favore nell’élite universitaria. È chiaro che Franco, fino all’ultimo anno di vita, riteneva che si trattasse del migliore strumento
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disponibile attraverso il quale comprendere i più importanti sviluppi
del mondo industriale. Qualunque cosa leggiate in una rivista erudita,
la mia impressione è che se doveste svegliare un eminente economista
nel cuore della notte, dirgli che la Banca Centrale Europea ha appena
innalzato il tasso d’interesse di 100 punti base e chiedergli cosa accadrà
ora, nella sua testa egli comincerà con lo spostare le curve IS e LM. Ed
è qualcosa che ha imparato, direttamente o indirettamente, da Franco
Modigliani e dai suoi amici.
BIBLIOGRAFIA
HICKS, J. (1937), “Mr. Keynes and the ‘classics,’ a suggested interpretation”, Econometrica, vol. 5, no. 2, pp. 147-59; trad. it. “Keynes e i classici” in M.G. Müller, a cura
di, Problemi di macroeconomia, vol. 1: Moneta, interesse, reddito, Etas Kompass,
Milano, 1968, pp. 107-26.
KEYNES, J.M. (1936), The General Theory of Employment, Interest and Money, in The
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LANGE, O. (1938), “The rate of interest and the optimum propensity to consumer”,
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LEIJONHUFVUD, A. (1968), On Keynesian Economics and the Economics of Keynes: a
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L’economia keynesiana e l’economia di Keynes, UTET, Torino, 1976.
MODIGLIANI, F. (1944), “Liquidity preference and the theory of money”, Econometrica, vol. 12, no. 1, pp. 45-88; trad. it. “La preferenza per la liquidità e la teoria
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MODIGLIANI, F. (2003), “The Keynesian gospel according to Modigliani”, American
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