Testo del curatore della mostra Prof. Zeffiro Ciuffoletti Austria Felix L’impero austro-ungarico L’impero asburgico dopo la rivoluzione del ‘48 : un puzzle di nazionalità Nell’Austria degli Asburgo ogni cosa era imperiale e regia, Kaiser-Königlich, spesso abbreviato in K.K., che poi si pronunciava kaka. Fu probabilmente questa abbreviazione ad ispirare Musil per la caustica descrizione della Cacania nelle prime pagine de “L’uomo senza qualità”. Uno stato “sonnolento”, complicato e composito, immobilizzato dalle sue stesse contraddizioni e sospeso in una situazione paradossale ed esplosiva. Questa, forse, era l’immagine finale di un impero che aveva avuto nei secoli una storia assai meno opaca. Del resto l’immagine grottesca dell’Austria era, per dirla con Musil stesso, una metafora del “mondo moderno” vista con gli occhi di chi non si adattava alla modernità. In realtà l’impero asburgico rappresentava lo stato più singolare nella costellazione delle grandi potenze europee, sorto per difendere l’Europa cristiana dai turchi, aveva assolto necessariamente ad un compito essenziale ai fini dell’equilibrio continentale. La dinastia degli asburgo era la più importante d’Europa e fra il XII e il XIX secolo aveva fornito sovrani a molti regni, ducati, principati in vari paesi europei. Ancora nel 1848 i possedimenti dell’impero occupavano un’estensione di 666.868 Kmq e costituivano il più grande paese d’Europa dopo la Russia zarista. La popolazione ammontava a 37,5 milioni di abitanti : tedeschi ( 8 milioni ), magiari ( 5,5 ), italiani ( 5 ), cechi ( 4 ), ruteni ( 3 ), romeni ( 2,5 ), polacchi ( 2 ), slovacchi ( 2 ), serbi ( 1,5 ) croati ( 1,5 ) sloveni ( 1 ), più consistenti minoranze di ebrei, zingari, armeni, bulgari e greci. Indipendetemente dalla sua fine, proprio mentre si sta costruendo l’Unione Europea, bisognerebbe ripensare alla storia del più grande impero sovranazionale, che fra luci e ombre, governò una grande parte dell’Europa più a lungo di chiunque altro, con esiti apprezzabili almeno per ciò che sarebbe accaduto successivamente in Europa ( A. Sked, Grandezza e caduta dell’Impero asburgico. 1815-1918 ). Si trattava da un lato di un impero multinazionale, ma dall’altro era anche uno Stato tedesco, membro autorevole della Confederazione germanica, all’interno della quale esercitava da sempre un ruolo di primo piano. Gli stati della Confederazione, una miriade di principati e città, da un lato erano uniti alla Prussia nello Zollverein ( una sorta di mercato comune ), ma dall’altro erano soggetti all’influenza politica dell’Austria. Una parte delle terre soggette alla monarchia asburgica entravano nella Confederazione, ma altre ne rimanevano al di fuori a partire dalle terre comprese o pretese dalla corona d’Ungheria, fino alla Dalmazia, all’Istria exVeneta, alla Galizia, alla Lodomiria, alla Bucovina, legate direttamente all’Imperatore d’Austria. La stessa carta fondamentale dal punto di vista dinastico, cioè la Pragmatica Sanzione del 1713, rappresentava una camicia di Nesso per l’evoluzione moderna della monarchia asburgica. La Pragmatica Sanzione garantiva l’ordine dinastico ed il legame di tutte le terre al sovrano, ma solo singolarmente. Si riconosceva, cioè, l’individualità storica e giuridica di ognuna di quelle terre e si garantiva l’intangibilità dei loro diritti e confini. Tuttavia ciò contrastava sempre di più rispetto a qualsiasi evoluzione dello stato, sia in senso unitario, sia in senso federale su basi nazionali. Qualsiasi trasformazione in questo senso comportava infatti una rottura delle compagini provinciali, per poter staccare i cechi dai tedeschi in Boemia, in Moravia, in Slesia ; oppure i ruteni dai polacchi in Galizia o ancora gli sloveni dai tedeschi in Carniola, Carinzia, Stiria, per non parlare della situazione ungherese o del Trentino o dell’Istria ( E. Sestan, “Le riforme costituzionali austriache p. 316-17 ). La questione divenne esplosiva con lo scoppio della rivoluzione del 1848, quando nel cuore dell’Europa continentale si incrociarono la questione tedesca e le varie questioni nazionali, compresse e confuse in quel grande puzzle delle nazionalità e delle etnie che era l’impero asburgico. A Vienna, il principe Metternich, il grande artefice della Restaurazione, dovette lasciare il potere e i liberali ottennero la convocazione di un Parlamento dell’Impero. A Budapest, a Praga, a Milano, a Venezia e in altri territori della monarchia asburgica scoppiarono moti a sfondo nazionale e autonomista. Nell’estate del ’48 iniziò, però, la riscossa del potere imperiale, che utilizzò le divisioni e le ingenuità politiche dei rivoluzionari e le rivalità fra le diverse nazionalità per restaurare il potere asburgico. Le comunità tedesche sparse nell’impero e le “colonie” urbane tedesche presenti nel mondo slavo inizialmente assunsero posizioni liberali, ma poi, spaventate dai nazionalismi che prendevano forma specialmente fra le masse slave, cercarono qualsiasi strada compresa quella dell’autorità dell’impero, per conservare i loro privilegi. Dopo la repressione a Praga e a Vienna, l’imperatore Ferdinando I, il 2 dicembre 1848, abdicò a favore del nipote Francesco, che assunse il nome di Giuseppe, per far capire al popolo, con il riferimento all’imperatore riformatore del ‘700 ( Giuseppe II ), “che la rivoluzione sarebbe stata da ora in poi continuata dall’alto” ( S. Vajda, p.393 ). Domati definitivamente gli ungheresi con l’aiuto della Russia e gli italiani, nel novembre del 1850 nellà città slovacca di Olmutz, si concludeva a favore di Vienna anche il braccio di ferro tra impero asburgico e regno di Prussia per l’egemonia sul mondo tedesco. Il trattato di Olmutz faceva fallire il progetto di riunione tedesca intorno alla Prussia e restaurava la vecchia Confederazione Germanica, nata nel 1815. A Dresda, la conferenza dei principi tedeschi decise di ripristinare il vecchio ordinamento federale, riconfermando però, l’esclusione dalla Confederazione delle aree non tedesche dell’Impero. Con ciò si bloccava l’ambizioso progetto del ministro Karl Ludwig Von Bruck, che voleva riunire sotto l’Austria lo Zollverein alla sfera economica austriaca nel bacino del Danubio. L’Austria vedeva così ribadito uno dei motivi della sua debolezza rispetto al più ricco mondo tedesco e cioè il fatto che metà del suo territorio restava fuori della Confederazione ed era la parte più povera ed arretrata. Nell’impero asburgico, oltre ai tedeschi ( 21% ), vivevano una dozzina di altre nazionalità : ungheresi ( 13,5% ), cecoslovacchi ( 16% ), polacchi ( 5,6% ), ruteni ( 8% ),, jugoslavi ( 10,7% ), italiani ( 14,3% ), rumeni ( 6,8% ). La “primavera delle nazioni” aveva sollevato, specialmente dopo il 1848, i fantasmi di un nazionalismo che aveva infiammato giovani studenti e intellettuali, ma anche borghesi e ceti medi urbani, animati anche di idealità liberali e democratiche. L’ondata rivoluzionaria era stata fermata , ma non si poteva più tornare al vecchio sistema di Francesco, il sistema Kolovrat-Metternich ; come per prima comprese la consorte dell’arciduca Francesco Carlo , fratello dell’imperatore, l’arciduchessa Sofia, “ l’unico vero uomo a corte”. Fu lei che pilotò la successione a vantaggio del diciottenne Francesco, suo figlio primogenito. Con il supporto di personalità di tutto rilievo come i ministri Alexander Von Bach, Anton Von Schmerling e Karl Ludwig Bruck, il governo imperiale tentò, dopo la rivoluzione, di riprendere la tradizione riformistica settecentesca e di avviare la modernizzazione economica e sociale dell’impero, facendo leva sulla struttura centralistica dell’apparato burocratico e dell’esercito. Proprio su questa collaudata struttura lo stato asburgico tentò di riorganizzarsi sulla base del vecchio sistema assolutistico, sostenuto dalla nobiltà, dalla Chiesa e dal mondo contadino. In effetti la costituzione del ’49, mai applicata, fu revocata definitivamente nel 1851, mentre le “riforme dall’alto” ebbero un notevole sviluppo. La riforma principale fu quella dell’affrancamento del mondo contadino. Quando la riforma fu varata c’erano ancora nell’impero 38milioni di giornate di lavoro servile che i contadini dovevano prestare gratuitamente, ed inoltre ben 29 milioni di giornate di lavoro di gruppo ( “robot”, in lingua slava ), più una serie di altri gravami. Nel 1850 ben tre milioni di persone, su una popolazione di 30,7 milioni, ottennero un appezzamento di terreno. Nonostante i limiti della riforma e la perdita delle terre comuni, si avviò un processo di modernizzazione nelle campagne, il che provocò anche un processo migratorio che crebbe con il tempo. La riforma mirava a legare i contadini al blocco d’ordine come si era affermato dopo il fallimento della rivoluzione. L’abolizione della servitù comportò anche la fine della giurisdizione patrimoniale dei grandi proprietari terrieri. Nel campo dell’istruzione vennero resi più efficienti i ginnasi, sviluppata l’istruzione tecnica e applicato un ordinamento più liberale all’università. Nelle scuole elementari infine, l’insegnamento poteva essere impartito nella lingua materna. Tuttavia questo orientamento liberale venne contraddetto dall’imposizione della lingua tedesca da adottare nell’apparato statale e giudiziario in tutto il territorio dell’impero. L’altro pilastro della restaurazione fu l’alleanza con la Chiesa cattolica. Per sancire questa alleanza fu smantellato l’intero sistema di controllo statale sull’attività della Chiesa così come era stato impiantato da Giuseppe II. I gesuiti furono riammessi nell’impero e al clero furono affidati ampi poteri in materia di insegnamento e di censura. Il complesso delle riforme e lo sviluppo delle infrastrutture viarie e delle ferrovie, lo stesso potenziamento dell’esercito, diedero impulso allo sviluppo economico e all’allargamento del mercato. Tuttavia proprio gli enormi costi dell’apparato burocratico e militare aggravarono progressivamente il bilancio dello Stato e di conseguenza la pressione fiscale. Tasse, imposte, prestiti, vendita dei beni della corona non furono sufficienti a tappare la voragine del debito pubblico e resero il sistema finanziario particolarmente delicato, come si vide in occasione della crisi finanziaria internazionale del 1857. La politica centralistica e la repressione delle aspirazioni nazionali impedì il formarsi di solide borghesie nazionali, mentre l’aristocrazia, tradizionale puntello dell’impero, specialmente nelle provincie orientali, era stata danneggiata dall’abolizione della servitù della gleba. Difficoltà ancora più grandi si manifestarono sul piano internazionale, dove l’impero si trovò in concorrenza con la Russia nell’area balcanica e danubiana e si dovette scontrare con la Francia e con il regno di Sardegna per la questione italiana ( 1859 ). Le due sconfitte militari con la Francia ed il Regno sardo nel 1859 e nel 1866 con la Prussia e il Regno d’Italia, non solo comportarono la perdita di due delle più ricche regioni dell’impero come la Lombardia e il Veneto, ma ridimensionarono radicalmente il ruolo dell’impero asburgico nella scena europea e determinarono un riassetto interno dell’intera compagine dell’impero. Il “compromesso” del 1867 e la “duplice monarchia austro-ungherese” Carlo Marx dopo la sconfitta dell’Austria nel ’59 scrisse all’amico Engels che la “lezione ricevuta” avrebbe costretto l’Austria ad inevitabili cambiamenti, ma non sul piano politico. In realtà accadde che i cambiamenti toccarono proprio la sfera politica e di governo, provocando prima la caduta del ministro Bach e poi la fine del suo sistema autoritario e centralistico di governo. Le idee liberali e costituzionali, spesso combinate a quelle federali, erano largamente penetrate nella borghesia colta di città come Vienna e Praga o in città manifatturiere come Reichenberg. Per il centenario della nascita di Schiller, la borghesia viennese salutò con entusiasmo il poeta della libertà dei “Raübert”,del “Don Carlos” e del “Wilehelm Tell”. I circoli politici addossarono proprio alla arretratezza politica le ragioni della sconfitta diplomatica e militare dell’Austria sui campi della Lombardia dove i soldati ungheresi avevano disertato per protestare contro Vienna e per solidarietà con gli italiani. Il ministro Bruch, che aveva inutilmente cercato di evitare la guerra, pensava alla creazione di una Mitteleuropa, Federazione di Federazioni, uno spazio politico ed economico moderno, contrapposto all’espansionismo di Napoleone III e alle pressioni della Russia zarista. L’ostilità degli ambienti di corte spinse il ministro della finanza Bruch, accusato ingiustamente di irregolarità finanziarie, al suicidio, ma non riuscì a bloccare il corso delle riforme comprese quelle di ispirazione federale previste nel “Diploma d’Ottobre” del 1860. Con il Diploma imperiale del 20 ottobre 1861, Francesco Giuseppe inaugurava infatti l’era costituzionale austriaca. Dopo Villafranca si aprì una fase di riforme liberali in politica interna ed un lento riconoscimento dei problemi delle nazionalità, con in testa quella magiara, che rappresentava il gruppo etnico più forte dei gruppi non tedeschi dell’impero ed il più ostile ad accettare la politica di germanizzazione. Le riforme miravano a rafforzare le autonomie locali, a risanare le finanze dello stato e a dirottare verso investimenti produttivi parte dei mezzi finanziari assorbiti dal mantenimento dell’apparato burocratico e militare. Finalmente alle religioni non cattoliche fu concessa autonomia e libertà di culto. La stessa posizione degli ebrei sparsi in tutto l’impero, fu regolata in maniera più liberale e civile. Si avviò anche un sistema rappresentativo con la Patente di febbraio ( 1861 ), che piegava in senso centralistico il Diploma d’ottobre del 1860 e che si scontrava perciò con gli interessi delle nazionalità più forti. La riforma fu bloccata dagli ungheresi, perché contrari alla rappresentanza dei transilvani e dei croati, che a loro volta aspiravano ad un regno comprendente anche la Slavonia e la Dalmazia. In realtà la ripartizione della rappresentanza fra “regni e paesi”, su 343 deputati, ne prevedeva ben 223, due terzi, riservati agli austriaci, 85 agli ungheresi, 26 ai transilvani, solo 9 a croati e sloveni, mantenendo così la predominanza assoluta dell’elemento tedesco. Il ministro liberale Anton Riffer Von Schmerling, il cui governo aveva varato la “patente di febbraio” si trovò davanti l’opposizione delle nazionalità più forti e fu costretto a dimettersi. Davanti alla paralisi del sistema l’imperatore fu costretto ad abolire nel 1865 la patente di febbraio, senza peraltro rinunciare a nuove riforme, ma senza, tuttavia riuscire a trasformare in modo stabile il complicato sistema di governo, sempre in bilico fra centralismo e federalismo. Non era facile soddisfare le aspettative dell’Ungheria, mentre in Boemia si contrapponevano “Vecchi” e “Giovani Cechi” e in Croazia si pretendeva il riconoscimento del proprio “diritto di Stato”. Persino Trieste, che costituiva un Land a sé stante, pretendeva un tale riconoscimento. Infine i polacchi reclamano l’amministrazione autonoma della Galizia . Finché Bismarck attirando l’Austria nella guerra del 1866, nella quale la Prussia ebbe come alleato il giovane Regno d’Italia, contribuì ad un ulteriore chiarimento dell’intricata situazione. La guerra del 1866 culminò nella battaglia di Koniggraz, presso i villaggi di Sadowa, Dohalitz, Lipa e Chlunn, dove 215.000 austriaci affrontarono 221.000 prussiani. I modernissimi fucili Dreppe in dotazione all’esercito prussiano sparavano cinque colpi al minuto, contro i Lorenz degli austriaci, che sparavano appena un colpo al minuto. Fu una carneficina che si concluse con 5.658 morti, 7.574 feriti, 7.410 dispersi e 22.170 prigionieri tra gli austriaci, contro 1.920 morti e 6.948 prigionieri fra i prussiani. Koniggraz fu “una delle maggiori catastrofi della storia austriaca”, ma fu anche il momento determinante di un processo di democratizzazione che da allora non fece che svilupparsi, l’inizio di un incremento politico, economico e culturale, il sorgere della proverbiale “età dell’oro della monarchia austro-ungarica”.( S. Wajda, p. 415 ) L’Austria aveva perso il Veneto ed ogni influenza in una Germania ormai dominata dalla potenza prussiana. Nei fatti si avviava a diventare una realtà politica e statuale danubiano-balcanica, il cui carattere plurinazionale cominciava sempre più ad apparire come l’indispensabile struttura di contenimento dell’espansionismo “panslavo” e “pangermanico” ( G. Negrelli p. 229 ). Per un momento si riaffacciò la prospettiva , avanzata a più riprese durante e dopo la rivoluzione del 1848 ( E.Sestan, Autonomia e nazionalità ; p. 373 ) di fare dell’Impero una Federazione comprendente l’Austria tedesca, la Boemia, la Galizia e l’Ungheria, ma alla fine Francesco Giuseppe fu costretto a venire a patti con la sempre più irrequieta e forte nazione magiara. Il “Compromesso” del 1867, che diede luogo alla “Duplice Monarchia” prevedeva la divisione dell’impero in due parti : la “Cisleitania” a direzione austriaca con 20milioni di abitanti di otto nazionalità diverse ( tedeschi 35%, cechi 24%, slavi, polacchi, ruteni, sloveni ed altri gruppi 38%, italiani 3% ) ; la “Transleitania” soggetta all’Ungheria con 14,5 milioni di abitanti ( magiari 40%, rumeni 15%, tedeschi 12%, croati serbi, slovacchi 30%, più una presenza italiana a Fiume ). Ognuno dei due stati aveva una propria costituzione ( l’Ungheria riprese quella del 1848 ) ed un proprio parlamento di fronte al quale ognuno dei due governi era responsabile. La lingua dell’amministrazione pubblica era il tedesco in Austria ed il magiaro in Ungheria. L’unione dei due stati non era solo personale, nella doppia funzione del sovrano Kaiser und Koning ( l’8 Giugno del 1867 Francesco Giuseppe fu incoronato re di Ungheria con la corona di S. Stefano ), ma anche di governo, dal momento che i delegati dei due parlamenti dovevano riunirsi alternativamente a Vienna e a Budapest, mentre i ministri delle finanze degli esteri e della guerra erano comuni. La lingua di servizio dell’esercito, tranne che per la milizia territoriale, era il tedesco. Il compromesso sembrava fatto a spese degli slavi ( dal tedesco “sklave” ), la nazionalità più numerosa dell’impero, ma anche la meno compatta nella distribuzione territoriale e la meno considerata dal punto di vista culturale. Nuclei di serbi vivevano nella Voivodina, nel Banato, nella Bosnia, nella Erzegovina, nella Dalmazia. La diversità religiosa essendo essi greci ortodossi, ma anche musulmani, li aveva tenuti staccati e trattati con ostilità dai croati cattolici. “In queste terre, anche più che la lingua, era la religione il segno discriminante” ( E.Sestan, “Centralismo, federalismo e diritti storici ; p. 398 ). Croazia e Slavonia erano subordinate a Budapest. Avevano una propria Dieta a Zagabria, il Sabor, e mandavano i loro deputati a Budapest, ma il potere esecutivo era nelle mani del “bano”, una specie di vicerè, nominato dal governo ungherese su proposta del parlamento ungherese. La Cisleitania riconosceva 17 circoscrizioni provinciali, la maggioranza delle quali erano etnicamente composite, con le loro Diete e i vari statuti e gradi di autonomia. Il Parlamento di Vienna veniva eletto direttamente dai cittadini delle province con un sistema censitario, almeno fino al 1907, quando viene introdotto il suffragio universale maschile, mai concesso in Transleitania, dove i magiari potevano rischiare di perdere il controllo del parlamento. I governi liberali sia in Cisleitania che in Transleitania danno prova di liberalità, ma in Ungheria si assiste ad un sotteraneo processo di magiarizzazione anche durante il lungo governo liberale di Kalerman Tisza ( 1875-1890 ). In Boemia, la parte economicamente più progredita dell’Impero, si aspirava al “diritto di Stato”, come per l’Ungheria e si alimentavano correnti di panslavismo. Cechi e tedeschi danno vita a due gruppi nazionali tra loro avversari, che paralizzano qualsiasi possibilità di soluzione politica. Il Parlamento viennese molto spesso venne paralizzato dai contrasti interni e dall’assenteismo dei deputati cechi. Francesco Giuseppe e il governo imperiale diventarono sempre più i garanti dell’equilibrio plurinazionale della monarchia, specialmente quando l’esecutivo fu affidato al conte Eduard Taaffe ( 1878 - 1893 ), amico intimo dell’imperatore, deciso a governare al di sopra delle nazionalità e dei partiti. L’imperatore, nonostante il fascino di Elisabetta, era circondato da una aristocrazia austera e attaccata alla dinastia e ai rituali di corte. Di fatto non riuscì e non poteva riuscire a rappresentare un fattore di integrazione davanti alle forze conflittuali e centrifughe dei vari gruppi etnici. L’impero era costantemente minacciato dalle tensioni nazionalistiche, tra scontri fra le diverse nazionalità e fra tensioni ricorrenti tra le singole etnie che aspiravano all’indipendenza e all’autonomia dal potere centrale. Austria Felix L’Impero poteva sopravvivere tra abili compromessi e continui aggiustamenti in un equilibrio che sembrava a molto osservatori miracoloso. L’artefice di questo fu tra il 1873 e il 1893 il Kaiserminister Taaffe, uno statista illuminato, scettico e disincantato, che riuscì ad attuare una politica di continuo equilibrio fra le spinte divergenti delle nazionalità, basandosi sull’appoggio della grande proprietà terriera e degli elementi conservatori, eludendo l’autorità del Parlamento e circondandosi di una “coalizione di governo”, stretta saldamente intorno a sé, tramite favori e concessioni nelle infrastrutture ( ferrovie, porti ) e nei lavori pubblici. Con grande abilità Taaffe cercò di mantenere un equilibrio in cui nessuna nazionalità potesse avere una preminenza assoluta. Frenò l’egemonia tedesca, includendo i Cechi nella sua maggioranza e facendo notevoli concessioni sia agli slavi che agli stessi Cechi, riconoscendo il bipolarismo in Moravia e in Boemia ( 1880 ) e creando un’università ceca a Praga. Oggettivamente Taaffe moderò il centralismo allargando le competenze locali e surrogando con l’autonomia amministrativa istanze di libertà politiche e nazionali. La burocrazia in espansione fece da sbocco delle aspirazioni di ascesa sociale delle classi medie e anche popolari delle varie nazionalità, ma, proprio per questo, rappresentò anche un fattore di unità e lealismo verso il sovrano. Dal punto di vista sociale il “sistema Taaffe” sosteneva lo sviluppo in senso borghese dell’economia, ma godeva anche del favore dell’aristocrazia terriera e dei contadini. Per quanto riguarda l’economia, il grande mercato rappresentato dall’Impero costituiva un fattore di opportunità anche se su basi ancora prevalentemente legate all’agricoltura , dove operava il 56% della popolazione attiva. C’erano, però, alcune isole in via di industrializzazione attorno alla capitale, in Boemia, intorno a Praga, a Trieste, il cui porto era diventato un nodo di primaria importanza per i traffici fra il centro Europa, il Mediterraneo e l’estremo oriente, specialmente dopo l’apertura del canale di Suez. Lo Stato sosteneva la produzione di zucchero di barbabietole e l’industria si sviluppò a tal punto da soppiantare completamente nei mercati europei lo zucchero di canna importato dalle colonie. Dal 1866 al 1900 gli zuccherifici passarono da 130 a 218. La carta austriaca, soprattutto da sigarette, era esportata in tutto il mondo, così come i prodotti delle vetrerie boeme. Tuttavia l’industria tessile e quella chimica rimanevano arretrate rispetto a quelle dei paesi europei più industrializzati. Nonostante ciò la bilancia commerciale migliorò continuamente e dal 1876 al 1898 fu costantemente in attivo. La società nella monarchia austro-ungarica era per molti versi arcaica e contraddittoria. Si pensi che ancora nel 1910 gli operai addetti all’industria comprendevano appena il 22,6% delle persone occupate ; il resto erano contadini, commercianti e artigiani, con un record di 600.000 addetti ai lavori domestici, il che era indicativo di una società in cui la ricca borghesia urbana aveva ereditato stili di vita dell’aristocrazia. Per espandere il commercio si realizzarono opere significative come la strettoia delle Porte di Ferro sul Basso Danubio, che avvantaggiò la migrazione sul grande fiume, e la ferrovia dell’Arlberg ( 1884 ), la più importante ferrovia per il trasporto merci fra l’Europa occidentale e quella orientale. Il processo di modernizzazione nonostante tutto andava avanti e Vienna, che a fine secolo aveva raggiunto gli 850.000 abitanti, diventava una delle città più importanti d’Europa, una vera metropoli internazionale, ma anche Budapest e Praga con i loro caffè ricchi di fermenti politici, letterari e artistici, divennero città vive e moderne.Vienna divenne allora la grande capitale culturale d’Europa ed una delle città più interessanti del mondo. Si pensi alla “scuola viennese” di medicina, di musica, di economia politica. Un crocevia di cultura e di scoperte : positivismo, marginalismo, austromarxismo, psicanalisi ; Sigmund Freud, Gustav Mahler, Arnold Schonberg, Karl Kraus. Per non parlare dei “secessionisti”, di Gustav Klimt, oppure di Adolf Loos. Proprio a Vienna furono bocciate le aspirazione del giovane Adolf Hitler, che aspirava ad entrare all’Accademia di Belle Arti. Vienna, Praga e Budapest divennero i laboratori della nuova cultura europea, in ciò che c’era di più moderno e cosmopolitico. Mentre la popolazione dell’Impero passava da 36 milioni a 47 milioni di abitanti fra il 1870 e la fine del secolo, crescevano le migrazioni interne verso le città e i distretti industriali. La solidità del bilancio statale, nonostante i costi dell’apparato burocratico, permetteva una bassa pressione fiscale. Con la riforma del 1896 si manteneva l’imposta generale sul reddito al 5%. Sul piano della politica internazionale l’Impero asburgico nonostante le sue difficoltà, divenne un fattore di stabilizzazione in un’area esplosiva come era l’Europa danubiano-balcanica. La sua politica estera, stringendosi alla Prussia, in funzione di difesa dell’ordine balcanico e degli interessi danubiani ottenne dei successi significativi come l’amministrazione della Bosnia e dell’Erzegovina ( 1878 ), protettorato sulla Serbia ( 1881 ). Persino l’intesa difensiva della Triplice Alleanza con la Prussia e con il Regno d’Italia ( 1883 ) e poi l’alleanza con la Romania serviva a mantenere un quadro di stabilizzazione degli equilibri internazionali. L’impero sembrava un concentrato di contraddizioni pronte a scoppiare, ma per una sorta di entropia, di magico incantesimo, si manteneva in equilibrio neutralizzando le spinte nazionali e quelle interetniche. Imperialismo e conflittualità negli ultimi decenni dell’Impero Mentre in tutta Europa aleggiavano i fantasmi del nazionalismo più acceso e l’impero era scosso dal pangermanesimo e dal panslavismo, dalle pulsioni neoromantiche e illiberali con tutto il corollario di anticapitalismo, antiparlamentarismo, antisemitismo e razzismo, non poteva più bastare la buona amministrazione, la tolleranza, la progredita legislazione sociale ( fra le migliori d’Europa ), la semplicità e l’efficienza del sistema fiscale ( Cfr, A. Wandruszka, “Ein vorbildlicher Rechstaat ? in Die Hbsburger Monarchia 1848-1918”, Wien, 1975, vol II, p. IX - XVIII ). Il peso della storia, la centralità del rapporto diretto fra il sovrano ed i suoi popoli, se pure rappresentò il cemento plurisecolare della monarchia asburgica, per molti versi impedì la sua evoluzione in moderna struttura costituzionale e federale, che sola, forse, le avrebbe consentito di sopravvivere alle “ventate dei tempi moderni” ( E.Sestan, “Le riforme culturali austriache”, p. 317 ) ed ai sempre più forti contrasti fra le diverse nazionalità. Fino verso la fine del secolo il potere centrale riuscì a controllare la situazione, ma tra la fine dell ‘800 e l’inizio del ‘900 si registrò una crescita della spinta divergente dei movimenti nazionali in contrasto gli uni con gli altri, ma uniti contro il centralismo imperiale ed esposti a continui processi di radicalizzazione politica. Taaffeaveva tentato con un certo successo di neutralizzare le spinte delle varie borghesie “nazionali” appoggiandosi direttamente alla fedeltà dinastica delle masse, specialmente contadine. Per questo aveva proposto anche la concessione del suffragio universale, provocando l’ostilità delle varie borghesie nazionali ben più estese delle vecchie oligarchie moderate, ma timorose delle masse contadine e operaie influenzate dai socialisti. Il centralismo illuminato di Taaffe, che non aveva favorito la prevalenza di nessuno dei gruppi nazionali più forti, compreso quello tedesco, aveva provocato il risentimento proprio di questi ultimi che non volevano perdere la loro prevalenza sull’apparato statale e che consideravano le concessioni fatte ai Cechi e agli Slavi come una minaccia alla loro egemonia politica e culturale. Nel 1893 Taaffe fu travolto dall’ostilità dei nazionalisti tedeschi e dalle nuove forze nazionali. I governi liberali di coalizione che gli succedettero rimasero immobilizzati davanti alle spinte “nazionali” e agli interessi particolari. I nuovi movimenti nazionalisti non si riconoscevano più nel pluralismo delle comuni tradizioni storiche dei Lander e delle individualità regionali dell’impero. Tutto ciò finiva col paralizzare il buon funzionamento degli organi rappresentativi locali e centrali, dove le opposte esigenze nazionali finivano per irrigidirsi in contrapposizioni prive di sbocchi politici. Mancava la forza per affrontare sul piano istituzionale la questione plurinazionale nella sua globalità. Le riforme parziali, come quella tentata dal ministro Alfred Windischgratz favorivano il processo di politicizzazione, acuendo i conflitti invece di placarli. La crisi più acuta scoppiò nel 1897, quando il polacco Conte Kazimierz Felex Badessi, tentò di appianare il conflitto fra Cechi e Tedeschi con un provvedimento che introduceva il bilinguismo per tutti gli uffici pubblici in Boemia e Moravia. Questo favoriva i Cechi che già usavano il tedesco, ma scontentava i tedeschi che occupavano il 56% dei posti della pubblica amministrazione, mentre rappresentavano solo il 23,9% della popolazione dell’impero. Di questo approfittò il leader della Deutsch-national Verein ( unione nazional-tedesca ), Georg Von Schomer, sostenitore di un populismo anticapitalista, antiliberale, antisemita e pangermanista. Fra proteste di piazza, ostruzionismo parlamentare e repressione, il movimento pangermanista riuscì a spingere Badessi alle dimissioni, ma i ceti medi tedeschi non seguirono Schomer, che voleva riunire l’impero con il sogno di una Grande Germania, ma ripiegarono nel partito “cristiano-sociale” di Karl Lueger, che pur difendendo la supremazia dei tedeschi nell’impero, minacciati dagli slavi, dai latini e dagli ebrei, restava fedele al sistema nazionale asburgico. Di umili origini, avvocato, abile oratore, Lueger attaccava i “capitalisti” e soprattutto gli ebrei che avevano conquistato posizioni importanti nella finanza e nel commercio. L’imperatore cercò di respingere più volte la sua elezione a borgomastro di Vienna proprio per il suo antisemitismo e i suoi violenti attacchi contro gli ungheresi. Nel 1897 Francesco Giuseppe si dovette piegare al volere della maggioranza dei viennesi e Lueger borgomastro della capitale dell’impero. Lueger fu un buon borgomastro che contribuì a modernizzare la città con buoni servizi pubblici, con scuole, ospedali, ospizi, zone a verde pubblico, viali e illuminazione moderna. Naturalmente la mobilitazione dei cattolici nasceva anche dall’esigenza di non lasciare tempo libero al socialismo che stava organizzandosi nelle città e fra i ceti operai. Nel giorno del 1° Maggio del 1890 i lavoratori di Vienna tennero la prima grande manifestazione di massa per la festa del lavoro con oltre centomila partecipanti che sfilarono per le vie della capitale. L’anno prima era uscito il primo numero della “Arheiter Zeitung”, organo ufficiale del partito socialdemocratico e nel 1893 sempre a Vienna, si era tenuto il primo congresso dei sindacati austriaci. Viktor Adler, leader della socialdemocrazia austriaca sottolineava che “bisognava trovare nuove forme di vita per i popoli di questo paese”. Mentre tra il 1899 e il 1904 il governo di Ernst von Korher introduceva nuove riforme sociali, accolte positivamente, ai margini dell’impero si animavano spinte irredentiste verso l’Italia, verso la Romania e verso la Serbia. Il “pangermanesimo” ed il “populismo” aspiravano all’unificazione dei gruppi etnici sparsi nei territori dell’impero. L’Ungheria accentuando pressione sui Serbi e sui Croati alimentava di fatto queste spinte centrifughe. Per fronteggiare questi movimenti bisognava tentare di unire i popoli in superiori e comprensivi complessi federali e non e comprimerli in chiusi stati nazionali. Questo era il disegno del vescovo Francesco Ferdinando, divenuto erede al trono dopo il suicidio a Meyerling ( 1889 ) del cugino Rodolfo, figlio dell’imperatore, sosteneva la prospettiva di un “trialismo”, con la creazione di un Regno Jugoslavo e di ulteriori aperture in senso federale con la Boemia. Questo progetto si scontrava con l’opposizione degli ungheresi e dei nazionalisti serbi e croati, che miravano con ogni mezzo alla fondazione di un unico stato slavo indipendente dall’impero. In ciò erano appoggiati dalla Serbia, che a sua volta era sostenuta dalla Russia. Uomini di prestigio come Thomas Masarik e giovani democratici come Eduard Benes, criticavano il panslavismo dietro al quale vedevano l’espansionismo zarista e puntavano per la “questione ceca” ad una soluzione basata sull’autodeterminazione nazionale e nello sviluppo delle forme di autogestione locale per le minoranze. In effetti l’impero plurinazionale appariva un presidio di civiltà ed freno sia al pangermanesimo che al panslavismo. La natura plurinazionale dell’impero lo rendeva, però, sempre più esposto alle spinte contrastanti interne ed esterne, che avevano fino ad allora bloccato qualsiasi soluzione federale su basi nazionali. Persino le minoranze italiane nelle coste della Dalmazia, del Quarnaro o dell’Istria non avrebbero accettato di buon grado la subordinazione ad una struttura politica dominata dalle nazionalità prevalenti, spesso composte di umili contadini o di pescatori. Le classi dirigenti italiane di Fiume e di Trieste, grande porto dell’impero e ormai grande città commerciale e industriale, temevano qualsiasi disegno che poteva mettere in discussione il loro ruolo. Tuttavia la situazione era in movimento e occorreva un disegno ambizioso per superare lo stallo pericoloso in cui si trovava l’impero. Persino il partito socialista ( Programma di Brno 1899 ), prospettava un impero rinnovato in forma di federazione democratica di “popoli” autonomi. Gli austro-marxisti, forti di pensatori-militanti come Max Adler, Karl Renner, Rudolf Hilferding, Otto bauer, proposero un’originale revisione della questione nazionale, separando la nazione dall’idea di Stato e proiettando le diverse comunità nazionali in un quadro federativo. La monarchia andava trasformandosi in una federazione di territori corrispondenti alle maggioranze nazionali degli abitanti, a cui si dovevano aggiungere i criteri dell’autogoverno amministrativo e dell’autogoverno cultural-nazionale ( Renner ) Fra i vari progetti federalistici che erano calcolati fino ad allora, quello elaborato dai socialisti al congresso di Brunn ( 1900 ) aveva il pregio di affrontare la questione da un punto di vista generale, anche perché il partito socialdemocratico aggregava intorno a sé i socialisti di tutte le nazionalità : tedeschi, cechi, polacchi, italiani. Tuttavia nonostante la grande forza raggiunta dai socialisti i quegli anni ( erano diventati il secondo partito dopo il cristiano-sociale ) non era facile risolvere la questione nazionale e superare le resistenze che ostacolavano qualsiasi progetto di cambiamento del vecchio assetto. Inoltre gli stessi socialisti non si potevano sottrarre alle sollecitazioni nazionali. Fin dal 1906 la solidarietà socialista ceco-tedesca vacillava e nel 1910 la spaccatura si era già compiuta. L’imperatore Francesco Giuseppe capiva il tempo ed il processo di politicizzazione e la diffusione delle idee nazionaliste corrodeva le vecchie strutture di potere ed era convinto che “una resa graduale era preferibile ad una esplosione” ( V.Wajda, p. 427 ). Per questo, dopo una grandiosa manifestazione, che nel novembre del 1905 riunì a Vienna 200.000 manifestanti per chiedere il suffragio universale, nel gennaio del 1907 l’imperatore sanzionò l’introduzione del suffragio universale, uguale per tutti, diretto e sgreto. Tutti i sudditi dell’impero erano diventati cittadini, almeno nella parte austriaca, perché gli ungheresi si opposero alla riforma che minacciava la loro egemonia. I progetti di riforma dello stato sembravano scontrarsi da un lato con le oggettive difficoltà di risolvere i nazionalismi contrapposti e dall’altro con la mancanza di energia riformatrice nel cuore stesso dell’impero. Lo sviluppo dei movimenti ultranazionalisti dell’inizio del secolo investì così i due grandi imperi, quello austroungarico e quello ottomano, che avevano dominato una pluralità di nazioni sparse nell’area danubianobalcanica. Un’area sottoposta alle più acute tensioni, anche perché su di esse convergevano le mire di altre due potenze imperiali : quella tedesca e quella russa. La Russia in particolare fomentava il nazionalismo slavo per aprirsi una via verso il Mediterraneo ed appoggiava la Serbia, che a sua volta aspirava ad unificare i Serbi e i Croati, sottoposti all’Ungheria e alla sua politica di magiarizzazione forzata, nonché le popolazioni serbe della Dalmazia. L’assassinio, ad opera dei nazionalisti della “Mano Nera”, del re di Serbia Alessandro I Obrenovic ( 1903 ), che aveva tenuto un atteggiamento filoaustriaco e poi il ruolo svolto dalla Serbia nell’area balcanica, avevano spinto l’Austria all’annessione della Bosnia e dell’Erzegovina nel 1908. La mossa dell’Austria sbarrava la strada alle mire della Serbia di aprirsi uno sbocco verso il mare e nello stesso tempo irritava l’Italia, che guardava con interesse all’altra sponda dell’Adriatico. La rivoluzione dei “Giovani Turchi”, mentre voleva ridare prestigio e modernizzare l’impero, in realtà ne accelerò il crollo proprio per la spietata durezza con cui il nuovo regime trattava le minoranze nazionali. Le ambizioni delle grandi potenze, contrasti nazionali e il coacervo di appetiti contrastanti, che si accentuavano con la crisi dell’impero ottomano, stava trasformando la regione balcanica nella “polveriera d’Europa”. L’Italia nel 1911 approfittò della crisi della Turchia per impossessarsi della Libia e del Dodecaneso e la Lega Balcanica, che raccoglieva Serbia, Montenegro, Bulgaria e Grecia, mosse a sua volta guerra contro l’impero ottomano ( 1912 ). La Turchia subì due sconfitte, ma i vincitori della Lega Balcanica si trovarono divisi al momento della pace ( Londra 1913 ). Tra Bulgaria e serbia si aprì uno scontro proprio per la spartizione dei territori persi dalla Turchia e cioè tutti i territori europei, all’infuori di un modesto entroterra intorno a Instanbul. Una nuova guerra balcanica ( 1913 ) vide la Bulgaria, dove regnava Ferdinando di Coburgo, ben visto dall’Austria, contro tutti gli altri paesi ex-alleati con in testa la Serbia. Dopo la vittoria sulla Bulgaria, la Serbia divenne il più potente stato slavo dei Balcani, pronto a sfidare, con il sostegno della Russia e con l’attivismo terroristico delle società segrete di stampo nazionalistico, il colosso dell’impero austro-ungarico, che proprio nei Balcani affondava ormai i propri piedi d’argilla. Sulle rive del Danubio non risuonavano più le dolci note dei walzer di Johann Strauss, ma i rombi tragici dei cannoni. In questo clima il 28 Giugno 1914 a Sarajevo, capitale della Bosnia, l’erede al trono imperiale l’arciduca Francesco Ferdinando e sua moglie caddero sotto i colpi di rivoltella di Gavrilo Princip, uno studente “gran-serbo”, affiliato alla “Mano Nera”. L’Austria decise di reagire duramente contro la Serbia ed inviò l’inaccettabile ultimatum che fece scattare “l’effetto domino” che portò alla prima guerra mondiale e alla fine dell’impero. Inutilmente il nuovo imperatore Carlo I nel manifesto del 16 ottobre 1918 riconosceva che per la sopravvivenza dello Stato era necessario ricostruire la monarchie su basi etniche, spezzando i confini delle regioni storiche. era ormai troppo tardi : l’impero austro-ungarico era andato in frantumi in compagnia degli altri imperi che avevano caratterizzato la storia dell’Europa danubiano-balcanica.