CAPITOLO SECONDO IL PROCESSO CRIMINALE NEL TARDO IMPERO: GIUDICI ED ACCUSATI SOMMARIO: 1. La giurisdizione e la competenza. Cenni sulle giurisdizioni speciali – 2. La legislazione in materia di corruzione dei giudici e la figura del difensore nella testimonianza delle fonti non giuridiche. – 4. Le garanzie pro condicione personarum. Deroghe e benefici a favore di: a) senatori ; b) militari ; c) decurioni ; d) clero. 1. La giurisdizione e la competenza. Delineata la figura dell’accusatore, spetta ora alla nostra indagine cercare di individuare sommariamente quella del secondo grande protagonista del processo criminale: il giudice, rinviando per gli aspetti più tecnici alla vasta letteratura in materia82. La giurisdizione criminale, in questa epoca storica, si configura essenzialmente come un ufficio spettante agli alti funzionari imperiali ed in particolare a quelli preposti alle diverse articolazioni territoriali nelle quali ormai è strutturato l’impero (prefetture, diocesi e province)83. Un alto tasso di identificazione caratterizza, pertanto, i rapporti tra gli apparati gerarchici amministrativi e gli uffici componenti l’ordinamento giudiziario, in un’impostazione che è ben 82 Tra i tanti basti citare J.L. Strachan- Davidson, Problems of the roman criminal law, 2, Oxford, 1912, 166 ; F. De Martino, Storia, 328 ss; F. Goria, La giustizia nell’impero romano d’Oriente: organizzazione giudiziaria, in La giustizia nell’Alto Medioev. Settimane di Studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, 42, Spoleto, 1995, 259ss. 83 Sull’argomento B. Santalucia, Diritto e processo, 269ss.; A.H.M. Jones, Il tardo impero, 695ss. 50 lontana dal principio, tutto moderno, di separazione tra funzione amministrativa e giudiziaria. Quest’ultima al contrario, trova il proprio modello operativo e la stessa ragione giustificatrice della propria conclamata efficienza unicamente nell’assetto burocratico statale, con la conseguenza che l’esercizio della funzione punitiva viene affidato, in esclusiva, a soggetti, prescelti come magistrati essenzialmente in ragione della loro pregressa preposizione al vertice di un certo ambito territoriale o amministrativo. Tale interscambio tra funzione giurisdizionale ed amministrativa è testimoniato dalle stesse fonti ed in particolare da C.I. 2.46.3.184, costituzione del 531 per la quale la iurisdictio “certae administrationi … adhaeret ”. Questa situazione di fondo determina, pertanto, il cristallizzarsi di un’articolata struttura gerarchica, basata su diversi gradi di giudizio, quante sono le pronunce dei funzionari imperiali competenti. Il cittadino non è perciò lasciato sprovvisto di rimedi contro le decisioni a lui sfavorevoli, ma può, al contrario, godere di un’ampia diffusione dell’istituto dell’appello esperibile contro le decisioni di tutti i magistrati (escluso il prefetto del pretorio) ed avente come organo di ultima istanza lo stesso imperatore grazie allo strumento della supplicatio. 84 C.I. 2.46.3.1: Sed ne quis ita effuse intellectum nostrae constitutionis audeat esse trahendum, ut etiam apud compromissarios iudices vel arbitros ex communi sententia electos vel apud eos, qui dantur a iudicibus, qui propriam iurisdictionem non habent, sed tantummodo iudicandi facultatem, putet huiusmodi extendi sanctionem, cum hos generaliter volumus tales causas dirimere, qui vel certae administrationi, cui et iurisdictio adhaeret, praepositi sunt vel ab his fuerint dati, et multo magis si a nostra maiestate delegata eis causarum sit audientia. A 531 d. III k. sept. Constantinopoli post consulatum Lampadii et Orestae VV. cc. 51 Le fonti pervenute in materia di organizzazione degli apparati giudiziari in epoca postclassica si possono definire “generose” sicché, ad oggi, si dispone di una quantità di informazioni a riguardo, tale da consentire una congettura abbastanza accurata e convincente dei diversi gradi di giudizio. La giurisdizione di primo grado spettava di regola ai governatori provinciali (proconsules con rango di spectabiles in Africa, Asia ed Acaia ; consulares, praesides o correctores con rango di clarissimi nelle altre province) che, proprio per questo, erano detti iudices ordinarii85. Essi avevano giurisdizione in materia tanto civile quanto criminale, ma in quest’ultima era loro preclusa, salva specifica autorizzazione imperiale, l’irrogazione di alcune particolari tipologie di pene86 e a certe categorie di persone (ad esempio i decurioni). Le funzioni di giudici di appello erano invece esercitate da funzionari imperiali diversi, a seconda del rango del governatore provinciale pronunciatosi in primo grado. Se questi infatti aveva solo il titolo di clarissimus, come accadeva nella maggior parte dei casi, le funzioni di organo giurisdizionale di seconda istanza era svolte dal vicarius in quanto spectabilis e, nelle 85 J.L. Strachan- Davidson, Problems of the roman criminal law, 2, Oxford, 1912, 166 ; F. De Martino, Storia, 328 ss; F. Goria, La giustizia nell’impero romano d’Oriente: organizzazione giudiziaria, in La giustizia nell’Alto Medioevo, Settimane di Studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, 42, Spoleto, 1995, 259ss. 86 Tra queste, l’opinione ormai più accreditata annovera, almeno a partire dal V secolo, anche la pena di morte. In questo senso si esprimono, tra gli altri: F. De Martino, Storia, 328 e nt. 47 ; B. Santalucia, s.v. Processo penale in Enciclopedia del diritto, 36, Milano, 1987, 353, 357 e nt 205 ; V. Giuffrè, La repressione, 185. Tuttavia F. Goria, La giustizia, 269 nt.26, non ritiene più sussistente tale limitazione nel diritto giustinianeo. 52 diocesi prive di tale figura87, dal prefetto88, che aveva invece rango di illustris89. Quando invece i governatori provinciali erano già essi stessi investiti del rango di spectabiles90, per effetto di un’importante riforma dell’imperatore Teodosio II, la relativa competenza a giudicare i ricorsi fu trasferita dall’imperatore a uno speciale collegio costituito dal praefectus praetorio orientis e dal quaestor sacri palatii. Solo nei confronti delle decisioni del prefetto del pretorio la normale procedura d’appello non risultava esperibile, considerandosi le pronunce di tali funzionari imperiali non impugnabili, in quanto emesse vice sacra. Tuttavia, già dal 365 è attestata la prassi di rivolgere una supplicatio all’imperatore anche contro la decisione di tale funzionario. Lo stesso imperatore poteva essere adito come giudice di primo grado e in tal caso decideva discrezionalmente se trattenere la causa o rimetterla al tribunale competente. Un’eccezione era costituita dalla diocesi d’Oriente presieduta da un comes e dall’Egitto sottoposto ad un prefetto 88 Talora i prefetti avevano giurisdizione concomitante a quella dei vicari e ciò poteva essere motivo di conflitti di competenza come attesta C.Th.11.30.36: Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Eupraxium Praefectum Urbi. Post alia: cum ex causis iustis aliquid, quo minus iudicari statim possit, repperietur incertum ac debitor adversus discussoris statum coeperit reluctari, dilatione postposita super eo, quod excorietur ambiguum, vel sublimitas tua vel vicarius prout quisque vestrum proximus erit, adhibeat examen. Proposita XVI kal. mart. Gratiano A. III et Equitio conss. (374 febbr.14). In ogni caso si ritiene prevalere la competenza dei prefetti. 89 F. Goria, La giustizia, 270ss, osserva come le fonti riportino anche la prassi di devolvere, in mancanza del vicario, le funzioni di giudice di secondo grado al governatore di una provincia limitrofa, anziché al prefetto, purché munito del titolo di spectabilis e di ciò specificatamente incaricato. La scelta fra la proposizione del ricorso al prefetto o al governatore provinciale confinante avrebbe dovuto essere guidata dal favore per il più vicino, come confermano tanto C.Th.1.16.7 del 331 che Nov. Marc.1.2 del 450. Tuttavia, per l’autore, sia il rilievo che tali passi non sono stati inseriti nel Codice Giustinianeo, sia l’esame di Nov. Iust.23.3, inducono a ritenere che in epoca giustinianea il ricorso al tribunale del prefetto del pretorio dovesse ormai considerarsi preponderante. 87 53 Questa possibilità di ricorso immediato al sovrano, attestata con sicurezza almeno fino al 45091, venne comunque, proprio in quell’anno, arginata da Marciano, che limitò la possibilità di adire direttamente l’imperatore solo a quei casi in cui il governatore provinciale non fosse stato in grado di provvedere autonomamente. Altra prassi d’indubbia frequenza era quella del cd. procedimento per consultationem con il quale un giudice di grado inferiore investiva l’imperatore di una questione che riteneva problematica (per lo più un dubbio di diritto). Secondo una costituzione di Giustino I92 in queste ipotesi la decisione sarebbe spettata al quaestor sacri palatii coadiuvato da due “magnifici viri vel patricii vel consulares vel praefectorii” di nomina imperiale, ma già Giustiniano con la Nov. 125 limitò tale procedura alle sole cause criminali e pretese in ogni caso una pronuncia del giudice preventivamente adito, eventualmente impugnabile, in seguito, davanti all’imperatore. Limitatamente alla città di Roma e a partire dal 359 anche a Costantinopoli, si radicò poi la competenza giurisdizionale del praefectus urbi, avente rango di illustris e competente a conoscere in primo grado le controversie sorte a Roma ed entro le cento miglia circostanti. Tale prefetto rivestiva anche le funzioni di giudice d’appello almeno in due casi: o in seguito a delega imperiale, in relazione alle cause a lui specificamente devolute dall’imperatore, oppure nei confronti delle sentenze emesse dai giudici inferiori del suo distretto. 90 Come erano ad esempio i proconsules. Nov.Marc.1.2 (450): “…aut propter potestatem adversarii, aut ipsius rei difficultatem, aut publici debiti molem…”. 91 54 Nell’ambito della giurisdizione criminale ciò che più interessa sottolineare è che tale prefetto era l’unico funzionario urbano che disponesse dello ius gladii. E’ infine ricavabile dalle fonti una tendenza a devolvere le cause di minor rilievo (res parvae ac minimae) ai magistrati municipali, come testimonia una costituzione emanata a Milano dall’imperatore Onorio nel 395: C.Th.2.1.8.2 [=Brev.2.1.8.2]: Quum igitur de his rebus parvis ac minimis tuae sit iniuria potestatis iudicare, decretum est, eas tantum causas criminales a sinceritate tua audiri, quas dignus et meritus horror inscriptionis impleverit, quae magnitudinem videlicet criminis tempusque designat, ut alterutram partem digna legum tenere possit austeritas. Tale complesso apparato giudiziario93 non riguardava tuttavia la totalità dei giudizi: vi erano infatti processi che per la particolare qualità dei soggetti coinvolti, in veste di accusati, erano sottratti alla giustizia ordinaria e devoluti alla giurisdizione di tribunali speciali. Si tratta del privilegio della cd. praescriptio fori. Riservandomi di tornare sull’argomento a proposito delle garanzie pro condizione personarum, ritengo ora necessario accennare brevemente al tema delle giurisdizioni speciali ed a tal fine di tratterà di quello riservato alla classe senatoria e militare. Già Costantino con Per un esame più approfondito e competente di C.I. 7.62.34 (520-524): G. Bassanelli Sommariva, La legislazione processuale di Giustino I, in SDHI, 37, 1971, 159ss. 93 Per quanto attiene alle competenze giurisdizionali di altri funzionari imperiali quali ad esempio il comes sacrarum largitionum ed il comes rei privatae si rinvia all’apposito studio di A. Masi, La giurisdizione del “comes sacrarum 92 55 CTh.9.1.194 del 4 dicembre 316, aveva interdetto ai senatori la possibilità di scegliere il foro senatorio romano come sede competente alla trattazione delle cause penali intentate contro di loro, imponendo il rispetto del criterio del locus commissi delicti. Da questa costituzione emerge come, prima della sua emanazione, fosse possibile demandare direttamente all’imperatore la cognizione dei crimina senatoria e come in ogni caso questi potessero sempre godere del privilegio della praescriptio fori95, ovvero della possibilità di essere giudicati dinanzi al foro senatorio presso il quale gli illustres sono, per usare un’espressione moderna, legalmente domiciliati96. Privati i senatori di tale beneficio, dopo neanche un decennio, Costantino deve tuttavia essersi accorto delle difficoltà incontrate dai governatori provinciali nel giudicare in sede penale senatori spesso potiores et insolentiores, se con CTh.1.16.4 del 29 dicembre 328 largitionum” e del “comes rei privatae” sui rispettivi funzionari “palatini”, in Studi Cagliari, 1965-1968, 251-261. 94 CTh.9.1.1: (Imp. Constantinus A. ad Octavianum comitem Hispaniarum). Quicumque clarissimae dignitatis virginem rapuerit, vel fines aliquos invaserit, vel in aliqua culpa seu crimine fuerit deprehensus statim intra provinciam, in qua facinus perpetravit, publicis legibus subiugetur, neque super eius nomine ad scientiam nostram referatur, nec fori praescriptione utatur. Omnem enim honorem reatus excludit, quum criminalis causa et non civilis res vel pecuniaria moveatur. 95 Sull’argomento U. Vincenti, “Praescriptio fori” e senatori nel Tardo Impero romano d’Occidente, in Index, 19, 1991, 433-440 e in Labeo, 28, 1992, 155-164. 96 Il domicilio legale dei senatori comportava un generico obbligo di residenza a Roma: così almeno dai tempi della fondazione del principato. Ogni senatore poteva tuttavia chiedere ed ottenere il commeatus, cioè il permesso di allontanarsi dall’Urbs. Sul punto si veda A. Chastagnol, Le problème du domicile légal des senateurs romains à l’époque impérial, in Mélanges Senghor, Dakar, 1977, 44. Tuttavia, per tale autore, già al tempo dei Severi, sarebbe stato abolito l’obbligo per i senatori di risiedere a Roma, sicché il domicilio dovuto alla dignitas si sarebbe sovrapposto a quello dovuto all’origo. Per un ulteriore approfondimento si rimanda a P. Garbarino, Ricerche sulla procedura di ammissione al senato nel tardo impero romano, Milano, 1988, 349, e S. Giglio, Il tardo impero di Occidente e il suo senato. Privilegi fiscali, patrocinio, giurisdizione penale, Perugia, 1990, 250ss. 56 ridimensiona la portata innovativa del suo precedente intervento, restituendo a sé o al prefetto del pretorio la decisione dei casi più gravi in cui fossero coinvolti personaggi particolarmente potenti e conservando ai giudici provinciali solo l’istruttoria di questi delicati processi. Più precisamente, si consente ai governatori di rivolgersi direttamente all’imperatore o al prefetto e, qualora l’esame della causa non possa aver luogo per comprovate turbative “ambientali”, di trasmettere a costoro addirittura tutto il fascicolo, con l’intera documentazione, mediante il sistema della relatio. Un ulteriore “aggiustamento”, ma sempre nel rispetto sostanziale della normativa costantiniana, è operato, nell’ottobre del 366, da Valentiniano I che, con CTh.9.40.1097, estende la cognizione imperiale in materia penale anche ai processi intentati contro senatori pro qualitate peccati. In questo modo l’imperatore, avocando a sé il giudizio dei crimina a sfondo politico, come il tradimento o la cospirazione, non snatura il contenuto di CTh.9.1.1, bensì si pone nella stessa direzione di CTh.1.16.4 nel senso di riservare all’imperatore le questioni più delicate e scottanti. Queste deroghe alle disposizioni di CTh.9.1.1 aprono però la strada ad una serie di ulteriori eccezioni, introdotte dai successori di Valentiniano I e fondamentalmente dirette ad abrogare il contenuto della norma del 316. In particolare Graziano, l’11 febbraio 376, con 97 CTh.9.40.10: (Imppp. Valent., Valens et Grat. AAA. ad Praetextatum p.u.). Quoties in senatorii ordinis viros pro qualitate peccati austerior fuerit ultio proferenda, nostra potissimum explorentur arbitria, quo rerum atque gestorum tenore comperto, eam formam statuere possimus, quam modus facti contemplatioque dictaverit. 57 una serie di prescrizioni, riportate in modo frammentato da CTh.9.1.1398 e C.I.3.24.2, detta una nuova disciplina di riferimento in materia di forum senatorio, stabilendo che né i clarissimi né gli spectabiles possano emettere sentenza in un processo penale istruito contro un caput senatorium99. Più nel dettaglio l’imperatore ripartisce la competenza alternativamente e senza una gerarchia preferenziale tra sé, il prefetto del pretorio ed il prefetto urbano, affiancato da una giuria di quinque viri estratti a sorte dall’albo senatorio. CTh.9.1.13 modifica poi, parzialmente, anche il dispositivo di CTh.1.16.4 dal momento che interdice ai governatori provinciali la possibilità di esprimere i propri giudizi od osservazioni sulla causa nella relatio all’imperatore, circoscrivendo il contenuto di questa alla sola segnalazione della qualitas del soggetto coinvolto. Il criterio discretivo pertanto non è più la gravitas a cui fa riferimento CTh.9.40.10, ma la mera qualitas dell’imputato, per cui è sufficiente ormai ricoprire la dignità di senatore perché la cognizione della causa sia devoluta ad uno dei tre tribunali citati in CTh.9.1.13. 98 Per un ulteriore esame di questa costituzione si veda anche U. Vincenti, Note sull’attività giudiziaria del senato dopo i Severi, in Labeo, 32, 1986, 55-67; Id., La partecipazione del senato all’amministrazione della giustizia nei secoli III-VI d.C. (Oriente e Occidente), Padova, 1992, 136ss. 99 Secondo un’interpretazione più restrittiva, l’espressione caput senatorium si potrebbe riferire ad un processo capitale intentato contro un senatore. Tale interpretazione va però respinta. CTh.9.1.13 si propone infatti di riformare CTh.9.1.1, la legge di Costantino che stabiliva il foro dei senatori in materia di giurisdizione penale. In CTh.9.1.1 si parla di aliqua culpa seu crimen di cui si fosse macchiato quicumque clarissimae dignitatis. Ora, posto che nel tardo impero non tutti i crimina erano puniti con la pena capitale nelle sue varie forme, ne deriva che, mentre CTh.9.1.1 stabilisce comunque come competente il giudice del luogo in cui il crimine era stato commesso, CTh.9.1.13 dispone che il giudice provinciale possa solo istruire una causa penale contro un senatore e, verum nihil de animadversione decernens, riferisca poi non causae, sed capitis status, senza distinguere tra processi con o senza imputazione per la pena capitale. 58 Graziano perciò, da un lato, ridimensiona in maniera considerevole la funzione giudicante di governatori e vicari e, dall’altro, non accentra su di sé il potere decisorio come ha fatto Valentiniano, ma lo condivide con il prefetto del pretorio e quello urbano. Questa situazione, propria dell’Occidente, non si comunica tuttavia all’Oriente dove rimane in vigore la normativa costantiniana che Valentiniano aveva modificato e che il fratello Valente aveva recepito con tali cambiamenti. A vanificare completamente i tentativi egualitari insiti negli interventi di Costantino provvede però, non tanto la riforma di Graziano, quanto le successive prescrizioni emanate a Ravenna dall’imperatore Onorio il 6 agosto 423. Esse sono pervenute frammentate in almeno cinque leges del Codice Teodosiano, le quali, data la coincidenza di inscriptiones e di subscriptiones, sono state considerate parti di un unico testo normativo. Mentre l’esordio della costituzione, riportato da CTh.1.6.11, attiene solo ai processi civili e quindi esula dalla nostra indagine, le successive disposizioni, contenute in CTh.9.1.19, di cui tra l’altro ci siamo già occupati100, appaiono di maggior interesse. Con questo intervento Onorio, ribadita la regola della riflessione della pena in caso di presentazione di un’accusa infondata, prima stabilisce l’obbligatorietà della custodia preventiva dell’accusatore, tenuto comunque debito conto della dignitas, poi, passando ad occuparsi dell’imputato, stabilisce il divieto per il reo confesso sia di chiamare in correità nell’ambito del processo a suo carico, sia di testimoniare, in relazione al crimine da lui confessato, in giudizi intentati contro terzi. 59 Tale norma, dettata al chiaro scopo di evitare che, per le ragioni più varie, innocenti siano coinvolti in vicende criminose a loro estranee, non manca tuttavia di offrire un’ulteriore tutela anche ai senatori. Più tecnica è invece la terza lex, CTh.2.1.12, che, ponendosi in formale continuità con CTh.9.1.13, dispone che i processi penali contro i senatori si svolgano secondo la statuta forma quinqueviralis iudicii101. Tuttavia le differenze con il provvedimento grazianeo sussistono ed in particolare, se la costituzione del 376 prevedeva un quinquevirale iudicium spectatorum maxime virorum da affiancare alla cognitio del praefectus urbi in CTh.2.1.12 emerge come sia ora il ruolo del prefetto urbano ad essere subordinato a quello della giuria senatoria. Un altro dato importante che possiamo rilevare da una attenta lettura di questo frammento è come ormai non vi sia più traccia della giurisdizione del prefetto del pretorio nei confronti dell’ordine senatorio. Questo si spiega col fatto che ora la giurisdizione di tale alto magistrato è circoscritta ai clarissimi et spectabiles non facenti più parte dell’assemblea senatoria sia nella pars Orientis che in quella Occidentis102. Altra riflessione che può trarre spunto da CTh.2.1.12 è quella per cui il testo della costituzione non fa più riferimento neppure alla giurisdizione imperiale, come alternativa a quella quinquevirale, inducendo a ritenere che la giurisdizione penale sui senatori sia ormai delegata interamente al praefectus urbi affiancato dalla giuria dei cinque membri. Si veda il capitolo secondo § 2. In proposito riprendo essenzialmente le considerazioni espresse in proposito da S. Giglio, Il tardo impero, 48ss. 102 Sulle ragioni di questa esclusione si veda S. Giglio, Il tardo impero, 29- 47. 100 101 60 La duratura incidenza delle disposizioni dell’imperatore Onorio e, di conseguenza, la decisa svolta pro-senatoria della legislazione, almeno occidentale, è testimoniata da un’epistola di Sidonio Apollinare, all’epoca prefetto urbano, relativa al processo di Arvaldo, prefetto delle Gallie ed esponente del ceto senatorio. La narrazione, oltre ad essere illuminante da un punto di vista meramente processuale, è di particolare interesse anche in quanto sottolinea, nuovamente, le difficoltà che si incontrano in Roma ad amministrare la giustizia penale ogniqualvolta sia implicato un senatore. Nel caso concreto, Arvaldo, accusato di crimen maiestatis nel 469, nonostante i ripetuti tentativi dei suoi sostenitori di farlo assolvere, in considerazione delle prove schiaccianti a suo carico viene condannato a morte dalla commissione senatoriale. L’episodio, oltre a fornire utili informazioni circa l’utilizzo della custodia preventiva, evidenzia il ruolo ormai centrale assunto dal senato circa la giurisdizione penale sui suoi membri. Da notare poi come in questo testo la giuria senatoria risulti composta da dieci membri, anziché dai tradizionali cinque. Poiché, però, successivamente al 476 ed in particolare con il re Teodorico si continua a trovare nelle fonti riferimenti al iudicium quinquevirale, bisogna ritenere che tale riferimento ai dieci membri, se non è frutto di un errore materiale nella tradizione del testo, abbia comunque natura eccezionale. In assenza di altre disposizioni di rilievo, si può quindi concludere che dopo l’emanazione di CTh.2.1.12, questa rimane definitivamente la disciplina applicabile in Occidente in materia di giurisdizione penale sui senatori, senza necessità di ulteriori deleghe imperiali. 61 In Oriente, invece, la giurisdizione penale sui senatori resta di competenza esclusiva dell’imperatore posto che si ritiene ancora applicabile C.I.12.1.6 emanata da Costanzo nel 357, la quale distingue tra processi contro clarissimi e spectabiles affidati al prefetto del pretorio e cause aventi a protagonisti illustres, cioè i senatori, che rimangono di competenza esclusiva del tribunale imperiale. Contribuisce tuttavia a modificare tale assetto C.I.3.24.3 dell’imperatore Zenone, datata tra 485 e 486, la quale prevede la possibilità di almeno tre tipi di giurisdizione delegata. La prima riguarda la categoria dei patricii e le più alte cariche dello stato, elencate in modo tassativo e nei confronti delle quali la giurisdizione penale è devoluta ad un iudex delegatus, scelto personalmente dall’imperatore. Il secondo tipo di delega attiene invece agli illustres honorarii residenti a Costantinopoli: verso di loro l’incriminazione, per mezzo della relatio all’imperatore, può essere esercitata solo dal prefetto urbano, da quello del pretorio e dal magister officiorum (quest’ultimo però solo previa autorizzazione imperiale). La giurisdizione imperiale sugli illustres residenti in provincia, infine, spetta, almeno a livello istruttorio, ai giudici territorialmente competenti, purché sempre attraverso la procedura della relatio. Da tutto ciò discende come la giurisdizione penale sui senatori nella pars Orientis abbia avuto disciplina ben diversa rispetto alla pars Occidentis e quindi non sono state applicate le norme del Codice Teodosiano. La giustificazione di tali differenze è sicuramente da ricercare nel diverso peso politico rispettivamente assegnato nelle due capitali all’assemblea senatoria, nonché in un’altra serie di variabili 62 storico-sociali riassumibili nel rilievo per che in Oriente il maggior centralismo del potere imperiale ha come conseguenza un livellamento del trattamento repressivo e una decisa lotta ai privilegi, mentre, in Occidente, con l’impero ormai in disgregazione, si acuisce la necessità di conservare gelosamente i privilegi di categoria. Il privilegio della praescriptio fori è poi riservato ad un’altra categoria di soggetti: i membri dell’esercito. Si rileva infatti la tendenza a prescegliere una giurisdizione speciale, cioè tribunali composti da militari, in materia sia civile che penale. Più precisamente l’imperatore Costanzo con CTh.2.1.2103 del 355 dispone che, mentre i giudizi civili104 vanno devoluti alla competenza dei tribunali ordinari, quelli criminali spettano a questi ultimi e cioè, nella specie, al governatore provinciale, solo qualora il soldato rivesta il ruolo di accusatore, mentre quando è coinvolto in veste di imputato la giurisdizione è riservata ai giudici militari105. 103 CTh.2.1.2 [= Brev.2.1.2]: (Imp. Constantius A. ad Taurum p.p). Definitum est, provinciarum rectores in civilibus causis litigia terminare, etsi militantes exceperint iurgia vel moverint. Ne igitur usurpatio iudicia legesque confundat aut iudicibus ordinariis adimat propriam notionem, ad provinciarum rectores transferantur iurgia civilium quaestionum. in criminalibus etiam causis, si miles poposcerit reum, provinciae rector inquirat. Si militaris aliquid admisisse firmetur, is cognoscat, cui militaris rei cura mandata est. Dat. VIII. kal. aug. Mediolano, Arbetione et Lolliano coss. 104 Più tardi con C.I.3.13.6 emanata a Costantinopoli da Teodosio nel 413 la competenza dei giudici militari venne estesa, almeno al ricorrere di determinate circostanze, anche ai processi civili nei quali fosse convenuto un soldato. Tale privilegio, inizialmente riaffermato per i limitanei dalla Nov. Theod.4 del 438, venne in seguito conferito a tutti con le Nov. Theod.7.1 del 439 e 7.2-3 del 440. 105 Non è facilmente determinabile se la costituzione si limiti a recepire una prassi già inveterata o se invece miri a circoscrivere la tendenza dei militari a monopolizzare le funzioni giurisdizionali affidandole solo a propri esponenti interni. In quest’ultimo senso si esprime A.H.M. Jones, Il tardo impero, I, 488. 63 Per quanto concerne l’individuazione di queste autorità competenti, bisogna ritenere che esse, in genere, coincidano con quelle della più alta gerarchia militare. Si consolida così un sistema repressivo nel quale i limitanei sono sottoposti ai tribunali dei loro duces e comites, mentre i comitatenses ed i palatini rientrano nella giurisdizione del magister militum106. Quando i corpi dell’esercito campale vengono stanziati alle frontiere, si rende però necessario introdurre degli accorgimenti per evitare che il soldato sia costretto a comparire davanti ad autorità troppo lontane. Proprio a questa esigenza risponde una lunga costituzione di Anastasio del 492, riportata in C.I.12.35.18, nella quale si stabilisce che i reparti praesentales per Orientem non sono soggetti alla giurisdizione del magister per Orientem, bensì dei magistri militum praesentales e dei duces. Inoltre, mentre in precedenza l’appello contro le sentenze dei duces era presentato al magister militum competente per territorio, invece l’imperatore Leone già nel 467 con C.I.12.59.8 affida questo potere al magister officiorum, lasciando in vita la giurisdizione dei magistri militum solo in Illirico, Tracia ed Oriente. Per quanto riguarda infine gli ufficiali, bisogna operare una distinzione: se militano alle dipendenze dei duces hanno lo stesso foro dei limitanei; se invece sono sottoposti ai magistri militum hanno in essi i loro giudici, nei processi sia criminali sia civili, e sia come attori sia in veste di convenuti. Tale privilegio è però limitato, a partire dal 491, ad un numero fisso di ufficiali, pari a 300 per ciascun magister, ai quali viene rilasciato un 106 Così F. De Martino, Storia, 491. 64 documento firmato dallo stesso superiore e senza il quale non è consentito avvalersi della praescriptio fori107. Un’ultima riflessione merita infine la qualità e la composizione dell’organo giudicante. Venuti definitivamente meno i collegi formati da privati cittadini che avevano caratterizzato l’epoca tardo repubblicana e imperiale, nel tardo antico si riscontra una netta prevalenza della figura del giudice monocratico108. Interessa al nostro studio accertare composizione dell’organo giudicante fosse effettiva 109 se tale e contribuisse ad alimentare un’amministrazione della giustizia ricca di abusi e corruzione, come testimoniano certe fonti, soprattutto non giuridiche, o al contrario concorresse a determinare un esercizio della funzione giurisdizionale più equo, rapido e privo di condizionamenti esterni. 2. La legislazione in materia di corruzione dei giudici e la figura del difensore nella testimonianza delle fonti non giuridiche. L’orientamento in materia di amministrazione della giustizia finora descritto e che un’autorità come G. Pugliese110 ha sinteticamente definito come ispirato “ a realizzare la prevalenza della legge su ogni altro precetto e a far sì che essa fosse rispettata dai vari organi dello 107 Questa evoluzione si coglie da una serie di interventi ed in particolare: CTh.1.7.4 del 414; Nov. Theod. 7.4 del 441 e C.I.12.54.5 del 491. 108 Fatta eccezione per quelle fattispecie che sono attribuite alla competenza di giudicare di collegi formati immancabilmente dal quaestor sacri palatii affiancato da qualche altro alto funzionario imperiale che a seconda dei casi s’identifica con il prefetto del pretorio (C.I. 7.62.32.1 e 4 del 440) o il magister officiorum (C.I. 7.62.32.38 del 529). 109 Assolutamente contrario all’idea del giudice monocratico è A. Checchini, Studi sull’ordinamento processuale romano e germanico, 1, Padova, 1925, 89ss. 110 G. Pugliese, Garanzie, 613. 65 stato” presenta, tra le sue ulteriori manifestazioni, una decisa lotta degli imperatori contro gli abusi e gli arbitrii degli organi giudicanti ampiamente testimoniati dalle fonti non giuridiche coeve. Colui che viene coinvolto in un procedimento penale - osserva Libanio111 - può essere anche innocente, ma ciò difficilmente viene accertato se è interesse dei giudici e di chi li manovra giudicarlo colpevole. L’orazione 33 di questo autore, in particolare, è interamente dedicata al problema della corruzione112 dei giudici impersonata nella figura di Tisameno, il consularis Syriae assunto da Libanio come paradigma degli iniqui giudici del suo tempo. Tale governatore viene descritto113 come indolente, impreparato ed essenzialmente dedito alla tortura e all’imposizione del carcere, quasi queste attività esauriscano l’esercizio della funzione giurisdizionale. Il consularis – dice Libanio - è veloce nell’arrestare, ma lento nel prendere le decisioni: fugge i processi come i bambini l’orco e pensa che essere governatore voglia dire andare a pranzo ed intrattenersi in Tra i più importanti studi dedicati alla figura di Libanio si ricordino: P. Petit, Libanius et la curie municipale à Antioche au IVe siècle après J.C., Paris, 1955; P. Petit – J. Martin, Libanios. Discours I, Autobiographie, Paris, 1979. Qui ho accolto la traduzione proposta nell’opera di L. De Salvo, Giudici e giustizia ad Antiochia (la testimonianza di Libanio), in ARC, 11, 1996, 491 nt.24. 112 Tra le opere monografiche che si occupano di tale tematica: P. Veyne, Clientèle et corruption au service de l’état: la venalité des offices dans le BasEmpire, in Annales ESC, 36, 1981, 339-360; R. MacMullen, Corruption and The Decline of Rome, New Haven- London, 1988. Per la corruzione della giustizia: J. Gaudemet, Les abus des “potentes” au Bas-Empire, in The Irish Jurist, 1, 1966, 128-135 (ora in Etudes de droit romain, 3, 1979, 433-442); A.H.M. Jones, Il tardo, 685-743; F. De Martino, Storia, 5, 494 ss. Sulle origini del problema si vedano anche: C. Venturini, Concussione e corruzione: origini romanistiche di una problematica attuale, in Studi Biscardi, 6, Milano, 1987, 133-157; L. Perelli, La corruzione politica nell’antica Roma: tangenti, malversazioni, malcostume, illeciti, raccomandazioni, Milano, 1994. 113 Lib, Or. 33.9-10 (3.169-171 Forster) e Lib, Or.33.30 ss (3.180 ss Forster). 111 66 chiacchiere sciocche. Per tali motivi il nostro retore supplica l’imperatore di inviare un amministratore che sia tutto il contrario114. Al di là della sicura vena polemica insita nelle parole di questo autore, non si può trascurare che Libanio fu svariate volte coinvolto in procedimenti penali e proprio da queste esperienze sembra nascere una decisa condanna del sistema giudiziario a lui coevo. La rappresentazione del magistrato corrotto che si dedica alla spoliazione dei sudditi, anziché allo svolgimento dei propri compiti istituzionali, è una lamentela che del resto si riscontra in più di un autore del IV e VI115 secolo a testimonianza di una generale decadenza nella preparazione degli organi giudicanti, non più costituiti da soggetti dotati di una apposita formazione, bensì da funzionari investiti di tale ruolo per ragioni politiche. 114 Lib, Or. 33.43 (3.186 ss Forster): il governatore auspicato da Libanio avrebbe dovuto avere le seguenti caratteristiche “ un uomo di buon senso che abbia voglia di lavorare, un uomo fattivo piuttosto che un chiacchierone, uno che voglia usare la persuasione piuttosto che la repressione, uno che aiuti i poveri piuttosto che i loro oppressori; che distingua ciò che è possibile da ciò che non lo è, che sappia capire che c’è un tempo per torturare ed un tempo per minacciare…”. 115 Nel V secolo, Salviano di Marsiglia nel suo De gubernatione Dei osserva come il giudice, benché personalmente peculator, raptor, eversor urbium et expoliator provinciarum si permetta comunque di punire negli altri le stesse colpe (Gub. 7.21.91). Tale scrittore ecclesiastico sottolinea poi come alle leggi dovessero ubbidire humiles, abiecti, pauperculi, mentre chi doveva farle rispettare di fatto le disprezzava (Gub.7.21.91-93). Questo - secondo Salviano- era dovuto alle stesse norme, che avevano qualcosa di ambiguo e quindi permettevano ai potentes di disattenderle. 67 Al capitolo quarto del De rebus bellicis116, per esempio, si parla di execranda cupiditas degli iudices i quali “…velut mercatores117 in provincias se missos existimant, eo graviores quod ab his procedit iniquitas unde debuit sperari medicina... ”. Mentre al successivo capitolo ventuno l’anonimo richiede allo stesso imperatore la medicina contro tanta improbità: “…ut confusas legum contrariasque sententias, improbitatis reiecto litigio, iudicio augustae dignationis illumines…”. Un’altra abitudine inveterata che Libanio condanna nelle orazioni 51 e 52118 e che concorre a rafforzare il convincimento di una giustizia ormai allo sbaraglio è quella delle visite ai giudici. Si tratta di un trattatello di anonimo autore, la cui datazione più convincente rimane, per ora, quella ai primi anni della seconda metà del IV secolo d.C. Così almeno ritengono: S. Mazzarino, Aspetti sociali del quarto secolo. Ricerche di storia tardo-romana, Roma, 1951, 72ss, che propone come data o il 353-354 o il 355-360; E.A. Thompson, A Roman Reformer and Inventor. Being a new Text of the Treatise De Rebus bellicis with a Translation and Introduction, Oxford, 1952, che con la datazione 366-375 d.C. riprendeva sostanzialmente la vecchia tesi di O. Seeck, s.v. Anonimi De rebus bellicis in P.W. 1.2, 1894, 2325; Di recente a favore dell’ipotesi di S. Mazzarino e contro le datazioni del V secolo si sono espressi: L. Cracco Ruggini, Utopia e realtà di una riforma monetaria: l’Anonymus de rebus bellicis e i Valentiniani, in Studi per L. Breglia, Suppl. al Bollettino di Numismatica, 4, 1987, 189; A. Giardina, Anonimo, Le cose della guerra, Milano, 1989, 39 nt.2; S.A. Fusco, La brama di ricchezza e l’oppressione dei cittadini: finanze e amministrazione nella visione costituzionale dell’anonimo De rebus bellicis, in ARC 12, 1998, 293. Tra coloro che invece si esprimono a favore del V secolo si veda per tutti: H. Brandt, Zeitkritik in der Spatantike. Untersuchungen zu den Reformvorschlagen des Anonymus De rebus bellicis, Munchen, 1988, 135ss, che propone il periodo 400-455. 117 A. Giardina, Anonimo, 105, sottolinea come il riferimento ai mercatores ricalchi un topos letterario antichissimo utilizzato, tra gli altri, da Cicerone in Ver.2.4.8 e più tardi da Simmaco, Ep.9.42 (in proposito S. Roda, Commento storico al libro IX dell’epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa, 1981, 170). 118 Secondo Forster 4.1 tali orazioni sono state scritte l’una poco prima e l’altra poco dopo il 388 e sono talmente simili da aver fatto ritenere all’autore di essere doppioni. In senso opposto si pronuncia invece P. Petit, Recherches sur la publication et la diffusion des discours de Libanius, in Historia, 5, 1956, 483, per il quale si tratta di due orazioni separate. 116 68 Essi vengono descritti come sottoposti a continue pressioni da parte dei potentiores, sia attraverso l’assedio in casa che le sollecitazioni negli stessi tribunali. I malcapitati - racconta Libanio - sono importunati giorno e notte alla loro tavola, nelle loro camere da letto e persino durante la loro permanenza alle terme119. Una simile situazione non fa che aggravare lo stato di un’amministrazione giudiziaria già pregiudicata nella sua regolarità, posto che, lamenta Libanio, con la loro insistenza tali persecutori riescono a strappare sentenze e favori per i loro assistiti, indipendentemente dall’effettiva colpevolezza degli imputati. Ne deriva la difficoltà, anche per il giudice più corretto, di mantenersi equo davanti alle sollecitazioni provenienti da ogni parte120, per cui Libanio invoca un intervento dell’imperatore Teodosio in materia. I giudici – rivela il retore121 – sono spesso minacciati di invettive e diffamazioni nel caso che non concedano i vantaggi richiesti. Così si lasciano intimidire e pronunciano sentenze favorevoli , mentre coloro che li hanno fino a quel momento perseguitati ottengono dai loro protetti ingiustamente assolti ricchezze di vario genere. Un'altra manifestazione significativa di questo è fenomeno rappresentata dalle azioni di disturbo esercitate nello stesso tribunale. Lib, Or.52.6-7 (4.28 Forster) racconta l’aneddoto di un governatore che, dopo aver rifiutato i favori richiestigli mentre si trovava alle terme, fu assalito da un tale munito di inchiostro e penna che lo costrinse ad apporre la propria firma, tra le risate dei presenti. L'episodio è indicativo dello stato caotico e irregolare in cui potevano essere emanate certe sentenze. 120 Le pressioni non provenivano soltanto dagli honorati, ma anche dai maestri di retorica e persino dai medici (Lib, Or.52.35; 4.41 Forster). 121 Lib, Or.51.6-8 (4.9ss Forster) 119 69 I molestatori si appostano strategicamente accanto ai giudici, sussurrando loro consigli e sottili minacce all’orecchio e non permettendo così che sia fatta veramente giustizia. I più temerari arrivano a sedersi sullo stesso seggio del giudice e “ … finiscono col convincerlo di cose di cui non avrebbero potuto convincerlo i fatti… ”. Infine anche le lettere commendatizie, la cui diffusione nel mondo antico è ormai generalmente riconosciuta122, vengono condannate da Libanio come possibili responsabili di influenze negative sui giudici. Quando infatti i potenti non possono assillare i governatori con la propria presenza fisica - narra - ricorrono a lettere che talora sortiscono più effetto di lunghi discorsi123 Libanio ostilmente conclude dichiarando che tali prassi “…hanno tolto forza al giusto, aumentando la possibilità di commettere ingiustizie e permettendo ai criminali di prendersi gioco della giustizia124…" , con la conseguenza di rafforzare un sistema già malato in cui “… il nome del potente dà forza alla sentenza e vale più della verità125…”. Gli interventi legislativi imperiali, dei quali ora ci occupiamo, sembrano in effetti confermare il clima di tensione in cui i giudici di La prassi delle lettere commentatizie, già attestata ai tempi di Cicerone e Plinio, anche nel IV secolo ha ampia diffusione. In particolare ci è pervenuta notizia delle epistole indirizzate dai vescovi Gregorio di Nazianzo (tra le più significative si vedano Epp.13;146;198 = 1.20ss; 2.37ss; 2.90ss. Gallat) e Basilio di Cesarea (Epp.111.2.12;137.2.53;273-275.2.146 Courtonne) alle autorità statali per difendere persone ingiustamente accusate e denunciare la venalità ed iniquità dei giudici, spesso stimolata dalle sollecitazioni dei potentiores. Sul punto: Y. Courtonne, Un témoin du IV siècle oriental. Saint Basile et son temps d’après sa correspondence, Paris, 1973, 376-378; M. Forlin Patrucco, Basilio di Cesarea. Le lettere, in Corona Patrum, 11, Torino, 1983; O. Zappalà, Le Litterae commendaticiae di Basilio di Cesarea, in Êïéíùíéá, 17, 1993, 49-60. 123 Lib. Or.51.11 (4.11 Forster). 124 Lib. Or.52.8 (4.29 Forster). 125 Lib, Or.52.13 (4.31 Forster). 122 70 prima istanza (nessun provvedimento fa infatti riferimento alla fase di appello) sono chiamati ad esercitare le proprie funzioni e la sussistenza di un assai elevato grado di ingiustizie, disuguaglianze e corruzioni, è forse da ascrivere al dissolvimento dei valori propri dell’antica classe dirigente e alla disgregazione della compagine amministrativa, prodottasi nel corso del III secolo. In tale periodo, che si suole chiamare dell’anarchia militare (dalla morte di Alessandro Severo nel 235 fino Diocleziano nel 284, con la sola interruzione restauratrice di Aureliano), infatti, si era assistito ad una decomposizione della struttura costituzionale che aveva coinvolto anche l’ambito giudiziario. Gli aspetti in cui scomporre la problematica sono complessi, ma tra loro fortemente collegati. Da una parte, vi è infatti l’esigenza di proteggere i giudici dalle pressioni esterne; dall’altra, quella di evitare che essi stessi, autonomamente, commettano iniquità. Gli imperatori, in un’ottica di bilanciamento dei diversi valori in gioco ed in particolare dell’esigenza di celerità dei giudizi e di una ragionevole e soprattutto libera ponderazione degli stessi, dettano misure rivolte ad evitare la segretezza e l’inerzia. Garantire la pubblicità significa, infatti, ridurre il rischio di giudizi pilotati e sommari, così come porre precisi limiti temporali alla durata delle cause ha il fine di evitare che istruttorie prolungate all’infinito celino sostanziali dinieghi di giustizia, in attesa della morte del presunto reo che, nel frattempo, si trova in carcere. Centrale a questo proposito è un editto di Costantino del 1° novembre 71 331126 in cui si dettano alcune direttive fondamentali che dovranno guidare l’attività dei praesides e dei loro collaboratori. Tale intervento è pervenuto in due parti, rispettivamente CTh.1.16.6127 e CTh.1.16.7128, inserite nel titolo De officio rectoris provinciae. Data l’importanza delle relative prescrizioni, ritengo opportuno riprodurne il testo : CTh.1.16.6: (Imp. Constantinus A. ad provinciales). Praesides publicas notiones exerceant frequentatis per examina tribunalibus, nec civiles controversias audituri secretariis sese abscondant, ut iurgaturus conveniendi eos nisi pretio facultatem impetrare non possit, et cum negotiis omnibus, quae ad se delata fuerint, exhibuerint audientiam et frequens praeconis, ut adsolet fieri, inclamatio nullum, qui postulare voluerit, deprehenderit, expletis omnibus actibus publicis privatisque sese recipiant. Iustissimos autem et vigilantissimos iudices publicis adclamationibus collaudandi damus omnibus potestatem, ut honoris eis auctiores proferamus processus, e contrario iniustis et maleficis querellarum vocibus accusandis, ut censurae nostrae vigor eos absumat; nam si Nell’anno 331, Costantino diresse a tutti i provinciali, da Costantinopoli, due ampi editti, ricostruibili attraverso i brani collocati in diversi titoli dei Codici Teodosiano e Giustinianeo. In Chronologia Codicis Theodosiani, ad a.331 (Cod. Theod. cum perpetuis commentariis J. Gothofredi, Mantova, 1740, 1, 31) Jacopo Gotofredo, studiando le parti a lui note di queste due leggi, ne definì il contenuto: “ de iudiciorum ordine et sanctitate”. Mentre dell’editto del 1° novembre ci occuperemo diffusamente, quello del 1° agosto può essere sinteticamente riassunto come incentrato a disciplinare i rapporti gerarchici tra giudici di diverso grado. In considerazione della vicinanza delle date di emissione e della identità dei destinatari, si è discusso circa la possibilità che i due editti costituissero un’unica lex generalis. Tuttavia questa ipotesi, avanzata da J. Gotofredus, Chronologia, 1, 42 e 378, e seguita da Krüger, Codex Theodosianus, 1-8, Berlino, 1923-26, nt.10 a 1.16.6, è invece respinta da Th. Mommsen, Prolegomena, 1 e da O. Seeck, Regesten, 181. 127 Secondo R. Bonini, Ricerche, 98, il testo di questa costituzione, che non compare nella compilazione visigotica del 506 ed è solo parzialmente ripreso dal codice giustinianeo, è noto per mezzo del manoscritto Ambrosiano C.29 inf. in cui i primi libri del Breviario Alariciano sono integrati con costituzioni tratte, si ritiene, da un Codice Teodosiano integro. 128 Conosciamo tale costituzione solo attraverso la Lex Romana Visigothorum 1.6.1. 126 72 verae voces sunt nec ad libidinem per clientelas effusae, diligenter investigabimus, praefectis praetorio et comitibus, qui per provincias constituti sunt, provincialium nostrorum voces ad nostram scientiam referentibus. Proposita k. nov. Constantinopoli Basso et Ablavio conss. Partendo dall’esame della prima costituzione, si può notare come essa imponga ai giudici di svolgere i processi pubblicamente, davanti alla folla raccoltasi nel tribunale, anziché nascondersi nelle proprie stanze private al fine di costringere il litigante ad un esborso di denaro per poterli adire. Solo dopo aver ascoltato tutti i contendenti ed espletato le necessarie formalità, tra le quali, in particolare, la redazione degli atti pubblici e privati sarà loro concesso ritirarsi, ponendo così fine all’udienza. Questa costituzione pertanto, già nelle sue prime righe, sembra sancire il rispetto di due libertà fondamentali e più precisamente: la necessaria pubblicità dei processi, come garanzia contro gli abusi insiti nella segretezza della trattazione, nonché il diritto di accedere al giudice per ottenerne una pronuncia. Rimandando al capitolo successivo per il dibattito circa lo svolgimento pubblico o meno del processo nel tardo antico, non si può negare come tale intervento sia sintomatico di una specifica attenzione per la tematica della pubblicità. La probabile presa di coscienza della stretta interdipendenza sussistente tra gli abusi processuali e la posizione di predominio, che il nuovo assetto organizzativo aveva assegnato alla burocrazia, deve infatti aver condotto il legislatore a considerare la pubblicità della 73 pronuncia prima129 e quella dell’intero giudizio poi, come un possibile e vincente rimedio contro le ingiustizie. In questo senso si esprime F. De Marini Avonzo130, per la quale “ … in questa situazione … la pubblicità poteva acquistare un significato che non aveva mai avuto nella storia processuale romana, come strumento di informazione e di controllo da parte della collettività sull’opera dei giudici… ”. Ancora più significativamente, l’autrice, proprio con riguardo all’editto del 1 novembre 331, osserva come “ …questa rinnovata coscienza … emerga proprio ad opera di Costantino, al quale va riconosciuto il merito di aver per primo impostato il problema della pubblicità, entro quei termini di libertà e giustizia che ne hanno fatto un principio operante nella nostra storia giuridica… ”131. Costantino sembra infatti, per la prima volta, configurare un controllo della collettività sull’operato dei giudici, affinché ciò costituisca sia un deterrente contro eventuali abusi, sia un agevole strumento per pervenire alla loro conoscenza, qualora e comunque perpetrati. Al rilievo che tale intervento valga solo per i processi civili, si può facilmente ribattere che la stessa impostazione sistematica era già stata manifestata da Costantino nel 313 in : Per limitarci alla sola legislazione di Costantino, si può sottolineare come questo imperatore, già ben prima del 331, avesse emanato disposizioni in tema di pubblicità della sentenza, in particolare si vedano : CTh.8.4.2 del 315; CTh.1.22.1 del 316; CTh.1.16.3 e 2.10.2 del 319; CTh.1.5.1, 1.15.1, 2.10.3 , 9.1.4 del 325; 130 F. De Marini Avonzo, La giustizia nelle province agli inizi del basso impero. I principi generali del processo in un editto di Costantino, in Studi Urbinati, 31, 1962-1963, 310 (ripubblicato in Synteleia Arangio-Ruiz, II, Napoli, 1964, 1049ss). 131 F. De Marini, La giustizia, 311. 129 74 CTh.1.12.1: (Imp. Constantinus A. Aeliano proconsuli Africae). Omnes civiles causas et praecipue eas, quae fama celebriores sunt, negotia etiam criminalia publice audire debebis tertia, vel ut tardissime quarta vel certe quinta die acta conficienda iussurus. Quae omnia legati quoque coercitione commoniti observabunt. Con questa norma si impone infatti che tutte le udienze del proconsole, tanto civili che penali, siano condotte pubblicamente. Tornando ad occuparci dell’editto, si deve notare come esso, non solo si preoccupi di garantire lo svolgimento coram populo dei processi, ma anche la disponibilità dei giudici e la gratuità dell’accesso alle strutture giudiziarie. L’espressione “…audituri secretariis sese abscondant, ut iurgaturus conveniendi eos nisi pretio facultatem impetrare non possit… ” non costituisce, infatti, un mero rafforzamento dell’obbligo di giudicare pubblicamente, sancito nella prima parte dell’editto, ma al contrario, mediante il divieto imposto ai giudici di ritirarsi anticipatamente negli auditoria o secretaria, pone un precetto ulteriore, volto ad evitare la mercificazione dell’attività giudiziaria. Imporre al giudice di essere accessibile al litigante, senza per questo pretendere introiti indebiti, è una disposizione che, nella sua semplicità, riesce ad essere interpretata almeno in tre modi diversi. Da una parte infatti può essere letta come un’imposizione al giudice di ricevere le parti senza ritardi, per ovvie ragioni di rapidità dei giudizi. Dall’altra si potrebbe intendere come volontà di circoscrivere le visite ai giudici, da parte dei soggetti interessati al processo, solo alle apposite stanze e non ad altri luoghi, dove sarebbe più facile perpetrare corruzioni. 75 Infine, più letteralmente, si può attribuire a tale norma il solo significato di un divieto al giudice, nello svolgimento delle proprie mansioni, di imporre interruzioni non previste e pretendere somme di denaro non dovute, per l’esercizio di una funzione a lui specificatamente devoluto dall’imperatore. Posto che riguardo alla repressione dei primi due abusi esistono ulteriori norme ad hoc132, ritengo di dover privilegiare quest’ultimo significato, che considero perfettamente coerente con l’impostazione burocratica tardo antica. Un’altra disposizione contenuta in CTh.1.16.6, meritevole di particolare attenzione, è quella relativa all’obbligo del giudice di compilare tutti gli atti pubblici e privati. Tale prescrizione va interpretata come una garanzia di regolarità del giudizio in quanto la documentazione permette sia di avere piena conoscenza dell’attività svoltasi oralmente, sia di esercitare un controllo, anche posteriore. Come infatti osserva B. Santalucia133 “…l’uso di redigere processi verbali delle dichiarazioni dei testimoni e delle varie attività dibattimentali, già noto al processo dinanzi alle corti giurate, ma generalizzatosi soprattutto nella pratica delle cognitiones, stante l’esigenza di conservare al giudice di appello la documentazione delle prove e delle ragioni esaminate in primo grado, trovò in quest’epoca definitiva affermazione…”. In particolare, da CTh.1.12.1 del 313 e da una successiva costituzione di Teodosio del 440, riportataci da C.I.7.62.32.2, ricaviamo che quanto veniva detto o fatto nel corso della causa era oggetto di 132 133 Si veda infra § 4 di questo capitolo. B. Santalucia, Diritto e processo, 285. 76 apposite registrazioni in forma “stenografica” da parte degli exceptores. Tale materiale era successivamente trascritto integralmente in un protocollo che era oggetto di sottoscrizione da parte del giudice e veniva depositato in cancelleria dove gli interessati potevano prenderne visione ed estrarne copia. Per effetto di un intervento di Onorio del 397 contenuto in C.I.7.45.12, la sentenza poté poi essere redatta sia in latino che in greco, purché ne fosse data lettura pubblica e fosse inserita nel verbale in originale, o almeno in copia, essendo assurto ormai ciò a requisito formale. Il rigido rispetto delle regole di verbalizzazione e l’obbligo di udienza aperta costituiscono pertanto le principali manifestazioni della pubblicità processuale tardo antica. La successiva disposizione dell’editto che, pur attenendo, a mio parere, all’effettività delle norme penali, preferisco comunque trattare in questa sede, pone un principio di estrema civiltà giuridica. Si riconosce, infatti, un ampio potere di controllo da parte della popolazione sull’operato dei governanti134 che, in questo modo, vedono, almeno teoricamente, condizionato il proprio accesso alle cariche superiori dal giudizio, positivo o meno, espresso nei loro confronti dai provinciali. Voler riconoscere in tale disposizione un antesignano del principio democratico della rappresentanza politica, in base al quale la collettività può esercitare un controllo sui propri rappresentanti ed La tendenza a reprimere gli abusi dei governatori e, più in generale, dei funzionari imperiali, mediante un controllo esercitato dai cittadini, era già stata manifestata da Costantino, alcuni anni prima, in CTh.8.10.1 (= C.I.12.61.1) del 314 e CTh.9.1.4 del 325. In entrambi i casi esortava i cittadini a denunciare le malversazioni, con l’onere però di provarne il fondamento. 134 77 eventualmente sanzionarli con la mancata rielezione, è senz’altro fuori luogo, sia perché all’epoca non esisteva alcun sistema elettorale che permettesse alle popolazioni di esprimere le proprie preferenze, sia perché un imperatore illuminato, ma comunque assoluto, quale Costantino, non avrebbe mai voluto inaugurare, neppure parzialmente, un simile meccanismo. Ritengo, tuttavia, che tale disposizione, indipendentemente dalla propria effettività, appronti ugualmente una garanzia importante, benché su tutto altro versante, cioè quello dei rimedi contro la corruzione degli organi giudiziari. Invitando i provinciali a conlaudare publicis adclamationibus i governatori che si siano dimostrati corretti ed efficienti ed invece ad accusare querellam vocibus135 quelli disonesti e malvagi, Costantino non fa che facilitare l’individuazione dei giudici corrotti che, con le loro malversazioni, danneggiano non solo i provinciali, ma lo stesso imperatore. Va comunque sottolineato come l’editto di Costantino, pur proibendo una serie di comportamenti scorretti, non sembri elaborare una specifica fattispecie criminale, in relazione alla quale attribuire la legittimazione attiva ai provinciali. 135 Questa espressione ha determinato diversi problemi interpretativi; infatti, mentre F. De Marini Avonzo, La giustizia, 314, ritiene non indichi un’accusa in senso tecnico, stante ormai il superamento, a suo parere, della necessità di una promozione solenne dell’iniziativa nel sistema della cognitio extra ordinem, al contrario T. Spagnuolo Vigorita, Execranda pernicies, 51, e sul suo esempio G. Zanon, Le strutture accusatorie della cognitio extra ordinem nel Principato, Padova, 1998, 47, preferiscono credere che l’espressione querellarum vocibus, contenuta nel testo, stia ad indicare le accuse solenni di malversazione proposte dai cittadini nei confronti dei governatori; l’utilizzazione di tale termine, al posto del più tecnico accusatio potrebbe, secondo loro, spiegarsi perciò in virtù dell’esonero per gli abitanti delle province dalla formalità del libello. 78 Ciò era accaduto in passato in ordine al crimen repetundarum, ma nel sistema delle cognitiones, a differenza che in quello dei iudicia publica, sembra più probabile ritenere che, per ottenere assistenza giudiziaria, sia ormai sufficiente rivolgersi alle autorità competenti ad istruire un’eventuale inchiesta, senza necessità di un apposito riconoscimento legislativo di questa capacità. La disposizione va poi letta alla luce del rapporto che Costantino aveva inteso instaurare con i provinciali. A differenza dei suoi predecessori che, in un’ottica accentratrice, avevano sempre cercato di limitarne le ingerenze e i controlli sulla politica centrale, Costantino preferisce invece assegnare a tali apporti il ruolo di garanzie di buon governo e pertanto li incoraggia e disciplina. Siffatta apertura, assai significativa dal punto di vista concettuale, va comunque ridimensionata sotto un profilo pratico, stante la difficoltà delle popolazioni di far sentire la proprio voce e soprattutto assumersi il rischio di inimicarsi il governatore in carica. Passando ad una esegesi di CTh.1.16.7, che abbiamo finora trascurato, si riscontrano nuove tutele contro le illecite esazioni, ma, questa volta, non del governatore, quanto dei membri del suo officium. CTh.1.16.7: (Imp. Constantinus A. ad provinciales). Cessent iam nunc rapaces officialium manus, cessent inquam: nam si moniti non cessaverint, gladiis praecidentur. Non sit venale iudicis velum, non ingressus redempti, non infame licitationibus secretarium, non visio ipsa praesidis cum pretio… Absit ab inducendo eius, qui officii princeps dicitur, depraedatio; nullas litigatoribus adiutores eorundem officii principum concussiones adhibeant; centurionum aliorumque officialium, parva magnaque poscentium, intolerandi impetus oblidantur, eorumque, qui iurgantibus acta restituunt, inexpleta aviditas 79 temperetur. Semper invigilet industria praesidalis, ne quicquam a praedictis generibus hominum de litigatore sumatur. Qui si de civilibus causis quicquam putaverint esse poscendum, aderit armata censura, quae nefariorum capita cervicesque detruncet, data copia universis, qui concussi fuerint, ut praesidum instruant notionem. Qui si dissimulaverint, super eodem conquerendi vocem omnibus aperimus apud comites cunctos provinciarum aut apud praefectum praetorio, si magis fuerit in vicino, ut his referentibus edocti, super talibus latrociniis supplicia proferamus. Costantino, nella propria personale “crociata” contro le malversazioni, aveva, già negli anni precedenti, dettato almeno due disposizioni sulle quali ritengo utile soffermarmi. Prima, nel 325, con CTh.1.15.1136 aveva disposto che ogni volta vi fosse stato il rischio per il giudice di grado inferiore di subire sollecitazioni da un potens, in deroga ai criteri sulla ripartizione delle cause, la relativa controversia fosse devoluta al vicario. Appena tre anni dopo, nel 328, con CTh.1.16.4137, quasi a completamento della disposizione precedente, imponeva in capo allo stesso giudice, sottoposto a pressioni, di denunciare l’accaduto all’imperatore o al prefetto del pretorio. Solo nel 331, però, detta una norma volta a riportare in maniera decisa la burocrazia ad una dignità ed ad un rispetto della legalità più consone alle sue funzioni. Con CTh.1.16.7 si ordina infatti in modo perentorio “…Cessent iam nunc rapaces officialium manus, cessent, inquam: nam nisi moniti cessaverint, gladiis praecidentur…”. 136 Di tale costituzione si occupa, tra gli altri, M. Lauria, Ius. Visioni romane e moderne. Lezioni, Napoli, 1962, 59ss. 80 Questo passo, così come l’intero testo di questa costituzione, ha dato luogo ad alcuni problemi interpretativi; in particolare ci si è chiesti se essa sancisse un generale divieto di esigere qualsiasi compenso per l’attività svolta da parte dei componenti degli uffici sottoposti al governatore oppure, in un’ottica di coordinamento con la precedente CTh.1.16.6, si limitasse a reprimere le concussioni corrispondenti alle violazioni sopra descritte. Una risposta parzialmente soddisfacente mi sembra essere offerta dallo stesso testo della costituzione, che contiene un’elencazione delle condotte da reprimere la quale, benché non esaustiva, probabilmente circoscrive l’ambito degli illeciti punibili. Si vieta infatti che il velum del giudice sia suscettibile di vendita, che l’ingresso e la stessa vista del preside abbiano un prezzo ovvero che il secretarium si svilisca diventando oggetto di asta. Queste prescrizioni, alquanto tautologiche, sembrano ribadire il divieto di amministrare la giustizia senza il rispetto degli elementari principi di pubblicità, libertà e gratuità espressi nella prima parte dell’editto, rivolgendosi però, in questo caso, non direttamente al giudice, ma ai suoi collaboratori che, con le loro condotte, potrebbero agevolare l’instaurarsi di tale situazione di illegalità. Segue a questo punto una lunga enumerazione delle diverse pratiche condannabili e dei funzionari che avrebbero potuto concorrervi. In sintesi Costantino commina la pena capitale a tutti coloro che, officiales o scribae, richiedano qualche compenso per, rispettivamente, ammettere le parti alla presenza del giudice o consegnare loro gli atti processuali. La finalità di ciò, secondo le Vedi S. Giglio, Il tardo impero d’Occidente e il suo Senato. Privilegi fiscali, patrocinio, giurisdizione penale, Napoli, 1990, 102ss. 137 81 parole contenute nella interpretatio, sarebbe stata quella di far sì che “…interpellantes tam divites quam pauperes sine ullo praemio audiatur…”. Considerando tale costituzione si può quindi ritenere che essa, come ha acutamente osservato F. De Marini Avonzo138 “ …sanzionando con la pena capitale le direttive fondamentali sull’andamento dei processi costituisca il primo tentativo volto a far rispettare anche dal basso il nuovo ordinamento pubblicistico, la cui caratteristica più importante è forse quella di aver trasformato l’amministrazione della giustizia in una parte della funzione amministrativa statale… ”. Rimandando all’ultimo capitolo per una trattazione della complessa problematica della responsabilità dei funzionari imperiali nel tardo, va sottolineato come anche i successori di Costantino continuino ad emanare disposizioni volte ad evitare episodi di corruzione stante la probabile persistenza del fenomeno. In particolare, tali propositi trovano puntuale attuazione nell’opera legislativa dell’imperatore Giuliano. Bisogna premettere che una delle primarie cause della decadenza e della corruzione del tempo era lo stesso sistema di reclutamento dei governatori, i quali dovevano sostenere ingenti spese per l’acquisto della carica e cercavano, non appena l’avessero ricoperta, di recuperare le somme perdute eleggendo l’attività giudiziaria a fonte prima del loro arricchimento139. Intuendo che una delle principali cause della degenerazione della giustizia era proprio il sistema dei suffragia, Giuliano cercò di porre 138 139 F.De Marini Avonzo, La giustizia, 325. A.H.M. Jones, Il tardo, 486ss. 82 rimedio a tale fenomeno mediante la promulgazione di CTh.2.29.1 del 1° febbraio 362 volta a regolare l’attività dei suffragatores. Pur non soffermandomi sull’interpretazione del testo di questa costituzione, che è stato oggetto di un vivissimo dibattito140, mi limito a segnalare come ad oggi la dottrina141 sia orientata a ritenere che l’imperatore con questa disposizione abbia mirato a ridurre la corruzione nell’amministrazione statale punendo i corruttori ancora prima che i corrotti. Al di là dell’intervento in esame, l’attenzione di questo imperatore per i problemi della giustizia è in ogni caso grande ed infatti egli dimostra di cercare effettivamente di risolvere le relative questioni per mezzo dell’azione legislativa, rispondendo, per quanto possibile, alle istanze dei suoi sudditi. Illuminante a questo proposito è l’episodio di cui furono protagonisti l’ex governatore della Gallia Narbonense Numerio, accusato di malversazione, e il famoso oratore Delfidio che lo attaccava con violenza, senza riuscire a sostenere l’accusa con prove adeguate142. 140 Su questa costituzione si sono soffermati, giungendo a conclusioni diverse: W. Goffart, Did Julian Combat Venal Suffragium ? A note on CTh.2.29.1, in CPh, 65, 1970, 145-151; T.D. Barnes, A Law of Julian, in CPh, 69, 1974, 288-291; R. Andreotti, Problemi del suffragium nell’imperatore Giuliano, in ARC,1, 1975, 326. Per una sintesi di tali posizioni vedi M. Caltabiano, Un quindicennio di Studi, 116-118. Sulla storia e l’evoluzione del suffragium nel basso impero e sulla legislazione precedente e successiva a quella di Giuliano vedi C. Collot, La pratique et l’institution du suffragium au Bas Empire, in RD, 43, 1965, 185-221. 141 In questo senso P. Arina, La legislazione di Giuliano, in AAN, 1985, 218; M. Sargenti, Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’imperatore Giuliano, in ARC, 3, 1979, 323-381, ed in particolare per la legge in questione 343, ora in Id., Studi sul diritto del tardo impero, Padova, 1986, 177-190. Tale autore rileva come per mezzo di questa costituzione, Giuliano colpisse, almeno indirettamente, la pratica dei suffragia negando la validità dei relativi accordi, vietando la ripetizione delle somme in base ad essi pagate e punendo chi violasse tali disposizioni con un’adeguata multa. 142 Amm.18.1.4 83 In questo frangente Giuliano non solo rifiuta di condannare un innocente sulla base di inconsistenti indizi, ma comprova anche la sua sensibilità per la pubblicità dei dibattimenti, dal momento che procede all’interrogatorio, solo dopo aver ammesso ad assistere al processo coloro che lo desiderino. In proposito M. Sargenti ha sottolineato come “… l’impegno di questo imperatore consistette nello snellimento e nell’accelerazione del processo, ma soprattutto nel miglioramento della sua qualità e nell’affermazione di un rigoroso principio di giustizia…”143. Il valore della pubblicità, intesa come necessaria presenza di spettatori all’udienza, viene poi ribadito, nel 364, anche da Valentiniano I 144 che emette varie disposizioni dirette ad evitare sia la segretezza dei giudizi, sia la corruzioni dei giudici. Con più precisione in CTh.1.16.10 del 365 e soprattutto in CTh.1.16.11 del 369 invita i giudici a curare il mantenimento dell’ordine pubblico e a difendere i cittadini di bassa estrazione sociale dalle vessazioni dei potenti. Al fine poi di contrastare le indebite influenze esterne sui giudici Graziano nel 377, con CTh.1.16.13, proibisce a tutti coloro che risiedono nella provincia di far visite private al governatore nelle ore pomeridiane, a motivo sia della conoscenza personale, sia del loro rango ed Onorio nel 408 in CTh.1.20.1 reitera questo concetto, 143 M. Sargenti, Aspetti, 366-368. CTh.1.16.9: (Impp. Valentin. et Valens AA. Have Arthemi, carissime nobis). Iudex sibi hanc praecipuam curam in audiendis ac discingendis litibus impositam esse non ambigat, ita ut non in secessu domus de statu hominum vel patrimoniorum sententiam ferat, sed apertis secretarii foribus, intro vocatis omnibus, aut pro tribunali locatus et civiles et criminales controversias audiat, ne congruae ultionis animadversio cohibeatur. Absit autem, ut iudex, popularitati et spectaculorum editionibus mancipatus, plus ludicris curae tribuat quam seriis actibus. 144 84 aggiungendo che gli honorati non possono godere del privilegio di sedere al banco del giudice, se è in corso un’azione giudiziaria nella quale sono implicati. Queste costituzioni non dovettero sortire l’effetto voluto, se ancora nel VI secolo Giustiniano si trovò a tentare di sradicare il malcostume giudiziario. Per limitarci ai testi principali, si può ricordare come nel 535 la Nov.8145 lamenti ancora l’abitudine dei governatori provinciali di rilasciare, dietro pagamento di un’indebita somma di denaro, i delinquenti o, ancora più gravemente, di condannare innocenti con la conseguente crescita di omicidii, adulteri, rapimenti di vergini ed altri vergognosi delitti. In tale disposizione l’imperatore si limita ad imporre ai giudici la prestazione di un giuramento contenente, tra l’altro, la promessa di perseguire i reati, senza comminare particolari misure sanzionatorie. Al rilievo, poi, che tale situazione di illegalità fosse propria solo dell’ambito provinciale, si può opporre che nello stesso anno condizioni analoghe vengono tuttavia descritte con riferimento alla capitale, Costantinopoli, dalla Nov. 13146, a conferma del carattere endemico e non solo periferico del problema. In tale novella, al fine di assicurare una maggiore effettività alla repressione criminale, Giustiniano sostituisce la figura del praefectus vigilum con quella del praefectus plebis, quasi a testimonianza del maggior rigore insito in tale carica, ma anche ciò non risultò probabilmente sufficiente, se, a riprova delle dimensioni ormai Nov.8.1; 7-8 e 10.1. In proposito si rimanda, per uno studio più approfondito, a R. Bonini, Ricerche, 112ss. 146 Nov.13.2 e 4-6. 145 85 ragguardevoli raggiunte dal problema, l’imperatore, ancora una volta, nel 535, inserisce, tra le prescrizioni della Nov.17147, il monito ai governatori di assicurare con ogni mezzo la persecuzione dei reati più gravi e di non tenere conto, neppure, del diritto di asilo148. Allo stesso anno risalgono poi molte altre disposizioni di analogo contenuto149, che tuttavia toccano solo incidentalmente il problema e sulle quali ritengo quindi inutile soffermarmi. E’ da notare, comunque, come, in tali leggi, la causa ultima delle carenze e delle disfunzioni denunciate venga identificata nuovamente nel fenomeno della vendita delle cariche, a riprova della mancata fortuna delle disposizioni di Giuliano. I magistrati, che hanno dovuto corrispondere considerevoli somme di denaro per conseguire la propria posizione pubblica, continuano a lucrare sull’attività giurisdizionale per rifarsi dell’esborso, tanto mostrandosi negligenti nel perseguimento dei reati, quanto inducendo colui che chiede soddisfazione a pagare per ottenerla. Un altro tema ricorrente nelle Novelle di Giustiniano è poi l’invito ai giudici ad amministrare la giustizia senza alcun riguardo per la posizione sociale delle parti, anzi l’imperatore esorta a vigilare perché i sudditi non vengano oppressi dagli appartenenti alle classi più agiate150. Proprio in quest’ottica, tra l’altro, si dispone che gli imputati per crimini commessi in provincia siano giudicati nel locus commissi 147 Nov.17.3; 5; 7. Si veda in proposito G. Crifò s.v. Asilo (diritto di), in Encicl. del Dir., 3, Milano, 1958. 149 Ricordiamo Nov.24.1-2; 25.2-3; 26.3; 28.6; 29.5 tutte dell’anno 535. Tra le successive, giudico le più significative Nov.80.6-9 del 539 che è relativa alla sola Costantinopoli, nonché Nov.128.21 del 545 e 134.2-5 del 556 che non riguardano singole province o diocesi, ma hanno carattere generale. 150 Nov.24.2; 25.2.2 del 535; 30.5.1 e 102.1 del 536.. 148 86 delicti, anziché nella capitale dove sarebbe più facile ordire macchinazioni e compiere ingiustizie151. Concludendo l’excursus sulle norme elaborate dagli imperatori per combattere la corruzione, si può osservare che la ragione giustificatrice sottesa a tali interventi continua a non emergere in modo univoco. Essa infatti può essere rinvenuta tanto in un’autentica preoccupazione per le sorti dei ceti inferiori, quanto costituire il mero riflesso della conclamata benignitas imperiale, quanto ancora integrare un tentativo di debellare manifestazioni di malcostume, invise al sovrano, perchè vissute come affronti alla sua autorità. Le manifestazioni di malcostume che investono i soggetti coinvolti nel processo penale non sono tuttavia riconducibili solo alle malversazioni dei giudici corrotti, ma sembrano coinvolgere in pieno anche gli avvocati. L’unica parte dell’opera ammianea, specificatamente riservata alla trattazione delle problematiche proprie del settore giudiziario, è infatti la lunga invettiva che l’autore dedica agli esercenti la professione forense152. Essi vengono distinti in quattro categorie153 e descritti, in Questo è il contenuto essenziale della Nov.69 del 538 che ai cap.2-3 regola analiticamente il caso dell’assenza dell’imputato dalla provincia e al 4 restringe molto la possibilità di invocare il privilegium fori. Il fatto che la legge sia prevalentemente diretta contro ricchi e potenti, risulta con chiarezza dalla praefatio che sottolinea, tra l’altro, come costoro cercassero di spostare il luogo del giudizio per rendere più difficile la produzione di prove a loro carico. 152 Più diffusamente sull’argomento: R. Andreotti, Problemi della Constitutio de postulando attribuita all’imperatore Giuliano e l’esercizio della professione forense nel tardo impero, in RIDA, 19, 1972; M. Caltabiano, Studium iudicandi e iudicium advocatorumque pravitas nelle Res Gestae di Ammiano Marcellino, in ARC, 11, 1996. 153 La prima è costituita da coloro che “ seminando contrasti diversi, si agitano tra risse e processi, consumando le porte delle vedove e le soglie delle persone senza figli o suscitano odi implacabili quando avvertano qualche possibilità di discordie 151 87 ogni caso, come rapaci, ignoranti, senza scrupoli e sensibili solo al proprio tornaconto. Per Ammiano è infatti prassi ordinaria che “ …finalmente, dopo che sono trascorsi mesi, giorni ed anni, e i contendenti sono ormai ridotti alla miseria, si giunge a trattare la causa, ormai consunta dalla vecchiezza … gli illustri rappresentanti del foro fanno il loro ingresso … e colui che maggiormente confida nella sua eloquenza dà inizio ad un prologo soave … Tuttavia, mentre tutti si aspettano la conclusione, il discorso termina con la dichiarazione che, dopo tre anni, che il processo si va in qualche modo istruendo, i difensori non ne sono ancora ben informati. E così, ottenuta un’altra proroga, essi chiedono insistentemente il compenso della loro difficile lotta… ”. Giustizia lenta, avvocati avidi ed ignoranti, generale diffusione della calunnia ed utilizzo del processo come strumento di persecuzione politica, sono perciò gli argomenti ricorrenti in Ammiano. tra amici o parenti o affini … Per l’ostinazione maligna di costoro la temerarietà sostituisce la libertà, la sconsiderata audacia la costanza, la vuota abbondanza di parole la vera eloquenza… ” (Amm.30.4.9 e 10). “ …La seconda categoria è rappresentata da coloro che professando la scienza del diritto … tacciono come avessero le bocche cucite e per il loro continuo silenzio assomigliano alle proprie ombre … poi per apparire eruditi … citano Trebazio, Cascellio, Alfeno e le leggi da gran tempo dimenticate… ” (Amm.30.4.11 e 12). “Il terzo gruppo è formato da coloro i quali, per segnalarsi in una professione così torbida, aguzzano le loro lingue venali per combattere la verità e con fronte sfacciata e molti ignobili latrati riescono a farsi aprire tutte le porte: costoro … si danno da fare perché le liti non abbiano mai termine e con inchieste complicate e confuse cercano di trarre in inganno i tribunali” (Amm.30.4.13). Infine vi è “un quarto ed ultimo genere di impudenti, ostinati ed ignoranti. Costoro abbandonate in fretta le scuole … esortano i cittadini innocenti ai litigi … e ammessi a difendere le cause … s’informano dell’importanza della questione e del nome del cliente … durante il processo stesso. Quando poi mancano di prove … si abbandonano alle ingiurie più sfrenate … e se si fa il nome di un antico scrittore pensano sia il nome straniero di un pesce o di una vivanda… ” (Amm. 30.4.14 ). 88 3. Le garanzie pro condicione personarum. Deroghe e benefici a favore di: a) senatori; b) militari; c) decurioni; d) clero. A questo punto ritengo necessario introdurre un’ulteriore tematica relativa ai soggetti del processo, che, qualora omessa, impedirebbe di comprendere a fondo l’atmosfera propria dell’età postclassica e di cogliere la ragione giustificatrice sottesa a molti interventi imperiali: quella relativa alle garanzie pro condicione personarum. Con questa espressione si designa il fenomeno in base al quale, nel tardo antico, l’amministrazione della giustizia, nel seguire il proprio corso, non riserva a tutte le categorie sociali un trattamento omogeneo, ma appronta norme particolari a favore degli esponenti di determinate classi. Pertanto, il termine “garanzia” diventa sinonimo di “privilegio” ed opera in relazione alla dicotomia honestiores – humiliores154, distinzione che ha origini ben più risalenti rispetto al tardo impero155. 154 Su questa dicotomia segnalo in particolare: Th. Mommsen, Abriss des römischen Staatsrechts, Leipzig, 1907, 6, 2, 176 ss.(= Disegno del diritto pubblico romano, trad.it. di P. Bonfante a cura di V. Arangio – Ruiz, Milano, 1943); Id., Strafrecht, 394ss.; C. Julian, Honestiores-humiliores, in DS, 3,1, 235ss.; U. Brasiello, La repressione, 79ss; Id. s.v. Honestiores e humiliores, in NNDI, 8, Torino, 1962, 108; F. De Robertis, La variazione della pena “pro qualitate personarum” nel diritto penale, in RISG, 17, 1939, 59-110; G. Cardascia, L’apparition dans le droit des classes d’ “honestiores” et d’ “humiliores”, in RHD, 28, 1950, 305-337 e 461-485; P. Garnsey, Social status, 103-172 e 221-276; J. Gagé, Les classes sociales dans l’empire romain, Paris, 1971, 282-284; O. Robinson, Slaves and the Criminal Law, in ZSS, 89, 1981, 227ss. e 251ss.; D. Grodzynski, Les “summa supplicia”, 361-403; R. Rilinger, Humiliores-honestiores. Zu einer sozialen Dichotomie im Strafrecht der romischen Kaiserzeit, München, 1988; F. J. Navarro, La formación des grupos antagonicos en Roma: honestiores y humiliores, Pamplona, 1994. 155 Per quel che riguarda l’origine di tale distinzione già Th. Mommsen, Strafrecht, 1032-1033 riteneva che avesse avuto inizio con l’impero. A riguardo lo studioso, tuttavia, individuava non una mera bipartizione, bensì affermava che il soggetto sarebbe venuto in considerazione almeno da un triplice punto di vista 89 I principali ambiti in cui essa si manifesta sono quelli del foro competente (CTh.9.1.1) di cui abbiamo già trattato a proposito del ceto senatorio, della custodia preventiva (CTh.9.2.1; 9.2.2; 9.1.19 e C.I.9.2.17; 9.4.4; 9.6.1), della tortura (CTh.9.16.6; 9.35.2.3; 12.1.117; C.I.9.8.3-4; 9.18.7; 9.41.8-9; 9.42.3.3; 12.1.3) e della procedura accusatoria (CTh.9.7.16). Tali diversità emergono nelle disposizioni di Costantino solo indirettamente, essendo i provvedimenti di questo imperatore per lo più diretti a parificare, piuttosto che a diversificare i criteri applicativi della legge penale. Costantino, infatti, oltre ad essere colui che significativamente proclama “omnem honorem reatus excludit” in CTh.9.1.1 del 316, in altri interventi successivi ridimensiona il trattamento di favore riservato agli honestiores in ambito sia probatorio (CTh.9.8.3-4 del ) sia detentivo (CTh.9.4.4 del ). ovvero a seconda che fosse rientrato nella condizione di servus, libero-humilior, libero-honestior. L’equiparazione, contenuta nel testo di Macro (D.48.19.10pr.), tra servi e liberi humiliores ha però indotto alcuni autori, per tutti F. De Robertis, La variazione della pena nel diritto romano, Bari, 1954, 494 (= in Scritti varii di diritto romano, 3, Bari, 1987), a ritenere tale tricotomia come estranea alle fonti e ad optare per l’originario dualismo. Benché un passo delle Istituzioni di Giustiniano faccia risalire la distinzione tra honesti e humiles, a fini repressivi, ad Augusto, la scarsa fiducia circa l’assenza di interpolazioni in questo brano, induce a preferire un rescritto di Adriano del 119 d.C. riportato, in modo perfettamente coincidente da D.47.21.2 (Callistratus) e Coll.13.3.2 (Ulpianus) e nel quale si parla di splendidiores-alii. Solo con gli imperatori successivi e più precisamente a partire da Antonino Pio, però, comincia ad apparire l’uso terminologico, in seguito stabilizzatosi, di contrapporre gli honestiores agli humiliores. In particolare, sotto i Severi la diversità di trattamento tra le due categorie è ormai assurta a normalità, soprattutto dal punto di vista dell’irrogazione della pena, tanto che Papiniano in D.48.5.9 si sorprende quando ciò non accada. 90 Introducendo il discorso su 156 Pugliese CTh.9.1.1. si può osservare come ne abbia riassunto il contenuto nei seguenti termini: “non facciamo differenza tra quelli che hanno una dignità e quelli che non ce l’hanno, tutti possono essere arrestati”. Al di là di questa semplificazione, va sottolineato come tale dichiarazione, benché fatta con riguardo alla competenza territoriale, essendo la presente costituzione diretta a negare la praescriptio fori ai clarissima dignitate praediti, possa comunque considerarsi come una enunciazione a carattere generale157. Mentre a partire dal II secolo, ai fini soprattutto dell’irrogazione della pena e della sua scelta, si aveva riguardo, come criterio discretivo, alla dignità e rispettabilità sociale del soggetto coinvolto (nelle fonti si parla spesso di respectus dignitatis158 o di honoris reverentia159), invece nel tardo assume valore predominante la consistenza patrimoniale della persona, tanto che pauperes, plebeii ed humiliores vengono a coincidere160, benché la stratificazione sociale costituisca una indiscutibile realtà nel tardo. 156 G. Pugliese, Garanzie, 616. Nel 325 in CTh.7.4.1 l’imperatore Costantino non si lascia sfuggire l’occasione per ribadire “in qua culpa si quis fuerit adprehensus nec personae merito nec honoris fastigio defendendus est”. 158 D.48.19.28.5. 159 D.48.19.28.9 160 L’indifferenza da parte dei legislatori tardo antichi per i termini classici della distinzione si giustifica con il rilievo che essi ormai designano una connotazione meramente patrimonialistica. In tal senso sembrano deporre anche CTh.9.42.5 dell’imperatore Giuliano datata 362 e una costituzione di Valentiniano del 454 riportata in C.I.5.5.7. A tale proposito, F. De Robertis, La variazione, 510, osserva come: “il basso impero abbia smarrito completamente l’orientamento classico in ordine al fondamento delle varie categorie sociali espresso nella contrapposizione honestiores-humiliores. Se infatti continuano ad apparire distinctiones personarum come locupletes-plebei, pauperes, egeni (CTh.9.42.5; CTh.7.19.1.1; CTh.15.8.2; C.I.9.19.6; C.I.9.39.1), personae humilioris fortunae – personae superioris, splendidioris fortunae (CTh.7.10.1; CTh.16.10.12), humilioris conditionis – inferioris loci dignitatisve personae (CTh.7.18.1) ciò è pur sempre 157 91 In generale quindi in epoca postclassica la distinzione tra ceti sociali da un lato sembra avere carattere eccezionale, dato il prevalere della tendenza alla fissazione ex lege della pena e alla sua applicazione formalmente egualitaria e, dall’altro, anche quando compare, presenta un’accezione ben diversa da quella classica. A riprova di ciò si può ricordare, tra l’altro, la frequenza con cui gli imperatori richiamano il carattere unitario della regolamentazione, ribadendo più volte che ad essa non debba sfuggire nessuno, in quanto applicabile a quicumque o quisquis. Ad un esame superficiale, pertanto, si potrebbe quasi ritenere che, in certi casi, indipendentemente dal rango di appartenenza del colpevole, il suo comportamento antisociale basti a renderlo indegno della considerazione di cui ad altri effetti avrebbe goduto e che, anzi, proprio il suo eventuale status elevato giustifichi un trattamento sanzionatorio più rigoroso. Ulteriore argomento a favore sarebbe invece che, in ordine alla pena patrimoniale o multa, riappare la graduazione, ma sempre al fine precipuo di colpire con maggior severità i ceti superiori. Si coglie quindi una tendenza al livellamento sociale e bisogna perciò, come al solito, chiedersi, se essa sia riflesso di un orientamento all’isonomia almeno formale o un ulteriore tentativo di repressione dei fenomeni devianti. in funzione dell’elemento patrimoniale”. Nella stessa ottica si potrebbe leggere anche la posizione di privilegio attribuita ai grandi proprietari terrieri (possessores; potentiores). La causa dell’abbandono del concetto classico legato alla dignitas a favore di un’interpretazione economica si deve imputare per A. Ferrero, La rovina della civiltà antica, Milano, 1926, 23ss., alla decadenza della classe degli honestiores maturata durante la crisi del III secolo. Distrutta l’aristocrazia municipale, il decurionato non costituì più una dignità personale, ma una condizione sociale che si acquisiva per nascita o per censo (si veda in proposito CTh.12.1.33). 92 Le categorie sociali qualificate come honestiores sono essenzialmente quattro : senatori, decurioni, militari e clero. a) I senatori. L’ordine senatorio, anche nel tardo impero, rimane lo strato sociale più elevato, pur subendo numerose variazioni in ordine alla propria composizione. Seguendo le sorti dell’impero, infatti, anche il senato si sdoppia in due ordini, rispettivamente facenti capo alle città di Roma e di Costantinopoli, che, solo a partire dalla metà del IV secolo, per intervento dell’imperatore Giuliano, possono vantare una piena parificazione giuridica161. Tuttavia, mentre il senato di Roma resta più tradizionale e costituito prevalentemente162 da famiglie di rango elevato e di antica nobiltà, che continuano ad esercitare una grande influenza sul governo centrale, quello di Costantinopoli figura come meno illustre, composto da Questa duplice composizione sembra risalire all’imperatore Costanzo che con una serie di interventi contribuì a rafforzare il prestigio del senato orientale nei confronti di quello di Occidente. In particolare, l’imperatore nel 340, con CTh.6.4.5-6, creò tre preture annuali (Flavialis, Costantiniana, Triumphalis), nel 356 autorizzò il senato di Costantinopoli ad eleggere i pretori con la maggioranza legale di presenti di cinquanta membri (CTh.6.4.8-9) ed infine, nel 357, trasferì in esso tutti i clarissimi residenti in Achea, Macedonia ed Illirico. Quanto alla parificazione attuata da Giuliano si veda Zos.3.11.3 e Pan.3.24.5. 162 Non mancano comunque esempi di stranieri introdotti nell’ordine senatorio dopo essersi distinti nell’esercito, si pensi a Stilicone come ci testimonia Zos.4.57.2. Si veda in proposito S. Mazzarino, Stilicone, la crisi imperiale dopo Teodosio, Milano, 1942; P. Straub, Parens principum, Stilichos Reichspolitik und das Testament des Kaisers Theodosius, Klio, 1952, 94. Altri personaggi sono ricordati da Jones, Il tardo, 552. Infine sui rapporti dei barbari con Roma si veda S. Dill, The Roman Society in the Last Century of the Western Empire, 2, New York, 1960, 292ss. 161 93 membri di più recente designazione e pertanto meno decisivo nelle vicende politiche dell’impero163. Rinviando alle apposite trattazioni per l’approfondimento circa le caratteristiche del senato nel tardo impero164, si può dire che, ai nostri fini, ciò che interessa osservare è come, senza alcun dubbio, molti siano stati i privilegi che, a partire dal IV secolo, vennero riconosciuti e rafforzati a favore della classe senatoria. Si tratta comunque di un processo lento che si consolida alcuni decenni dopo la morte di Costantino, il quale aveva invece tentato, almeno in un primo momento, di ridimensionare la potenza del senato. Il punto di partenza di questa evoluzione si può individuare proprio in un provvedimento di questo imperatore e più precisamente in CTh.9.10.3, emanata il 6 ottobre 317 o 319165, con la quale s’introdusse nel sistema giurisdizionale penale il principio della riflessione della pena, che comportava una responsabilità per calunnia in capo all’accusatore per il solo fatto dell’assoluzione dell’accusato, In questo modo Costantino cercava di evitare che i senatori abusassero dello strumento dell’accusa trasformandolo in uno stratagemma diretto ad eliminare dalla scena politica avversari scomodi per mezzo di accuse infamanti. Questo è almeno il panorama che emerge dalle ricerche di M. T. W. Arnheim, The Senatorial Aristocracy in the Later Roman Empire,Oxford,1972. 164 In proposito: C. Lécrivain, Le Sénat Romain dépuis Dioclétien à Rome et à Constantinople, Paris, 1888; P. Petit, Les sénateurs de Constantinople dans l’oeuvre de Libanius, in L’antiquité classique, 26, 1957, 347-382; P. Arsac, La dignité sénatorial au Bas Empire, in RHD, 47, 1969, 202-213ss.; R. Etienne, La demographie des familles imperiales et senatoriales au IVe siècle après J.C., in Transformation et conflits au IVe siècle après J.C., Bonn, 1978, 133-168; G. Dagron, Naissance d’une capitale. Constantinople et ses institutions de 330 à 451, Paris, 1984, 119-210; P. Garbarino, Ricerche sulla procedura d’ammissione al senato nel tardo impero romano, Milano, 1988. 163 94 Questa norma ebbe però, come conseguenza inattesa, dopo la morte di Costantino, lo sviluppo di un’articolata legislazione, volta a garantire una sorta di immunità della classe senatoria, impedendo che un illustris potesse essere sottoposto ad accusatio o comunque incriminato sulla base di un’inquisitio, fatta eccezione per i delitti di maiestas e di eresia166. Tale ampia legislazione spazia dalla determinazione del foro competente di cui ci siamo già ampiamente occupati, alla prova testimoniale, fino alla possibilità di sottoposizione alla tortura degli esponenti del senato. Abbiamo già accennato trattando di praescriptio fori del divieto di testimonianza in altri processi imposto al reo confesso e la limitazione del ricorso alla custodia preventiva in considerazione della dignitas dell’accusato. Dando per acquisito quanto finora detto, va ora sottolineato come tutta la normativa in tema di privilegi senatori in materia penale, finora discussa, vada reinterpretata soprattutto alla luce di CTh.9.35.3 emanata da Graziano il 27 marzo 377, la quale proibisce la tortura dei senatori. Sia nella prima metà del IV secolo, che per tutto il V, diventa infatti estremamente difficile e rischioso esercitare l’accusa nei confronti di un senatore e il privilegio dell’esenzione dalla tortura rende ciò ancora più manifesto. Secondo O. Seeck, Regesten, 58 e 169 tale costituzione è del 319; per C. Chastagnol, La Préfecture, 91 nt.5 del 317. 166 Sull’eresia si veda CTh.16.5.9 del 31 marzo 382 emanata da Teodosio a Costantinopoli. Per un esame più approfondito di questa costituzione si rinvia a J. Rougé, La législation de Théodose contre les héretiques. Traduction de CTh.16.5.6-24, in Epektatis. Mélanges patristiques offerts au cardinal J. 165 95 Costantino, con CTh.11.36.1 del 2 novembre 314/315, aveva circoscritto la possibilità di emettere sentenze capitali ai soli casi di confessione dell’imputato o di unanime deposizione dei testimoni, con la conseguenza di un uso sempre più massiccio della tortura, come mezzo per provocare la confessione. Sottrarre i senatori a tale cruenta pratica significava perciò di fatto limitare significativamente la possibilità di condannarli a morte. Per effetto poi di un susseguirsi di disposizioni, pervenute per mezzo di P.S. 5.15.1- 3 e 5.16.5 e riprese anche da Edictum Theodorici 48, vengono sancite una vasta serie di incompatibilità relative alla testimonianza e all’accusa in capo ad una pluralità di soggetti. Tra di essi in particolare rientrano i domestici, cioè gli ingenui, non cognati, che frequentano abitualmente la casa del senatore, i parentes, cioè i genitori, i liberi, cioè i figli, i cognati, cioè tutti i parenti in linea diretta o collaterale sia di sesso maschile che femminile ed infine i servi ed i liberti. Questi ultimi, qualora trasgressori, per effetto di CTh.9.6.1 del 15 marzo 376, avrebbero addirittura dovuto subire la pena del rogo, fatta eccezione per il caso di un’accusa di maiestas. Stesso trattamento e stessa deroga è poi estesa, per effetto di CTh.9.6.3 dell’8 novembre 398, alla generalità dei familiares, da intendere come quei soggetti ingenui di nascita che, pur frequentando abitualmente la casa, non sono parenti. Tale incapacità relativa di accusare imposta a liberi, domestici o familiares, schiavi, liberti e parenti tutti ha come ragione giustificativa l’esigenza di proteggere la persona del pater da subdole Danielou, Paris, 1972, 635-649; G. Barone-Adesi, Eresie “sociali” ed inquisizione teodosiana, in ARC, 6, Napoli, 1986, 119-166. 96 macchinazioni, ma, se combinata con il divieto di chiamata in correità di CTh.9.1.19 e le incapacità assolute di accusare previste già in età classica167, produce una sostanziale impunità della classe senatoria. Tanto più che CTh.9.6.4 amplia ulteriormente ciò abolendo nel 423 l’eccezione relativa al crimen maiestatis, prevista in tutte le precedenti leggi dello stesso titolo. Da questo articolato intreccio di disposizioni si ricava in sostanza che un senatore poteva essere alla fine accusato o da una persona libera, purché non sottoposta a procedimento penale e con un reddito superiore ai 50 aurei (ma quali prove avrebbe mai potuto addurre questi se tutti coloro che, in qualche modo, avevano contatti abituali col senatore erano gravati dal divieto di accusa o di testimonianza e lo stesso accusatore rischiava la pena del reciproco ?) oppure da un suo pari grado, ma limitatamente ai crimini contro lo stato. Ne deriva, almeno in Occidente, una disciplina tutt’altro che ugualitaria, volta all’esaltazione della garanzia personale, che tuttavia, a mio parere, almeno questa volta, non è il frutto di una deliberata scelta di politica legislativa, bensì il prodotto stratificato e secolare di consuetudini, privilegi ed immunità che in uno stato, ormai in declino, nessuno tentava neppure più di sradicare. A riprova di ciò si pensi come in Oriente invece tale regolamentazione non trovi spazio, ma anzi i termini della distinzione si affievoliscano sempre più fino a costituire, almeno nella compilazione giustinianea, un mero retaggio della tradizione. Soggetti a tali incompatibilità assolute erano gli schiavi o i liberti che non avessero almeno un figlio o un patrimonio pari a 30.000 sesterzi, i poveri che non possedessero almeno 50 aurei, i magistrati nell’esercizio del loro ufficio, i soldati sotto servizio militare, le donne, gli impuberi, i minori di 25 anni, i figli di 167 97 b) i militari. Un’altra tipologia di soggetti che, rientrando nella più ampia categoria di honestiores, godono, nell’ambito della vita giudiziaria tardo antica, di particolari garanzie e privilegi, in ragione della carica ricoperta, sono i militari168. Ritengo subito utile premettere che, nonostante le disposizioni dedicate, all’interno del Codice Teodosiano, agli appartenenti a questo ordine169, ad oggi conosciamo ancora poco o nulla dei giudizi effettivamente svolti nei confronti di tali soggetti. In particolare sappiamo con certezza solo di come i militari godessero della castrensis iurisdictio, cioè della possibilità di essere giudicati direttamente dai propri superiori di cui abbiamo già trattato, nonché di trattamenti differenziati in materia di tortura e pene. famiglia senza l’assenso del pater familias, gli infames e quanti avessero già esercitato l’accusa due volte. 168 Per un ulteriore approfondimento sulla figura del militare, anche nel tardo, si rinvia a M. Carcani, Dei reati, delle pene e dei giudizi militari presso i Romani, Milano, 1874; A.H.M. Jones, Il tardo impero, 488ss.; F. De Martino, Storia, 460ss.; V. Giuffrè, Il “diritto militare” dei Romani, Bologna, 1980, 75ss.; Id., Testimonianze sul trattamento penale dei “milites”, Napoli, 1989, 17ss.; F. Goria, Giudici civili e giudici militari nell’età giustinianea, in SDHI, 61, 1995, 447ss. 169 Ai militari è dedicato l’intero libro settimo del Codice Teodosiano. Già nel titolo primo, rubricato De re militari, sono tuttavia anticipati sommariamente i principali contenuti della disciplina dedicata alla materia dell’organizzazione militare. Le diciotto costituzioni che lo compongono infatti richiamano tutti i più importanti temi in materia: dalla disciplina delle licenze (poi approfondita in CTh.7.12) ai privilegi per i veterani (ripresi in CTh.7.20) fino all’obbligo dei figli dei militari di indirizzarsi all’honor armorum (CTh.7.22) e alla piaga della diserzione (CTh.7.18). Va comunque sottolineato come nessun titolo sia specificamente dedicato al trattamento penale degli appartenenti all’esercito. 98 Per quanto attiene alle pene capitali esse di solito sono eseguite fuori dal campo (extra vallum) ed inflitte con la decapitazione (decollatio) o con la fustigazione (fustuarium) fino alla morte. E’ però nel settore delle pene non capitali che si riscontrano le principali incongruenze rispetto al “regime ordinario” e, più nel dettaglio, sorprende il fatto di non trovare mai inflitta la sanzione, al contrario molto diffusa nella tarda antichità, costituita dalla condanna ai lavori forzati170. La spiegazione di questa differenza di trattamento è, a mio avviso, rinvenibile nello stesso carattere “speciale” della giurisdizione militare; poiché infatti la scelta delle pene da applicare in concreto è rimessa agli stessi capi militari si può ipotizzare che questi, qualora non ritengano di comminare la pena di morte, preferiscano far scontare le altre sanzioni di ordine fisico nello stesso ambito della milizia, avendo in questo modo anche maggiori garanzie circa una loro effettiva esecuzione. Accade così che, pur non rinvenendo notizia di condanne ad metalla irrogate a soldati, non è infrequente riscontrare nelle fonti l’imposizione ai militari di altre mansioni di fatica straordinarie, quali, ad esempio, la munerum indictio, consistente nella realizzazione di fossati o di fortificazioni di altro genere, utili all’esercito, in assenza di una pena si impone pertanto in via discrezionale un munus avente contenuti analoghi. Questa esenzione risale già all’età classica per cui si veda in proposito si veda D.49.16.3.1 per cui “Milites…in metallum, aut in opus metalli non dabuntur” e D.49.18.3. 170 99 Quanto infine all’esenzione dei milites dalla tortura, si tratta di un privilegio avente origini assai risalenti171, che tuttavia non manca di trovare enunciazione anche nel tardo antico. La norma più di ogni altra significativa da questo punto di vista è CTh.9.35.1172 dell’8 luglio 369 la quale, fatta eccezione per il crimen maiestatis, esclude la possibilità di esperire lo strumento della tortura, senza previa autorizzazione imperiale, nei confronti di coloro che siano protetti vel militiae auctoramento vel generis aut dignitatis defensione. c) I decurioni. Ancora più scarse sono le notizie pervenute a proposito dei decurioni173. Benché ad essi sia infatti dedicato l’intero ampio titolo 12.1 del Codice Teodosiano, le disposizioni relative al trattamento penale loro riservato rimangono estremamente oscure. La testimonianza più antica riguardo all’esenzione dei militari dalla tortura risale a Tarrunteno Paterno in D.49.16.7 (Tarrunt. Pat. De re mil, 2), tuttavia Th. Mommsen, Le droit pénal, 82 nt.2 preferisce ritenere che il privilegio risalga all’età di Tiberio. 172 CTh.9.35.1: (Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Olybrium praefectum urbi). Nullus omnino ob fidiculas perferendas inconsultis ac nescientibus nobis vel militiae auctoramento vel generis aut dignitatis defensione nudetur, excepta tamen maiestatis causa, in qua sola omnibus aequa condicio est. II quoque citra consultationis modum subiciantur quaestioni, qui evidentibus argumentis subscriptiones nostras finxisse prodentur, qua in re ne palatini quidem nominis adsumptionem huius esse volumus quaestionis exortem. 173 Si occupano dei decurioni, tra gli altri, M. Nuyens, Le statut obligatoire des décurions dans le droit constantinien, Louvain, 1964, 1-332; R. Ganghoffer, L’evolution des institutions, 215ss.; F. De Martino, Nota storica sui “decurioni”, in Diritto, economia e società nel mondo romano. Diritto pubblico 2, Napoli, 1996, 147ss. 171 100 Sulla base di una breve esposizione storica si può osservare che molti erano stati invece i vantaggi riconosciuti a questa categoria sociale nel corso del II-III secolo. Se infatti l’imperatore Adriano, come risulta da D.48.19.15, aveva escluso la possibilità di sottoporre i decurioni ed i loro figli alla pena di morte, appena un ventennio dopo, M. Aurelio ne aveva vietato anche la deportazione. La disposizione più completa in materia di repressione criminale dei decurioni rimane comunque D.48.19.9.11-14 nella quale Ulpiano riferisce come gli appartenenti a tale ordine fossero sottratti all’applicazione di alcune pene terribili e crudeli, che egli identifica in: a) condanna in metallum; b) condanna in opus publicum; c) impiccagione; d) rogo. Questo elenco brevemente tracciato da Ulpiano è poi completato da Marciano mediante l’aggiunta di due ulteriori esclusioni e più precisamente: e) la pena ad bestias; f) la fustigazione. Non rinvenendo traccia nelle fonti successive di una norma abolitiva di questi privilegi, ne deduco una generale applicabilità anche nell’età tardo imperiale. L’assenza di disposizioni relative al trattamento penale dei decurioni a partire dal IV secolo, se si esclude CTh.8.2.4 dell’imperatore Valentiniano che esonera i curiales dalla tortura, può comunque trovare una spiegazione logica. E’ infatti consentito supporre o che gli imperatori considerassero ormai inutile ribadire privilegi già concessi e quindi impliciti nell’ordinamento oppure che il ruolo, prima assai prestigioso, degli appartenenti alle curie avesse patito una diminuzione tale da giustificare perché le fonti letterarie spesso descrivono decurioni più 101 dediti a far valere i propri antichi privilegi che a godere di nuovi benefici. Anche alla luce delle considerazioni svolte, ritengo perciò plausibile ipotizzare un ceto curiale ormai assorbito nel sistema burocratizzato e gravato dall’onere dell’ereditarietà, il quale, se in Occidente riesce ancora a godere degli antichi privilegi, in Oriente deve lottare per non sprofondare nell’anonimato della pesante macchina amministrativa rivendicando l’essenzialità del compito svolto a favore dell’impero e delle sue casse. d) Il clero. Un’ultima categoria che merita la nostra attenzione, sotto il profilo delle garanzie pro condicione personarum, in quanto destinataria di un trattamento giuridico privilegiato, è quella degli ecclesiastici174. Le agevolazioni riconosciute a costoro, tuttavia, a differenza di quanto si è potuto riscontrare con riguardo a senatori militari e decurioni, non si esauriscono nell’attribuzione del privilegium il beneficio fori e nel riconoscimento di una dispensa dalla tortura, bensì si atteggiano come più varie ed articolate. Senza perciò sottovalutare consistente nell’assoggettamento ai tribunali episcopali, misura protettiva che permette al clero, sia di godere di una giustizia migliore, amministrata da giudici meglio formati, sia di mettersi al riparo da pene crudeli tra Tra le principali opere sull’argomento si segnalano: B.Biondi, Il diritto romano cristiano, 516ss.; J. Gaudemet, L’Eglise dans l’Empire Romain (IV-V siècles), Parigi, 1958; L. De Giovanni, Chiesa e Stato nel codice Teodosiano. Saggio sul libro XVI, Napoli, 1980. Tra i più recenti si ricorda anche, nonostante la portata limitata, L. Cracco Ruggini, La fisionomia sociale del clero ed il consolidamento delle istituzioni ecclesiastiche nel Nord-Italia (IV-VI secolo), in Morfologie 174 102 cui quella capitale, non si può fare a meno di osservare che questo non è l’unico settore nel quale le costituzioni imperiali concedono benefici agli ecclesiastici. In particolare meritano attenzione le vicende legate al riconoscimento dell’esenzione dalla testimonianza disposto a favore dei religiosi. Nel 381 infatti Teodosio I pone il divieto per i vescovi di essere obbligati a testimoniare. Il fatto che il relativo frammento, riportato da CTh.11.39.8175, riproduca il testo di due interlocutiones pronunciate dall’imperatore in un consistorio tenuto a Costantinopoli, induce tuttavia a ridimensionare, fin da subito, la portata di questa disposizione. Posto che l’interlocutio costituisce la forma tipica di decisione degli incidenti processuali, se ne può fondatamente dedurre che l’imperatore fosse stato chiamato, in quell’occasione, a risolvere un caso concreto in cui ci si interrogava circa la liceità di una chiamata in testimonianza di un episcopo, eventualmente seguita da una sua traduzione forzata in giudizio. Teodosio risolve la questione affermando, nella prima interlocutio, che un vescovo non è costretto a rendere testimonianza in un processo criminale né dall’honor, né dalle leges. Sembra pertanto sancire non un’incapacità assoluta dei membri dell’episcopato a testimoniare, ma solo un privilegio a loro favore di astenersi, qualora citati in un processo criminale. sociali e culturali in Europa fra Tarda Antichità e Alto Medioevo (3-9 aprile 1997), Spoleto, 1998, 225ss. 175 CTh.11.39.8: Pars actorum habitorum in consistorio aput imperatores Gratianum, Valentinianum et Theodosium cons. Syagri et Eucheri die III kal. iul. Constantinopoli. In consistorio Imp. Theodosius A. dixit: episcopus nec honore nec legibus ad testimonium flagitatur. Idem dixit: episcopum ad testimonium dicendum admitti non decet, nam et persona dehonoratur et dignitas sacerdotis 103 Nella seconda interlocutio, tuttavia, Teodosio fa maggior chiarezza, in quanto dichiara esplicitamente di ritenere sconveniente per un vescovo assumere la veste di testimone, posto che la dignità sacerdotale di cui è investito ne uscirebbe deturpata. Anche questa affermazione va però letta alla luce delle circostanze storico politiche che portano alla sua emanazione. Come è stato autorevolmente suggerito da Gotofredo176, è infatti probabile che il caso concreto sottoposto all’attenzione imperiale trovasse origine nelle accuse che i vescovi si erano reciprocamente rivolti in occasione della loro partecipazione al II concilio ecumenico svoltosi, tra il maggio e il luglio di quell’anno, a Costantinopoli. Poteva quindi non apparire conveniente che, in quella circostanza, gli stessi componenti del sinodo si presentassero a testimoniare a favore di un collega ed a danno di un altro, dal momento che ciò avrebbe contribuito solo a gettare discredito sulla categoria vescovile. Ritengo quindi fondato interpretare questo intervento del 381 non come una inibizione assoluta agli episcopi della possibilità di testimoniare nei giudizi penali, ma come una mera valutazione di opportunità espressa al ricorrere di circostanze molto particolari. A sostegno di una simile lettura è d’ausilio anche il contenuto di CTh.11.39.10 emanata dallo stesso Teodosio nel 386 e che sembra estendere anche ai presbiteri i privilegi già riconosciuti ai vescovi. In essa infatti l’imperatore non mette in dubbio la possibilità degli ecclesiastici e più precisamente dei presbiteri di rendere excepta confunditur. (381 iun. 29). Gotofredo, Ad h.l., a cui mostra di aderire Biondi, Il diritto romano cristiano, 1, 384. Nonostante l’inserimento all’interno del Codice Teodosiano di questa norma possa indurre a propendere per una generalizzazione delle sue prescrizioni, 176 104 testimonianza, ma si limita ad assicurare che in tale evenienza essi possano agire liberi dalla costrizione della tortura. Tuttavia, al fine di evitare che il clero approfitti di questa sostanziale immunità, riconosce ai litigatores la facoltà di incriminare quei presbiteri che, abusando di questa norma di favore, se ne servano per occultare il vero o, ancora peggio, per dichiarare il falso. L’imperatore ha comunque cura di precisare che tale privilegio assiste soltanto i presbiteri, in quanto ogni altro chierico di grado od ordine inferiore, quando citato come testimone, dovrà rendere le proprie dichiarazioni nei modi previsti per legge e quindi, qualora l’istruttore lo ritenga necessario, anche per tormenta. A tale disparità di trattamento tra appartenenti al clero reagiscono però, in seguito, le statuizioni del Concilio di Cartagine del 401177 le quali, disponendo che nessun ecclesiastico possa essere chiamato a rendere testimonianza davanti ad un giudice laico, cercano di sottrarre i religiosi di ogni grado dalle vessazioni insite nella tortura secolare . Esistono comunque ulteriori concessioni, attribuite dalla legislazione imperiale al clero, che assumono più marcatamente il carattere di privilegio, rispetto alla disciplina in tema di testimonianza finora illustrata. In particolare, Valentiniano III nella Nov.35.1, con un’ulteriore deroga al diritto comune, dispensa i vescovi dal comparire personalmente in giudizio quando imputati di un crimine di estrema gravità. In questo caso infatti l’imperatore dispone che gli ecclesiastici siano altre costituzioni, come vedremo, sembrano confermarne la portata meramente particolare. 177 Il 13 settembre del 401 si riunì a Cartagine il concilio plenario. In tale sede, l’assemblea emanò vari canoni disciplinari, tra cui quello in esame. In proposito si rimanda a Diz. Patristico, 606. 105 formalmente rappresentati nella causa da un procuratore investito in modo solenne, pur rimanendo i sostanziali destinatari della sentenza e del suo dispositivo. Altre costituzioni perseguono invece l’obiettivo di proteggere il clero contro abusi e violenze e, fra tutte, di particolare interesse è CTh.16.2.31 (= Sirm.14) del 399. Si tratta di un’epistola dell’imperatore Onorio al prefetto del pretorio Teodoro relativa al delitto di profanazione delle chiese. In essa si sancisce che, qualora qualcuno, irrompendo nelle chiese, commetta un sacrilegio tale da arrecare ingiuria ai sacerdoti, ai loro aiutanti o allo stesso luogo di culto, ciò debba subito essere portato a conoscenza delle potestates, sia tramite litterae dei magistrati e dei curatori, sia tramite notoria degli apparitores, affinché siano resi noti i nomi dei colpevoli identificati. La pena nei confronti di costoro non potrà essere altro che la morte e, data la gravità dell’offesa, si dovrà procedere alla sua esecuzione nel più breve tempo possibile senza attendere che sia il vescovo a reclamare la punizione. Questo intervento, in origine indirizzato alla provincia d’Africa, in ragione del clima turbolento e scismatico imperversante nel territorio, assume poi, data la sua collocazione nel Teodosiano, carattere generale, ponendo così una misura di protezione specifica a favore del clero contro i crimini di violenza e saccheggio, sconosciuta alla legislazione previgente. Gli imperatori non si preoccupano però di tutelare gli ecclesiastici solo dalle eventuali offese dei privati, bensì si curano di predisporre a loro favore opportune garanzie anche nei confronti degli abusi perpetrabili dalla stessa burocrazia statale. 106 In particolare, l’imperatore provvedimento relativo Leone, nel 472, in un lungo agli ecclesiastici, pone almeno due disposizioni di particolare favore178. Da una parte infatti, mediante C.I.1.3.32.6, interdice l’uso della misura della detenzione nei confronti degli appartenenti al clero e, dall’altra, con C.I.1.3.32.5 si preoccupa di ridurre ad una somma modesta le remunerazioni, ormai istituzionalizzate, che i funzionari possono esigere dai clerici che agiscono in giudizio. Unificando concettualmente tutti gli interventi brevemente illustrati finora, si può osservare come essi si limitino ad introdurre garanzie settoriali, giustificate dal ruolo ormai centrale assunto dalla chiesa e dai suoi componenti nella società tardo antica. In conclusione va osservato come i privilegi riconosciuti alle quattro categorie di soggetti finora discussi siano interpretabili come interventi occasionali, volti a carpire il favore degli strati sociali più influenti mediante la concessione di quei benefici dei quali la situazione socio-politica contingente richiede il riconoscimento o, perlomeno, la riaffermazione degli stessi. CAPITOLO TERZO 178 In proposito A.S. Scarcella, La legislazione di Leone I, Milano, 1994, 86ss. 107 IL PROCESSO CRIMINALE NEL TARDO IMPERO: LUOGHI, MODI, TEMPI. SOMMARIO: 1. I luoghi del processo. – 2. Il dibattimento, la fase istruttoria e la pronuncia della sentenza. Il contributo delle fonti non giuridiche: il processo per magia di Libanio ed il racconto di Procopio da Cesarea – 3. La legislazione in materia di durata dei giudizi. 4. I tempi del processo e la carcerazione preventiva. Cenni in tema di tortura 1. I luoghi del processo. Dopo aver discusso circa l’identità del potenziale accusatore e l’individuazione del giudice adito, si tratta ora di ricostruire sommariamente il concreto dipanarsi dell’attività processuale. Mi propongo quindi, preliminarmente, di determinare dove e come si svolgesse il giudizio, dopo di che analizzerò per quanto possibile, data l’esiguità delle fonti, le modalità di formazione della sentenza e la sua pubblicazione. Il processo penale, a differenza di quello civile che aveva come scenario abituale la basilica179, si mostra problematico già nella determinazione della sua localizzazione. Mentre alcuni autori180, infatti, sulla base essenzialmente dei processi dei martiri, assunti erroneamente a mio parere a paradigma dei Uno studio accurato ed interessante in materia è stato condotto da G. Dareggi, I luoghi dell’amministrazione della giustizia nella Tarda antichità, in ARC, 11, Napoli, 1996, 377ss. 180 G. Lanata, Gli atti dei martiri come documenti processuali, Torino, 1989, 133. analizza, tra gli altri, gli atti dei martiri Perpetua e Massimiliano, nei quali si indica come luogo di udienza il foro. Il teatro di Smirne sarebbe stato invece sede dell’interrogatorio del martire Pionio e del processo di Policarpo; G. Dragon, Costantinopoli. Nascita di una capitale (330-451), trad.it., Torino, 1991, 322 indica l’ippodromo di Costantinopoli come luogo abituale delle esecuzioni capitali. Sono comunque nettamente contraria a considerare paradigmatici tali processi sia perché esulano dall’arco temporale del mio esame, sia perché secondo me condotti con modalità repressive derogatorie rispetto alla procedura ordinaria. 179 108 processi penali tardo antichi181, individuano come luogo ancora ricorrente di amministrazione della giustizia criminale il foro o comunque lo spazio pubblico, altri, Santalucia182 per primo, si assestano su posizioni nettamente contrastanti. Secondo tale autore “l’obbligo di giudicare pubblicamente venne sempre più rapidamente meno, sostituito dalla prassi delle cognitiones segrete condotte nei secretaria, uffici riservati dei funzionari imperiali appartati e interclusi al pubblico mediante l'apposizione di inferriate (cancelli) e tendaggi (vela) rimossi soltanto in particolari fasi del giudizio, quali ad esempio la lettura della pronuncia finale”. A tali secretaria sarebbero stati eccezionalmente ammessi solo i dipendenti imperiali incaricati della redazione del verbale, nonché alcuni illustri personaggi, peraltro non identificati con sicurezza dalle fonti. Chi immaginiamo si potesse trovare in aula ? Sicuramente il giudice coadiuvato dagli adsessores, in particolare quelli destinati alla verbalizzazione, che è ormai assurta a passaggio ineliminabile del processo tardo antico, dopodiché certa è la presenza dell’accusatore (ove esistente), dell’accusato (qualora non contumace), dei relativi patrocinatori legali, nonché infine dei 181 Varie sono state le ipotesi interpretative sulle azioni promosse contro i cristiani, in particolare, mentre per alcuni erano perseguitati in base ad una legge speciale, valida per tutto il territorio dell’impero, secondo altri invece ci si basava sull’ordinamento penale comune ricollegandosi alle fattispecie di incesto, associazione illecita, magia, introduzione di culto straniero e soprattutto maiestas. Altri ancora infine ritenevano le persecuzioni cristiane fondate su un uso discrezionale dell’imperium finalizzato al mantenimento dell’ordine pubblico. Per una ricognizione di tutte le diverse posizioni in materia si rinvia a G. Lanata, Gli atti dei martiri, 74 ss il quale dal suo canto ipotizza l’esistenza di un autonomo capo d’accusa costituito dalla qualità stessa di cristiano. 182 B. Santalucia, Diritto e processo, 284, della stessa opinione anche V. Giuffrè, La repressione, 152. 109 testimoni, più una serie di residentes (honorati, primates, summates, principales etc.). Come sempre restia ad accettare acriticamente le opinioni dottrinali, per quanto autorevoli, intendo condurre un breve esame sui testi, al fine di trarne tutte le informazioni utili ad una ricostruzione, per quanto possibile, anche di questo aspetto del processo criminale tardo imperiale. In primo luogo, in contrasto con l’opinione di Santalucia mi sento di riportare: C.Th.1.16.10 [= Brev.1.6.3]: (Impp. Valentinianus et Valens AA. ad Valerianum Vicarium Hispaniarum). Libellos iudicibus, postquam se receperint, vetamus offerri, ne super alienis causis vel statu pronuntient, quando ab officii conspectu atque ab oculis publicis recesserint. Praelata VI. id. sept. Veronae, Valentiniano et Valente AA. conss 183. Questa costituzione, che viene datata 8 settembre 365 in quanto si ritiene appartenente allo stesso contesto normativo di C.Th.9.3.4184, già esaminato in precedenza, vieta ai giudici di accettare ulteriori elementi di accusa dopo la conclusione del pubblico dibattimento (ab oculis publicis). 183 Interpretatio: Iudices, postquam se de consessu publico in domum suam receperint, libellos a litigatoribus non accipiant, nec sine officio suo de causis alienis vel de statu aliquid cognoscant. 52 Così risulta da Th. Mommsen, ad h.l. e da O. Seeck, Regesten, 226. 53 La tematica della pubblicità del processo criminale tardo antico costituirà oggetto del § 2 in cui verranno esaminate anche CTh. 1.12.1; CTh. 1.16.6 ; CTh. 1.16.7; CTh. 1.16.9 ; CTh. 1.16.10. 54 Lydus 3.37 110 Ne risulta quindi che, terminate le formalità necessarie alla costituzione del rapporto processuale, si riteneva formata un’imputazione già sufficientemente determinata, che non si voleva pregiudicare mediante la possibile proposizione di motivi nuovi. Il riferimento al pubblico dibattimento185 poi, (benché posto in alternativa con ab officii conspectu e quindi da non sopravalutare), fornisce la possibilità di ipotizzare un giudizio penale che, anche se svolto nei pubblici palazzi, non precludeva in assoluto la presenza di una pluralità di spettatori. Una rappresentazione particolarmente accurata dei luoghi e modi in cui si svolgevano i giudizi nel periodo imperiale proviene da Giovanni Lido186, cronista dell’età giustinianea. Tale autore indica come sede privilegiata di amministrazione della giustizia, almeno nei processi davanti al prefetto del pretorio, l’auditorium, che descrive come diviso in due parti da una parete posta nel mezzo della sala e composta da pertiche di legno disposte in senso obliquo al fine di formare una sorta di reticolato. Tale parete, designata con il nome di saeptum o cancellum, era presidiata costantemente da due addetti all’officium che, proprio in relazione a tale compito, erano detti cancellarii187. Da CTh.1.16.7 ed altre fonti188 si ricava poi la presenza dei vela, tendaggi trasparenti utilizzati per separare il magistrato dalle altre persone che gli sedevano accanto. 186 Per gli studi relativi a questo personaggio si veda per tutti: J. Caimi, Burocrazia e diritto nel De magistratibus di Giovanni Lido, Milano, 1984. 188 C.Th.1.16.7 : “…non sit venale iudicis velum..” ; C.Th. 13.9.6 (= C.I. 11.5.5): “levato velo istae causae cognoscantur..”; Giovanni Crisostomo., Hom., 56, in P.G.,550ss:“ôá ðáñáðåôáóìáôá óõíåëĸõóáíôåò ïß ðáñåóôùôå”. 111 La coesistenza di tali elementi di sbarramento, a mio parere, anziché confermare l’idea espressa dal Santalucia189 di un processo ormai segreto ed intercluso al pubblico, la ridimensionano. Da un attento esame della testimonianza di Giovanni Lido, infatti, si ricava che, mentre il velum era alzato nella parte più interna del secretarium per sottrarre il magistrato alla vista del pubblico in determinati momenti dell’udienza, il cancellum serviva a separare i pubblici funzionari procedenti dalla folla degli astanti, la cui presenza è quindi palese. Conferma di ciò proviene anche da Sidonio Apollinare che già nel V secolo ci informa di come alla corte di Teodorico, re dei Visigoti: “pellitorum turba satellitum, ne absit, admittitur, ne obstrepat, eliminatur, sicque pro foribus immurmurat exclusa velis, inclusa cancellis”190. Il fatto che il processo, ormai, solesse svolgersi in un luogo chiuso, non esclude affatto che il pubblico potesse esservi ammesso: in tal senso depone anche la famosa Collatio191, convocata a Cartagine nel 411, su ordine dell’imperatore Onorio, allo scopo di definire la grave questione relativa allo scisma donatista192. E’ infatti stato tramandato 189 B. Santalucia. Diritto e processo, 279. Sidonio Apollinare, Ep.1.2.4 ; nello stesso senso anche Amm.18.1 per il quale l’imperatore Giuliano giudicava palam admissis volentibus. 191 Tale importante documento è citato a proposito, in quanto la Collatio cartaginese presieduta da Flavio Marcellino, si svolse secondo le più rigorose norme del diritto processuale. Ciò risulta non solo dall’obbiettivo esame dello svolgersi di tale cognitio, ma dalle parole dello stesso Marcellino che più volte impone il rispetto delle regole del procedimento ordinario. In proposito A. Checchini, Studi, I, Padova, 1925, 23ss. 192 Secondo il Dizionario patristico e di antichità cristiane, a cura di A. Di Bernardino, 1, Casale Monferrato, 1983, 1018: “…La discussione tra donatisti e cattolici verteva sulla natura della Chiesa in quanto società e sulle relazioni col mondo e le sue istituzioni. I donatisti si consideravano gli autentici eredi della chiesa dell’Africa del nord quale era stata prima della grande persecuzione e, in 190 112 che l’assemblea si riunì nel secretarium thermarum Gargilianarum alla presenza di un pubblico assai numeroso. Alcuni passi di Giovanni Crisostomo e Basilio Magno193 ci attestano poi che i vela venivano abbassati solo nel momento che precedeva la sentenza, per essere rialzati al momento della sua lettura, che valeva come solenne pubblicazione. Il pubblico quindi, a mio parere, continuava a rappresentare una componente abituale della vita giudiziaria e la sua eventuale esclusione non trovava tanto giustificazione in ragioni di segretezza, quanto di uno svolgimento del giudizio privo di interferenze. La presenza di una folla rumorosa avrebbe infatti potuto distrarre il giudice ed attenuare il rigore e la solennità di certi momenti e ciò spiega perché il velo venisse abitualmente abbassato proprio al momento della decisione ( in un quasi odierno ritirarsi per deliberare). 2. Il dibattimento, la fase istruttoria e la pronuncia della sentenza. Il contributo delle fonti non giuridiche: il processo per magia di Libanio ed il racconto di Procopio da Cesarea Coordinando i diversi risultati delle mie ricerche ne ricavo il seguente quadro: costituito il rapporto processuale, le parti si riunivano davanti ad un giudice, spesso indicato col termine disceptator, che presiedeva particolare, quale era stata al tempo di Cipriano. Erano dunque conservatori nella loro liturgia e celebravano l’agape, così come l’eucarestia, ignorando le nuove festività accettate dai cattolici come l’Epifania (Aug., Sermo 212.2), opponendosi al monachesimo (Aug., C. litt. Petiliani 3.40.48 ed Enarr. in P.S. 132.3) e mantenendo la Bibbia africana, mentre i cattolici usavano la Volgata…”. 113 allo svolgimento di un giudizio ormai per lo più denominato disceptatio194 o altercatio. Compito del giudice era quello di causas cognoscere195 ovvero di lites (o causas) audire ac discingere196, nonché di adoperarsi affinché il iudicium fosse rectum197 A questo punto la regolare costituzione delle parti veniva ufficialmente accertata mediante una solenne chiamata (citatio) del praeco198, che le fonti non giuridiche attestano anche per il processo penale199. Trattate le eventuali questioni preliminari, le parti potevano procedere ad un breve dibattito riassuntivo in cui, attraverso reciproche domande e risposte, chiarivano tanto le proprie posizioni quanto le questioni su cui il giudice era chiamato a pronunciarsi200. 193 Gotofredo nel suo commentario, con riguardo a CTh.1.7.1, riporta la testimonianza di Basilio Magno secondo la quale i veli erano eccezionalmente abbassati solo quando si discutevano le più gravi cause penali. 194 CTh.2.5.2: “studio protrahendae disceptationis…quantum pertinet ad huius modi disceptationes”; CTh.9.1.13: “Provincialis iudex…cum in eius disceptationem criminalis causae dictio adversum senatorem inciderit”; CTh.9.31.3:“disceptatio…cognitione…tractanda”;CTh.2.4.7:“actiones…iudicantu m disceptatione finiantur”. 195 CTh.9.1.13: (Imppp. Valens, Gratianus et Valentinianus AAA. ad Senatum). Post alia: provincialis iudex vel intra Italiam, cum in eius disceptationem criminalis causae dictio adversum senatorem inciderit, intendendi quidem examinis et cognoscendi causas habeat potestatem, verum nihil de animadversione decernens integro non causae, sed capitis statu referat ad scientiam nostram vel ad inclytas potestates. Referent igitur praesides et correctores, item consulares, vicarii quoque, proconsules de capite, ut diximus, senatorio negotii examine habito. Referant autem de suburbanis provinciis iudices ad praefecturam sedis urbanae, de ceteris ad praefecturam praetorio. Sed praefecto urbis cognoscenti de capite senatorum spectatorum maxime virorum iudicium quinquevirale sociabitur et de praesentibus et administratorum honore functis licebit adiungere sorte ductos, non sponte delectos. Et cetera. Lecta in senatu III id. Feb. Valente V et Valentiniano AA. conss. (376 febr. 11). 196 CTh.1.16.3 e 1.16.9 197 CTh.10.10.3 198 CTh.1.16.6: “..frequens praeconis, ut adsolet fieri, inclamatio…” 199 Eusebii, Hist. Eccles, 7.15.5 200 CTh.2.6.2 parla di “lis…in altercationem adducta”. 114 Il successivo giuramento, prestato da parti ed avvocati201, inaugurava l’apertura della discussione. In essa erano invitati ad esporre le proprie ragioni prima l’accusatore ed i suoi eventuali patroni, poi l’accusato e chi l’assisteva202. Venivano inoltre assunte le testimonianze, le altre prove ed eventualmente si stimolava una confessione, anche mediante il ricorso alla tortura. Le informazioni riportate dalle fonti in materia istruttoria sono estremamente scarse e sembrano ridursi ad un generico richiamo alla regola per la quale gli accusatori potranno adire il giudice solo qualora siano in possesso di prove chiare e rilevanti. In materia di prove gli imperatori tardo antichi, in molte occasioni, trascurando completamente i profili di tecnica processuale in materia istruttoria, si richiamano ad un generico concetto di veritas sulla cui esistenza in senso oggettivo non sembrano nutrire dubbi. Le leggi postclassiche con particolare insistenza richiedono infatti che le prove siano acerrimae et apertissimae in modo da non lasciare alcuna incertezza circa la colpevolezza dell’accusato. Può darsi che siano le solite frasi ampollose, tanto frequenti nelle prescrizioni di quest’epoca, tuttavia non mancano precise disposizioni a riguardo. Di veritas, anzi di acerrima indago per raggiungere la medesima parla già Costantino in CTh.9.19.2.1 del 26 marzo 326 nella quale dispone che, qualora si tratti di accertare la falsità o meno di un instrumentum, C.I. 1.3.14 precisa che il giuramento degli avvocati deve aver luogo “cum lis fuerit contestata, post narrationem propositam et contradictionem obiectam” e A. Checchini, Studi, 66 dall’esame di questa costituzione trae l’applicabilità di tale prescrizione tanto al processo civile che penale. 202 Agath.Histor. 4.3 e 4.7 201 115 tanto l’accusatore che il presunto reo debbano illuminare il giudice, agevolandolo nelle sue indagini, affinché emerga il vero. La tematica viene ribadita ancora, molto più tardi in termini analoghi, in una costituzione di Teodosio I del 18 maggio 382 diretta al prefetto del pretorio Floro, conservata in CTh.9.37.3 e giunta con alcune varianti in C.I.4.19.25 e C.I.9.46.9, nella quale si legge: “…sciant cuncti (nel giustinianeo è stato aggiunto accusatores) praemeditentur, ante praecaveant eam se rem deferre debere in publicam notionem, quae munita sit testibus, instructa documentis, signis ad probationem luce clarioribus expedita…”. Tuttavia le fonti non chiariscono cosa si intenda per instrumentum, per cui si può solo ipotizzare che anche nel tardo antico le prove ammesse in giudizio fossero di natura tanto testimoniale che documentale. Terminata l’istruttoria, il giudice si ritirava per decidere e si ritiene che, poco dopo, ricomparisse per dare lettura di quello che oggi chiameremmo il dispositivo della sentenza. La presenza delle parti alla lettura era richiesta a pena di nullità, tranne il caso in cui esse, benché formalmente convocate, fossero deliberatamente non comparse203. Una costituzione di Valentiniano I del 371204 disponeva che la decisione dovesse essere scritta su un apposito libello e, ex libello, letta alle parti. Una costituzione di poco successiva dello stesso imperatore si preoccupava però di precisare quali fossero le formalità da rispettare nell’eseguire tale redazione : 203 C.I. 7.43.2 : Imp. Gord. A Severo. Cessante quoque causa peremptorii edicti adversus eos, qui admoniti iudicio adesse noluerunt, sententiam ab iudice posse ferri certum est. Gord. A. Severo. A 238 s. III k. aug. Pio et Pontiano conss. 204 C.I. 7.44.2 116 C.Th.4.17.1: (Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Probum p.p.). Statutis generalibus iusseramus, ut universi iudices, quibus reddendi iuris in provinciis permittimus facultatem, cognitis causis ultimas definitiones de scripti recitatione proferant. Huic adicimus sanctioni, ut sententia, quae dicta fuerit, cum scripta non esset, ne nomen quidem sententiae habere mereatur, nec rescissionem perperam decretorum appellationis sollemnitas requiratur. Dat. III non. dec. Treviris Gratiano A. III et Equitio V. C. conss. (3 dec. 374). Dall’esame delle costituzioni finora analizzate emerge perciò una particolare attenzione per la pubblicità e la necessità di verbalizzazione della sentenza che deve essere, a pena di nullità, tanto conservata per iscritto che solennemente letta agli interessati. Anche Giovanni Lido205, nel VI secolo, informa di come, in base all’antico costume osservato nel tribunale del prefetto del pretorio, la sentenza dovesse essere trascritta in un apposito schedario e poi presentata al magistrato per la sottoscrizione. A questo punto il segretario, consegnato il purum (ovvero l’originale) alle parti, ne redigeva una óõíïøéò in lingua latina, conservandola presso di sé, ðñïò êùëõìá ôïëìçñáò ðñïóèçêçò ç õöáéñåóåùò206. Essendo, come si può notare, le costituzioni imperiali in materia di procedimento penale contenute sia nel Codice Teodosiano sia nel Giustinianeo estremamente esigue, ritengo utile continuare a ricorrere alle fonti non giuridiche. Mi servirò di esse per acquisire la narrazione di quegli episodi concreti di vita processuale, di cui le fonti del diritto sono state tanto 205 Lyd. De mag. 3.2. CTh.16.5.55 : Gesta quae sunt translata in publica monumenta habere volumus perpetuam firmitatem, neque enim morte cognitoris perire debet publica fides 206 117 avare, non dimenticando però mai di sottolinearne la circoscritta attendibilità, anche alla luce dei pochi e sicuri riferimenti di carattere giuridico di cui dispongo. Per una sorta di rigore sia sistematico che cronologico, tra le varie testimonianze207 preferisco privilegiare inizialmente quella di Libanio. Libanio, non solo fu uno dei più importanti maestri di retorica del suo tempo, ma anche un uomo politico famoso, che si trovò ripetutamente coinvolto in prima persona, come accusato, in vicende giudiziarie relative a delitti, anche molto scabrosi208. Al di là dei racconti di corruzione, talora a forti tinte, che abbiamo già riportato e nei quali non si può non cogliere una palese vena tendenziosa e polemica, ciò che ora interessa è la descrizione della sequenza procedimentale delle cause, delle quali questo autore stesso fu protagonista e che narra con stile vivace, ma preciso, di particolare interesse è l’orazione 1.69 209. In essa Libanio racconta lo svolgimento del processo che si svolge nei suoi confronti, quando è accusato di magia ad Antiochia e a Nicomedia. Il processo viene rappresentato in uno scenario mutevole, scandito dalla disputa verbale tra l’accusato e l’accusatore, alla presenza del governatore e di una vasta folla. Tale svolgimento, che sembrerebbe ancora richiamare quell’idea arcaica di processo come lotta ormai stilizzata e solo verbale tra due antagonisti, è intervallata dall’arrivo di illustri personaggi, che si Tra le più note si possono ricordare quelle dei vescovi Basilio di Cesarea, Giovanni Crisostomo, Gregorio di Nazianzo e del retore Temistio. 208 Nell’Or.1.98 (1.131ss Forster; 138ss Petit) Libanio racconta di essere stato accusato di fronte all’imperatore di tenere in casa le teste mozzate di due donne. 209 1. 116 Forster; 126 Petit. 207 118 atteggiano a protettori dei due litiganti e che Libanio rappresenta come principale minaccia al corretto svolgersi del processo e al suo concludersi con una pronuncia conforme solo alla legge vigente. In particolare, il retore racconta come il sofista che lo aveva accusato non fosse riuscito, forse per l’emozione, a pronunciare il proprio discorso ed avesse imputato ciò ad un sortilegio dello stesso Libanio. Invitato dal giudice a dare almeno lettura delle proprie argomentazioni, ne era stato incapace e di fronte all’ordine di far leggere un terzo, aveva iniziato a pronunciare parole prive di senso. Al di là della rielaborazione certamente enfatica e letteraria della vicenda, ciò che importa notare è come il processo sia aperto al pubblico e basato sull’impulso delle parti che procedono, in apparente posizione di parità, ad un contraddittorio di fronte ad un giudice che dirige le operazioni e forma il suo convincimento. Libanio poi attesta la prassi, confermata anche da Ammiano Marcellino210, di tenere le udienze di notte, secondo lui al fine di sfruttare lo stato confusionale di quei momenti ed ottenere la confessione, che resta sempre la regina delle prove e che spesso veniva “stimolata” mediante il ricorso alla tortura. Sempre animata dall’intento di ricostruire la dinamica processuale, ritengo utile riportare la testimonianza di Procopio di Cesarea211. 210 Amm. 28.1.54 Su Procopio di Cesarea e sui suoi Anekdota si vedano, tra gli altri: B. Rubin, Prokopios vin Kaisareia, Stuttgart, 1954, ripreso in P.W., 23,1, 1957,273ss.; A. Carile, Consenso e dissenso fra propaganda e fronda nelle fonti narrative dell’età giustinianea, in L’imperatore Giustiniano. Storia e mito, a cura di G.G. Archi, Milano, 1978, 62ss.; A. Cameron, Procopius and the Sixth Century, London, 1984; H.G. Beck, Kaiserin Theodora und Prokop. Der Historiker und sein Opfer, München, 1986, trad. it., Lo storico e la sua vittima. Teodora e Procopio, Bari, 1988; F. Goria, Aspetti della giustizia penale nell’età giustinianea alla luce degli Anekdota di Procopio, in ARC, 11, 1996, 565. 211 119 Storico dell’età giustinianea, nato intorno al 500, divenne nel 562 prefetto di Costantinopoli, città nella quale morì poco dopo. I suoi Anecdota, benché mossi da un chiaro intento diffamatorio e quindi da valutare molto cautamente, quanto al loro reale apporto conoscitivo, costituiscono ugualmente, ai fini di questa analisi, una fonte preziosa in quanto le tematiche dell’amministrazione della giustizia e dello svolgimento dei processi vi compaiono in modo assai ricorrente. Da un esame globale dell’opera di Procopio212 emerge già come l’autore consideri il processo il mezzo più idoneo ad assicurare effettività al sistema giuridico attraverso “la repressione dei comportamenti devianti ”213. In particolare Procopio, che ai tempi di Belisario rivestì la carica di adsessor, individua la ricetta per una corretta amministrazione della giustizia in uno svolgimento processuale libero da condizionamenti esterni, basato su una certa uguaglianza di trattamento e vincolato al rispetto di determinate regole procedurali. Tra queste ultime, in particolare, cita la necessità di un accusatore 214 (quasi a testimoniare come ormai spesso se ne prescindesse), limiti alle testimonianze (per evitare che ciò si trasformi in uno strumento dilatorio e d’incertezza) e divieto di segretezza215. Tutte queste informazioni sono fornite da Procopio all’interno di un feroce “ j’accuse “ contro l’attività dei giudici che ancora una volta sono descritti come lenti e corrotti. 212 In particolare in tal senso: Anecd.7.19 ; 31; 40; 7.13.22; 7.14.20. Espressione mutuata da F. Goria, Aspetti, 566 214 Anecd.11.35. 215 Anecd. 20.12. 213 120 A differenza però di Libanio, che è un retore, Procopio, che forse ha compiuto studi giuridici, imposta in modo più tecnico la propria critica, così tramandando notizie importanti. Da Anecd.14.13, ad esempio, ricaviamo che Giustiniano, per porre rimedio all’inflazione processuale che affliggeva i magistrati della capitale, aveva istituito come loro delegati dodici ulteriori giudici che tenevano udienza nel portico del palazzo reale. Allo stesso modo lamentando la prassi del patrocinium216, Procopio narra come Giustiniano avesse introdotto, anche nei processi criminali, l’obbligo delle parti di prestare giuramento di non aver dato o promesso ai giudici o ad altri alcuna utilità a scopo di patrocinio, e ciò è confermato da Nov.Iust.124.1 del 546. Emerge tuttavia, anche dal racconto di questo autore, un quadro frammentario ed incerto, che, pur gettando luce su alcuni particolari interessanti, non si caratterizza come trattazione esaustiva della procedura penale. 3. La legislazione in materia di durata dei giudizi. Un versante che gli imperatori si dedicano a disciplinare con regolarità è quello relativo alla durata dei processi. A differenza del processo classico che non conosceva limiti di tempo217, quello tardo antico è sottoposto al rispetto di rigide restrizioni temporali. Il primo a stabilire un termine legale è Costantino il arriva a stabilire il 25 marzo 326 : 216 217 già vietato da Leone I nel 468 con CI.11.54.1. Così almeno ritiene B.Biondi, Il diritto romano, 510. 121 CTh.9.19.2.2: Ultimum autem finem strepitus criminalis, quem litigantem disceptantemque fas non sit excedere, anni spatio limitamus, cuius exordium testatae aput iudicem competentem actionis nascetur auspicium: capitali post probationem supplicio, si id exigat magnitudo commissi, vel deportatione ei qui falsum commiserit imminente. Proposita VIII kal. april. in Foro Traiani Constantino A. VII et Constantio C. conss. In questa costituzione, nella quale non è riportato il destinatario, ma che ritengo abbia comunque portata generale, facendosi riferimento ad un non meglio precisato strepitus criminalis, l’imperatore sancisce il termine di un anno218, quale spazio temporale entro cui debbano esaurirsi le corrispondenti attività processuali e fissa come dies a quo il giorno della proposizione dell’azione. L’imposizione di un arco cronologico così breve sembra rispondere a precise esigenze organizzative dell’impero, nel quale i ritardi della giustizia sono un motivo costante di lagnanze. La lentezza processuale viene tuttavia imputata, nell’ottica tardo imperiale, non solo al mancato rispetto del termine finale, ma anche all’eventuale desistenza dell’accusatore. Al di là dell’intervento di Teodosio del 380 (CTh.9.3.6) che riguarda essenzialmente il problema della carcerazione preventiva, ritengo utile per ora mettere a confronto una costituzione di Valentiniano del 385 218 Quanto alle origini del termine annale in ordine alla conclusione del processo penale, R. Bonini, Ricerche, 217 nt.130, osserva come esso abbia probabilmente iniziato ad affermarsi nella prassi (vedi D.48.16.15.5) e soltanto con CTh.9.19.2.2 abbia ricevuto riconoscimento legislativo in relazione al caso particolare del falso. In proposito: M. Wlassak, Anklage und Streibefestigung in Kriminalrecht der Römer, Wien, 1917, 102 e 206; M. Lauria, Calumnia, 124 nt. 6; J.A.C. Thomas, Prescription of Crimes in Roman Law, in RIDA, 3, 9, 1962, 428. 122 con una di Onorio del 409, riportateci entrambe anche dal Codice giustinianeo219 : CTh.9.36.1: (Imppp. Valent., Theodos. et Arcad. AAA. Desiderio vicario). Quisquis accusator reum in iudicium sub inscriptione detulerit, si intra anni tempus accusationem coeptam prosequi supersederit, vel, quod est contumacius, ultimo anni die adesse neglexerit, quarta bonorum omnium parte mulctatus aculeos consultissimae legis incurrat; scilicet manente infamia, quam veteres iusserant sanctiones. Dat. IV. id. iul. Treviris, Arcadio A. I. et Bautone coss. CTh.9.36.2 : ( Impp. Honor. et Theodos. AA. Caeciliano p.p.). Post alia: Noverint iudices cuilibet culmini honorive praesidentes, necessariis utrique parti, si petantur, dilationibus non negatis a die inscriptionis intra anni curricula criminales causas limitandas, quo emenso habeat accusator, quia destitit, poenam sibi legibus constitutam. In iudicum autem debet esse diligentia, ut, si nulla rationabilis a reo vel accusatore dilatio postuletur, urgeant talium causarum notionem, non exspectatis anni moris. Si vero accusator vel reus, propter documenta forsitan sibi necessaria, annum voluerint custodiri, dare assensum debet patientia cognitoris, in alteram partem severiorem formatura sententiam. Etc. Dat. XII. kal. febr. 219 A CTh.9.36.1 corrisponde nel Codice giustinianeo, seppure con qualche variazione, C.I.9.44.1: (Valentin. Theodos. et Arcad. AAA. Desiderio vic). Quisquis accusator reum in iudicium sub inscriptione detulerit, si intra certum tempus accusationem coeptam persequi supersederit vel, quod est contumacius, ultimo die adesse neglexerit, quarta bonorum omnium parte multatus aculeos consultissimae legis incurrat, scilicet manente infamia, quam veteres iusserant sanctiones. Invece CTh.9.36.2 è ripresa da C.I.9.44.2pr.: (Impp. Honorius et Theodosius AA. Caeciliano pp). Noverint iudices cuilibet culmini honorive praesidentes, necessariis utrique parti, si petantur, dilationibus non negatis praecedentibus scilicet inscriptionibus, intra certum tempus criminales causas limitandas: quo emenso subeat accusator, quia destitit, poenam legibus constitutam, et si persona vilior fuerit, cui damnum famae non sit iniuria, poenam patiatur exilii, nisi forte intra statuti temporis metas consensus partium abolitionem poposcerit. 123 Ravennae, Honorio VIII. et Theodos. III. AA. conss. 124 Nella costituzione del 385 sembrano delinearsi due diverse fattispecie a seconda della condotta tenuta dall’accusator, dopo aver ottemperato alla formalità dell’inscriptio: nel primo caso “intra anni accusationem coeptam persequi supersederit”; nel secondo invece si rende “contumax”220 fino all’ “ultimo anni die”. In entrambe le ipotesi, l’accusatore che con la sua condotta ha dimostrato un sostanziale disinteresse per il processo e le sue sorti, viene punito, sia con le interdizioni insite nella qualifica di infamis, sia con una sanzione pecuniaria pari ad un quarto del suo patrimonio. A voler applicare categorie concettuali di tipo moderno, si potrebbe quasi parlare di perenzione del procedimento per inattività di una parte221. La seconda costituzione riguarda invece le dilazioni accordabili agli intervenuti. Il legislatore, a questo proposito, pur invitando i giudici a concedere ad entrambe le parti, qualora lo desiderino, le necessarie dilazioni, ordina loro di vigilare affinché esse, sia da parte del reo che dell’accusatore, rispondano ad una giusta causa; diversamente i magistrati saranno tenuti ad affrettare la conclusione del processo, senza riconoscere alcuna proroga. La causa criminale - si precisa - dovrà comunque concludersi entro il termine di un anno222 dal giorno dell’inscriptio, altrimenti 220 Sul significato di contumacia si veda in generale E. Volterra, Osservazioni sull’ignorantia iuris nel Dir. Pen. Rom. (Appendice: contumacia nei testi giuridici romani), in BIDR, 38, 1930, 121ss. 221 Si è osservato come il comportamento dell’accusatore, in questi casi, non sia facilmente inquadrabile negli schemi classici della tergiversatio. Così almeno ritengono: M. Lauria, Calumnia, 124ss; B.Biondi, Il diritto romano, 507; In proposito il Lauria, seguito in ciò dal Brasiello, s.v. calumnia, in Enc. del Dir., 5, 1959, 816 sottolinea acutamente come nell’epoca giustinianea gli abusi perpetrati dall’accusatore tendessero ormai a confluire nel più ampio concetto di calumnia. In proposito si veda il § 1 di questo capitolo. 124 l’accusatore, considerato desistente, dovrà essere sottoposto alla pena prevista per legge. Qui, ancora una volta, il legislatore imperiale si trova evidentemente a bilanciare due esigenze parimenti importanti. Da un lato la necessità di concedere alla parte la possibilità di presenziare ed, eventualmente, di disporre del tempo necessario ad allestire la propria difesa; dall’altro, evitare che il riconoscimento di questa facoltà divenga oggetto di abusive dilazioni. Prima di procedere ad una più specifica ricostruzione delle scelte di politica legislativa sottese a tali interventi, credo utile anticipare l’innovativa disciplina dettata da Giustiniano in materia, al fine di procedere poi ad un esame comparato delle tre costituzioni. Giustiniano “affinché le liti non fossero quasi immortali e non eccedessero la misura della vita umana” dettò in C.I.9.44.3 del 529 rigorose prescrizioni, che sicuramente migliorarono la posizione dell’imputato in attesa di giudizio : C.I.9.44.3: (Iust. A. Menae. pp. A Decio vc.cons.) Criminales causas omnimodo intra duos annos a contestatione litis connumerando finiri censemus nec ulla occasione ad ampliora produci tempora, sed post biennii excessum minime ulterius lite durante accusatum absolvi, scientibus iudicibus eorumque officiis, quod, si litigatoribus admonentibus ipsis litis introductionem vel examinationem distulerint, poena vicenarum librarum auri ferientur. 222 Ritengo sia da sottolineare come nella versione teodosiana del testo, il potere discrezionale del giudice di concedere la proroga sia subordinato all’evenienza in cui le parti, fin dall’inizio del processo, abbiano concordato, di fronte al giudice, di dedicare il periodo annuale alla raccolta del materiale probatorio. In tal caso infatti il giudice è tenuto a rispettare l’accordo privato, salvo poi punire più severamente l’eventuale soccombente. Nella versione giustinianea invece tale norma è omessa, con un conseguente rafforzamento dei poteri discrezionali dell’organo giudicante circa la concessione o meno delle dilazioni. 125 La norma dispone che il processo penale sia sottoposto al termine perentorio e quindi estintivo di due anni, a partire dalla litis contestatio. Trascorso inutilmente siffatto periodo, senza essere pervenuti alla decisione della causa, l’accusato dovrà essere assolto e in aggiunta, qualora la mancata conclusione dipenda da un ritardo del giudice nella litis introductio o nell’examinatio (nonostante l’admonitio dei litigatores), lo stesso giudice e gli appartenenti al suo officium saranno soggetti ad una pena pecuniaria pari a venti libbre d’oro. Ritengo sia da notare come l’assoluzione, in questo caso, sia il mero riflesso dell’estinzione del processo, e quindi dell’accusa, e non l’effetto di un provvedimento formale adottato dal giudice, con la conseguente possibilità di riproporre l’accusa. Il vero valore di questo intervento legislativo si coglie, però, solo in quanto rapportato alla disciplina contenuta nelle costituzioni, di cui ci siamo già occupati e che sono recepite anche da Giustiniano. L’approccio contenuto in CTh.9.36.1 (=C.I. 9.44.1) e CTh.9.36.2 (= C.I.9.44.2) è ben diverso da quello di C.I.9.44.3: in quest’ultima infatti l’attenzione del legislatore, sempre ansioso di rendere più rapido il meccanismo processuale, si concentra non sul comportamento delle parti, ma su quello del giudice e più precisamente sull’ipotesi in cui questi rimanga inattivo, nonostante le ripetute sollecitazioni dei privati. Analizzando da un punto di vista più tecnico i rapporti intercorrenti fra queste tre costituzioni, si coglie, poi, come l’intervento giustinianeo risulti peculiare anche sotto il profilo della decorrenza del dies a quo. 126 Mentre in CTh.9.36.1 e 2 esso coincide con l’inscriptio, invece in C.I.9.44.3 s’identifica con la litis contestatio223. Al di là delle difformità sussistenti tra queste norme, ciò che va in ogni caso posto in risalto è come esse costituiscano un tentativo di ovviare, con un insieme di limiti temporali e di sanzioni tra loro diverse, agli inconvenienti connessi alla lentezza processuale. Gli imperatori manifestano ripetutamente questa esigenza e, sia che essa corrisponda ad una mera necessità di miglioramento della funzionalità degli apparati giudiziari, sia ad una volontà di diminuzione dei costi, connessi ad un prolungamento esagerato dei giudizi, in ogni caso, essa fa piena prova della tensione imperiale volta a rendere possibile una giustizia amministrata in quei “tempi ragionevoli”, posti a fondamento anche della moderna disciplina sul giusto processo. Va infine specificato, per ragioni di sistematicità, che l’esame di C.I.9.44.3 non si può esaurire in un mero coordinamento di questa costituzione con quelle appartenenti al suo stesso titolo, ma essa va Circa il dibattito intrapreso dalla moderna dottrina sull’effettiva natura della litis contestatio nel processo penale, si possono così sinteticamente riportare le principali posizioni: per primo il Wlassak, Anklage, 142ss. e 198ss., mise in dubbio l’autenticità delle fonti che estendevano tale istituto anche al processo penale. Esse, secondo l’autore, sarebbero state infatti il frutto delle interpolazioni dei compilatori giustinianei, i quali non avrebbero prestato attenzione al fatto che i classici non avessero mai impiegato l’espressione litis contestatio al di fuori del processo civile. Questa tesi finì per assurgere a communis opinio e, fra gli altri, aderirono ad essa: U. Brasiello, Repressione, 24 nt.19 e 340ss; G. Pugliese, Processo privato e processo pubblico, 73 e 102. Qualche riserva si riscontra invece nel Di Paola, La “litis contestatio” nella “cognitio extra ordinem” dell’età classica, in Ann. Sem. giurid. Univ. Catania, 2, 1947-1948, 288 nt.106. La tesi di Wlassak è stata sottoposta ad una accurata revisione da parte di A. Biscardi, Sur la “litis contestatio” du procès criminel, 307 ss., dato che, per tale autore, l’espressione litis contestatio nel processo penale sarebbe già stata usata in epoca classica per indicare quei sollemnia accusationis, successivi all’inscriptio ed idonei a costituire il rapporto processuale. 223 127 rapportata anche alle disposizioni collocate sotto altre rubriche e, in particolare, con quelle relative ai limiti di durata del processo imposti in caso di carcerazione preventiva dell’imputato. 3. I tempi del processo e la carcerazione preventiva. Cenni in tema di tortura. Tra disposizioni in materia di carcerazione preventiva224, il primo provvedimento che considero meritevole di attenzione, a questo La communis opinio in relazione al suddetto istituto è orientata a ritenere che all’affermarsi delle procedure extra ordinem, il carcere abbia riacquistato quella funzione di custodia, che aveva in parte perso durante l’ultima repubblica. Massimo esponente di questa linea di pensiero è Th. Mommsen, Strafrecht, 328ss., per il quale il ristabilimento della carcerazione preventiva trova la sua più ragionevole giustificazione in un’interpretazione estensiva delle eccezioni inserite nella Lex Iulia de vi publica, la quale limita il ricorso all’imprigionamento e alle altre misure restrittive della libertà personale alla presenza di determinate condizioni soggettive, quali ad esempio lo status di iudicatus o di confessus. Questa tesi accanto all’orientamento, sempre espresso da Th. Mommsen, Strafrecht, 963, secondo il quale l’ordinamento romano non avrebbe mai conosciuto la detenzione quale vera e propria pena di carattere criminale, ma solo come mezzo di coercizione magistratuale con l’unica funzione di misura in attesa del giudizio o della sua esecuzione, conta ormai tra i suoi sostenitori la stragrande maggioranza dei romanisti. Fra i principali ricordiamo: C. Ferrini, Diritto penale romano, estratto dall’Enciclopedia del diritto penale italiano, 1, Milano, 1902, 155ss; E. Costa, Crimini e pene da Romolo a Giustiniano, Bologna, 1921, 96; U. Brasiello, La repressione, 386; E. Levy, Gesetz und Richter im kaiserlichen Strafrecht, in BIDR, 45, 1938, 100 nt. 193,104, 211 (= in Gesammelte Schriften, 2, Köln-Graz, 1963, 463 nt.193 e 466 nt.211); G. Cardascia, L’apparition dans le droit des classes d’ “honestiores” et d’ “humiliores”, in RH, 28, 1950, 314; T. Mayer- Maly, s.v. Vincula, in PWRE, 8 a 2, Stuttgart, 1958, 2203ss. (che in parte avanza riserve, almeno con riguardo al diritto tardo classico, ma nella sostanza non si discosta formalmente dalla communis opinio); F. La Rosa, Nota sulla “custodia” nel diritto criminale romano, in Synteleia Arangio-Ruiz, 1, Napoli, 1964, 310; U. Brasiello, s.v. Pena, in NNDI, 12, Torino, 1965, 813; P. Garnsey, Social status and legal privilege in the Roman Empire, Oxford, 1970, 149; B. Santalucia, Lineamenti, 517. Per quanto riguarda i restanti autori si registra come unica eccezione rispetto all’opinione ormai consolidata S. Solazzi, La condanna ai “vincula perpetua” in CI.9.47.6, in SDHI, 22, 1956, 346 nt.1 (= Scritti di diritto romano, 6, Napoli, 1972, 716 nt.1). Si distacca dal resto della dottrina M. Balzarini, Il problema della pena detentiva nella tarda repubblica: alcune aporie, in Studi economico- giuridici, 54, 1991-1992 ripreso in Il problema della pena 224 128 riguardo, è una costituzione di Costantino del 31 dicembre 320225, in cui ci siamo già imbattuti nel primo capitolo: CTh.9.3.1pr (= C.I.9.4.1pr.-3): (Imp. Constantinus A. ad Florentium rationalem). In quacumque causa reo exhibito, sive accusator exsistat sive eum publicae sollicitudinis cura perduxerit, statim debet quaestio fieri, ut noxius puniatur, innocens absolvatur. Quod si accusator aberit ad tempus aut sociorum praesentia necessaria videatur, id quidem debet quam celerrime procurari. Interea vero exhibito non ferreas manicas et inhaerentes ossibus mitti oportet, sed prolixiores catenas, ut et cruciatio desit et permaneat fida custodia. Nec vero sedis intimae tenebras pati debebit inclusus, sed usurpata luce vegetari et, ubi nox geminaverit custodiam, vestibulis carcerum et salubribus locis recipi ac revertente iterum die ad primum solis ortum ilico ad publicum lumen educi, ne poenis carceris perimatur, quod innocentibus miserum, noxiis non satis severum esse cognoscitur. criminale tra filosofia greca e diritto romano. Atti del deuxième colloque de philosophie pénale (Cagliari, 20-22 aprile 1989), Napoli, 1993, 373-395; Id., La pena de encarcelamiento hasta Ulpiano, in Seminarios Complutenses de Derecho Romano, 1, Madrid, 1990, 221-234, il quale ritiene che non si possa ridurre il ruolo del carcere all’esclusiva funzione di custodia, in quanto il sistema romano avrebbe conosciuto, e non solo a livello di deviazione pratica, una vera e propria pena detentiva. In particolare l’autore di fronte all’ostacolo rappresentato alla sua tesi dal brano ulpianeo D.48.19.8.9 per il quale “…carcer enim ad continendos homines, non ad puniendos haberi debet…”, lo interpreta come un’opinione di Ulpiano espressa in una situazione di contingente opportunità. Questo passo rifletterebbe, pertanto, solo il pensiero di Ulpiano che il carcere, come luogo di pena, in caso di edificio sovraffollato, renderebbe più difficile la sua utilizzazione a fini preventivi che ne costituiscono la funzione primaria, ma non esclusiva. Per il resto evito di addentrarmi nella disputatio circa la configurabilità o meno di una pena carceraria romana, che esulerebbe dall’ambito di questo studio e inoltre richiederebbe molto più spazio, rimandando a M. Messana, Riflessioni storico – comparative in tema di carcerazione preventiva (a proposito di D.48.19.8.9 – Ulp. 9 De off. Proc.) in AUPA, 41, 1991 e A. Lovato, Il carcere, Bari, 1994. 225 Per i problemi di datazione di questa costituzione vedi supra capitolo 1 § 1 in cui aderisco alla ricostruzione proposta da O. Seeck, Regesten, 170. Qui si può aggiungere che la norma è pervenuta attraverso il manoscritto V (Vaticanus reginae 886) di origine incerta. A proposito rimando a Theodosiani libri XVI cum constitutionibus Sirmondianis, ed. Th.Mommsen e P.M. Meyer,1,1, Prolegomena, 44-46. 129 Questa disposizione226, nei Codici Teodosiano e Giustinianeo, apre il titolo De custodia reorum e, fin dalla sua formulazione iniziale, appare rivolta a sancire prescrizioni aventi carattere generale. Si dispone infatti che, sia quando l’accusa provenga da un privato accusatore, che quando sia frutto della publica sollicitudo, non appena l’accusato sia stato exhibitus, cioè incarcerato, l’istruttoria processuale abbia subito luogo, in modo che diventi possibile punire il colpevole o assolvere l’innocente. Nel caso poi in cui l’accusatore sia assente o emerga l’esigenza della partecipazione di eventuali correi, così da rendere necessario un rinvio, occorre comunque provvedere a ciò nel più breve tempo possibile ed assicurare, nel frattempo, al presunto colpevole in stato di custodia, determinate garanzie di trattamento. Prima del relativo approfondimento, è necessario sottolineare come questo intervento sembri attestare, dal suo esordio, la costante preoccupazione imperiale di abbreviare i tempi del processo, al fine di evitare che chi è innocente debba sopportare i disagi insiti nella condizione di accusato. Costantino tuttavia, pur manifestando il bisogno di circoscrivere temporalmente la durata della detenzione, a differenza di quanto farà Giustiniano, non perviene all’indicazione di termini precisi, bensì si limita solo a sollecitare l’inizio del dibattimento, per giungere ad una più rapida definizione della causa. Il suo intervento si qualifica, da questo punto di vista, come generico e di ciò mi riservo di fornire una possibile spiegazione tra poco. Ben più 226 Tra gli altri, si occupano di questa costituzione: U. Brasiello, La repressione, 488; B. Biondi, Il diritto romano, 439, 486, 508 e 513; R. Bonini, Ricerche, 130 precise ed accurate sono invece le prescrizioni costantiniane volte a migliorare le condizioni dell’accusato in attesa di giudizio all’interno del carcere. In tale lasso di tempo bisogna infatti che l’exhibitus non sia trattenuto con “manicae ferreae et inhaerentes ossibus”, ma con “prolixiores catenae”, sufficienti a garantire una “fida custodia”, pur senza sottoporre il presunto reo ad una eccessiva “cruciatio”. I compilatori giustinianei precisano ulteriormente che l’uso delle catene dovrà essere condizionato dalla “qualitas criminis”. Questa integrazione è di particolare importanza, in quanto sembra testimoniare un’evoluzione in senso garantistico nell’ambito delle ragioni giustificative del ricorso allo strumento dell’incatenamento. Mentre in Costantino l’uso delle “manicae ferreae” si configura infatti come un necessario complemento della detenzione, in epoca successiva si atteggia invece come eccezionale e limitato agli imputati di crimini più gravi. Le tendenze di favore di questa disposizione, che Gotofredo227 definì come “humanissima et christianissima” e che il Mommsen228 giudicò la prima a prescrivere un trattamento umano ai prigionieri, non sono però circoscritte ad un’attenuazione delle modalità di incatenamento dei detenuti, ma sono rivolte a realizzare un miglioramento generale delle condizioni dei carcerati, in relazione a tutti i loro bisogni primari. Si ordina così che le celle abbiano luce sufficiente, che solo di notte la custodia si attui completamente al chiuso e sempre in luoghi salubri, 143ss; G. Pugliese, Garanzie, 617; M. Messana, Riflessioni storico-comparative, 127ss; S. Pietrini, Sull’iniziativa, 71ss; A. Lovato, Il carcere, 178ss. 227 Gothofredus, ed. CTh. ad 9.3.1. 228 Th. Mommsen, Strafrecht, 304 131 mentre al primo sorgere del sole il recluso vada condotto all’aperto. La finalità di queste misure è dichiarata dallo stesso imperatore che, con esse, vuole evitare la morte dei reclusi attraverso la pena del carcere che lui stesso giudica come un supplizio intollerabile per gli innocenti, ma non abbastanza rigoroso per i colpevoli. Costantino, in questo suo intervento, non si accontenta poi di sollecitare genericamente ad un rapido espletamento dei processi e a dare disposizioni affinché le condizioni carcerarie non siano disumane, ma si fa anche carico di rendere effettiva la vincolatività di siffatte prescrizioni, approntando appositi e severi meccanismi sanzionatori nei confronti dei trasgressori. In primo luogo, al fine di proteggere gli innocenti da una carcerazione oltreché ingiusta anche tormentosa, fa assoluto divieto ai carcerieri di ricevere compensi dagli accusatori, sia per infliggere crudeltà, in modo da accelerare la morte dei prigionieri, sia per prolungarne le sofferenze, condannandoli di fatto ad una lunga agonia, che li porta a consumarsi lentamente fino a spegnersi. Ma non è tutto: anche gli stessi giudici sono resi responsabili e minacciati della sanzione capitale in caso di abusi commessi dai sorveglianti che abbiano causato la morte dei reclusi per inedia o altra causa. Costantino inaugura perciò un sistema di controllo “a piramide” che coinvolge non solo i semplici guardiani, ma anche alcuni dei più alti rappresentanti della burocrazia tardo antica, arrivando a comminare loro, ed è la prima volta che nella nostra analisi incontriamo qualcosa di simile, persino la pena di morte. Bisogna a questo punto cercare di ricostruire le ragioni di politica legislativa che si celano dietro una disposizione tanto rigorosa e, al 132 contempo, favorevole per gli innocenti. Accantonando la motivazione religiosa già da tempo smentita su più fronti229, rimane da verificare se tutto ciò non sia altro che il frutto di una mera operazione propagandistica rappresentata dall’adozione di principi umanitari nei confronti dei detenuti da parte di un legislatore che, secondo l’iconografia tradizionale, si deve ammantare di benignitas oppure risponda ad un’autentica volontà imperiale di miglioramento delle condizioni giudiziarie e carcerarie. 229 Il problema delle motivazioni profonde alla base delle scelte politiche costantiniane è molto dibattuto. Una breve sintesi della questione si trova in A. Lovato, Aspetti immorali della tutela nel basso impero, in Diritto e società nel mondo romano, 1, Como, 1988, 153-155 nt.110. Alcune posizioni dottrinali, per tutti B. Biondi, Il diritto romano, hanno cercato di dimostrare l’influenza cristiana sulla politica e sulla legislazione di Costantino, ma tali apporti sono stati ormai da tempo ridimensionati non solo in campo penale, ma persino familiare. In particolare per J. Gaudemet, Les transformations de la vie familiale au BasEmpire et l’influence du Christianisme, in Romanitas, 5, 1962, 58-85 (= Etudes de droit romain, 3, 281-310) l’influenza cristiana fu piuttosto limitata sia sulla normativa che nella vita quotidiana. Pertanto se queste influenze sono riscontrabili, esse possono essere provate solo per norme e questioni specifiche: è il caso ad esempio di CTh.15.12.1 del 1° ottobre 325 che vieta la condanna ai ludi gladiatorii e la sostituisce con quella ai metalla. Con tale disposizione Costantino esprime la propria disapprovazione per i cruenta spectacula, offerti dai giochi gladiatori e sono state individuate nelle Divinae Institutiones di Lattanzio 6.20.1012 le possibili fonti ispiratrici del divieto. Ci sono invece altri casi in cui i provvedimenti di Costantino sembrano in netto contrasto con gli ideali cristiani ed è il caso delle norme in materia di vendita dei neonati e di diritti della personalità. Sul punto si veda G. Crifò, Diritti della personalità e diritto romano cristiano, in BIDR, 64, 1961, 33-59; Id., Cristianesimo, diritto romano, diritti della personalità: una rilettura, in Hestiasis. Studi di tarda antichità, Messina, 1991, 373-386. Sugli studi costantiniani del Burckhardt per il quale l’azione politicolegislativa di Costantino non risponde ad una fede sincera nella religione cristiana, ma a mere esigenze propagandistiche, si veda S. Mazzarino, Burckhardt politologo. “L’età di Costantino” e la moderna ideazione storiografica, in Il basso impero. Antico, tardoantico ed era costantiniana, 1, Bari, 1974, 32-50. Come opere di sintesi sulla problematica in esame segnalo infine: V. Aiello, Alle origini della storiografia moderna sulla tarda antichità: Costantino fra rinnovamento umanistico e riforma cattolica, in Hestiasis. Studi di tarda antichità, 281-312; F. Amarelli, I problemi di metodo per lo studio delle fonti relative ai rapporti tra cristianesimo e diritto romano, in Metodologie della 133 A tal fine ritengo utile osservare in primo luogo quanto il ragionamento sotteso alle disposizioni costantiniane di cui ci stiamo occupando sia ricco di implicazioni. Costantino non si limita infatti a sancire che, essendo il carcere una misura penosa per gli innocenti, ne va limitato l’uso, ma detta una disciplina sintomatica di un’impostazione di fondo ben più articolata. Se analizziamo l’affermazione per cui “il carcere è troppo per un innocente e troppo poco per un colpevole” ne risulta che, mentre la seconda dichiarazione non fa che confermare, ancora una volta, il carattere di misura solo preventiva e non anche punitiva del carcere, la prima invece porta a ben altre considerazioni. In particolare se ne può desumere che nelle prigioni soggiornano due categorie ben distinte di soggetti: quelli in attesa di giudizio e quelli in attesa di esecuzione. Tuttavia, posto che lo status di innocente è sempre successivo all’accertamento giudiziario, sorge spontaneo un dubbio: o Costantino, sapendo perfettamente che nelle sue aule spesso si condannano anche innocenti, con tali disposizioni vuole combattere questo abuso, oppure è in lui implicito il principio per cui ciascuno è innocente fino alla condanna. Il problema si concentra quindi nello stabilire quale fosse il fine perseguito da Costantino e due sono le possibili letture. 1) L’imperatore vuole, ancora una volta, di fatto, solo giudizi più veloci, per avere carceri meno affollate e le disposizioni umanitarie circa il trattamento dei detenuti hanno solo intento propagandistico, così come le sanzioni previste per i giudici che, nell’intenzione ricerca sulla tarda antichità. Atti del Primo Convegno dell’Associazione di Studi Tardoantichi, a cura di A. Garzya, Napoli, 1989, 11-23. 134 imperiale, rimarrebbero solo sulla carta. Non è però questa la tesi che privilegio. 2) Costantino mira a chiarire a giudici, funzionari e guardiani in genere, quale debba essere la funzione del carcere. Mancando una precedente disposizione generale in materia, Costantino, da poco combattuto il fenomeno delle carceri private, si occupa ora di quelle pubbliche. Chiarisce perciò che il carcere non è una punizione, ma un luogo di custodia in attesa del processo o comunque della pena e che pertanto non deve diventare pretesto per eliminare, prima del tempo, i rei o per perpetrare corruzioni. Il carcere, per l’imperatore, serve solo ad assicurare alla giustizia il presunto reo, a far sì che non scappi prima del giudizio (di qui l’uso delle “manette”) e non deve perciò trasformarsi in un “lager” in cui le influenze corruttrici dei privati possono anticipare la sentenza. Il fatto poi che Costantino non fissi limiti di durata alla carcerazione, sembra avvalorare la tesi per cui il suo vero fine non è tanto abbreviare la reclusione, quanto impedirne un uso distorto. A conferma di tale indirizzo si può notare che, sempre a Serdica e sempre nel 320, ma in febbraio, con CTh.11.7.3 egli condanna l’uso della detenzione come strumento di pressione contro i debitori, in una vera e propria lotta alle carceri private. Ciò potrebbe avvalorare quanto detto sopra. Sempre a questo proposito si può poi riportare CTh.11.30.2230 del 313 indirizzata a Catullino, praeses Byzacenae, in cui si vieta che l’appellante subisca il carcere o altri mezzi di pressione, tranne che in A riguardo anche U. Vincenti, “Ante sententiam appellari potest”, Contributo allo studio dell’appellabilità delle sentenze interlocutorie nel processo romano, Padova, 1986, 102. 230 135 relazione ad alcuni particolari gravi delitti e soprattutto CTh.8.4.2231 del 315, che è un editto ad Afros in cui si vieta agli stationarii232 di allestire private carceri e trattenere in custodia presso di sé anche soggetti colti in flagranza di reato. In entrambi questi casi, Costantino cerca di riportare la giustizia nei suoi circuiti ordinari ovvero tenta di far sì che il presunto reo o il condannato, che si appella, non corra il rischio di un’eliminazione anzitempo, che riporterebbe l’amministrazione della giustizia in quell’ottica della vendetta personale e privata incompatibile, non tanto col concetto di stato di diritto, che non c’è ancora, quanto con la più elementare forma di governo. Anche dopo il 320, Costantino prosegue in questa direzione come dimostra CTh.9.3.2233 del 3 febbraio 326 indirizzata ad Evagrium praefectus praetorio in cui si dispone che, quando si sia accertata la colpevolezza dell’imputato di qualche crimine, questi debba sostare in carcere, mentre si procede alla commemoratio in pubblico del crimine commesso, al fine di evitare eccessi repressivi nella comminazione della pena, mediante un controllo della collettività. Se interpretata letteralmente, anche questa disposizione si mostra di una modernità 231 Si occupa, tra gli altri di questo testo, C. Dupont, Le droit criminelle. Les infractions, 114. 232 Da G. Lanata, Morire di chirurgia o morire di polizia? Variazioni sulla Novella 13, in Società e diritto nel mondo tardoantico. Sei saggi sulle novelle giustinianee, Torino, 1994, 15-16 si apprende che “…agli stationarii era soprattutto demandata la caccia ai banditi; una volta catturato il reo essi dovevano stendere l’elogium, un breve rapporto, inviato al governatore della provincia insieme all’arrestato, il quale veniva sottoposto a regolare procedimento…”. 233 CTh.9.3.2: (Constantinus A. ad Evagrium). Si quis in ea culpa vel crimine fuerit deprehensus, quod dignum claustris carceris et custodiae squalore videtur, auditus aput acta, cum de admisso constiterit, poenam carceris sustineat atque ita postmodum eductus aput acta audiatur. Ita enim quasi sub publico testimonio commemoratio admissi criminis fiet, ut iudicibus inmodice saevientibus freni quidam ac temperies adhibita videatur. Dat. III non. feb. 136 notevole. In sintesi perciò, a mio parere, tali disposizioni non sono né solo programmatiche, né così illuminate da anticipare i presupposti delle moderne misure cautelari234, ma si prefiggono solo di evitare gli abusi possibili attraverso la carcerazione e anche questa, a suo modo, è una garanzia da non sottovalutare. La legislazione successiva a Costantino riprende e sviluppa, in tema di carcerazione preventiva, i motivi a cui si era ispirata la normativa precedente ed in particolare l’imperatore Costanzo emana almeno quattro disposizioni che ritengo utile segnalare. Il 6 dicembre 337 con CTh.11.7.7235, indirizzata al governatore della Sardegna Bibulenio, Costanzo si dichiara sfavorevole alla reclusione inflitta per debiti e, riprendendo sostanzialmente i temi già espressi dal padre in CTh.11.7.3, riafferma il divieto di incarcerare i debitori. Più originali sono gli interventi successivi ed in particolare, con una costituzione del 18 ottobre 338236, CTh.9.1.7, indirizzata al prefetto del pretorio Domizio Leonzio, l’imperatore stabilisce che coloro che siano stati incarcerati sulla base di accuse infondate debbano veder completata l’istruttoria del proprio procedimento entro il termine massimo di un mese. Neanche due anni dopo e più precisamente il 5 aprile 340, con un altro provvedimento, CTh.9.3.3, questa volta diretto Heracleae Constantino A. VII et Constantio Caes. conss. 234 Ad oggi i presupposti delle misure cautelari sono tre e si identificano in base all’art. 274 c.p.p. nel pericolo di fuga e di reiterazione del reato o nell’inquinamento di prove. 235 Per un esame di questa costituzione si rimanda a O. Robinson, Private prison, in RIDA, 15, 1968, 389ss. 236 La datazione di questa costituzione al 338 contrasta con la qualifica di prefetto del pretorio attribuita al destinatario, posto che Domizio Leonzio rivestì tale carica solo dal 340 al 344. Si è quindi preferito optare per un errore di qualifica e ritenere che la norma, benché del 338 fosse indirizzata a Leonzio in qualità di vicarius Asiae. Così, tra gli altri, ritiene A.H.M. Jones, Il tardo, 1, 502. 137 al prefetto del pretorio Acyndinus, Costanzo237 dispone invece, su tutt’altro fronte, la separazione dei luoghi di prigionia per uomini e donne. Infine nel 355, con CTh.6.29.1, sulla scia di quanto già disposto da Costantino, scoraggia un uso arbitrario e personale del potere di arresto nelle mani dei funzionari imperiali stabilendo la necessità, anche per stationarii e curiosi, di provare le proprie accuse. Rimandando per l’esame di quest’ultima costituzione a quanto già detto e trascurando la prima, in quanto meramente ripetitiva di disposizioni precedenti, posso per ora limitarmi a notare che, in generale, le problematiche, a cui gli interventi costanziani cercano di fornire una risposta, non sono molto diverse da quelle già affrontate da Costantino. Non ritengo utile quindi soffermarmi eccessivamente su di esse, se non per sottolinearne qualche aspetto innovativo. In particolare, mentre CTh.9.3.3 continua a rispondere ad un’esigenza di umanizzazione delle condizioni carcerarie, mediante un miglioramento degli standard igienico-sanitari ed una maggior attenzione per i bisogni propri delle diverse categorie di detenuti, le donne238 in primo luogo che in quanto più deboli avrebbero potuto essere bersaglio di ancora più gravi abusi, invece CTh.9.1.7 detta una disposizione meritevole di approfondimento. Benché l’inscriptio della versione giustinianea C.I.9.4.3 attribuisca tale costituzione a Costantino, il fatto che il destinatario di essa sia Acindynus che ricoprì la carica di prefetto del pretorio dal 338-340 non lascia dubbi circa la reale paternità di Costanzo. Sul punto si veda T.D. Barnes, Praetorian prefects, 337361, in ZPE, 94, 1992, 253 e nt.18 (= From Eusebius to Augustine. Selected papers 1982-1993, Aldershot, 1994, 13). 238 Per B. Biondi, Il diritto romano, 514 tale disposizione è a garanzia della pudicitia ed ha la stessa ratio della Nov.134.9.1 per la quale “…le donne, sia pure colpevoli di gravi reati, non possono essere trattenute nelle carceri comuni, ma rinviate nei monasteri o affidate ad altre donne, in guisa che siano custodite pudicamente”. 237 138 La traduzione di A. Lovato239 per cui tale norma limiterebbe l’operatività del termine perentorio di trenta giorni per l’espletamento dell’attività istruttoria ai soli casi in cui l’imputato sia stato sottoposto a custodia in carcere, sulla base di delazioni, se intese come false accuse, non mi soddisfa. Reputo infatti che il carattere delatorio o meno di una accusa possa emergere solo al momento conclusivo delle indagini e non già all’apertura dell’istruttoria; inoltre accogliere una simile interpretazione darebbe luogo ad un paradosso. Mi spiego: pensare che il termine di trenta giorni operi solo in caso di accuse infondate implica attribuire a tale previsione una scarsissima incidenza pratica. Se infatti l’accusa è inizialmente considerata fondata e poi solo in seguito riconosciuta come non tale, il termine non ha operato; se invece fin da subito è nota l’inconsistenza dell’accusa, viene meno la stessa esigenza di aprire il procedimento e quindi di far decorrere il termine. Credo quindi che la soluzione più ragionevole sia quella di attribuire al riferimento alla delatio contenuto in CTh.9.1.7240 un altro significato e in ciò aderisco all’opinione espressa da S. Pietrini241 per la quale in certi casi per delator si indica solo “colui che si limita ad una mera denuncia, senza voler assumere la veste di accusato”. Se ne desume una generale operatività del termine breve di trenta giorni in tutti i procedimenti avviati d’ufficio, con il conseguente 239 A. Lovato, Il carcere, 186. CTh.9.1.7: (Imp. Constantius A. Domitio Leontio p.p.). Ii, quos custodia delatae criminationis includit, intra unius mensis spatium audiantur inquisitione completa, ne, si delati criminis causam segnius iudicantis lenitudo distulerit, reciprocos poenae sortiatur incursus. Dat. XV kal. novemb. Urso et Polemio conss. (338 oct. 18). 241 S. Pietrini, Sull’’iniziativa, 103 nt.143. 240 139 riconoscimento di una vera garanzia di rapidità, qualora tale periodo corrisponda ad un’effettiva solerzia nell’attività investigativa e non diventi invece pretesto per istruttorie sommarie. Uno dei più importanti interventi tardo antichi in materia di carcerazione preventiva rimane, in ogni caso, la costituzione emanata da Teodosio I a Costantinopoli il 30 dicembre 380. L’intervento indirizzato al praefectus praetorio Illyrici Eutropius ed avente portata generale è riprodotto in entrambi i Codici in due parti242, l’una collocata sotto il titolo de exhibendis vel transmittendis reis, l’altra nel de custodia reorum. Prima di passare ad esaminarne il testo, ritengo utile accennare brevemente al clima243 in cui tale disposizione vide la luce. Appena dieci mesi prima e più precisamente il 28 febbraio 380, l’imperatore Teodosio, con una scelta sicuramente più politica che spirituale, aveva emanato a Tessalonica il celebre editto nel quale proclamava il cristianesimo religione ufficiale dell’impero. Questo avvenimento, insieme all’attestata influenza esercitata da Ambrogio244, vescovo di Milano, sull’imperatore, influì grandemente sul tenore della norma in tema di carcerazione preventiva, anche se gli Non è da condividere l’idea di M. Messana, Riflessioni storico-comparative, 70 per cui si tratterebbe di due provvedimenti distinti e che l’autrice motiva adducendo che CTh.1.1.5 del 26 marzo 429 autorizzava l’inserimento di parti di una stessa costituzione in titoli diversi. Su tale problema si veda anche G. de Bonfils, CTh.12.1.157-158 e il prefetto Flavio Mallio Teodoro, Bari, 1994, 16-24 per il quale “…la frammentazione era forse un modo consueto di lavorare per i compilatori dei due codici…”. 243 Da segnalare in proposito è il lavoro di A. Di Mauro Todini, Aspetti della legislazione religiosa del IV secolo, Roma, 1990, in cui l’autrice si occupa del contesto storico e del dettato normativo dell’editto, 117-143. 244 Sul problema dei conflitti ideologici che dividevano Ambrogio e Teodosio, si veda G. Vismara, Ambrogio e Teodosio: i limiti del potere, in SDHI, 56, 1990, 256-269 e N.Q.King, The Emperor Theodosius and the establishment of Christianity, London, 1961, 68ss. 242 140 apporti cristiani non vanno comunque esagerati. Passiamo ad un esame della prima parte della norma emanata il 30 dicembre 380: CTh.9.2.3: (Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Eutropio p.p). Nullus in carcerem, priusquam convincatur, omnino vinciatur. Ex longinquo si quis est acciendus, non prius insimulanti adcommodetur adsensus quam sollemni lege se vinxerit et in poenam reciproci stilo trepidante recaverit. Eique qui deducendus erit ad disponendas res suas componendosque maestos penates spatium coram loci iudice aut etiam magistratibus dierum xxx tribuatur, nulla remanente aput eum qui ad exhibendum missus est copia nundinandi. Dat. III kal. ian. Constantinopoli Gratiano V et Theodosio I AA. conss. Già l’inizio di questa disposizione ha creato notevoli problemi interpretativi. Infatti, mentre alcuni autori245 hanno riconosciuto nell’affermazione “Nullus in carcerem, priusquam convincatur, omnino vinciatur” un inequivocabile divieto di carcerazione preventiva, altri hanno cercato di fornire spiegazioni ulteriori246. Così reputano, tra gli altri, U. Brasiello, La repressione, 487; R. Bonini, Ricerche, 141; G. Pugliese, Garanzie, 617; S. Giglio, Relatio 49, 584-585; N. Scapini, Diritto e procedura penale nell’esperienza giuridica romana, Parma, 1992, 156. 246 Ad esempio M. Messana, Riflessioni, 132 interpreta tale disposizione “…nel senso che soltanto fondati indizi di colpevolezza possono consentire l’impiego della custodia carceris…”. L’autrice tuttavia, sul presupposto che si tratti di due provvedimenti distinti, incontra difficoltà a coordinali in quanto, osserva, il primo sembrerebbe vietare ogni carcerazione preventiva, il secondo si soffermerebbe su alcune modalità della stessa. Questo accade perché la studiosa si fonda sull’erronea convinzione che Teodosio avesse abolito la custodia carceraria. Al contrario A. Berger, Procanon. Note on a rare term in the scholia to the Basilica, in Festschrift Schulz, 2, 1951, 18, osserva a proposito di questa costituzione che con essa si stabilisce che la popolazione non può essere arrestata e trattenuta in carcere per lungo tempo senza processo. 245 141 Secondo me la soluzione della questione dipende dal significato che si intende attribuire al verbo “convincere”. Se infatti lo si interpreta letteralmente come “provare la colpevolezza di qualcuno”, la frase in esame contiene il divieto di imprigionare l’imputato prima che ne sia dimostrata la colpevolezza. Tuttavia a questo punto s’impongono due possibili letture esegetiche a seconda del senso attribuito all’altra forma verbale contenuta nella proposizione e cioè “vincire”. Se a tale termine si assegna il significato traslato di “imprigionare”, si può effettivamente supporre che l’imperatore volesse vietare l’utilizzo del carcere nei confronti di persone in attesa di giudizio, riservando ormai tale misura a quelle condannate e da giustiziare. Se invece si privilegia il significato letterale e storico del verbo e cioè quello di “ legare, incatenare, mettere in ceppi ”, allora la garanzia si ridimensiona notevolmente. Teodosio, in quest’ultimo caso, non avrebbe infatti bandito il ricorso alla detenzione preventiva, bensì, con una disposizione ricca di umanità, ma, in ogni caso, né più né meno in linea con quella dei suoi predecessori, si sarebbe limitato a combattere l’invasiva e crudele pratica dell’incatenamento. Ritengo di dover aderire a quest’ultima ipotesi che, pur restringendo molto la portata garantistica dell’intervento teodosiano, mi sembra comunque l’unica accettabile. A Teodosio tuttavia non basta regolare le modalità pratiche di detenzione in carcere, stabilendo il ricorso alle catene solo in caso di accertamento della colpevolezza, per cui detta altre norme interessanti di sostegno all’accusato. Sempre in questa costituzione si specifica infatti che, qualora si renda 142 necessaria una traduzione ex longinquo, il magistrato possa concedere la relativa autorizzazione solo quando l’accusatore abbia esaurito i sollemnia accusationis e che al deducendus debba essere concesso uno spazio di tempo, pari a trenta giorni nella versione teodosiana ed identificato in un più generico sufficientes dies, comunque non inferiore a trenta giorni, in quella giustinianea, per consentirgli di disponere res suas e di componere maestos penates. Si instaura in questo modo un regime più aperto agli interventi dell’autorità giudiziaria, in astratto notevolmente più favorevole al reus deducendus di quello precedente247. Un orientamento analogo si riscontra nel secondo frammento della costituzione databile 30 dicembre 380 dove compare l’ormai celebre riferimento alla velox poena : CTh.9.3.6: (Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius AAA. Eutropio p.p). De his quos tenet carcer id aperta definitione sancimus, ut aut convictum velox poena subducat aut liberandum custodia diuturna non maceret. Temperari autem ab innoxiis austera praeceptione sancimus et praedandi omnem segetem de neglegentia iudicum provinciarum ministris feralibus amputamus. Nam nisi intra tricensimum diem semper commentariensis ingesserit numerum personarum, varietatem delictorum, clausorum ordinem aetatemque vinctorum, officium viginti auri libras aerario nostro iubemus inferre, iudicem desidem ac resupina cervice tantum titulum gerentem extorrem impetrata fortuna decem auri libris multandum esse censemus. Con particolare decisione l’imperatore esordisce ammonendo che “o il reo è velocemente sottoposto alla pena prevista oppure una lunga 143 custodia non tormenti chi deve essere liberato”. In questo modo Teodosio riprende l’idea già espressa da Costantino, per la quale la detenzione deve rappresentare un momento di passaggio prima della destinazione finale dell’imputato e non una misura permanente, sostitutiva della pena. Al fine di garantire l’effettività di tale prescrizione, come aveva già fatto il suo predecessore, anche Teodosio continua a combattere le possibili corruzioni e negligenze. Di particolare interesse è l’obbligo imposto al commentariensis248 di redigere un resoconto mensile contenente l’annotazione del numero e delle persone incarcerate, dei capi di imputazione e di tutti gli altri elementi utili a identificare i detenuti. Il proposito manifestato da Teodosio non si discosta perciò molto da quello alla base degli interventi su cui ci siamo già soffermati. Tale disfavore per una carcerazione prolungata non fa quindi altro che confermare le tristi narrazioni di Libanio sulla disperata condizione dei reclusi249. A causa della lentezza dei giudizi e delle condizioni igienico-sanitarie, infatti, la vita dietro le sbarre si trasforma in una lenta ed inesorabile Di questo parere sono già S. Giglio, Relatio 49, 585; D. Vera, Commento storico alle relationes di Quinto Aurelio Simmaco, Pisa, 1981, 345; R. Bonini, Ricerche, 142 e ntt.146-147. 248 Il testo non chiarisce a quale ufficio debba appartenere questo funzionario, tuttavia essendo la costituzione indirizzata ad un prefetto del pretorio ritengo plausibile individuare tra i suoi collaboratori il commentariensis in questione. Sui commentarienses in generale: A. Premerstein, A commentariis, in RE, 4, 1, 1900, 766ss. Sull’attività di questi funzionari nell’officium del prefetto del pretorio: F. De Martino, Storia, 306 e nt.60 che cita tra le fonti Lyd., de mag.3.16-18; quanto invece all’officium del prefetto urbano: W.G. Sinnigen, The officium of the Urban Prefecture during the Later Roman Empire, Rome, 1957, 57ss. 249 Lib, Or.33.30ss (3.180ss Forster). 247 144 condanna a morte, consumata in celle gremite all’estremo250 che facilitano l’atroce agonia non solo dei criminali, ma anche dei colpevoli di reati minori, dei testimoni e degli innocenti. “Le prigioni sono stipate di corpi - scrive Libanio nell’orazione 45 - nessuno esce, o solo pochissimi, per quanto moltissimi vi entrino … i reclusi vivono in condizioni pessime, non riescono neanche a distendersi per dormire251, il loro cibo è scarso e cattivo e vivono nella preoccupazione di coloro che hanno lasciato, soprattutto mogli e sorelle, che se brutte o vecchie, si vedono costrette all’accattonaggio e se giovani e avvenenti, alla prostituzione…”. Gli stessi carcerati hanno poi bisogno di denaro sia per procurarsi beni di prima necessità (ad esempio lampade ad olio) sia per sfuggire alle torture e alle percosse, e se non ne dispongono sono sottoposti ai tormenti e la loro unica salvezza è l’intercessione delle donne votate alla filantropia252. Accade così - conclude amaramente Libanio - che gli uomini in attesa di giudizio muoiono a migliaia, mentre gli accusatori restano impuniti Lib, Or. 33.41 ss (3.186 Forster) sempre con riguardo alla crudeltà del giudice Tisameno, Libanio ricorda : “ Continuava ad aumentare il numero dei prigionieri, non ne lasciò mai nessuno né per i tribunali né per l’esecuzione; conseguenza era che risultava più facile per i prigionieri rendere l’anima che vedere le ossa cacciate fuori della pelle. Egli stipò le prigioni di corpi e motivo di morte era il gran numero dei prigionieri. La maggior parte di questi non meritava la prigione, ma neppure quelli che la meritavano avrebbero dovuto soffrire una morte come questa. La legge prevedeva il taglio della testa, ma non che restassero soffocati a causa del sovraffollamento. In questi casi la rapidità del procedimento è il bene della vittima”. 251 Lib, Or.45.8 (3.362 Forster) 252 Tali donne di cui parla Libanio sono state individuate dalla communis opinio nelle diaconesse, che avevano come occupazione principale proprio quella della carità. In materia, tra gli altri: R. Gryson, Il ministero della donna nella chiesa antica, trad.it., Roma, 1974; A.G. Martimort, Les diaconesses, Roma, 1982; M.G. Bianco, Diaconesse, in Diz. Patr. e di Ant. Crist. dir. da A. Di Berardino, 1, 1983, 934ss. 250 145 e i giudici indugiano in piacevolezze e si esimono arbitrariamente dal rendere giustizia253. Nella stessa orazione 45, “Sui prigionieri”, Libanio ipotizza le ragioni di tale sovraffollamento e le individua, in parte, nella prassi delle delazioni, già riscontrata in Ammiano. Ridurre il numero dei reclusi, in relazione alle strutture carcerarie esistenti, era un vero problema politico che aveva tra i suoi risvolti più temuti, oltre al sovraffollamento, rischi di epidemie, disordini ed evasioni. Tuttavia, ancora una volta, la ricetta imperiale continua ad essere incentrata sui soliti semplici punti: istruttorie celeri per abbreviare i tempi di detenzione, lotta alle corruzioni e alle accuse infondate e nel frattempo miglioramento delle condizioni dei detenuti in un’ottica non solo umanitaria, ma anche di ordine pubblico, senza però fissare termini massimi di custodia. Neanche con la morte di Teodosio e la conseguente ed irreversibile divisione delle due partes imperii254, la situazione, ormai cristallizzata, sembra cambiare, in quanto gli imperatori continuano a tornare sui precedenti divieti, a riprova della mancata effettività delle passate disposizioni. 253 Lib, Or.45.25-26 (3.371ss Forster) riferisce come Tisameno, dopo aver a lungo rimandato un’udienza per omicidio, finalmente la svolse, ma, poco dopo, l’interruppe annoiato, con il pretesto di essere disturbato dal canto dei monaci che, in quel mentre, stavano entrando in Antiochia. La conseguenza fu un ulteriore allungarsi dei tempi di quel processo che mai si concluse, dato che cinque degli accusati morirono per la troppo lunga detenzione, senza che si facesse luce sulle loro effettive responsabilità. 254 Bisogna chiedersi se tale separazione sia stata causa di una qualche diversità di prospettive nelle due cancellerie imperiali circa l’impiego del carcere. Un comune disfavore verso la misura detentiva è comunque avvertibile, tra la fine del IV e gli inizi del V secolo, tanto in Occidente (per esempio CTh.9.38.6) che in Oriente (si veda CTh.9.1.18). 146 Proprio a conferma del fatto che uno dei principali mali del tardo antico era la mancata osservanza delle prescrizioni imperiali, si può sottolineare come il legislatore, dopo il 380, non si accontenti più di reiterare il divieto di carceri private o di ribadire il disfavore per le detenzioni prolungate, ma miri a punire coloro che di siffatte degenerazioni potevano considerarsi responsabili e cioè quei funzionari, per lo più appartenenti ai corpi di polizia255, che in pieno contrasto con i propri compiti istituzionali, si servivano di prigioni private per estorcere confessioni o privavano della libertà personale i presunti rei senza averne i poteri. Il primo abuso venne colpito nel 388 con l’incriminazione per lesa maestà tramite CTh.9.11.1. Nei confronti del secondo, invece, l’imperatore Arcadio nel 395, con una serie di disposizioni rivolte a Marcello magister officiorum, sancì la netta separazione delle funzioni di giudici ed agentes in rebus, proibendo a questi l’esercizio del potere di arresto. E’ però con l’imperatore Onorio che troviamo una nuova risposta al problema del coordinamento tra esigenze di rapidità del processo e tempi della carcerazione preventiva. Mentre nel 395 con CTh.9.1.18 Arcadio, al fine dichiarato di combattere l’inerzia dei giudici e i conseguenti differimenti della decisione, non fa che riproporre il rimedio tradizionale: diminuire i tempi di carcerazione al fine di ottenere una più rapida definizione del giudizio; invece Onorio, in CTh.9.2.5 del 409, indirizzata a Ceciliano prefetto del pretorio, introduce quello che potrebbe apparire un nuovo istituto. 255 Sui corpi di polizia tardoimperiali si sofferma in particolare F. Paschoud, Frumentarii, agentes in rebus, magistriani, curiosi, veredarii: problèms de terminologie, in BHAC, 10, 1979-1980, 215-243. 147 Limitatamente ad una serie tassativa di crimini256, dispone che i rei, qualora sorpresi in flagranza di reato, siano esentati dalla carcerazione preventiva ed immediatamente condannati, in una sorta di antesignano del moderno giudizio direttissimo. Negli altri casi il giudizio si svolge invece secondo le regole di CTh.9.2.6257 emanata da Onorio il 21 gennaio 409: essa consente all’imputato, qualora lo desideri, di usufruire di trenta giorni sub moderata et diligenti custodia al fine di sistemare i propri affari personali, anche in vista della necessità di sostenere le spese processuali. E’ da notare come sia nel provvedimento del 380, che in quello del 409 ricorra il termine di 30 giorni. Tuttavia mentre il primo sembra volto ad escludere abusi da parte dei funzionari del governatore nel compimento dell’exhibitio, invece il secondo presenta specifici riferimenti all’ambito municipale (municipalibus actis interrogari). Andando avanti con i decenni, si nota che la prospettiva formalmente garantista della posizione degli accusati, in qualità di detenuti, prosegue e si consolida anche con il legislatore giustinianeo, ma con una sostanziale differenza. Mentre gli imperatori, che si erano succeduti dal IV fino agli inizi del VI secolo, avevano adottato numerose seppur generiche prescrizioni, Essi sono la rapina, la violenza commessa da più persone, l’omicidio, lo stupro, il ratto e l’adulterio. 257 E’ probabilmente la normativa richiamata da quattro lettere di Agostino (Ep.113, 114, 115, 116) con le quali egli intendeva ottenere per un certo Faventius l’osservanza delle disposizioni che consentivano di trascorrere trenta giorni sub moderata custodia, previa comparizione davanti alla curia cittadina. Sulla fattispecie: M. Bianchini, Usi ed abusi della custodia reorum: una testimonianza di Agostino d’Ippona, in Atti del III Seminario Romanistico Gardesano, Milano, 1988, 443-458, che a pagina 449 sottolinea come CTh.9.2.5, appartenente allo stesso testo normativo da cui venne stralciata CTh.9.2.6, neghi un simile beneficio al reo di crimine grave colto in flagrante. 256 148 sempre però consistenti, per lo più, in ammonimenti vaghi ai diversi funzionari, invece Giustiniano, per la prima volta, concretizza questi propositi, traducendoli in precise e tra loro coordinate previsioni normative. Il provvedimento basilare in materia, è una costituzione del 529 pervenuta in greco258, indirizzata al prefetto del pretorio Mena, riportata in: C.I.1.4.22-23, 9.4.6, 9.5.2 e 9.47.26259. La costituzione imperiale all’inizio dispone che solamente i magistrati, sia cittadini che provinciali, e i defensores civitatum possano sottoporre un uomo a custodia. Nel prosieguo della costituzione Giustiniano provvede invece alla fissazione di precisi termini di custodia preventiva. Essi, che, come abbiamo già ricavato dalle considerazioni precedenti, non avevano trovato, fino a questo momento, un riconoscimento ufficiale, variano, ora, a seconda dello stato di libero o schiavo dell’imputato, nonché in ragione della natura del crimine commesso. Si ordina così, più nel dettaglio, che gli schiavi vadano trattenuti 258 Sulla scelta della lingua greca potevano aver influito ragioni di opportunità quali ad esempio la destinazione territoriale della legge all’atto della sua emanazione, oppure le esigenze della prassi, affinché la normativa potesse essere alla portata di quanti che dovevano osservarla e farla osservare; forse non fu estraneo a questa scelta Giovanni di Cappadocia le cui convinzioni sul punto contrastavano con quelle di Triboniano. Così ritiene G. Purpura, Giovanni di Cappadocia e la composizione della commissione del primo codice di Giustiniano, in AUPA, 36, 1976, 53-54. 259 In questa trattazione si intende aderire alla palingenesi proposta da R. Bonini, Ricerche, 194. L’autore ritiene, infatti, che C.I.9.4.6 faccia parte, insieme ad altre costituzioni inserite in altre parti del Codice e precisamente C.I.9.5.2 (collocata sotto il titolo De privatis carceribus inhibendis ) e C.I.9.47.26 (sotto il titolo De poenis) di un unico ampio provvedimento originario, spezzettato, già all’atto della compilazione del Novus Codex, in più parti. E’ inoltre da aggiungere che una parte notevole di C.I.9.4.6 è riportata sotto la rubrica De episcopali audientia et de diversis capitulis quae ad ius curamque et reverentiam pontificalem pertinent, in C.I.1.4.22, mentre la disposizione di C.I.9.5.2, pur se con qualche variante è riprodotta in C.I.1.4.23. 149 almeno venti giorni, dopodiché puniti o, se innocenti, restituiti ai proprietari o persino rilasciati, qualora questi non si presentino. Quanto invece ai liberi imprigionati per debiti, essi, a meno che non siano in grado di prestare fideiussori a garanzia della propria comparizione, possono essere custoditi per un massimo di trenta giorni, al termine dei quali la causa va decisa e il convenuto liberato. Se tuttavia la complessità della questione impedisce al giudice di pervenire ad una soluzione entro questa scadenza, l’imputato potrà comunque essere liberato dietro prestazione di una cautio iuratoria. Qualora però, dopo tale liberazione, egli preferisca rimanere contumace, sarà punito con la perdita di tutti i suoi beni. Nei successivi paragrafi 4-6 viene invece disciplinata la reclusione preventiva dell’uomo libero accusato di un crimine, distinguendo a seconda che esso abbia o meno natura capitale. Infatti, se si tratta di un crimen non capitale, il detenuto può essere rilasciato prestando fideiussori oppure, se non è in grado di procurarsene, è destinato a rimanere in carcere per un periodo massimo di sei mesi entro cui la causa dovrà pervenire ad una conclusione. Se invece si tratta di un crimen capitale, s’introduce un’ulteriore distinzione costituita dal rilievo che l’accusa sia stata formulata da pubblici funzionari, oppure semplicemente mossa da un privato. Nella prima ipotesi si stabilisce che non possa essere ammesso l’intervento di fideiussori, ma la custodia non ecceda comunque i sei mesi; nella seconda, invece, è ripristinata la possibilità di prestare garanti, ma in loro assenza, il termine massimo di detenzione sale ad un anno. In un’ottica di coordinamento con la di poco successiva C.I.9.44.3 del 150 529, che fissa il termine generale di due anni per la durata del processo e a cui abbiamo già accennato, si può desumere che il limite biennale si applichi solo nei casi in cui l’accusato non sia sottoposto a carcerazione preventiva e quindi tutte le volte in cui sia permesso per legge prestare garanti o l’iniziativa sia di provenienza privata. Si tratta pertanto, con evidenza, di un sistema molto ben congegnato, che, come osserva Bonini260, “più dei precedenti interventi mira a salvaguardare in modo compiuto il principio della libertà personale”. L’entusiasmo per questa disposizione, che aveva portato Pugliese261 a parlare di un habeas corpus avanti lettera, va comunque ridimensionato alla luce del successivo paragrafo 6, nel quale si sancisce la presunzione di colpevolezza fino al giudizio finale e, in base ad essa, si ammettono carcerazioni preventive anche superiori ai termini suindicati. Il Bonini262 ha interpretato questa clausola nel senso che, “poiché gli accusati si presumono colpevoli, sono destinati a rimanere in carcere per tutto il tempo necessario allo svolgimento del processo”, assegnando così a tale prescrizione un valore essenzialmente contrastante con le disposizioni precedenti. Un simile ragionamento non sembra tuttavia condivisibile soprattutto perché non appare credibile che il legislatore giustinianeo, dopo aver approntato un meccanismo tanto articolato e rispettoso delle diverse fattispecie, intenda poi vanificarlo. Preferisco quindi aderire all’opinione espressa da Pugliese263 per il quale il paragrafo 6 si limiterebbe a precisare “che se sussistono 260 R. Bonini, Ricerche, 200. G. Pugliese, Garanzie, 619. 262 R. Bonini, Ricerche, 201. 263 G. Pugliese, Garanzie, 618. 261 151 all’inizio del processo elementi tali da far presumere la colpevolezza dell’accusato, allora (e solo allora) questi può essere tenuto in carcere per il tempo indicato, senza che possa liberarsi col dare fideiussori. Si tratta quindi di una limitazione, non dell'annullamento, dei principi enunciati prima: una limitazione certamente grave, ma non tale da togliere a quei principi tutto il loro valore ed il loro interesse”. In sintesi perciò saremmo di fronte non ad un’intrinseca contraddizione del legislatore giustinianeo, quanto ad una sua manifestazione di sensibilità per le esigenze concrete del processo che lo portano talora a trasgredire le direttive programmatiche in vista del conseguimento di fini pratici. Tornando all’esame dei nostri brani, incontriamo la prescrizione per cui, chiuso il processo ed emanata la sentenza, questa, sia corporalis che pecuniaria, va subito eseguita. In questo caso concordo con Bonini264 per il quale la ratio di questa disposizione può essere identificata nel proposito di limitare al massimo l’intervallo tra la conclusione del processo e l’esecuzione della sentenza, e mi riservo di tornare in seguito sul problema. Tralasciando per ora anche la menzione delle conseguenze sanzionatorie poste a carico dei funzionari trasgressori, in quanto sempre coinvolgenti il ruolo di sorveglianza ed ausilio devoluto ai vescovi a cui intendo accennare in conclusione, passo ad esaminare il successivo testo, C.I.1.4.22., appartenente, secondo la palingenesi del Bonini, a questa lunga costituzione In esso si ribadisce il divieto di mantenere carceri private, che già ben conosciamo; l’elemento innovativo tuttavia è rappresentato dalla 264 R. Bonini, Ricerche, 202. 152 risposta sanzionatoria elaborata da Giustiniano in caso di inosservanza. Si stabilisce infatti che i trasgressori, cuiuscumque condicionis vel dignitatis sint, saranno tenuti a trascorrere in un pubblico carcere un periodo equivalente a quello passato nella prigione privata dal soggetto illegalmente detenuto; inoltre, come ulteriore pena, si dispone a priori la soccombenza dei carcerieri in caso di lite da loro eventualmente intentata contro i detenuti. Il brano conclusivo della costituzione è rappresentato da C.I.9.47.26 che, presupponendo come già esaurito il processo penale, è collocato sotto la rubrica De poenis. Essendo tuttavia suddetta disposizione incentrata su una figura di esilio abbastanza affine alla relegatio e limitandosi solo in parte a richiamare le disposizioni di cui sopra, ritengo inutile indugiarvi. L’ultima tematica, che reputo necessario, almeno, introdurre, in questa sede, è la tortura265. Credo utile soffermarmi brevemente su di essa, sia perché argomento connesso al tema della carcerazione, sia perché ogni trattazione avente ad oggetto l’epoca tardo imperiale e tendente ad un minimo di 265 Tra i principali studi in materia segnalo: Th. Mommsen, Le droit pénal, 2, 82; P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, 1, Milano, 1953, 16ss.; L.Chevailler, s.v. Torture (la torture e le droit pénal romain, in Dictionaire de droit canonique, 7, Paris, 1965, 1293-1295; P.A. Brunt, Evidence given under Torture in the Principate, in ZSS, 97, 1980, 256-265; D. Grodzynski, Tortures mortelles et catégories sociales. Les “summa supplicia” dans le droit romain aux IVe et Ve siècles, in Du chatiment dans la cité, Paris, 1984, 361-403; V. Marotta, Multa de iure sanxit. Aspetti della politica del diritto di Antonino Pio, Milano, 1988, 202ss; P. Cerami, Tormenta pro poena adhibita, in AUPA, 41, 1991, 31-50; J.Ph. Levy, La torture dans le droit romain de la preuve, in Collatio iuris romani, 1, 1995, 241ss.; S. Toscano, Sub iudice subpliciorum: notazioni sul diritto di punire nella società tardoantica, in ARC, 10, Perugia, 1995, 603ss; J. Arce, Sub eculeo incurvus: tortura e pena di morte nella società tardo romana, in ARC, 11, Perugia, 1996, 355ss. 153 completezza espositiva non può esimersi dall’occuparsene. Come dimostrano gli importanti titoli De quaestionibus, inseriti tanto nel Codice Teodosiano (CTh.9.35), quanto nella compilazione giustinianea (D.48.18 e C.I.9.41), la tortura a carico dell’imputato e dei testimoni, quale strumento per estorcere la confessione e pervenire alla verità, è un fenomeno senza dubbio molto diffuso in quest’epoca. L’istituto in ogni caso va considerato alla luce delle idee del tempo, senza che il mero rilievo della sua ricorrenza porti, aprioristicamente e superficialmente, ad etichettare tale periodo come barbara e priva di ideali. Se solo con Beccaria266 e la rinascita illuminista si sente infatti il bisogno di condannare definitivamente tale pratica, ciò testimonia in parte quanto essa prima costituisse una consuetudine radicata. Gli stessi padri cristiani sembrano ammetterla senza orrore o scandalo tanto che Ambrogio, in qualità di vir consularis, la applica267 e Agostino riconosce in essa una vera necessità sociale268 tanto che, invitando lo iudex christianus ad esercitare le proprie funzioni pii patris officium, non esclude che per far emergere la verità egli possa anche ricorrere virgarum verberibus269. Nel tardo, in conclusione, due sembrano le tendenze in tema di tortura: da una parte l’allargamento delle fattispecie criminose in relazione alle quali si ammette la sua operatività, dall’altra il progressivo restringimento della sua applicazione mediante l’esclusione di varie categorie di soggetti. 266 C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, 1764, 306 ss. P.L. 20.31. 268 Nel De civitate Dei, 19.6 Agostino, a proposito della tortura, la giustifica dicendo: “…pertrahit humana societas, quam diserere nefas ducit…”. 269 Ep.133.2. 267 154 CAPITOLO QUARTO IL PROCESSO CRIMINALE NEL TARDO IMPERO: L’ESECUZIONE DEL GIUDICATO PENALE SOMMARIO: 1. Il problema del giudicato penale e della sua esecuzione – 2. Le direttive ai funzionari imperiali. 1. Il problema del giudicato penale e della sua esecuzione. Ogni sistema repressivo che miri a garantire l’effettività delle proprie prescrizioni e ad atteggiarsi, nel panorama degli ordinamenti giuridici, come “giusto”, non può prescindere dal perseguire quell’insieme di valori che, ad oggi, vengono sinteticamente riassunti nella formula “certezza del diritto”270. Tale concetto, tuttavia, nel diritto penale, integra una fattispecie a realizzazione progressiva che, per veder completato il proprio iter formativo, necessita di almeno tre fasi successive. Per aversi certezza, infatti, non basta che il comportamento contestato come illecito sia contemplato a titolo di reato da una norma dell’ordinamento e che la pena concretamente irrogata con la sentenza coincida, per qualità e quantità, con quella prescritta in astratto dalla legge, ma è soprattutto necessario che suddetta sanzione, una volta Un bell’esempio dell’importanza che il valore della certezza del diritto può assumere anche nel mondo antico è fornito dagli studi pubblicati a cura di M. Sargenti e G. Luraschi, in La certezza del diritto nell’esperienza giuridica romana. Atti del convegno di Pavia, 26-26 aprile 1985, Padova, 1987. 270 155 comminata, sia effettivamente scontata dal soggetto riconosciuto come colpevole. Mentre i primi due momenti sembrano trovare attuazione, almeno parziale, anche nell’esperienza giuridica romana tardo antica, l’ultimo appare invece estremamente carente. La costante preoccupazione manifestata dalle cancellerie imperiali a proposito dell’attività applicativa della norma, elaborata a livello centrale, da parte dei funzionari periferici e le numerose direttive emanate a tal fine sembrano, tuttavia, smentire la natura preordinata e dolosa di tale mancata esecuzione. Sussiste pertanto un’aporia di fondo tra i ripetuti interventi imperiali che, tra IV e V secolo, cercano di prevenire e reprimere l’inattività dei funzionari locali, anche attraverso la conoscibilità della legislazione vigente271, ed il desolante quadro della giustizia criminale riportato dalle fonti letterarie. Bisogna perciò, in primo luogo, verificare se ed in quale modo la legislazione imperiale si sia preoccupata di garantire che il colpevole di un reato venga effettivamente condannato e sconti la relativa sanzione ed, in secondo luogo, indagare le ragioni profonde per cui, nonostante tali disposizioni, la pena non sia poi in concreto espiata. Al fine di fornire una risposta soddisfacente a questi interrogativi, dovrò perciò addentrarmi in tematiche complesse e non ancora del tutto chiarite, quali la conoscibilità del diritto, l’indipendenza dell’organo giudicante, l’effettività delle norme criminali. 271 Proprio questa preoccupazione avrebbe ispirato, secondo G.G. Archi, Le codificazioni postclassiche, in La certezza del diritto, 149-168, le iniziative assunte dalle cancellerie di Ravenna e di Costantinopoli negli anni 426-438 156 Tutte questioni che, nel tardo, non hanno ancora trovato risposta univoca e che, ai fini della mia indagine, andranno comunque esaminate alla luce di quella sottile linea di confine tra ideologia e propaganda che permea tutta la legislazione imperiale ed in cui risiede, a mio parere, la vera chiave di volta circa il problema dell’efficacia della normativa criminale. Prima di passare ad esaminare i più rilevanti interventi in materia, ritengo necessario premettere la menzione di alcune tendenze proprie del tardo antico che, se opportunamente correlate, possono contribuire a cogliere meglio il problema del giudicato penale e della sua esecuzione. Un primo aspetto meritevole di attenzione è costituito dalla propensione postclassica, finora qui mai posta in risalto, ma riconosciuta da larga parte della dottrina272, a privare completamente il giudice di ogni discrezionalità circa l’irrogazione della pena in concreto. 272 Questa tesi sostenuta da F. De Robertis in una serie di studi (F. De Robertis, Arbitrium iudicantis e statuizioni imperiali, in ZSS, 59, 1939; Id., Sull’efficacia normativa delle costituzioni imperiali. Il giudice e la norma nel processo penale straordinario, in Ann. Bari, 4, 1941; Id., La variazione della pena “pro modo admissi”, Studi di diritto penale romano, Città di Castello- Bari, 1942; Id., La variazione della pena nel diritto romano. I. Problemi di fondo e concetti giuridici fondamentali. II. La variazione della pena “ pro qualitate personarum”, Bari, 1954; ora tutti in Scritti varii di diritto romano, 3, Bari, 1987) è ad oggi ormai divenuta opinione dominante. Tra i tanti che vi aderiscono si ricordi B. Santalucia, Diritto e processo, 140 per il quale “tutti i principali crimini sono ora assoggettati alle pene fissate dalle costituzioni imperiali. Il giudice deve limitarsi ad accertare se l’ipotesi delittuosa si sia o meno verificata: la pena discende direttamente dalla legge ed è preclusa ogni possibilità di graduarne la portata” e V. Giuffrè, La repressione, 182 che con estrema chiarezza osserva come ormai “la nuova concezione del potere…non poteva non comportare la riduzione a minimi termini dei poteri di valutazione dei tribunali imperiali: la tendenza della legislazione imperiale fu, infatti, di identificare con precisione minuziosa tutte le possibili figure criminose e di fissare per ciascuna una pena determinata, lasciando ai 157 Secondo la maggioranza degli autori, si sarebbe infatti consolidato un sistema repressivo in grado di prevedere per ciascuna fattispecie criminale una pena edittale determinata, alla quale il giudice si sarebbe dovuto rigorosamente attenere, senza possibilità di iniziative autonome. Tale affermazione, in apparenza non problematica, necessita però, secondo me, di essere circoscritta e precisata alla luce di ulteriori fattori. Va infatti sottolineato che il precetto “…perpensas serenitatis nostrae longa deliberatione constitutiones nec ignorare quemquam nec dissimulare permittimus…”273, così come le condizioni minime per poter affermare un obbligo, in capo ai funzionari imperiali, di conoscere e quindi applicare la legge vigente si possa affermare solo con la pubblicazione del codice di Teodosio II. Inoltre tale dovere, anche in seguito, riguarda solo ed unicamente il complesso delle costituzioni imperiali e non anche le norme di ius vetus, conservate nelle opere giurisprudenziali ed ancora largamente applicate nei giudizi criminali; costituzioni imperiali che talvolta non si preoccupano né di definire il reato, né di comminare espressamente una pena determinata. Emerge quindi, almeno fino al Codice Teodosiano, una realtà normativa frammentata, incerta, contingente, talora contraddittoria, dove le disposizioni imperiali precedenti, mai esplicitamente abrogate, giudici il solo compito di accertare in fatto se l’ipotesi criminosa si fosse o non si fosse verificata”. 273 Questa frase, conservata in CTh.1.1.2 del 391, è probabilmente tratta, secondo G.G. Archi, Teodosio II e la sua codificazione, Napoli, 1976, 98 e 101, da un più ampio provvedimento, comprensivo anche di CTh.3.1.6. L’autore suppone quindi che nel testo originale l’affermazione estrapolata si riferisse ad una specifica legge imperiale e che solo i compilatori del Teodosiano l’abbiano resa generale riferendola pur tuttavia “alle sole divales o sacrae constitutiones accolte secondo le direttive del 435, e cioè alle leges generales”. 158 si sovrappongono a quelle più nuove e contribuiscono a rendere, per il giudicante, ancora più difficile l’individuazione della norma da applicare. Del resto, anche dopo il 429, non sempre è facile reperire nello stesso Teodosiano risposte sanzionatorie univoche e complete274. Posto infatti lo stretto legame intercorrente tra norme penali, realtà contingente e politica legislativa, accade spesso che gli imperatori si limitino a richiamare le disposizioni dei predecessori, qualora corrispondenti ai propri indirizzi politici, senza preoccuparsi che alle enunciazioni di principio, segua una concreta attuazione in sede giudiziaria. Le ragioni dell’inapplicabilità nel tardo delle norme incriminatrici non sembrano risiedere, però, solo nel carattere non sempre tassativo ed onnicomprensivo della relativa legislazione, ma trovano alimento anche in problemi di conoscibilità della normativa vigente, legati allo stesso sistema processuale. Essendo infatti l’obbligo di applicare le costituzioni imperiali limitato, di fatto, solo ai testi normativi offerti al giudicante dalle parti durante la recitatio o dallo stesso personalmente conosciuti, si verifica spesso che la decisione, stante l’impreparazione di avvocati e giudici, sia adottata sulla base di un apparato conoscitivo assai inferiore rispetto all’intera legislazione vigente. In altre parole si può ipotizzare che i tribunali imperiali non siano in grado di conoscere completamente tutte le leggi in vigore e quindi A mero titolo esemplificativo si può citare il fatto che in CTh.9.5 Ad legem Iuliam maiestatis è riportata un’unica costituzione CTh.9.5.1 del 320-323 che riguarda l’uso della tortura nei processi di maiestas e vieta a servi e liberti di accusare i propri domini, senza però né definire il reato, né determinare in concreto la pena da applicare. 274 159 abbia trovato spazio la prassi di continuare ad applicare solo quelle più note. Scarsa conoscibilità della normazione, sua incompletezza ed impossibilità del giudice di colmare le eventuali lacune appaiono quindi, a prima vista, le principali cause di tale mancanza di effettività. Molti altri fattori hanno tuttavia concorso ad aggravare questa situazione di fondo e sono quelli che giustificano ad esempio le ipotesi in cui la pena edittale, anche quando disposta in modo chiaro e preciso, non è applicata o rimane ineseguita. Ritengo perciò necessario, dapprima, mettere in luce se e come i diversi imperatori abbiano cercato di garantire l’effettività delle proprie prescrizioni, poi verificare quale margine di autonomia residui al giudice nell’applicazione della norma e solo infine cercare di capire perché, nonostante queste disposizioni, il giudicato possa rimanere inattuato. 1. Le direttive ai funzionari imperiali. L’indagine sulle problematiche relative alla responsabilità penale dei funzionari275, benché sia stata autorevolmente definita “basilare per spiegare il funzionamento della amministrazione imperiale Sull’argomento, ritengo opportuno segnalare gli studi di: M. Lauria, Calumnia, 97ss. (= Studii e ricordi, Napoli, 1983, 245ss.); M. Clauss, Der magister officiorum in der Spatantike (4-6 Jahrhundert), München, 1980, 55ss.; K.L. Noethlichs, Beamtentum und Dienstvergehen, Wiesbaden, 1981; K. Rosen, Iudex und officium. Kollektivstrafe, Kontrolle und Effizienz in der spatantike Provinzialverwaltung, in Ancient Society, 21, 1990, 273ss.; A. Laniado, Les amendes collectives des officia dans la législation inpéeriale après 438, in Ancient Society, 23, 1992, 83ss.; S. Pietrini, L’iniziativa, 136ss. 275 160 romana”276, resta uno dei temi più oscuri e bisognosi di approfondimento dell’esperienza giuridica tardo antica, stanti anche le notevoli conseguenze pratiche ad esso collegate. Il primo rilievo da cui può prendere avvio la relativa indagine è il fatto che, solo in concomitanza con la nuova struttura burocratica postclassica, è possibile rinvenire nella legislazione imperiale un così consistente numero di illeciti riconducibili all’ambito di attività dei funzionari. A sostegno di questa affermazione si può portare ad esempio il primo libro del Codice Teodosiano che dedica vari titoli all’incriminazione di comportamenti commissivi ed omissivi, perpetrabili dai soli appartenenti agli uffici imperiali. A questo proposito il Lauria ha parlato di un nuovo “diritto penale disciplinare”277 il quale, possiamo aggiungere noi, attraverso una responsabilizzazione degli amministratori, sembra realizzare, in via mediata, anche un miglioramento delle condizioni degli amministrati. Tuttavia il fondamento di tale disciplina sanzionatoria appare notevolmente diverso rispetto alle epoche precedenti. Mentre infatti nei secoli passati ed in particolare durante la repubblica, i reati, aventi quali soggetti attivi magistrati, ravvisavano tutti la propria condotta tipica in un uso distorto e quindi illegale dell’imperium278, invece nel tardo, non solo la responsabilità dei funzionari si estende, ma spesso prescinde dall’accertamento di una 276 Queste parole sono di M. Lauria, Indirizzi e problemi romanistici, in Il Foro italiano, 61, 1937, 559 (= Studii e ricordi, 339). 277 M. Lauria, Calumnia, 251. 278 Sulla responsabilità dei magistrati si veda tra i più recenti: O. Licandro, In magistratu damnari. Ricerche sulla responsabilità dei magistrati romani durante l’esercizio delle funzioni, Torino, 1999, al quale si rimanda per un approfondimento delle fonti e della bibliografia. 161 concreta neglegentia, configurandosi come mera conseguenza dell’incarico ricoperto. Nella legislazione successiva al IV secolo è quindi frequente riscontrare, come osservano alcuni autori279, fattispecie punitive tanto basate sull’elemento soggettivo della colpa, quanto configuranti ipotesi di responsabilità oggettiva. Ciò che interessa ai fini del nostro studio non è tuttavia indagare il coefficiente soggettivo sotteso alle singole norme incriminatrici, bensì evidenziare gli interventi imperiali concretamente approntati al fine di garantire il rispetto delle disposizioni vigenti. L’attenzione imperiale, manifestata su più fronti e finalizzata ad imporre ai funzionari l’applicazione delle leggi in vigore, va però sottolineato, non sembra rispondere principalmente ad una preoccupazione per le sorti dell’imputato, quanto ad un bisogno imperiale di ribadire la propria supremazia ed evitare inefficienze. Da ciò discende sia il fatto che i più importanti interventi in materia riguardano l’ambito fiscale e criminale, dove il pericolo di ripercussioni dirette sul potere imperiale è più forte, sia il fatto che i giudici trasgressori vengono duramente apostrofati come arroganti e condannati al pagamento di cospicue somme di denaro. Un primo esempio significativo è costituito da un editto di Costantino del 2 giugno 315, indirizzato ad universos provinciales e conservato in CTh.2.30.1280. Per tutti D.A. Centola, In tema di responsabilità penale nella legislazione tardo imperiale, in SDHI, 68, 2002, 571. 280 CTh.2.30.1: (Imp. Constantinus A. ad universos provinciales). Intercessores a rectoribus provinciarum dati ad exigenda debita ea, quae civiliter poscuntur, servos aratores aut boves aratorios pignoris causa de possessionibus abstrahunt, ex quo tributorum illatio retardatur. Si quis igitur intercessor aut creditor vel praefectus pacis vel decurio in hac re fuerit detectus, a rectoribus 279 162 In esso l’imperatore incarica i governatori provinciali di infliggere la pena capitale all’intercessor (cioè al magistrato nominato dallo stesso governatore della provincia per la riscossione di quei debita, quae civiliter poscuntur), al creditore, al praefectus pacis281 o al decurione che abbiano pignorato anche i beni destinati al pagamento dei tributi. In questo modo Costantino, con la promessa di un castigo estremamente dissuasivo quale la pena di morte, impone ai funzionari (ma anche al privato creditore) un vero obbligo di diligenza e responsabilizza i governatori provinciali, demandando loro uno specifico dovere di vigilanza sull’operato dei propri sottoposti. Il provvedimento normativo che ritengo comunque più interessante e chiarificatore, tanto della posizione dell’organo giudicante nel tardo antico, quanto dell’impegno imperiale a far sì che la legge sia applicata e la pena comminata eseguita, è CTh.9.10.4.1, emanata da Teodosio I: CTh.9.10.4.1: Iudicem vero nosse oportet, quod gravi infamia sit notandus, si violentiae crimen apud se probatum distulerit, omiserit vel impunitate donaverit aut molliore, quam praestituimus, poena perculerit. Dat. prid. non. mart. Mediolano, Valentin. A. IV. et Neoterio V. C. conss. Si tratta di un’epistula del 6 marzo 390 indirizzata ad Albino, praefectus urbi, nella quale si prevede per il giudice, presso cui sia provinciarum capitali sententiae subiugetur. Dat. IV. non. iun. Sirmio, Constantino A. IV. et Licinio IV. conss. 281 L’identificazione di questo funzionario non è agevole. Il Codice giustinianeo, inoltre, riproducendo parzialmente la costituzione in esame in C.I.8.16.7.1 sostituisce il riferimento al praefectus pacis con quello al praefectus pagi vel vici. E’ pertanto da ritenere preferibile, tra tutte le possibili soluzioni, quella che, basandosi su una traduzione letterale dal greco, fa coincidere tale personaggio con l’irenarca. 163 stato provato il crimen violentiae, la pena di una grave infamia, nel caso che abbia differito od omesso la punizione oppure abbia riconosciuto al colpevole l’impunità o una pena più lieve di quella sancita dalle leggi imperiali in materia. Va subito sottolineato come questa costituzione si preoccupi di colpire in modo puntuale tutti i possibili usi distorti della capacità giudicante: dal totale diniego di giustizia, al differimento pretestuoso, fino all’applicazione di una pena diversa da quella prevista per legge, ancorché limitatamente al crimen violentiae. Con tali rigide prescrizioni l’imperatore non mira tanto a sancire un principio di tassatività e di legalità nell’applicazione delle pene, quanto ad evitare che quell’equilibrio tra controllo assoluto e trattamento severo, ma quantomeno umano, dell’imputato, che si era cercato di rafforzare a livello legislativo, venga vanificato nella prassi proprio da coloro che, in ultimo, sono tenuti a far funzionare il meccanismo limitandosi ad applicare la legge, e cioè i giudici. Non mi sento quindi di ipotizzare che il pensiero tardo imperiale anticipi l’idea positivista di un giudice soggetto solo alla legge (non almeno a livello intenzionale); intendo solo evidenziare come il legislatore, come sempre, miri a far sì che la repressione criminale sia efficiente e per farlo questa volta, dopo aver colpito i calunniatori, i giudici corrotti ed i corruttori, scelga di sanzionare coloro che amministrano la giustizia al di fuori degli schemi legalmente determinati. 164 L’attenzione di Teodosio per questa problematica si coglie poi in un altro suo successivo intervento, datato 9 aprile 392 e riportato in CTh.1.29.8282. Questa volta l’imperatore, con una lettera al prefetto del pretorio Taziano, richiede ai defensores civitatum283 un costante impegno contro i latrones284 affinché i crimini commessi da costoro non si accumulino impuniti e siano rimossi i patrocinia che abbiano favorito i colpevoli e prestato aiuto ai criminali. Ancora per mezzo di parole dure e ferme, l’imperatore fa appello ai suoi funzionari affinché l’apparato di leggi, predisposto per riportare la sicurezza e l’ordine pubblico, sia fatto rispettare in modo capillare. L’indagine che qui si sta conducendo risulta poi arricchita se si considera che, in altri casi, la legislazione imperiale non si limita a colpire la singola persona fisica del magistrato, ma configura una responsabilità di tipo collettivo dei funzionari preposti ad un determinato ufficio. 282 CTh.1.29.8: (Imppp. Valentinianus, Theodosius et Arcadius AAA. a Tatiano p.p.). Per omnes regiones in quibus fera et periculi sui nescia latronum fervet insania, probatissimi quique atque districtissimi defensores adsint disciplinae et quotidianis actibus praesint, qui non sinant crimina impunitate coalescere. Removeantur patrocinia, quae favorem reis et auxilium scelerosis impertiendo, maturari scelera fecerunt. Dat. V. id. april. Constantinopoli, Arcadio A. II. et Rufino V.C. conss. 283 Sulla figura di tali magistrati si vedano, per tutti, gli studi compiuti a riguardo da V. Mannino, Ricerche sul “defensor civitatis”, Milano, 1984 e F. Pergami, Sulla istituzione del “defensor civitatis”, in SDHI, 61, 1995, 413ss. 284 Per una ricerca più approfondita su tali personaggi si rimanda all’analisi di CTh.9.29.2 (sull’obbligo di deferire i latrones ai giudici) compiuta da M.A. De Dominicis, Riflessi di costituzioni imperiali del Basso Impero nelle opere della giurisprudenza postclassica, Mantova, 1955, 66ss.; in proposito si vedano anche i più recenti studi di A.D. Manfredini, Municipi e città nella lotta ai “latrones”, in Annali dell’Università di Ferrara, 5/6, 1992, 23-34 (= in Roma y las Provincias, Madrid, 1994, 147-159). 165 Al fine di evitare il verificarsi di eventi il cui impedimento sarebbe rientrato, nella valutazione imperiale, proprio tra i compiti devoluti agli appartenenti agli uffici, il legislatore tende a moltiplicare le disposizioni285 volte a punire, non solo il singolo funzionario responsabile, ma anche tutti i suoi subalterni. Si assiste così ad un allargamento della responsabilità che non può trovare altra ragione giustificativa se non quella di costituire un estremo tentativo di riportare la burocrazia al rispetto della legge e quindi della sua applicazione. Per citare le costituzioni imperiali più significative a riguardo, si può ricordare CTh.6.4.13 di Costanzo II del 3 maggio 361, nella quale si prevede che, qualora i giudici a ciò destinati abbiano con neglegentia trascurato le editiones, sia inflitta non solo una multa pari a dieci libbre d’oro a carico degli stessi giudici, ma anche una di cinquanta nei confronti dei membri dell’ufficio. Ancora Teodosio I nel giugno del 380 con CTh.6.10.1, evidenziando tutto il favore nutrito verso la professione dei notarii286, decreta che quando a loro carico siano state imposte illecite prestazioni, ancorché di lieve entità, l’intero officium sia punito con una grave multa. Di notevole importanza, anche in ragione del suo originale contenuto, è però, tra tutte, una costituzione di Valentiniano II, CTh.1.6.9 del 27 La comune responsabilità dell’officium e del preside per provvedimenti presi da quest’ultimo è sancita in molte costituzioni, tra le quali, oltre a quelle citate nel testo: CTh.12.1.47 del 359; CTh.11.16.11 del 365; CTh.11.29.5 del 374; CTh.12.1.85 del 381; CTh.11.30.48 del 387; CTh.9.40.15 e 11.36.31 del 392; CTh.11.30.51 del 393; CTh.8.5.58 del 398; CTh.11.30.58 del 399; CTh.13.9.6 del 412; CTh.13.5.38 del 414. 286 Su tale figura si veda per tutti: H.C. Teitler, Notarii and exceptores. An Inquiry into Role and Significance of notarii and exceptores in the Imperial and Ecclesiastical Bureaucracy of the Roman Empire (from the Early Principate to circa 450 A.D.), Utrecht, 1983. 285 166 aprile 385, indirizzata a Simmaco, prefetto urbano, in cui si sancisce che il giudice che non osservi le disposizioni di legge, privilegiando la propria arroganza rispetto al giudizio imperiale, veda sanzionato il suo ufficio con una pena pecuniaria pari a cinque libbre d’oro, a meno che egli stesso non preferisca pagarne personalmente il doppio, per risparmiare la punizione ai suoi collaboratori. La particolarità di tale disposizione risiede sia nel fatto che per la prima volta si assiste ad un caso di responsabilità alternativa, anziché cumulativa, sia nel rilievo che la colpevolezza dei componenti dell’ufficio è affermata in via principale, mentre quella del giudice si configura solo come sussidiaria. Simile differenza di trattamento si riscontra in un altro provvedimento, sempre di Valentiniano II, di appena tre giorni successivo e cioè CTh.2.1.6 del 30 aprile 385, indirizzato a Neoterio, prefetto del pretorio. In esso si dispone che, qualora il litigante dia prova di non essere stato ascoltato dal giudice competente o di aver subito il rinvio della controversia in ragione dell’inerzia o del favore, mostrato dal magistrato, nei confronti della controparte, sia il giudice che i primores del suo ufficio debbano essere puniti. Tuttavia, mentre per il primo la pena consiste in una sanzione pecuniaria pari al valore della causa (cd. aestimatio litis), per i secondi è prevista la poena deportationis. Sia in CTh.1.6.9 che in CTh.2.1.6 figura perciò la tendenza a punire più severamente i componenti dell’ufficio, benché gerarchicamente inferiori, rispetto al giudice a capo dello stesso. Al fine di fornire un’adeguata giustificazione a tale fenomeno, appare necessario, tuttavia, evidenziare le cause che hanno permesso 167 l’affermarsi, nel tardo antico, di ipotesi di responsabilità collettiva dei funzionari. Anche questa problematica è stata riportata dalla maggioranza degli autori che se ne sono occupati nell’alveo della prospettiva inquisitoria od accusatoria assunta dal sistema processuale tardo antico. Mentre il Lauria riconosce in tali costituzioni l’affermazione di un generale obbligo di inquirere in capo ai funzionari imperiali, in coerenza con un sistema repressivo in cui “i magistrati ed il loro officium sono tenuti a reprimere gli ormai innumerevoli delitti e sono anzi essi stessi colpevoli se i delinquenti restano impuniti” dal momento che, conclude l’autore “la neglegentia dei giudici che trascurino di scoprire e punire i delinquenti è configurata in molte costituzioni come connivenza”287; invece chi opta per un’impostazione di tipo accusatorio preferisce riconoscere in tali fattispecie meri “illeciti a carattere amministrativo o procedurale”288. Senza voler entrare nel merito di questa disputa, sulla quale mi sono già soffermata in apertura, ritengo che dall’esame dei provvedimenti fin qui citati e che rappresentano, del resto, solo alcuni degli esempi più significativi dell’ampia produzione normativa tardo antica a riguardo, si possa trarre l’impressione di una disciplina in tema di responsabilità dei funzionari a carattere contingente ed occasionale. Mancando infatti una disposizione che, a livello generale ed inderogabile, imponga di applicare tutta la legislazione vigente (forse perché ci si rendeva conto sia della sua difficile reperibilità, che della sua continua mutevolezza), gli imperatori si limitano ad esortare all’applicazione della legge penale in relazione a determinate 287 288 M. Lauria, Accusatio- inquisitio, 277ss. S. Pietrini, Sull’iniziativa, 136 nt.196. 168 fattispecie o a determinati fenomeni sociali che, in quel momento storico ed in quell’ambito territoriale, sono percepiti come particolarmente allarmanti. E’ così che beneficiano di rinnovata vis repressiva e di un richiamo all’effettività le norme a tutela delle vittime dei latrones o del crimen violentiae, le disposizioni a favore di notarii ed in materia di editiones. I numerosi ambiti toccati da disposizioni di questo tipo inducono comunque a ritenere configurabile un’autentica preoccupazione imperiale per il mancato rispetto della legge. Un’altra riflessione stimolata dalle costituzioni finora esaminate e degna, a mio parere, di particolare attenzione è il rilievo di come, a differenza che nella struttura burocratica moderna, in quella tardo antica si assista, non ad una responsabilizzazione del funzionario gerarchicamente sovraordinato per il fatto del sottoposto, ma al fenomeno contrario. Abbiamo infatti visto come spesso l’obbligo di vigilanza sia posto in capo ai componenti dell’ufficio invece che al superiore e come, in caso di mal funzionamento dell’apparato burocratico, si preferisca punire più severamente i collaboratori rispetto al funzionario responsabile. E’ quindi come se i singoli funzionari fossero gravati dell’onere di adoperarsi affinché il capo dell’ufficio applichi le disposizioni imperiali e renda il suo operato efficiente. Questo fenomeno è stato brillantemente spiegato da Centola289 col fatto che “mentre i funzionari di grado superiore, posti a capo dell’officium come il praefectus urbi e quello praetorio…di solito vi 169 rimangono per un periodo di tempo piuttosto limitato, invece i funzionari subalterni, quali ad esempio gli apparitores290 … svolgono la loro attività in maniera molto più stabile all’interno dell’apparato statale”. Configurare i collaboratori del giudice come una sorta di “coscienza storica” dell’ufficio e come i veri depositari delle conoscenze giuridiche che il magistrato sarà chiamato in concreto ad applicare, sembra anche a me la ricostruzione più plausibile, in quanto coerente sia con il carattere temporaneo degli incarichi tardo imperiali, che con le fonti letterarie che descrivono sempre il giudicante assistito da più adsessores. A spiegare tale responsabilizzazione dell’organo, anziché del suo rappresentante, potrebbe poi essere d’ausilio ricordare quella tendenza, propria del tardo, a far prevalere la tutela dell’ordine pubblico sulla difesa del singolo individuo, di cui ci siamo già occupati291. Il legislatore, infatti, tutto teso a realizzare l’efficienza del sistema repressivo, potrebbe plausibilmente aver preferito, a fini dissuasori, colpire l’ufficio nella sua interezza, senza eccessivamente soffermarsi sulle singole responsabilità individuali, anziché indagare le condotte personali all’origine dell’evento turbativo del buon funzionamento dell’apparato burocratico. Verificata l’esistenza di un obbligo in capo all’organo giudicante di applicare le leggi imperiali, è ora necessario chiedersi se ciò comporti per il giudice anche il vincolo assoluto a conformarsi alle pene ivi 289 D.A. Centola, La responsabilità, 578. Sugli apparitores si vedano le pagine di N. Purcell, The “apparitores”: A Study in Social Mobility, in Papers Brit. School at Rome, 51, 1983, 125-173. 291 In proposito si veda il capitolo primo § 1. 290 170 previste. Senza dubbio la legislazione tardo imperiale, più di ogni altra, ambisce ad imporre uno schema sanzionatorio, oltreché severo, anche molto rigido e predefinito. Il legislatore di questo periodo infatti, anziché prevedere un massimo ed un minimo edittale all’interno del quale lasciare libero il giudicante di comminare in concreto la pena ritenuta più idonea, anche alla luce delle circostanze292, preferisce fissare già in modo autonomo la punizione nella sua quantità e qualità. A proposito di questa precisione legislativa nell’approntamento delle tabelle sanzionatorie, il Guarino293 ha osservato come “si sarebbe tentati di dire che sin da allora si profilò il principio nullum crimen nulla poena sine lege, se non fosse così evidente e sconcertante, nel sistema penalistico postclassico, la mancanza di una base legislativa che subordinasse sufficientemente i giudicanti ad un minimo decoroso di precise regole processuali”. Senza arrivare a tanto, anche perché tale rigida predeterminazione non risponde ad esigenze garantistiche, quanto piuttosto a ragioni di efficienza del sistema, bisogna cercare di capire fino a che punto questo schema venga rispettato e quali siano i rimedi in caso di sua inosservanza. In primo luogo si può notare che, qualora il tribunale ignori una costituzione imperiale o volutamente ne disattenda le prescrizioni, irrogando una pena diversa per quantità o qualità da quella prevista, la prima reazione spetti alla parte lesa dal giudicato troppo rigoroso o Sull’irrilevanza delle circostanze oggettive nella repressione criminale del tardo impero si veda per tutti: F. De Robertis, La variazione “pro modo admissi”, 219ss. 293 A. Guarino, Storia, 542. 292 171 troppo mite, la quale, attraverso lo strumento dell’appello, può chiedere la riforma della sentenza. Va però precisato che l’accesso all’appello è consentito all’accusatore solo laddove presente al giudizio294. Perciò in tutti i casi di sua assenza o anche solo di sua mancata attivazione si pone un problema di legittimazione a far valere il mancato rispetto della legge, consumatosi mediante l’irrogazione di una pena troppo lieve. Ipotizzo quindi che, in queste condizioni, il controllo sull’operato del giudice sia possibile solo da parte dei suoi collaboratori e, in caso di inerzia anche di costoro, operino proprio quelle costituzioni imperiali di cui ci siamo occupati sopra e che, in questo senso, si configurano come apparati sanzionatori specifici apposti, quando se ne ravvisa l’opportunità, alle diverse leggi, al fine di assicurarne l’applicazione. Per non incorrere in tali conseguenze disciplinari, il giudice che vuole comminare una pena diversa e, nella specie, più mite di quella imposta dalla legge, può comunque rivolgersi direttamente all’imperatore per ottenere un provvedimento di temperamento della sanzione ritenuta troppo severa. In sintesi quindi, mentre è sicuramente ravvisabile una possibilità per il giudice di disattendere in melius la pena prevista dalle costituzioni imperiali, purché ciò costituisca una espressa manifestazione della volontà imperiale, ben più difficile è invece configurare un’ulteriore riforma in peius. Sembra lecito supporre che anche l’accusatore possa ricorrere in appello contro una sentenza che non lo soddisfa; tuttavia, come nota significativamente G. Bassanelli Sommariva, Il giudicato penale e la sua esecuzione, in ARC, 11, Napoli, 1996, 49: “nell’intero codice di Teodosio II una unica costituzione allude con certezza all’appello proposto dall’accusatore: si tratta di una legge occidentale del 398 d.C., collocata sotto la rubrica de calumniatoribus”. Questo 294 172 Poiché infatti applicare una pena ancora più rigorosa di quella edittale si configurerebbe come un affronto al monopolio dell’imperatore in materia repressiva, non si ravvisa nelle fonti traccia di tale evenienza. Accanto ai casi in cui la pena edittale non è applicata per decisione discrezionale dell’organo giudicante, vi sono poi altre circostanze in cui essa non è comminata in quanto il processo non giunge al suo epilogo, ad esempio a causa della morte del presunto colpevole. Nonostante le disposizioni volte ad escludere la competenza ad incarcerare dei funzionari minori e a rendere più umane le condizioni carcerarie e più brevi i tempi giudiziari, le morti legate all’uso della tortura e alla detenzione preventiva continuano ad essere frequentissime. Assodato come esista in capo ai giudici un obbligo di applicare la legge penale e di come ciò possa trovare una deroga solo nel consenso dell’imperatore o nel verificarsi di cause di forza maggiore estintive del processo295, come la morte dell’imputato, resta da esaminare perché quando nulla di tutto ciò accada, la pena regolarmente inflitta resti comunque ineseguita. Posto che il Codice Teodosiano non si occupa in una sede precisa dell’esecuzione della pena, a differenza di quanto accade per i temi della carcerazione preventiva296 e della tortura come mezzo istruttorio297, fornire una risposta esaustiva non appare semplice. provvedimento è individuabile in CTh.9.39.3 emanato a Milano dall’imperatore Onorio ed indirizzato al proconsole d’Africa Vittorio. 295 Per ragioni di completezza espositiva ritengo necessario citare come ulteriore causa di non irrogazione della pena anche quei provvedimenti di clemenza, quali l’abolitio, concessi dall’imperatore spesso in coincidenza con ricorrenze di tipo cristiano, quali ad esempio la Pasqua. Data la vastità dell’argomento ho comunque ritenuto opportuno non includerlo in tale studio. 296 CTh.9.3 De custodia reorum. 297 CTh.9.35 De quaestionibus. 173 Nel titolo De poenis, nel quale sono raccolte numerose costituzioni, ad esempio, non è possibile rinvenirne alcuna specificatamente dedicata ai problemi connessi all’esecuzione della condanna, essendo tutte, invece, direttamente od indirettamente incentrate sul potere di punire e sulle sue modalità di esercizio. Pur mancando una disciplina puntuale di tale istituto, è comunque possibile individuare alcuni interventi che dimostrano ugualmente una certa attenzione del legislatore a che le pene inflitte siano effettivamente scontate. I più significativi che sono riuscita a reperire sono, in particolare, due provvedimenti orientali, rispettivamente del 13 marzo 392 e del 27 luglio 398, nei quali si contrastano con decisione gli interventi dei chierici volti a sottrarre i condannati all’esecuzione: CTh.9.40.15: (Impp. Valentinianus, Theodosius et Arcadius AAA. Tatiano p.p.). Si quis convictus reus maximi criminis fuerit subiectusque sententiae, competens iudicium compleatur nec exquisita commentis ars eiusmodi subornetur, ut direptus a clericis adseratur vel appellasse simuletur…Dat. III id. mart. Constantinopoli Arcadio A. II et Rufino conss. CTh.9.40.16pr.: (Impp. Arcadius et Honorius AA. Eutychiano p.p.). Post alia: addictos supplicio et pro criminum immanitate damnatos nulli clericorum vel monachorum, eorum etiam, quos synoditas vocant, per vim adque usurpationem vindicare liceat ac tenere. Quibus in causa criminali humanitatis consideratione, si tempora suffragantur, interponendae provocationis copiam non negamus, ut ibi diligentius examinetur, ubi contra hominis salutem vel errore vel gratia cognitoris obpressa putatur esse iustitia: ea condicione, ut, sive pro consule, comes orientis, praefectus augustalis, vicarii fuerint cognitores, non tam ad clementiam nostram quam ad amplissimas potestates sciant esse 174 referendum. Eorum enim de his plenum volumus esse iudicium, qui, si ita res est et crimen exegerit, rectius possint punire damnatos. Entrambe queste costituzioni vanno interpretate come un’affermazione di esclusività del potere repressivo in capo all’imperatore il quale, tramite esse, sembra ancora una volta ribadire la propria intolleranza nei confronti di qualsiasi condizionamento esterno, anche proveniente dal clero. Tali testi pertanto, pur riguardando il problema dell’efficacia delle norme criminali, non possono essere letti come un’enunciazione a carattere generale del principio dell’intangibilità del giudicato e della sua esecuzione, bensì come provvedimenti emanati al fine precipuo di riequilibrare i rapporti tra Chiesa ed Impero e nei quali il problema dell’effettività è toccato solo incidentalmente o meglio costituisce l’occasione per riaffermare la prevalenza del potere imperiale sulle velleità clericali. Le interferenze del mondo ecclesiastico nell’amministrazione della giustizia sono infatti, con ogni probabilità, ormai così frequenti e capillari che gli imperatori si vedono costretti ad intervenire. Accade così che nel 392 Teodosio I vieti l’intervento del clero nei confronti delle sentenze fondate sulla confessione del colpevole o su prove manifeste e riguardanti crimini gravi, quali omicidio, magia, adulterio ed avvelenamento298 e prometta gravi sanzioni ai giudici e in Già Costantino in CTh.11.36.1 del 313 al ricorrere di tali fattispecie ed in presenza dei suddetti requisiti aveva negato la possibilità di esperire il rimedio dell’appello. 298 175 genere ai funzionari, sia di alto che di basso rango, che non si attengano alle prescrizioni. Appena sei anni dopo Arcadio si vede comunque costretto a tornare sul problema e ad intervenire severamente nei confronti di clerici e monaci che tentano di sottrarre il presunto colpevole a quello che lui sembra considerare un giusto processo. Con CTh.9.40.16 tuttavia l’imperatore non vuole proibire radicalmente un regolare esercizio dell’intercessio, che sia ispirata da un sincero sentimento di umanità e venga sottoposta al giudice competente per provocare una relatio al prefetto del pretorio e, tramite essa, una nuova istanza. Ciò che egli condanna è un uso distorto di tale strumento che viene utilizzato dal clero per colpire l’autorità imperiale e causare tumulti che come osserva Gaudemet “…prennent l’aspect d’une guerre civile plus que d’un jugement…”299. L’imperatore si riserva perciò di punire personalmente questi episodi e dichiara di ritenere responsabili i vescovi dei disordini provocati da monaci e clerici nelle diocesi di loro competenza. Tali costituzioni quindi, benché non risolutive del problema dell’esecuzione, servono ad attirare l’attenzione sul rapporto intercorrente nel tardo antico tra applicazione della legge ed effettività e sulle conseguenze che ne derivano nelle prassi dei tribunali. 299 J. Gaudemet, L’Eglise, 315. 176