IL PROCESSO CRIMINALE NEL TARDO IMPERO: GIUDICI ED

CAPITOLO SECONDO
IL PROCESSO CRIMINALE NEL TARDO IMPERO:
GIUDICI ED ACCUSATI
SOMMARIO: 1. La giurisdizione e la competenza. Cenni sulle giurisdizioni speciali – 2. La
legislazione in materia di corruzione dei giudici e la figura del difensore nella testimonianza delle
fonti non giuridiche. – 4. Le garanzie pro condicione personarum. Deroghe e benefici a favore di:
a) senatori ; b) militari ; c) decurioni ; d) clero.
1. La giurisdizione e la competenza.
Delineata la figura dell’accusatore, spetta ora alla nostra indagine
cercare di individuare sommariamente
quella del secondo grande
protagonista del processo criminale: il giudice, rinviando per gli
aspetti più tecnici alla vasta letteratura in materia82.
La giurisdizione criminale, in questa epoca storica, si configura
essenzialmente come un ufficio spettante agli alti funzionari imperiali
ed in particolare a quelli preposti alle diverse articolazioni territoriali
nelle quali ormai è strutturato l’impero (prefetture, diocesi e
province)83. Un alto tasso di identificazione caratterizza, pertanto, i
rapporti tra gli apparati gerarchici amministrativi e gli uffici
componenti l’ordinamento giudiziario, in un’impostazione che è ben
82
Tra i tanti basti citare J.L. Strachan- Davidson, Problems of the roman criminal
law, 2, Oxford, 1912, 166 ; F. De Martino, Storia, 328 ss; F. Goria, La giustizia
nell’impero romano d’Oriente: organizzazione giudiziaria, in La giustizia
nell’Alto Medioev. Settimane di Studio del Centro italiano di studi sull’Alto
Medioevo, 42, Spoleto, 1995, 259ss.
83
Sull’argomento B. Santalucia, Diritto e processo, 269ss.; A.H.M. Jones, Il
tardo impero, 695ss.
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lontana dal principio, tutto moderno, di separazione tra funzione
amministrativa e giudiziaria.
Quest’ultima al contrario, trova il proprio modello operativo e la
stessa ragione giustificatrice della propria conclamata efficienza
unicamente nell’assetto burocratico statale, con la conseguenza che
l’esercizio della funzione punitiva viene affidato, in
esclusiva, a
soggetti, prescelti come magistrati essenzialmente in ragione della
loro pregressa preposizione al vertice di un certo ambito territoriale o
amministrativo.
Tale interscambio tra funzione giurisdizionale ed amministrativa è
testimoniato dalle stesse fonti ed in particolare da C.I. 2.46.3.184,
costituzione del 531 per la quale la iurisdictio “certae administrationi
… adhaeret ”.
Questa situazione di fondo determina, pertanto, il cristallizzarsi di
un’articolata struttura gerarchica, basata su diversi gradi di giudizio,
quante sono le pronunce dei funzionari imperiali competenti.
Il cittadino non è perciò lasciato sprovvisto di rimedi contro le
decisioni a lui sfavorevoli, ma può, al contrario, godere di un’ampia
diffusione dell’istituto dell’appello esperibile contro le decisioni di
tutti i magistrati (escluso il prefetto del pretorio) ed avente come
organo di ultima istanza lo stesso imperatore grazie allo strumento
della supplicatio.
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C.I. 2.46.3.1: Sed ne quis ita effuse intellectum nostrae constitutionis audeat
esse trahendum, ut etiam apud compromissarios iudices vel arbitros ex communi
sententia electos vel apud eos, qui dantur a iudicibus, qui propriam
iurisdictionem non habent,
sed tantummodo iudicandi facultatem, putet
huiusmodi extendi sanctionem, cum hos generaliter volumus tales causas
dirimere, qui vel certae administrationi, cui et iurisdictio adhaeret, praepositi
sunt vel ab his fuerint dati, et multo magis si a nostra maiestate delegata eis
causarum sit audientia. A 531 d. III k. sept. Constantinopoli post consulatum
Lampadii et Orestae VV. cc.
51
Le fonti pervenute in materia di organizzazione degli apparati
giudiziari in epoca postclassica si possono definire “generose” sicché,
ad oggi, si dispone di una quantità di informazioni a riguardo, tale da
consentire una congettura abbastanza accurata e convincente dei
diversi gradi di giudizio.
La giurisdizione di primo grado spettava di regola ai governatori
provinciali (proconsules con rango di spectabiles in Africa, Asia ed
Acaia ; consulares, praesides o correctores con rango di clarissimi
nelle altre province) che, proprio per questo, erano detti iudices
ordinarii85. Essi avevano giurisdizione in materia tanto civile quanto
criminale, ma in quest’ultima era loro preclusa, salva specifica
autorizzazione imperiale, l’irrogazione di alcune particolari tipologie
di pene86 e a certe categorie di persone (ad esempio i decurioni).
Le funzioni di giudici di appello erano invece esercitate da funzionari
imperiali diversi, a seconda del rango del governatore provinciale
pronunciatosi in primo grado.
Se questi infatti aveva solo il titolo di clarissimus, come accadeva
nella maggior parte dei casi, le funzioni di organo giurisdizionale di
seconda istanza era svolte dal vicarius in quanto spectabilis e, nelle
85
J.L. Strachan- Davidson, Problems of the roman criminal law, 2, Oxford, 1912,
166 ; F. De Martino, Storia, 328 ss; F. Goria, La giustizia nell’impero romano
d’Oriente: organizzazione giudiziaria, in La giustizia nell’Alto Medioevo,
Settimane di Studio del Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, 42, Spoleto,
1995, 259ss.
86
Tra queste, l’opinione ormai più accreditata annovera, almeno a partire dal V
secolo, anche la pena di morte. In questo senso si esprimono, tra gli altri: F. De
Martino, Storia, 328 e nt. 47 ; B. Santalucia, s.v. Processo penale in Enciclopedia
del diritto, 36, Milano, 1987, 353, 357 e nt 205 ; V. Giuffrè, La repressione, 185.
Tuttavia F. Goria, La giustizia, 269 nt.26, non ritiene più sussistente tale
limitazione nel diritto giustinianeo.
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diocesi prive di tale figura87, dal prefetto88, che aveva invece rango di
illustris89. Quando invece i governatori provinciali erano già essi stessi
investiti del rango di spectabiles90, per effetto di un’importante
riforma dell’imperatore Teodosio II, la relativa competenza a
giudicare i ricorsi fu trasferita dall’imperatore a uno speciale collegio
costituito dal praefectus praetorio orientis e dal quaestor sacri palatii.
Solo nei confronti delle decisioni del prefetto del pretorio la normale
procedura d’appello non risultava esperibile, considerandosi le
pronunce di tali funzionari imperiali non impugnabili, in quanto
emesse vice sacra. Tuttavia, già dal 365 è attestata la prassi di
rivolgere una supplicatio all’imperatore anche contro la decisione di
tale funzionario.
Lo stesso imperatore poteva essere adito come giudice di primo grado
e in tal caso decideva discrezionalmente se trattenere la causa o
rimetterla al tribunale competente.
Un’eccezione era costituita dalla diocesi d’Oriente presieduta da un comes e
dall’Egitto sottoposto ad un prefetto
88
Talora i prefetti avevano giurisdizione concomitante a quella dei vicari e ciò
poteva essere motivo di conflitti di competenza come attesta C.Th.11.30.36:
Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA. ad Eupraxium Praefectum Urbi.
Post alia: cum ex causis iustis aliquid, quo minus iudicari statim possit,
repperietur incertum ac debitor adversus discussoris statum coeperit reluctari,
dilatione postposita super eo, quod excorietur ambiguum, vel sublimitas tua vel
vicarius prout quisque vestrum proximus erit, adhibeat examen. Proposita XVI
kal. mart. Gratiano A. III et Equitio conss. (374 febbr.14). In ogni caso si ritiene
prevalere la competenza dei prefetti.
89
F. Goria, La giustizia, 270ss, osserva come le fonti riportino anche la prassi di
devolvere, in mancanza del vicario, le funzioni di giudice di secondo grado al
governatore di una provincia limitrofa, anziché al prefetto, purché munito del
titolo di spectabilis e di ciò specificatamente incaricato. La scelta fra la
proposizione del ricorso al prefetto o al governatore provinciale confinante
avrebbe dovuto essere guidata dal favore per il più vicino, come confermano tanto
C.Th.1.16.7 del 331 che Nov. Marc.1.2 del 450. Tuttavia, per l’autore, sia il
rilievo che tali passi non sono stati inseriti nel Codice Giustinianeo, sia l’esame di
Nov. Iust.23.3, inducono a ritenere che in epoca giustinianea il ricorso al tribunale
del prefetto del pretorio dovesse ormai considerarsi preponderante.
87
53
Questa possibilità di ricorso immediato al sovrano, attestata con
sicurezza almeno fino al 45091, venne comunque, proprio in
quell’anno, arginata da Marciano, che limitò la possibilità di adire
direttamente l’imperatore solo a quei casi in cui il governatore
provinciale non fosse stato in grado di provvedere autonomamente.
Altra prassi d’indubbia frequenza era quella del cd. procedimento per
consultationem con il quale un giudice di grado inferiore investiva
l’imperatore di una questione che riteneva problematica (per lo più un
dubbio di diritto). Secondo una costituzione di Giustino I92 in queste
ipotesi la decisione sarebbe spettata al quaestor sacri palatii
coadiuvato da due “magnifici viri vel patricii vel consulares vel
praefectorii” di nomina imperiale, ma già Giustiniano con la Nov. 125
limitò tale procedura alle sole cause criminali e pretese in ogni caso
una pronuncia del giudice preventivamente adito, eventualmente
impugnabile, in seguito, davanti all’imperatore.
Limitatamente alla città di Roma e a partire dal 359 anche a
Costantinopoli, si radicò poi la competenza giurisdizionale del
praefectus urbi, avente rango di illustris e competente a conoscere in
primo grado le controversie sorte a Roma ed entro le cento miglia
circostanti.
Tale prefetto rivestiva anche le funzioni di giudice d’appello almeno
in due casi: o in seguito a delega imperiale, in relazione alle cause a
lui specificamente devolute dall’imperatore, oppure nei confronti delle
sentenze emesse dai giudici inferiori del suo distretto.
90
Come erano ad esempio i proconsules.
Nov.Marc.1.2 (450): “…aut propter potestatem adversarii, aut ipsius rei
difficultatem, aut publici debiti molem…”.
91
54
Nell’ambito della giurisdizione criminale ciò che più interessa
sottolineare è che tale prefetto era l’unico funzionario urbano che
disponesse dello ius gladii.
E’ infine ricavabile dalle fonti una tendenza a devolvere le cause di
minor rilievo (res parvae ac minimae) ai magistrati municipali, come
testimonia una costituzione emanata a Milano dall’imperatore Onorio
nel 395:
C.Th.2.1.8.2 [=Brev.2.1.8.2]: Quum igitur de his rebus parvis
ac minimis tuae sit iniuria potestatis iudicare, decretum est, eas
tantum causas criminales a sinceritate tua audiri, quas dignus
et meritus horror inscriptionis impleverit, quae magnitudinem
videlicet criminis tempusque designat, ut alterutram partem
digna legum tenere possit austeritas.
Tale complesso apparato giudiziario93 non riguardava tuttavia la
totalità dei giudizi: vi erano infatti processi che per la particolare
qualità dei soggetti coinvolti, in veste di accusati, erano sottratti alla
giustizia ordinaria e devoluti alla giurisdizione di tribunali speciali.
Si tratta del privilegio della cd. praescriptio fori.
Riservandomi di tornare sull’argomento a proposito delle garanzie pro
condizione personarum, ritengo ora necessario accennare brevemente
al tema delle giurisdizioni speciali ed a tal fine di tratterà di quello
riservato alla classe senatoria e militare. Già Costantino con
Per un esame più approfondito e competente di C.I. 7.62.34 (520-524): G.
Bassanelli Sommariva, La legislazione processuale di Giustino I, in SDHI, 37,
1971, 159ss.
93
Per quanto attiene alle competenze giurisdizionali di altri funzionari imperiali
quali ad esempio il comes sacrarum largitionum ed il comes rei privatae si rinvia
all’apposito studio di A. Masi, La giurisdizione del “comes sacrarum
92
55
CTh.9.1.194 del 4 dicembre 316, aveva interdetto ai senatori la
possibilità di scegliere il foro senatorio romano come sede competente
alla trattazione delle cause penali intentate contro di loro, imponendo
il rispetto del criterio del locus commissi delicti.
Da questa costituzione emerge come, prima della sua emanazione,
fosse possibile demandare direttamente all’imperatore la cognizione
dei crimina senatoria e come in ogni caso questi potessero sempre
godere del privilegio della praescriptio fori95, ovvero della possibilità
di essere giudicati dinanzi al foro senatorio presso il quale gli illustres
sono, per usare un’espressione moderna, legalmente domiciliati96.
Privati i senatori di tale beneficio, dopo neanche un decennio,
Costantino deve tuttavia essersi accorto delle difficoltà incontrate dai
governatori provinciali nel giudicare in sede penale senatori spesso
potiores et insolentiores, se con CTh.1.16.4 del 29 dicembre 328
largitionum” e del “comes rei privatae” sui rispettivi funzionari “palatini”, in
Studi Cagliari, 1965-1968, 251-261.
94
CTh.9.1.1: (Imp. Constantinus A. ad Octavianum comitem Hispaniarum).
Quicumque clarissimae dignitatis virginem rapuerit, vel fines aliquos invaserit,
vel in aliqua culpa seu crimine fuerit deprehensus statim intra provinciam, in
qua facinus perpetravit, publicis legibus subiugetur, neque super eius nomine ad
scientiam nostram referatur, nec fori praescriptione utatur. Omnem enim
honorem reatus excludit, quum criminalis causa et non civilis res vel pecuniaria
moveatur.
95
Sull’argomento U. Vincenti, “Praescriptio fori” e senatori nel Tardo Impero
romano d’Occidente, in Index, 19, 1991, 433-440 e in Labeo, 28, 1992, 155-164.
96
Il domicilio legale dei senatori comportava un generico obbligo di residenza a
Roma: così almeno dai tempi della fondazione del principato. Ogni senatore
poteva tuttavia chiedere ed ottenere il commeatus, cioè il permesso di allontanarsi
dall’Urbs. Sul punto si veda A. Chastagnol, Le problème du domicile légal des
senateurs romains à l’époque impérial, in Mélanges Senghor, Dakar, 1977, 44.
Tuttavia, per tale autore, già al tempo dei Severi, sarebbe stato abolito l’obbligo
per i senatori di risiedere a Roma, sicché il domicilio dovuto alla dignitas si
sarebbe sovrapposto a quello dovuto all’origo. Per un ulteriore approfondimento
si rimanda a P. Garbarino, Ricerche sulla procedura di ammissione al senato nel
tardo impero romano, Milano, 1988, 349, e S. Giglio, Il tardo impero di
Occidente e il suo senato. Privilegi fiscali, patrocinio, giurisdizione penale,
Perugia, 1990, 250ss.
56
ridimensiona la portata innovativa del suo precedente intervento,
restituendo a sé o al prefetto del pretorio la decisione dei casi più gravi
in cui fossero coinvolti personaggi particolarmente potenti e
conservando ai giudici provinciali solo l’istruttoria di questi delicati
processi.
Più precisamente, si consente ai governatori di rivolgersi direttamente
all’imperatore o al prefetto e, qualora l’esame della causa non possa
aver luogo per comprovate turbative “ambientali”, di trasmettere a
costoro addirittura tutto il fascicolo, con l’intera documentazione,
mediante il sistema della relatio.
Un ulteriore “aggiustamento”, ma sempre nel rispetto sostanziale della
normativa costantiniana, è operato, nell’ottobre del 366, da
Valentiniano I che, con CTh.9.40.1097, estende la cognizione
imperiale in materia penale anche ai processi intentati contro senatori
pro qualitate peccati.
In questo modo l’imperatore, avocando a sé il giudizio dei crimina a
sfondo politico, come il tradimento o la cospirazione, non snatura il
contenuto di CTh.9.1.1, bensì si pone nella stessa direzione di
CTh.1.16.4 nel senso di riservare all’imperatore le questioni più
delicate e scottanti.
Queste deroghe alle disposizioni di CTh.9.1.1 aprono però la strada ad
una serie di ulteriori eccezioni, introdotte dai successori di
Valentiniano I e fondamentalmente dirette ad abrogare il contenuto
della norma del 316. In particolare Graziano, l’11 febbraio 376, con
97
CTh.9.40.10: (Imppp. Valent., Valens et Grat. AAA. ad Praetextatum p.u.).
Quoties in senatorii ordinis viros pro qualitate peccati austerior fuerit ultio
proferenda, nostra potissimum explorentur arbitria, quo rerum atque gestorum
tenore comperto, eam formam statuere possimus, quam modus facti
contemplatioque dictaverit.
57
una serie di prescrizioni, riportate in modo frammentato da
CTh.9.1.1398 e C.I.3.24.2, detta una nuova disciplina di riferimento in
materia di forum senatorio, stabilendo che né i clarissimi né gli
spectabiles possano emettere sentenza in un processo penale istruito
contro un caput senatorium99.
Più
nel
dettaglio
l’imperatore
ripartisce
la
competenza
alternativamente e senza una gerarchia preferenziale tra sé, il prefetto
del pretorio ed il prefetto urbano, affiancato da una giuria di quinque
viri estratti a sorte dall’albo senatorio.
CTh.9.1.13 modifica poi, parzialmente, anche il dispositivo di
CTh.1.16.4 dal momento che interdice ai governatori provinciali la
possibilità di esprimere i propri giudizi od osservazioni sulla causa
nella relatio all’imperatore, circoscrivendo il contenuto di questa alla
sola segnalazione della qualitas del soggetto coinvolto.
Il criterio discretivo pertanto non è più la gravitas a cui fa riferimento
CTh.9.40.10, ma la mera qualitas dell’imputato, per cui è sufficiente
ormai ricoprire la dignità di senatore perché la cognizione della causa
sia devoluta ad uno dei tre tribunali citati in CTh.9.1.13.
98
Per un ulteriore esame di questa costituzione si veda anche U. Vincenti, Note
sull’attività giudiziaria del senato dopo i Severi, in Labeo, 32, 1986, 55-67; Id.,
La partecipazione del senato all’amministrazione della giustizia nei secoli III-VI
d.C. (Oriente e Occidente), Padova, 1992, 136ss.
99
Secondo un’interpretazione più restrittiva, l’espressione caput senatorium si
potrebbe riferire ad un processo capitale intentato contro un senatore. Tale
interpretazione va però respinta. CTh.9.1.13 si propone infatti di riformare
CTh.9.1.1, la legge di Costantino che stabiliva il foro dei senatori in materia di
giurisdizione penale. In CTh.9.1.1 si parla di aliqua culpa seu crimen di cui si
fosse macchiato quicumque clarissimae dignitatis. Ora, posto che nel tardo
impero non tutti i crimina erano puniti con la pena capitale nelle sue varie forme,
ne deriva che, mentre CTh.9.1.1 stabilisce comunque come competente il giudice
del luogo in cui il crimine era stato commesso, CTh.9.1.13 dispone che il giudice
provinciale possa solo istruire una causa penale contro un senatore e, verum nihil
de animadversione decernens, riferisca poi non causae, sed capitis status, senza
distinguere tra processi con o senza imputazione per la pena capitale.
58
Graziano perciò, da un lato, ridimensiona in maniera considerevole la
funzione giudicante di governatori e vicari e, dall’altro, non accentra
su di sé il potere decisorio come ha fatto Valentiniano, ma lo
condivide con il prefetto del pretorio e quello urbano.
Questa situazione, propria dell’Occidente, non si comunica tuttavia
all’Oriente dove rimane in vigore la normativa costantiniana che
Valentiniano aveva modificato e che il fratello Valente aveva recepito
con tali cambiamenti.
A vanificare completamente i tentativi egualitari insiti negli interventi
di Costantino provvede però, non tanto la riforma di Graziano, quanto
le successive prescrizioni emanate a Ravenna dall’imperatore Onorio
il 6 agosto 423.
Esse sono pervenute frammentate in almeno cinque leges del Codice
Teodosiano, le quali, data la coincidenza di inscriptiones e di
subscriptiones, sono state considerate parti
di un unico testo
normativo.
Mentre l’esordio della costituzione, riportato da CTh.1.6.11, attiene
solo ai processi civili e quindi esula dalla nostra indagine, le
successive disposizioni, contenute in CTh.9.1.19, di cui tra l’altro ci
siamo già occupati100, appaiono di maggior interesse.
Con questo intervento Onorio, ribadita la regola della riflessione della
pena in caso di presentazione di un’accusa infondata, prima stabilisce
l’obbligatorietà della custodia preventiva dell’accusatore, tenuto
comunque debito conto della dignitas, poi, passando ad occuparsi
dell’imputato, stabilisce il divieto per il reo confesso sia di chiamare
in correità nell’ambito del processo a suo carico, sia di testimoniare, in
relazione al crimine da lui confessato, in giudizi intentati contro terzi.
59
Tale norma, dettata al chiaro scopo di evitare che, per le ragioni più
varie, innocenti siano coinvolti in vicende criminose a loro estranee,
non manca tuttavia di offrire un’ulteriore tutela anche ai senatori.
Più
tecnica è invece la terza lex, CTh.2.1.12, che, ponendosi in
formale continuità con CTh.9.1.13, dispone che i processi penali
contro i senatori si svolgano secondo la statuta forma quinqueviralis
iudicii101.
Tuttavia le differenze con il provvedimento grazianeo sussistono ed in
particolare, se la costituzione del 376 prevedeva un quinquevirale
iudicium spectatorum maxime virorum da affiancare alla cognitio del
praefectus urbi in CTh.2.1.12 emerge come sia ora il ruolo del
prefetto urbano ad essere subordinato a quello della giuria senatoria.
Un altro dato importante che possiamo rilevare da una attenta lettura
di questo frammento è come ormai non vi sia più traccia della
giurisdizione del prefetto del pretorio nei confronti dell’ordine
senatorio. Questo si spiega col fatto che ora la giurisdizione di tale
alto magistrato è circoscritta ai clarissimi et spectabiles non facenti
più parte dell’assemblea senatoria sia nella pars Orientis che in quella
Occidentis102.
Altra riflessione che può trarre spunto da CTh.2.1.12 è quella per cui
il testo della costituzione non fa più riferimento neppure alla
giurisdizione imperiale, come alternativa a quella quinquevirale,
inducendo a ritenere che la giurisdizione penale sui senatori sia ormai
delegata interamente al praefectus urbi affiancato dalla giuria dei
cinque membri.
Si veda il capitolo secondo § 2.
In proposito riprendo essenzialmente le considerazioni espresse in proposito da
S. Giglio, Il tardo impero, 48ss.
102
Sulle ragioni di questa esclusione si veda S. Giglio, Il tardo impero, 29- 47.
100
101
60
La duratura incidenza delle disposizioni dell’imperatore Onorio e, di
conseguenza, la decisa svolta pro-senatoria della legislazione, almeno
occidentale, è testimoniata da un’epistola di Sidonio Apollinare,
all’epoca prefetto urbano, relativa al processo di Arvaldo, prefetto
delle Gallie ed esponente del ceto senatorio.
La narrazione, oltre ad essere illuminante da un punto di vista
meramente processuale, è di particolare interesse anche in quanto
sottolinea, nuovamente, le difficoltà che si incontrano in Roma ad
amministrare la giustizia penale ogniqualvolta sia implicato un
senatore.
Nel caso concreto, Arvaldo, accusato di crimen maiestatis nel 469,
nonostante i ripetuti tentativi dei suoi sostenitori di farlo assolvere, in
considerazione delle prove schiaccianti a suo carico viene condannato
a morte dalla commissione senatoriale.
L’episodio, oltre a fornire utili informazioni circa l’utilizzo della
custodia preventiva, evidenzia il ruolo ormai centrale assunto dal
senato circa la giurisdizione penale sui suoi membri.
Da notare poi come in questo testo la giuria senatoria risulti composta
da dieci membri, anziché dai tradizionali cinque.
Poiché, però, successivamente al 476 ed in particolare con il re
Teodorico si continua a trovare nelle fonti riferimenti al iudicium
quinquevirale, bisogna ritenere che tale riferimento ai dieci membri,
se non è frutto di un errore materiale nella tradizione del testo, abbia
comunque natura eccezionale.
In assenza di altre disposizioni di rilievo, si può quindi concludere che
dopo l’emanazione di CTh.2.1.12, questa rimane definitivamente la
disciplina applicabile in Occidente in materia di giurisdizione penale
sui senatori, senza necessità di ulteriori deleghe imperiali.
61
In Oriente, invece, la giurisdizione penale sui senatori resta di
competenza esclusiva dell’imperatore posto che si ritiene ancora
applicabile C.I.12.1.6 emanata da Costanzo nel 357, la quale
distingue tra processi contro clarissimi e spectabiles affidati al
prefetto del pretorio e cause aventi a protagonisti illustres, cioè i
senatori, che rimangono di competenza esclusiva del tribunale
imperiale.
Contribuisce
tuttavia
a
modificare
tale
assetto
C.I.3.24.3
dell’imperatore Zenone, datata tra 485 e 486, la quale prevede la
possibilità di almeno tre tipi di giurisdizione delegata.
La prima riguarda la categoria dei patricii e le più alte cariche dello
stato, elencate in modo tassativo e nei confronti delle quali la
giurisdizione penale è devoluta ad un iudex delegatus, scelto
personalmente dall’imperatore.
Il secondo tipo di delega attiene invece agli illustres honorarii
residenti a Costantinopoli: verso di loro l’incriminazione, per mezzo
della relatio all’imperatore, può essere esercitata solo dal prefetto
urbano, da quello del pretorio e dal magister officiorum (quest’ultimo
però solo previa autorizzazione imperiale).
La giurisdizione imperiale sugli illustres residenti in provincia, infine,
spetta, almeno a livello istruttorio, ai giudici territorialmente
competenti, purché sempre attraverso la procedura della relatio.
Da tutto ciò discende come la giurisdizione penale sui senatori nella
pars Orientis abbia avuto disciplina ben diversa rispetto alla pars
Occidentis e quindi non sono state applicate le norme del Codice
Teodosiano. La giustificazione di tali differenze è sicuramente da
ricercare nel diverso peso politico rispettivamente assegnato nelle due
capitali all’assemblea senatoria, nonché in un’altra serie di variabili
62
storico-sociali riassumibili nel rilievo per che in Oriente il maggior
centralismo del potere imperiale ha come conseguenza un
livellamento del trattamento repressivo e una decisa lotta ai privilegi,
mentre, in Occidente, con l’impero ormai in disgregazione, si acuisce
la necessità di conservare gelosamente i privilegi di categoria.
Il privilegio della praescriptio fori è poi riservato ad un’altra categoria
di soggetti: i membri dell’esercito.
Si rileva infatti la tendenza a prescegliere una giurisdizione speciale,
cioè tribunali composti da militari, in materia sia civile che penale.
Più precisamente l’imperatore Costanzo con CTh.2.1.2103 del 355
dispone che, mentre i giudizi civili104 vanno devoluti alla competenza
dei tribunali ordinari, quelli criminali spettano a questi ultimi e cioè,
nella specie, al governatore provinciale, solo qualora il soldato rivesta
il ruolo di accusatore, mentre quando è coinvolto in veste di imputato
la giurisdizione è riservata ai giudici militari105.
103
CTh.2.1.2 [= Brev.2.1.2]: (Imp. Constantius A. ad Taurum p.p). Definitum est,
provinciarum rectores in civilibus causis litigia terminare, etsi militantes
exceperint iurgia vel moverint. Ne igitur usurpatio iudicia legesque confundat
aut iudicibus
ordinariis adimat propriam notionem, ad provinciarum rectores
transferantur iurgia civilium quaestionum. in criminalibus etiam causis, si miles
poposcerit reum, provinciae rector inquirat. Si militaris aliquid admisisse
firmetur, is cognoscat, cui militaris rei cura mandata est. Dat. VIII. kal. aug.
Mediolano, Arbetione et Lolliano coss.
104
Più tardi con C.I.3.13.6 emanata a Costantinopoli da Teodosio nel 413 la
competenza dei giudici militari venne estesa, almeno al ricorrere di determinate
circostanze, anche ai processi civili nei quali fosse convenuto un soldato. Tale
privilegio, inizialmente riaffermato per i limitanei dalla Nov. Theod.4 del 438,
venne in seguito conferito a tutti con le Nov. Theod.7.1 del 439 e 7.2-3 del 440.
105
Non è facilmente determinabile se la costituzione si limiti a recepire una prassi
già inveterata o se invece miri a circoscrivere la tendenza dei militari a
monopolizzare le funzioni giurisdizionali affidandole solo a propri esponenti
interni. In quest’ultimo senso si esprime A.H.M. Jones, Il tardo impero, I, 488.
63
Per quanto concerne l’individuazione di queste autorità competenti,
bisogna ritenere che esse, in genere, coincidano con quelle della più
alta gerarchia militare.
Si consolida così un sistema repressivo nel quale i limitanei sono
sottoposti ai tribunali dei loro duces e comites, mentre i comitatenses
ed i palatini rientrano nella giurisdizione del magister militum106.
Quando i corpi dell’esercito campale vengono stanziati alle frontiere,
si rende però necessario introdurre degli accorgimenti per evitare che
il soldato sia costretto a comparire davanti ad autorità troppo lontane.
Proprio a questa esigenza risponde
una lunga costituzione di
Anastasio del 492, riportata in C.I.12.35.18, nella quale si stabilisce
che i reparti praesentales per Orientem non sono soggetti alla
giurisdizione del magister per Orientem, bensì dei magistri militum
praesentales e dei duces.
Inoltre, mentre in precedenza l’appello contro le sentenze dei duces
era presentato al magister militum competente per territorio, invece
l’imperatore Leone già nel 467 con C.I.12.59.8 affida questo potere al
magister officiorum, lasciando in vita la giurisdizione dei magistri
militum solo in Illirico, Tracia ed Oriente.
Per quanto riguarda infine gli ufficiali, bisogna operare una
distinzione: se militano alle dipendenze dei duces hanno lo stesso foro
dei limitanei; se invece sono sottoposti ai magistri militum hanno in
essi i loro giudici, nei processi sia criminali sia civili, e sia come attori
sia in veste di convenuti.
Tale privilegio è però limitato, a partire dal 491, ad un numero fisso di
ufficiali, pari a 300 per ciascun magister, ai quali viene rilasciato un
106
Così F. De Martino, Storia, 491.
64
documento firmato dallo stesso superiore e senza il quale non è
consentito avvalersi della praescriptio fori107.
Un’ultima riflessione merita infine la qualità e la composizione
dell’organo giudicante.
Venuti definitivamente meno i collegi formati da privati cittadini che
avevano caratterizzato l’epoca tardo repubblicana e imperiale, nel
tardo antico si riscontra una netta prevalenza della figura del giudice
monocratico108. Interessa
al
nostro
studio
accertare
composizione dell’organo giudicante fosse effettiva
109
se tale
e contribuisse
ad alimentare un’amministrazione della giustizia ricca di abusi e
corruzione, come testimoniano certe fonti, soprattutto non giuridiche,
o al contrario concorresse a determinare un esercizio della funzione
giurisdizionale più equo, rapido e privo di condizionamenti esterni.
2. La legislazione in materia di corruzione dei giudici e la figura del
difensore nella testimonianza delle fonti non giuridiche.
L’orientamento in materia di amministrazione della giustizia finora
descritto e che un’autorità come G. Pugliese110 ha sinteticamente
definito come ispirato “ a realizzare la prevalenza della legge su ogni
altro precetto e a far sì che essa fosse rispettata dai vari organi dello
107
Questa evoluzione si coglie da una serie di interventi ed in particolare:
CTh.1.7.4 del 414; Nov. Theod. 7.4 del 441 e C.I.12.54.5 del 491.
108
Fatta eccezione per quelle fattispecie che sono attribuite alla competenza di
giudicare di collegi formati immancabilmente dal quaestor sacri palatii affiancato
da qualche altro alto funzionario imperiale che a seconda dei casi s’identifica con
il prefetto del pretorio (C.I. 7.62.32.1 e 4 del 440) o il magister officiorum (C.I.
7.62.32.38 del 529).
109
Assolutamente contrario all’idea del giudice monocratico è A. Checchini, Studi
sull’ordinamento processuale romano e germanico, 1, Padova, 1925, 89ss.
110
G. Pugliese, Garanzie, 613.
65
stato” presenta, tra le sue ulteriori manifestazioni, una decisa lotta
degli imperatori contro gli abusi e gli arbitrii degli organi giudicanti
ampiamente testimoniati dalle fonti non giuridiche coeve.
Colui che viene coinvolto in un procedimento penale - osserva
Libanio111 - può essere anche innocente, ma ciò difficilmente viene
accertato se è interesse dei giudici e di chi li manovra giudicarlo
colpevole.
L’orazione 33 di questo autore, in particolare, è interamente dedicata
al problema della corruzione112 dei giudici impersonata nella figura di
Tisameno, il consularis Syriae assunto da Libanio come paradigma
degli iniqui giudici del suo tempo.
Tale governatore viene descritto113 come indolente, impreparato ed
essenzialmente dedito alla tortura e all’imposizione del carcere, quasi
queste attività esauriscano l’esercizio della funzione giurisdizionale.
Il consularis – dice Libanio - è veloce nell’arrestare, ma lento nel
prendere le decisioni: fugge i processi come i bambini l’orco e pensa
che essere governatore voglia dire andare a pranzo ed intrattenersi in
Tra i più importanti studi dedicati alla figura di Libanio si ricordino: P. Petit,
Libanius et la curie municipale à Antioche au IVe siècle après J.C., Paris, 1955;
P. Petit – J. Martin, Libanios. Discours I, Autobiographie, Paris, 1979. Qui ho
accolto la traduzione proposta nell’opera di L. De Salvo, Giudici e giustizia ad
Antiochia (la testimonianza di Libanio), in ARC, 11, 1996, 491 nt.24.
112
Tra le opere monografiche che si occupano di tale tematica: P. Veyne,
Clientèle et corruption au service de l’état: la venalité des offices dans le BasEmpire, in Annales ESC, 36, 1981, 339-360; R. MacMullen, Corruption and The
Decline of Rome, New Haven- London, 1988. Per la corruzione della giustizia: J.
Gaudemet, Les abus des “potentes” au Bas-Empire, in The Irish Jurist, 1, 1966,
128-135 (ora in Etudes de droit romain, 3, 1979, 433-442); A.H.M. Jones, Il
tardo, 685-743; F. De Martino, Storia, 5, 494 ss. Sulle origini del problema si
vedano anche: C. Venturini, Concussione e corruzione: origini romanistiche di
una problematica attuale, in Studi Biscardi, 6, Milano, 1987, 133-157; L. Perelli,
La corruzione politica nell’antica Roma: tangenti, malversazioni, malcostume,
illeciti, raccomandazioni, Milano, 1994.
113
Lib, Or. 33.9-10 (3.169-171 Forster) e Lib, Or.33.30 ss (3.180 ss Forster).
111
66
chiacchiere sciocche. Per tali motivi il nostro retore supplica
l’imperatore di inviare un amministratore che sia tutto il contrario114.
Al di là della sicura vena polemica insita nelle parole di questo autore,
non si può trascurare che Libanio fu svariate volte coinvolto in
procedimenti penali e proprio da queste esperienze sembra nascere
una decisa condanna del sistema giudiziario a lui coevo.
La rappresentazione del magistrato corrotto che si dedica alla
spoliazione dei sudditi, anziché allo svolgimento dei propri compiti
istituzionali, è una lamentela che del resto si riscontra in più di un
autore del IV e VI115 secolo a testimonianza di una generale decadenza
nella preparazione degli organi giudicanti, non più costituiti da
soggetti dotati di una apposita formazione, bensì da funzionari
investiti di tale ruolo per ragioni politiche.
114
Lib, Or. 33.43 (3.186 ss Forster): il governatore auspicato da Libanio avrebbe
dovuto avere le seguenti caratteristiche “ un uomo di buon senso che abbia voglia
di lavorare, un uomo fattivo piuttosto che un chiacchierone, uno che voglia usare
la persuasione piuttosto che la repressione, uno che aiuti i poveri piuttosto che i
loro oppressori; che distingua ciò che è possibile da ciò che non lo è, che sappia
capire che c’è un tempo per torturare ed un tempo per minacciare…”.
115
Nel V secolo, Salviano di Marsiglia nel suo De gubernatione Dei osserva come
il giudice, benché personalmente peculator, raptor, eversor urbium et expoliator
provinciarum si permetta comunque di punire negli altri le stesse colpe (Gub.
7.21.91). Tale scrittore ecclesiastico sottolinea poi come alle leggi dovessero
ubbidire humiles, abiecti, pauperculi, mentre chi doveva farle rispettare di fatto le
disprezzava (Gub.7.21.91-93). Questo - secondo Salviano- era dovuto alle stesse
norme, che avevano qualcosa di ambiguo e quindi permettevano ai potentes di
disattenderle.
67
Al capitolo quarto del De rebus bellicis116, per esempio, si parla di
execranda cupiditas degli iudices i quali “…velut mercatores117 in
provincias se missos existimant, eo graviores quod ab his procedit
iniquitas unde debuit sperari medicina... ”. Mentre al successivo
capitolo ventuno l’anonimo richiede allo stesso imperatore la
medicina contro tanta improbità: “…ut confusas legum contrariasque
sententias, improbitatis reiecto litigio, iudicio augustae dignationis
illumines…”.
Un’altra abitudine inveterata che Libanio condanna nelle orazioni 51
e 52118 e che concorre a rafforzare il convincimento di una giustizia
ormai allo sbaraglio è quella delle visite ai giudici.
Si tratta di un trattatello di anonimo autore, la cui datazione più convincente
rimane, per ora, quella ai primi anni della seconda metà del IV secolo d.C. Così
almeno ritengono: S. Mazzarino, Aspetti sociali del quarto secolo. Ricerche di
storia tardo-romana, Roma, 1951, 72ss, che propone come data o il 353-354 o il
355-360; E.A. Thompson, A Roman Reformer and Inventor. Being a new Text of
the Treatise De Rebus bellicis with a Translation and Introduction, Oxford, 1952,
che con la datazione 366-375 d.C. riprendeva sostanzialmente la vecchia tesi di O.
Seeck, s.v. Anonimi De rebus bellicis in P.W. 1.2, 1894, 2325; Di recente a favore
dell’ipotesi di S. Mazzarino e contro le datazioni del V secolo si sono espressi: L.
Cracco Ruggini, Utopia e realtà di una riforma monetaria: l’Anonymus de rebus
bellicis e i Valentiniani, in Studi per L. Breglia, Suppl. al Bollettino di
Numismatica, 4, 1987, 189; A. Giardina, Anonimo, Le cose della guerra, Milano,
1989, 39 nt.2; S.A. Fusco, La brama di ricchezza e l’oppressione dei cittadini:
finanze e amministrazione nella visione costituzionale dell’anonimo De rebus
bellicis, in ARC 12, 1998, 293. Tra coloro che invece si esprimono a favore del V
secolo si veda per tutti: H. Brandt, Zeitkritik in der Spatantike. Untersuchungen zu
den Reformvorschlagen des Anonymus De rebus bellicis, Munchen, 1988, 135ss,
che propone il periodo 400-455.
117
A. Giardina, Anonimo, 105, sottolinea come il riferimento ai mercatores
ricalchi un topos letterario antichissimo utilizzato, tra gli altri, da Cicerone in
Ver.2.4.8 e più tardi da Simmaco, Ep.9.42 (in proposito S. Roda, Commento
storico al libro IX dell’epistolario di Q. Aurelio Simmaco, Pisa, 1981, 170).
118
Secondo Forster 4.1 tali orazioni sono state scritte l’una poco prima e l’altra
poco dopo il 388 e sono talmente simili da aver fatto ritenere all’autore di essere
doppioni. In senso opposto si pronuncia invece P. Petit, Recherches sur la
publication et la diffusion des discours de Libanius, in Historia, 5, 1956, 483, per
il quale si tratta di due orazioni separate.
116
68
Essi vengono descritti come sottoposti a continue pressioni da parte
dei potentiores, sia attraverso l’assedio in casa che le sollecitazioni
negli stessi tribunali.
I malcapitati - racconta Libanio - sono importunati giorno e notte alla
loro tavola, nelle loro camere da letto e persino durante la loro
permanenza alle terme119.
Una
simile
situazione
non
fa
che aggravare
lo
stato di
un’amministrazione giudiziaria già pregiudicata nella sua regolarità,
posto che, lamenta Libanio, con la loro insistenza tali persecutori
riescono a strappare sentenze e favori per i loro assistiti,
indipendentemente dall’effettiva colpevolezza degli imputati.
Ne deriva la difficoltà, anche per il giudice più corretto, di mantenersi
equo davanti alle sollecitazioni provenienti da ogni parte120, per cui
Libanio invoca un intervento dell’imperatore Teodosio in materia.
I giudici – rivela il retore121 – sono spesso minacciati di invettive e
diffamazioni nel caso che non concedano i vantaggi richiesti.
Così si lasciano intimidire e pronunciano sentenze favorevoli , mentre
coloro che li hanno fino a quel momento perseguitati ottengono dai
loro protetti ingiustamente assolti ricchezze di vario genere.
Un'altra
manifestazione
significativa
di
questo
è
fenomeno
rappresentata dalle azioni di disturbo esercitate nello stesso tribunale.
Lib, Or.52.6-7 (4.28 Forster) racconta l’aneddoto di un governatore che, dopo
aver rifiutato i favori richiestigli mentre si trovava alle terme, fu assalito da un tale
munito di inchiostro e penna che lo costrinse ad apporre la propria firma, tra le
risate dei presenti. L'episodio è indicativo dello stato caotico e irregolare in cui
potevano essere emanate certe sentenze.
120
Le pressioni non provenivano soltanto dagli honorati, ma anche dai maestri di
retorica e persino dai medici (Lib, Or.52.35; 4.41 Forster).
121
Lib, Or.51.6-8 (4.9ss Forster)
119
69
I molestatori si appostano strategicamente accanto ai giudici,
sussurrando loro consigli e sottili minacce all’orecchio e non
permettendo così che sia fatta veramente giustizia.
I più temerari arrivano a sedersi sullo stesso seggio del giudice e “ …
finiscono col convincerlo di cose di cui non avrebbero potuto
convincerlo i fatti… ”.
Infine anche le lettere commendatizie, la cui diffusione nel mondo
antico è ormai generalmente riconosciuta122, vengono condannate da
Libanio come possibili responsabili di influenze negative sui giudici.
Quando infatti i potenti non possono assillare i governatori con la
propria presenza fisica - narra - ricorrono a lettere che talora
sortiscono più effetto di lunghi discorsi123
Libanio ostilmente conclude dichiarando che tali prassi “…hanno tolto
forza al giusto, aumentando la possibilità di commettere ingiustizie e
permettendo ai criminali di prendersi gioco della giustizia124…" , con
la conseguenza di rafforzare un sistema già malato in cui “… il nome
del potente dà forza alla sentenza e vale più della verità125…”.
Gli interventi legislativi imperiali, dei quali ora ci occupiamo,
sembrano in effetti confermare il clima di tensione in cui i giudici di
La prassi delle lettere commentatizie, già attestata ai tempi di Cicerone e
Plinio, anche nel IV secolo ha ampia diffusione. In particolare ci è pervenuta
notizia delle epistole indirizzate dai vescovi Gregorio di Nazianzo (tra le più
significative si vedano Epp.13;146;198 = 1.20ss; 2.37ss; 2.90ss. Gallat) e Basilio
di Cesarea (Epp.111.2.12;137.2.53;273-275.2.146 Courtonne) alle autorità statali
per difendere persone ingiustamente accusate e denunciare la venalità ed iniquità
dei giudici, spesso stimolata dalle sollecitazioni dei potentiores. Sul punto: Y.
Courtonne, Un témoin du IV siècle oriental. Saint Basile et son temps d’après sa
correspondence, Paris, 1973, 376-378; M. Forlin Patrucco, Basilio di Cesarea. Le
lettere, in Corona Patrum, 11, Torino, 1983; O. Zappalà, Le Litterae
commendaticiae di Basilio di Cesarea, in Êïéíùíéá, 17, 1993, 49-60.
123
Lib. Or.51.11 (4.11 Forster).
124
Lib. Or.52.8 (4.29 Forster).
125
Lib, Or.52.13 (4.31 Forster).
122
70
prima istanza (nessun provvedimento fa infatti riferimento alla fase di
appello) sono chiamati ad esercitare le proprie funzioni e la
sussistenza di un assai elevato grado di ingiustizie, disuguaglianze e
corruzioni, è forse da ascrivere al dissolvimento dei valori propri
dell’antica classe dirigente e alla disgregazione della compagine
amministrativa, prodottasi nel corso del III secolo.
In tale periodo, che si suole chiamare dell’anarchia militare (dalla
morte di Alessandro Severo nel 235 fino Diocleziano nel 284, con la
sola interruzione restauratrice di Aureliano), infatti, si era assistito ad
una decomposizione della struttura costituzionale che aveva coinvolto
anche l’ambito giudiziario.
Gli aspetti in cui scomporre la problematica sono complessi, ma tra
loro fortemente collegati.
Da una parte, vi è infatti l’esigenza di proteggere i giudici dalle
pressioni esterne; dall’altra, quella di evitare che essi stessi,
autonomamente, commettano iniquità.
Gli imperatori, in un’ottica di bilanciamento dei diversi valori in gioco
ed in particolare dell’esigenza di celerità dei giudizi e di una
ragionevole e soprattutto libera ponderazione degli stessi, dettano
misure rivolte ad evitare la segretezza e l’inerzia.
Garantire la pubblicità significa, infatti, ridurre il rischio di giudizi
pilotati e sommari, così come porre precisi limiti temporali alla durata
delle cause ha il fine di evitare che istruttorie prolungate all’infinito
celino sostanziali dinieghi di giustizia, in attesa della morte del
presunto reo che, nel frattempo, si trova in carcere.
Centrale a questo proposito è un editto di Costantino del 1° novembre
71
331126 in cui si dettano alcune direttive fondamentali che dovranno
guidare l’attività dei praesides e dei loro collaboratori.
Tale intervento è pervenuto in due parti, rispettivamente CTh.1.16.6127
e CTh.1.16.7128, inserite nel titolo De officio rectoris provinciae.
Data l’importanza delle relative prescrizioni, ritengo opportuno
riprodurne il testo :
CTh.1.16.6: (Imp. Constantinus A. ad provinciales). Praesides
publicas notiones exerceant frequentatis per examina
tribunalibus, nec civiles controversias audituri secretariis sese
abscondant, ut iurgaturus conveniendi eos nisi pretio
facultatem impetrare non possit, et cum negotiis omnibus, quae
ad se delata fuerint, exhibuerint audientiam et frequens
praeconis, ut adsolet fieri, inclamatio nullum, qui
postulare voluerit, deprehenderit, expletis omnibus actibus
publicis privatisque sese recipiant. Iustissimos autem et
vigilantissimos iudices publicis adclamationibus collaudandi
damus omnibus potestatem, ut honoris eis auctiores proferamus
processus, e contrario iniustis et maleficis querellarum vocibus
accusandis, ut censurae nostrae vigor eos absumat; nam si
Nell’anno 331, Costantino diresse a tutti i provinciali, da Costantinopoli, due
ampi editti, ricostruibili attraverso i brani collocati in diversi titoli dei Codici
Teodosiano e Giustinianeo. In Chronologia Codicis Theodosiani, ad a.331 (Cod.
Theod. cum perpetuis commentariis J. Gothofredi, Mantova, 1740, 1, 31) Jacopo
Gotofredo, studiando le parti a lui note di queste due leggi, ne definì il contenuto:
“ de iudiciorum ordine et sanctitate”. Mentre dell’editto del 1° novembre ci
occuperemo diffusamente, quello del 1° agosto può essere sinteticamente
riassunto come incentrato a disciplinare i rapporti gerarchici tra giudici di diverso
grado. In considerazione della vicinanza delle date di emissione e della identità
dei destinatari, si è discusso circa la possibilità che i due editti costituissero
un’unica lex generalis. Tuttavia questa ipotesi, avanzata da J. Gotofredus,
Chronologia, 1, 42 e 378, e seguita da Krüger, Codex Theodosianus, 1-8, Berlino,
1923-26, nt.10 a 1.16.6, è invece respinta da Th. Mommsen, Prolegomena, 1 e da
O. Seeck, Regesten, 181.
127
Secondo R. Bonini, Ricerche, 98, il testo di questa costituzione, che non
compare nella compilazione visigotica del 506 ed è solo parzialmente ripreso dal
codice giustinianeo, è noto per mezzo del manoscritto Ambrosiano C.29 inf. in cui
i primi libri del Breviario Alariciano sono integrati con costituzioni tratte, si
ritiene, da un Codice Teodosiano integro.
128
Conosciamo tale costituzione solo attraverso la Lex Romana Visigothorum
1.6.1.
126
72
verae voces sunt nec ad libidinem per clientelas effusae,
diligenter investigabimus, praefectis praetorio et comitibus, qui
per provincias constituti sunt, provincialium nostrorum voces
ad nostram scientiam referentibus. Proposita k. nov.
Constantinopoli Basso et Ablavio conss.
Partendo dall’esame della prima costituzione, si può notare come essa
imponga ai giudici di svolgere i processi pubblicamente, davanti alla
folla raccoltasi nel tribunale, anziché nascondersi nelle proprie stanze
private al fine di costringere il litigante ad un esborso di denaro per
poterli adire. Solo dopo aver ascoltato tutti i contendenti ed espletato
le necessarie formalità, tra le quali, in particolare, la redazione degli
atti pubblici e privati sarà loro concesso ritirarsi, ponendo così fine
all’udienza.
Questa costituzione pertanto, già nelle sue prime righe, sembra sancire
il rispetto di due libertà fondamentali e più precisamente: la necessaria
pubblicità dei processi, come garanzia contro gli abusi insiti nella
segretezza della trattazione, nonché il diritto di accedere al giudice per
ottenerne una pronuncia.
Rimandando al capitolo successivo per il dibattito circa lo
svolgimento pubblico o meno del processo nel tardo antico, non si può
negare come tale intervento sia sintomatico di una specifica attenzione
per la tematica della pubblicità.
La probabile presa di coscienza della stretta interdipendenza
sussistente tra gli abusi processuali e la posizione di predominio, che il
nuovo assetto organizzativo aveva assegnato alla burocrazia, deve
infatti aver condotto il legislatore a considerare la pubblicità della
73
pronuncia prima129 e quella dell’intero giudizio poi, come un possibile
e vincente rimedio contro le ingiustizie.
In questo senso si esprime F. De Marini Avonzo130, per la quale “ …
in questa situazione … la pubblicità poteva acquistare un significato
che non aveva mai avuto nella storia processuale romana, come
strumento di informazione e di controllo da parte della collettività
sull’opera dei giudici… ”.
Ancora più significativamente, l’autrice, proprio con riguardo
all’editto del 1 novembre 331, osserva come “ …questa rinnovata
coscienza … emerga proprio ad opera di Costantino, al quale va
riconosciuto il merito di aver per primo impostato il problema della
pubblicità, entro quei termini di libertà e giustizia che ne hanno fatto
un principio operante nella nostra storia giuridica… ”131.
Costantino sembra infatti, per la prima volta, configurare un controllo
della collettività sull’operato dei giudici, affinché ciò costituisca sia un
deterrente contro eventuali abusi, sia un agevole strumento per
pervenire alla loro conoscenza, qualora e comunque perpetrati.
Al rilievo che tale intervento valga solo per i processi civili, si può
facilmente ribattere che la stessa impostazione sistematica era già stata
manifestata da Costantino nel 313 in :
Per limitarci alla sola legislazione di Costantino, si può sottolineare come
questo imperatore, già ben prima del 331, avesse emanato disposizioni in tema di
pubblicità della sentenza, in particolare si vedano : CTh.8.4.2 del 315; CTh.1.22.1
del 316; CTh.1.16.3 e 2.10.2 del 319; CTh.1.5.1, 1.15.1, 2.10.3 , 9.1.4 del 325;
130
F. De Marini Avonzo, La giustizia nelle province agli inizi del basso impero. I
principi generali del processo in un editto di Costantino, in Studi Urbinati, 31,
1962-1963, 310 (ripubblicato in Synteleia Arangio-Ruiz, II, Napoli, 1964,
1049ss).
131
F. De Marini, La giustizia, 311.
129
74
CTh.1.12.1: (Imp. Constantinus A. Aeliano proconsuli Africae).
Omnes civiles causas et praecipue eas, quae fama celebriores
sunt, negotia etiam criminalia publice audire debebis tertia, vel
ut tardissime quarta vel certe quinta die acta conficienda
iussurus. Quae omnia legati quoque coercitione commoniti
observabunt.
Con questa norma si impone infatti che tutte le udienze del
proconsole, tanto civili che penali, siano condotte pubblicamente.
Tornando ad occuparci dell’editto, si deve notare come esso, non solo
si preoccupi di garantire lo svolgimento coram populo dei processi,
ma anche la disponibilità dei giudici e la gratuità dell’accesso alle
strutture giudiziarie.
L’espressione “…audituri secretariis sese abscondant, ut iurgaturus
conveniendi eos nisi pretio facultatem impetrare non possit… ” non
costituisce, infatti, un mero rafforzamento dell’obbligo di giudicare
pubblicamente, sancito nella prima parte dell’editto, ma al contrario,
mediante il divieto imposto ai giudici di ritirarsi anticipatamente negli
auditoria o secretaria, pone un precetto ulteriore, volto ad evitare la
mercificazione dell’attività giudiziaria.
Imporre al giudice di essere accessibile al litigante, senza per questo
pretendere introiti indebiti, è una disposizione che, nella sua
semplicità, riesce ad essere interpretata almeno in tre modi diversi.
Da una parte infatti può essere letta come un’imposizione al giudice di
ricevere le parti senza ritardi, per ovvie ragioni di rapidità dei giudizi.
Dall’altra si potrebbe intendere come volontà di circoscrivere le visite
ai giudici, da parte dei soggetti interessati al processo, solo alle
apposite stanze e non ad altri luoghi, dove sarebbe più facile
perpetrare corruzioni.
75
Infine, più letteralmente, si può attribuire a tale norma il solo
significato di un divieto al giudice, nello svolgimento delle proprie
mansioni, di imporre interruzioni non previste e pretendere somme di
denaro non dovute, per l’esercizio di una funzione a lui
specificatamente devoluto dall’imperatore.
Posto che riguardo alla repressione dei primi due abusi esistono
ulteriori norme ad hoc132, ritengo di dover privilegiare quest’ultimo
significato, che considero perfettamente coerente con l’impostazione
burocratica tardo antica.
Un’altra disposizione contenuta in CTh.1.16.6, meritevole di
particolare attenzione, è quella relativa all’obbligo del giudice di
compilare tutti gli atti pubblici e privati.
Tale prescrizione va interpretata come una garanzia di regolarità del
giudizio in quanto la documentazione permette sia di avere piena
conoscenza dell’attività svoltasi oralmente, sia di esercitare un
controllo, anche posteriore.
Come infatti osserva B. Santalucia133 “…l’uso di redigere processi
verbali delle dichiarazioni dei testimoni e delle varie attività
dibattimentali, già noto al processo dinanzi alle corti giurate, ma
generalizzatosi soprattutto nella pratica delle cognitiones, stante
l’esigenza di conservare al giudice di appello la documentazione delle
prove e delle ragioni esaminate in primo grado, trovò in quest’epoca
definitiva affermazione…”.
In particolare, da CTh.1.12.1 del 313 e da una successiva costituzione
di Teodosio del 440, riportataci da C.I.7.62.32.2, ricaviamo che
quanto veniva detto o fatto nel corso della causa era oggetto di
132
133
Si veda infra § 4 di questo capitolo.
B. Santalucia, Diritto e processo, 285.
76
apposite registrazioni in forma “stenografica” da parte degli
exceptores.
Tale materiale era successivamente trascritto integralmente in un
protocollo che era oggetto di sottoscrizione da parte del giudice e
veniva depositato in cancelleria dove gli interessati potevano
prenderne visione ed estrarne copia.
Per effetto di un intervento di Onorio del 397 contenuto in C.I.7.45.12,
la sentenza poté poi essere redatta sia in latino che in greco, purché ne
fosse data lettura pubblica e fosse inserita nel verbale in originale, o
almeno in copia, essendo assurto ormai ciò a requisito formale.
Il rigido rispetto delle regole di verbalizzazione e l’obbligo di udienza
aperta costituiscono pertanto le principali manifestazioni della
pubblicità processuale tardo antica.
La successiva disposizione dell’editto che, pur attenendo, a mio
parere, all’effettività delle norme penali, preferisco comunque trattare
in questa sede, pone un principio di estrema civiltà giuridica.
Si riconosce, infatti, un ampio potere di controllo da parte della
popolazione sull’operato dei governanti134 che, in questo modo,
vedono, almeno teoricamente, condizionato il proprio accesso alle
cariche superiori dal giudizio, positivo o meno, espresso nei loro
confronti dai provinciali.
Voler riconoscere in tale disposizione un antesignano del principio
democratico della rappresentanza politica, in base al quale la
collettività può esercitare un controllo sui propri rappresentanti ed
La tendenza a reprimere gli abusi dei governatori e, più in generale, dei
funzionari imperiali, mediante un controllo esercitato dai cittadini, era già stata
manifestata da Costantino, alcuni anni prima, in CTh.8.10.1 (= C.I.12.61.1) del
314 e CTh.9.1.4 del 325. In entrambi i casi esortava i cittadini a denunciare le
malversazioni, con l’onere però di provarne il fondamento.
134
77
eventualmente sanzionarli con la mancata rielezione, è senz’altro fuori
luogo, sia perché all’epoca non esisteva alcun sistema elettorale che
permettesse alle popolazioni di esprimere le proprie preferenze, sia
perché un imperatore illuminato, ma comunque assoluto, quale
Costantino, non avrebbe mai voluto inaugurare, neppure parzialmente,
un simile meccanismo.
Ritengo, tuttavia, che tale disposizione, indipendentemente dalla
propria effettività, appronti ugualmente una garanzia importante,
benché su tutto altro versante, cioè quello dei rimedi contro la
corruzione degli organi giudiziari.
Invitando i provinciali a conlaudare publicis adclamationibus i
governatori che si siano dimostrati corretti ed efficienti ed invece ad
accusare querellam vocibus135 quelli disonesti e malvagi, Costantino
non fa che facilitare l’individuazione dei giudici corrotti che, con le
loro malversazioni, danneggiano non solo i provinciali, ma lo stesso
imperatore.
Va comunque sottolineato come l’editto di Costantino, pur proibendo
una serie di comportamenti scorretti, non sembri elaborare una
specifica fattispecie criminale, in relazione alla quale attribuire la
legittimazione attiva ai provinciali.
135
Questa espressione ha determinato diversi problemi interpretativi; infatti,
mentre F. De Marini Avonzo, La giustizia, 314, ritiene non indichi un’accusa in
senso tecnico, stante ormai il superamento, a suo parere, della necessità di una
promozione solenne dell’iniziativa nel sistema della cognitio extra ordinem, al
contrario T. Spagnuolo Vigorita, Execranda pernicies, 51, e sul suo esempio G.
Zanon, Le strutture accusatorie della cognitio extra ordinem nel Principato,
Padova, 1998, 47, preferiscono credere che l’espressione querellarum vocibus,
contenuta nel testo, stia ad indicare le accuse solenni di malversazione proposte
dai cittadini nei confronti dei governatori; l’utilizzazione di tale termine, al posto
del più tecnico accusatio potrebbe, secondo loro, spiegarsi perciò in virtù
dell’esonero per gli abitanti delle province dalla formalità del libello.
78
Ciò era accaduto in passato in ordine al crimen repetundarum, ma nel
sistema delle cognitiones, a differenza che in quello dei iudicia
publica, sembra più probabile ritenere che, per ottenere assistenza
giudiziaria, sia ormai sufficiente rivolgersi alle autorità competenti ad
istruire un’eventuale inchiesta, senza necessità di un apposito
riconoscimento legislativo di questa capacità.
La disposizione va poi letta alla luce del rapporto che Costantino
aveva inteso instaurare con i provinciali.
A differenza dei suoi predecessori che, in un’ottica accentratrice,
avevano sempre cercato di limitarne le ingerenze e i controlli sulla
politica centrale, Costantino preferisce invece assegnare a tali apporti
il ruolo di garanzie di buon governo e pertanto li incoraggia e
disciplina.
Siffatta apertura, assai significativa dal punto di vista concettuale, va
comunque ridimensionata sotto un profilo pratico, stante la difficoltà
delle popolazioni di far sentire la proprio voce e soprattutto assumersi
il rischio di inimicarsi il governatore in carica.
Passando ad una esegesi di CTh.1.16.7, che abbiamo finora trascurato,
si riscontrano nuove tutele contro le illecite esazioni, ma, questa volta,
non del governatore, quanto dei membri del suo officium.
CTh.1.16.7: (Imp. Constantinus A. ad provinciales). Cessent
iam nunc rapaces officialium manus, cessent inquam: nam si
moniti non cessaverint, gladiis
praecidentur. Non sit venale
iudicis velum, non ingressus redempti, non infame licitationibus
secretarium, non visio ipsa praesidis cum pretio… Absit ab
inducendo eius, qui officii princeps dicitur, depraedatio; nullas
litigatoribus adiutores eorundem officii principum concussiones
adhibeant; centurionum aliorumque officialium, parva
magnaque poscentium, intolerandi impetus oblidantur,
eorumque, qui iurgantibus acta restituunt, inexpleta aviditas
79
temperetur. Semper invigilet industria praesidalis, ne quicquam
a praedictis generibus hominum de litigatore sumatur. Qui si de
civilibus causis quicquam putaverint esse poscendum, aderit
armata censura, quae nefariorum capita cervicesque detruncet,
data copia universis, qui concussi fuerint, ut praesidum
instruant notionem. Qui si dissimulaverint, super eodem
conquerendi vocem omnibus aperimus apud comites cunctos
provinciarum aut apud praefectum praetorio, si magis fuerit in
vicino, ut his referentibus edocti, super talibus latrociniis
supplicia proferamus.
Costantino, nella propria personale “crociata” contro le malversazioni,
aveva, già negli anni precedenti, dettato almeno due disposizioni sulle
quali ritengo utile soffermarmi.
Prima, nel 325, con CTh.1.15.1136 aveva disposto che ogni volta vi
fosse stato il rischio per il giudice di grado inferiore di subire
sollecitazioni da un potens, in deroga ai criteri sulla ripartizione delle
cause, la relativa controversia fosse devoluta al vicario. Appena tre
anni dopo, nel 328, con CTh.1.16.4137, quasi a completamento della
disposizione precedente, imponeva in capo allo stesso giudice,
sottoposto a pressioni, di denunciare l’accaduto all’imperatore o al
prefetto del pretorio.
Solo nel 331, però, detta una norma volta a riportare in maniera decisa
la burocrazia ad una dignità ed ad un rispetto della legalità più
consone alle sue funzioni.
Con CTh.1.16.7 si ordina infatti in modo perentorio “…Cessent iam
nunc rapaces officialium manus, cessent, inquam: nam nisi moniti
cessaverint, gladiis praecidentur…”.
136
Di tale costituzione si occupa, tra gli altri, M. Lauria, Ius. Visioni romane e
moderne. Lezioni, Napoli, 1962, 59ss.
80
Questo passo, così come l’intero testo di questa costituzione, ha dato
luogo ad alcuni problemi interpretativi; in particolare ci si è chiesti se
essa sancisse un generale divieto di esigere qualsiasi compenso per
l’attività svolta da parte dei componenti degli uffici sottoposti al
governatore oppure, in un’ottica di coordinamento con la precedente
CTh.1.16.6, si limitasse a reprimere le concussioni corrispondenti alle
violazioni sopra descritte.
Una risposta parzialmente soddisfacente mi sembra essere offerta
dallo stesso testo della costituzione, che contiene un’elencazione delle
condotte da reprimere la quale, benché non esaustiva, probabilmente
circoscrive l’ambito degli illeciti punibili.
Si vieta infatti che il velum del giudice sia suscettibile di vendita, che
l’ingresso e la stessa vista del preside abbiano un prezzo ovvero che il
secretarium si svilisca diventando oggetto di asta.
Queste prescrizioni, alquanto tautologiche, sembrano ribadire il
divieto di amministrare la giustizia senza il rispetto degli elementari
principi di pubblicità, libertà e gratuità espressi nella prima parte
dell’editto, rivolgendosi però, in questo caso, non direttamente al
giudice, ma ai suoi collaboratori che, con le loro condotte, potrebbero
agevolare l’instaurarsi di tale situazione di illegalità.
Segue a questo punto una lunga enumerazione delle diverse pratiche
condannabili e dei funzionari che avrebbero potuto concorrervi.
In sintesi Costantino commina la pena capitale a tutti coloro che,
officiales
o
scribae,
richiedano
qualche
compenso
per,
rispettivamente, ammettere le parti alla presenza del giudice o
consegnare loro gli atti processuali. La finalità di ciò, secondo le
Vedi S. Giglio, Il tardo impero d’Occidente e il suo Senato. Privilegi fiscali,
patrocinio, giurisdizione penale, Napoli, 1990, 102ss.
137
81
parole contenute nella interpretatio, sarebbe stata quella di far sì che
“…interpellantes tam divites quam pauperes sine ullo praemio
audiatur…”.
Considerando tale costituzione si può quindi ritenere che essa, come
ha acutamente osservato F. De Marini Avonzo138 “ …sanzionando con
la pena capitale le direttive fondamentali sull’andamento dei processi
costituisca il primo tentativo volto a far rispettare anche dal basso il
nuovo ordinamento pubblicistico, la cui caratteristica più importante è
forse quella di aver trasformato l’amministrazione della giustizia in
una parte della funzione amministrativa statale… ”.
Rimandando all’ultimo capitolo per una trattazione della complessa
problematica della responsabilità dei funzionari imperiali nel tardo, va
sottolineato come anche i successori di Costantino continuino ad
emanare disposizioni volte ad evitare episodi di corruzione stante la
probabile persistenza del fenomeno.
In particolare, tali propositi trovano puntuale attuazione nell’opera
legislativa dell’imperatore Giuliano.
Bisogna premettere che una delle primarie cause della decadenza e
della corruzione del tempo era lo stesso sistema di reclutamento dei
governatori, i quali dovevano sostenere ingenti spese per l’acquisto
della carica e cercavano, non appena l’avessero ricoperta, di
recuperare le somme perdute eleggendo l’attività giudiziaria a fonte
prima del loro arricchimento139.
Intuendo che una delle principali cause della degenerazione della
giustizia era proprio il sistema dei suffragia, Giuliano cercò di porre
138
139
F.De Marini Avonzo, La giustizia, 325.
A.H.M. Jones, Il tardo, 486ss.
82
rimedio a tale fenomeno mediante la promulgazione di CTh.2.29.1 del
1° febbraio 362 volta a regolare l’attività dei suffragatores.
Pur non soffermandomi sull’interpretazione del testo di questa
costituzione, che è stato oggetto di un vivissimo dibattito140, mi limito
a segnalare come ad oggi la dottrina141 sia orientata a ritenere che
l’imperatore con questa disposizione abbia mirato a ridurre la
corruzione nell’amministrazione statale punendo i corruttori ancora
prima che i corrotti.
Al di là dell’intervento in esame, l’attenzione di questo imperatore per
i problemi della giustizia è in ogni caso grande ed infatti egli dimostra
di cercare effettivamente di risolvere le relative questioni per mezzo
dell’azione legislativa, rispondendo, per quanto possibile, alle istanze
dei suoi sudditi.
Illuminante a questo proposito è l’episodio di cui furono protagonisti
l’ex governatore della Gallia Narbonense Numerio, accusato di
malversazione, e il famoso oratore Delfidio che lo attaccava con
violenza, senza riuscire a sostenere l’accusa con prove adeguate142.
140
Su questa costituzione si sono soffermati, giungendo a conclusioni diverse: W.
Goffart, Did Julian Combat Venal Suffragium ? A note on CTh.2.29.1, in CPh,
65, 1970, 145-151; T.D. Barnes, A Law of Julian, in CPh, 69, 1974, 288-291; R.
Andreotti, Problemi del suffragium nell’imperatore Giuliano, in ARC,1, 1975, 326. Per una sintesi di tali posizioni vedi M. Caltabiano, Un quindicennio di Studi,
116-118. Sulla storia e l’evoluzione del suffragium nel basso impero e sulla
legislazione precedente e successiva a quella di Giuliano vedi C. Collot, La
pratique et l’institution du suffragium au Bas Empire, in RD, 43, 1965, 185-221.
141
In questo senso P. Arina, La legislazione di Giuliano, in AAN, 1985, 218; M.
Sargenti, Aspetti e problemi dell’opera legislativa dell’imperatore Giuliano, in
ARC, 3, 1979, 323-381, ed in particolare per la legge in questione 343, ora in Id.,
Studi sul diritto del tardo impero, Padova, 1986, 177-190. Tale autore rileva come
per mezzo di questa costituzione, Giuliano colpisse, almeno indirettamente, la
pratica dei suffragia negando la validità dei relativi accordi, vietando la
ripetizione delle somme in base ad essi pagate e punendo chi violasse tali
disposizioni con un’adeguata multa.
142
Amm.18.1.4
83
In questo frangente Giuliano non solo rifiuta di condannare un
innocente sulla base di inconsistenti indizi, ma comprova anche la sua
sensibilità per la pubblicità dei dibattimenti, dal momento che procede
all’interrogatorio, solo dopo aver ammesso ad assistere al processo
coloro che lo desiderino.
In proposito M. Sargenti ha sottolineato come “… l’impegno di questo
imperatore consistette nello snellimento e nell’accelerazione del
processo, ma soprattutto nel miglioramento della sua qualità e
nell’affermazione di un rigoroso principio di giustizia…”143.
Il valore della pubblicità, intesa come necessaria presenza di spettatori
all’udienza, viene poi ribadito, nel 364, anche da Valentiniano I 144 che
emette varie disposizioni dirette ad evitare sia la segretezza dei
giudizi, sia la corruzioni dei giudici.
Con più precisione in CTh.1.16.10 del 365 e soprattutto in
CTh.1.16.11 del 369 invita i giudici a curare il mantenimento
dell’ordine pubblico
e a difendere i cittadini di bassa estrazione
sociale dalle vessazioni dei potenti.
Al fine poi di contrastare le indebite influenze esterne sui giudici
Graziano nel 377, con CTh.1.16.13, proibisce a tutti coloro che
risiedono nella provincia di far visite private al governatore nelle ore
pomeridiane, a motivo sia della conoscenza personale, sia del loro
rango ed Onorio nel 408 in CTh.1.20.1 reitera questo concetto,
143
M. Sargenti, Aspetti, 366-368.
CTh.1.16.9: (Impp. Valentin. et Valens AA. Have Arthemi, carissime nobis).
Iudex sibi hanc praecipuam curam in audiendis ac discingendis litibus impositam
esse non ambigat, ita ut non in secessu domus de statu hominum vel
patrimoniorum sententiam ferat, sed apertis secretarii foribus, intro vocatis
omnibus, aut pro tribunali locatus et civiles et criminales controversias audiat,
ne congruae ultionis animadversio cohibeatur. Absit autem, ut iudex, popularitati
et spectaculorum editionibus mancipatus, plus ludicris curae tribuat quam seriis
actibus.
144
84
aggiungendo che gli honorati non possono godere del privilegio di
sedere al banco del giudice, se è in corso un’azione giudiziaria nella
quale sono implicati.
Queste costituzioni non dovettero sortire l’effetto voluto, se ancora nel
VI secolo Giustiniano si trovò a tentare di sradicare il malcostume
giudiziario.
Per limitarci ai testi principali, si può ricordare come nel 535 la
Nov.8145 lamenti ancora l’abitudine dei governatori provinciali di
rilasciare, dietro pagamento di un’indebita somma di denaro, i
delinquenti o, ancora più gravemente, di condannare innocenti con la
conseguente crescita di omicidii, adulteri, rapimenti di vergini ed altri
vergognosi delitti. In tale disposizione l’imperatore si limita ad
imporre ai giudici la prestazione di un giuramento contenente, tra
l’altro, la promessa di perseguire i reati, senza comminare particolari
misure sanzionatorie.
Al rilievo, poi, che tale situazione di illegalità fosse propria solo
dell’ambito provinciale, si può opporre che nello stesso anno
condizioni analoghe vengono tuttavia descritte con riferimento alla
capitale, Costantinopoli, dalla Nov. 13146, a conferma del carattere
endemico e non solo periferico del problema.
In tale novella, al fine di assicurare una maggiore effettività alla
repressione criminale, Giustiniano sostituisce la figura del praefectus
vigilum con quella del praefectus plebis, quasi a testimonianza del
maggior rigore insito in tale carica, ma anche ciò non risultò
probabilmente sufficiente, se, a riprova delle dimensioni ormai
Nov.8.1; 7-8 e 10.1. In proposito si rimanda, per uno studio più approfondito, a
R. Bonini, Ricerche, 112ss.
146
Nov.13.2 e 4-6.
145
85
ragguardevoli raggiunte dal problema, l’imperatore, ancora una volta,
nel 535, inserisce, tra le prescrizioni della Nov.17147, il monito ai
governatori di assicurare con ogni mezzo la persecuzione dei reati più
gravi e di non tenere conto, neppure, del diritto di asilo148.
Allo stesso anno risalgono poi molte altre disposizioni di analogo
contenuto149, che tuttavia toccano solo incidentalmente il problema e
sulle quali ritengo quindi inutile soffermarmi.
E’ da notare, comunque, come, in tali leggi, la causa ultima delle
carenze e delle disfunzioni denunciate venga identificata nuovamente
nel fenomeno della vendita delle cariche, a riprova della mancata
fortuna delle disposizioni di Giuliano.
I magistrati, che hanno dovuto corrispondere considerevoli somme di
denaro per conseguire la propria posizione pubblica, continuano a
lucrare sull’attività giurisdizionale per rifarsi dell’esborso, tanto
mostrandosi negligenti nel perseguimento dei reati, quanto inducendo
colui che chiede soddisfazione a pagare per ottenerla.
Un altro tema ricorrente nelle Novelle di Giustiniano è poi l’invito ai
giudici ad amministrare la giustizia senza alcun riguardo per la
posizione sociale delle parti, anzi l’imperatore esorta a vigilare perché
i sudditi non vengano oppressi dagli appartenenti alle classi più
agiate150. Proprio in quest’ottica, tra l’altro, si dispone che gli imputati
per crimini commessi in provincia siano giudicati nel locus commissi
147
Nov.17.3; 5; 7.
Si veda in proposito G. Crifò s.v. Asilo (diritto di), in Encicl. del Dir., 3,
Milano, 1958.
149
Ricordiamo Nov.24.1-2; 25.2-3; 26.3; 28.6; 29.5 tutte dell’anno 535. Tra le
successive, giudico le più significative Nov.80.6-9 del 539 che è relativa alla sola
Costantinopoli, nonché Nov.128.21 del 545 e 134.2-5 del 556 che non riguardano
singole province o diocesi, ma hanno carattere generale.
150
Nov.24.2; 25.2.2 del 535; 30.5.1 e 102.1 del 536..
148
86
delicti, anziché nella capitale dove sarebbe più facile ordire
macchinazioni e compiere ingiustizie151.
Concludendo l’excursus sulle norme elaborate dagli imperatori per
combattere la corruzione, si può
osservare che la ragione
giustificatrice sottesa a tali interventi continua a non emergere in
modo univoco.
Essa infatti può essere rinvenuta tanto in un’autentica preoccupazione
per le sorti dei ceti inferiori, quanto costituire il mero riflesso della
conclamata benignitas imperiale, quanto ancora integrare un tentativo
di debellare manifestazioni di malcostume, invise al sovrano, perchè
vissute come affronti alla sua autorità.
Le manifestazioni di malcostume che investono i soggetti coinvolti nel
processo penale non sono tuttavia riconducibili solo alle malversazioni
dei giudici corrotti, ma sembrano coinvolgere in pieno anche gli
avvocati.
L’unica parte dell’opera ammianea, specificatamente riservata alla
trattazione delle problematiche proprie del settore giudiziario, è infatti
la lunga invettiva che l’autore dedica agli esercenti la professione
forense152. Essi vengono distinti in quattro categorie153 e descritti, in
Questo è il contenuto essenziale della Nov.69 del 538 che ai cap.2-3 regola
analiticamente il caso dell’assenza dell’imputato dalla provincia e al 4 restringe
molto la possibilità di invocare il privilegium fori. Il fatto che la legge sia
prevalentemente diretta contro ricchi e potenti, risulta con chiarezza dalla
praefatio che sottolinea, tra l’altro, come costoro cercassero di spostare il luogo
del giudizio per rendere più difficile la produzione di prove a loro carico.
152
Più diffusamente sull’argomento: R. Andreotti, Problemi della Constitutio de
postulando attribuita all’imperatore Giuliano e l’esercizio della professione
forense nel tardo impero, in RIDA, 19, 1972; M. Caltabiano, Studium iudicandi e
iudicium advocatorumque pravitas nelle Res Gestae di Ammiano Marcellino, in
ARC, 11, 1996.
153
La prima è costituita da coloro che “ seminando contrasti diversi, si agitano tra
risse e processi, consumando le porte delle vedove e le soglie delle persone senza
figli o suscitano odi implacabili quando avvertano qualche possibilità di discordie
151
87
ogni caso, come rapaci, ignoranti, senza scrupoli e sensibili solo al
proprio tornaconto. Per Ammiano è infatti prassi ordinaria che “
…finalmente, dopo che sono trascorsi mesi, giorni ed anni, e i
contendenti sono ormai ridotti alla miseria, si giunge a trattare la
causa, ormai consunta dalla vecchiezza … gli illustri rappresentanti
del foro fanno il loro ingresso … e colui che maggiormente confida
nella sua eloquenza dà inizio ad un prologo soave … Tuttavia, mentre
tutti si aspettano la conclusione, il discorso termina con la
dichiarazione che, dopo tre anni, che il processo si va in qualche modo
istruendo, i difensori non ne sono ancora ben informati. E così,
ottenuta un’altra proroga, essi chiedono insistentemente il compenso
della loro difficile lotta… ”.
Giustizia lenta, avvocati avidi ed ignoranti, generale diffusione della
calunnia ed utilizzo del processo come strumento di persecuzione
politica, sono perciò gli argomenti ricorrenti in Ammiano.
tra amici o parenti o affini … Per l’ostinazione maligna di costoro la temerarietà
sostituisce la libertà, la sconsiderata audacia la costanza, la vuota abbondanza di
parole la vera eloquenza… ” (Amm.30.4.9 e 10). “ …La seconda categoria è
rappresentata da coloro che professando la scienza del diritto … tacciono come
avessero le bocche cucite e per il loro continuo silenzio assomigliano alle proprie
ombre … poi per apparire eruditi … citano Trebazio, Cascellio, Alfeno e le leggi
da gran tempo dimenticate… ” (Amm.30.4.11 e 12). “Il terzo gruppo è formato da
coloro i quali, per segnalarsi in una professione così torbida, aguzzano le loro
lingue venali per combattere la verità e con fronte sfacciata e molti ignobili latrati
riescono a farsi aprire tutte le porte: costoro … si danno da fare perché le liti non
abbiano mai termine e con inchieste complicate e confuse cercano di trarre in
inganno i tribunali” (Amm.30.4.13). Infine vi è “un quarto ed ultimo genere di
impudenti, ostinati ed ignoranti. Costoro abbandonate in fretta le scuole …
esortano i cittadini innocenti ai litigi … e ammessi a difendere le cause …
s’informano dell’importanza della questione e del nome del cliente … durante il
processo stesso. Quando poi mancano di prove … si abbandonano alle ingiurie
più sfrenate … e se si fa il nome di un antico scrittore pensano sia il nome
straniero di un pesce o di una vivanda… ” (Amm. 30.4.14 ).
88
3. Le garanzie pro condicione personarum. Deroghe e benefici a
favore di: a) senatori; b) militari; c) decurioni; d) clero.
A questo punto ritengo necessario introdurre un’ulteriore tematica
relativa ai soggetti del processo, che, qualora omessa, impedirebbe di
comprendere a fondo l’atmosfera propria dell’età postclassica e di
cogliere la ragione giustificatrice sottesa a molti interventi imperiali:
quella relativa alle garanzie pro condicione personarum.
Con questa espressione si designa il fenomeno in base al quale, nel
tardo antico, l’amministrazione della giustizia, nel seguire il proprio
corso, non riserva a tutte le categorie sociali un trattamento omogeneo,
ma appronta norme particolari a favore degli esponenti di determinate
classi.
Pertanto, il termine “garanzia” diventa sinonimo di “privilegio” ed
opera in relazione alla dicotomia honestiores – humiliores154,
distinzione che ha origini ben più risalenti rispetto al tardo impero155.
154
Su questa dicotomia segnalo in particolare: Th. Mommsen, Abriss des
römischen Staatsrechts, Leipzig, 1907, 6, 2, 176 ss.(= Disegno del diritto
pubblico romano, trad.it. di P. Bonfante a cura di V. Arangio – Ruiz, Milano,
1943); Id., Strafrecht, 394ss.; C. Julian, Honestiores-humiliores, in DS, 3,1,
235ss.; U. Brasiello, La repressione, 79ss; Id. s.v. Honestiores e humiliores, in
NNDI, 8, Torino, 1962, 108; F. De Robertis, La variazione della pena “pro
qualitate personarum” nel diritto penale, in RISG, 17, 1939, 59-110; G.
Cardascia, L’apparition dans le droit des classes d’ “honestiores” et d’
“humiliores”, in RHD, 28, 1950, 305-337 e 461-485; P. Garnsey, Social status,
103-172 e 221-276; J. Gagé, Les classes sociales dans l’empire romain, Paris,
1971, 282-284; O. Robinson, Slaves and the Criminal Law, in ZSS, 89, 1981,
227ss. e 251ss.; D. Grodzynski, Les “summa supplicia”, 361-403; R. Rilinger,
Humiliores-honestiores. Zu einer sozialen Dichotomie im Strafrecht der
romischen Kaiserzeit, München, 1988; F. J. Navarro, La formación des grupos
antagonicos en Roma: honestiores y humiliores, Pamplona, 1994.
155
Per quel che riguarda l’origine di tale distinzione già Th. Mommsen,
Strafrecht, 1032-1033 riteneva che avesse avuto inizio con l’impero. A riguardo
lo studioso, tuttavia, individuava non una mera bipartizione, bensì affermava che
il soggetto sarebbe venuto in considerazione almeno da un triplice punto di vista
89
I principali ambiti in cui essa si manifesta sono quelli del foro
competente (CTh.9.1.1) di cui abbiamo già trattato a proposito del
ceto senatorio, della custodia preventiva (CTh.9.2.1; 9.2.2; 9.1.19 e
C.I.9.2.17; 9.4.4; 9.6.1), della tortura (CTh.9.16.6; 9.35.2.3; 12.1.117;
C.I.9.8.3-4; 9.18.7; 9.41.8-9; 9.42.3.3; 12.1.3) e della procedura
accusatoria (CTh.9.7.16).
Tali diversità emergono nelle disposizioni di Costantino solo
indirettamente, essendo i provvedimenti di questo imperatore per lo
più diretti a parificare, piuttosto che a diversificare i criteri applicativi
della legge penale. Costantino, infatti, oltre ad essere colui che
significativamente proclama “omnem honorem reatus excludit” in
CTh.9.1.1 del 316, in altri interventi successivi ridimensiona il
trattamento di favore riservato agli honestiores in ambito sia
probatorio (CTh.9.8.3-4 del ) sia detentivo (CTh.9.4.4 del ).
ovvero a seconda che fosse rientrato nella condizione di servus, libero-humilior,
libero-honestior. L’equiparazione, contenuta nel testo di Macro (D.48.19.10pr.),
tra servi e liberi humiliores ha però indotto alcuni autori, per tutti F. De Robertis,
La variazione della pena nel diritto romano, Bari, 1954, 494 (= in Scritti varii di
diritto romano, 3, Bari, 1987), a ritenere tale tricotomia come estranea alle fonti e
ad optare per l’originario dualismo. Benché un passo delle Istituzioni di
Giustiniano faccia risalire la distinzione tra honesti e humiles, a fini repressivi, ad
Augusto, la scarsa fiducia circa l’assenza di interpolazioni in questo brano, induce
a preferire un rescritto di Adriano del 119 d.C. riportato, in modo perfettamente
coincidente da D.47.21.2 (Callistratus) e Coll.13.3.2 (Ulpianus) e nel quale si
parla di splendidiores-alii. Solo con gli imperatori successivi e più precisamente
a partire da Antonino Pio, però, comincia ad apparire l’uso terminologico, in
seguito stabilizzatosi, di contrapporre gli honestiores agli humiliores. In
particolare, sotto i Severi la diversità di trattamento tra le due categorie è ormai
assurta a normalità, soprattutto dal punto di vista dell’irrogazione della pena, tanto
che Papiniano in D.48.5.9 si sorprende quando ciò non accada.
90
Introducendo il discorso su
156
Pugliese
CTh.9.1.1. si può osservare come
ne abbia riassunto il contenuto nei seguenti termini: “non
facciamo differenza tra quelli che hanno una dignità e quelli che non
ce l’hanno, tutti possono essere arrestati”.
Al di là di questa semplificazione, va sottolineato come tale
dichiarazione, benché fatta con riguardo alla competenza territoriale,
essendo la presente costituzione diretta a negare la praescriptio fori ai
clarissima dignitate praediti, possa comunque considerarsi come una
enunciazione a carattere generale157.
Mentre a partire dal II secolo, ai fini soprattutto dell’irrogazione della
pena e della sua scelta, si aveva riguardo, come criterio discretivo, alla
dignità e rispettabilità sociale del soggetto coinvolto (nelle fonti si
parla spesso di respectus dignitatis158 o di honoris reverentia159),
invece nel tardo assume valore predominante la consistenza
patrimoniale della persona, tanto che pauperes, plebeii ed humiliores
vengono a coincidere160, benché la stratificazione sociale costituisca
una indiscutibile realtà nel tardo.
156
G. Pugliese, Garanzie, 616.
Nel 325 in CTh.7.4.1 l’imperatore Costantino non si lascia sfuggire l’occasione
per ribadire “in qua culpa si quis fuerit adprehensus nec personae merito nec
honoris fastigio defendendus est”.
158
D.48.19.28.5.
159
D.48.19.28.9
160
L’indifferenza da parte dei legislatori tardo antichi per i termini classici della
distinzione si giustifica con il rilievo che essi ormai designano una connotazione
meramente patrimonialistica. In tal senso sembrano deporre anche CTh.9.42.5
dell’imperatore Giuliano datata 362 e una costituzione di Valentiniano del 454
riportata in C.I.5.5.7. A tale proposito, F. De Robertis, La variazione, 510, osserva
come: “il basso impero abbia smarrito completamente l’orientamento classico in
ordine al fondamento delle varie categorie sociali espresso nella contrapposizione
honestiores-humiliores. Se infatti continuano ad apparire distinctiones
personarum come locupletes-plebei, pauperes, egeni (CTh.9.42.5; CTh.7.19.1.1;
CTh.15.8.2; C.I.9.19.6; C.I.9.39.1), personae humilioris fortunae – personae
superioris, splendidioris fortunae (CTh.7.10.1; CTh.16.10.12), humilioris
conditionis – inferioris loci dignitatisve personae (CTh.7.18.1) ciò è pur sempre
157
91
In generale quindi in epoca postclassica la distinzione tra ceti sociali
da un lato sembra avere carattere eccezionale, dato il prevalere della
tendenza alla fissazione ex lege della pena e alla sua applicazione
formalmente egualitaria e, dall’altro, anche quando compare, presenta
un’accezione ben diversa da quella classica.
A riprova di ciò si può ricordare, tra l’altro, la frequenza con cui gli
imperatori richiamano il carattere unitario della regolamentazione,
ribadendo più volte che ad essa non debba sfuggire nessuno, in quanto
applicabile a quicumque o quisquis.
Ad un esame superficiale, pertanto, si potrebbe quasi ritenere che, in
certi casi, indipendentemente dal rango di appartenenza del colpevole,
il suo comportamento antisociale basti a renderlo indegno della
considerazione di cui ad altri effetti avrebbe goduto e che, anzi,
proprio il suo eventuale status elevato giustifichi un trattamento
sanzionatorio più rigoroso.
Ulteriore argomento a favore sarebbe invece che, in ordine alla pena
patrimoniale o multa, riappare la graduazione, ma sempre al fine
precipuo di colpire con maggior severità i ceti superiori.
Si coglie quindi una tendenza al livellamento sociale e bisogna perciò,
come al solito, chiedersi, se essa sia riflesso di un orientamento
all’isonomia almeno formale o un ulteriore tentativo di repressione dei
fenomeni devianti.
in funzione dell’elemento patrimoniale”. Nella stessa ottica si potrebbe leggere
anche la posizione di privilegio attribuita ai grandi proprietari terrieri
(possessores; potentiores).
La causa dell’abbandono del concetto classico legato alla dignitas a favore di
un’interpretazione economica si deve imputare per A. Ferrero, La rovina della
civiltà antica, Milano, 1926, 23ss., alla decadenza della classe degli honestiores
maturata durante la crisi del III secolo. Distrutta l’aristocrazia municipale, il
decurionato non costituì più una dignità personale, ma una condizione sociale che
si acquisiva per nascita o per censo (si veda in proposito CTh.12.1.33).
92
Le categorie sociali qualificate come honestiores sono essenzialmente
quattro : senatori, decurioni, militari e clero.
a) I senatori.
L’ordine senatorio, anche nel tardo impero, rimane lo strato sociale
più elevato, pur subendo numerose variazioni in ordine alla propria
composizione. Seguendo le sorti dell’impero, infatti, anche il senato si
sdoppia in due ordini, rispettivamente facenti capo alle città di Roma e
di Costantinopoli, che, solo a partire dalla metà del IV secolo, per
intervento dell’imperatore Giuliano, possono vantare una piena
parificazione giuridica161.
Tuttavia, mentre il senato di Roma resta più tradizionale e costituito
prevalentemente162 da famiglie di rango elevato e di antica nobiltà, che
continuano ad esercitare una grande influenza sul governo centrale,
quello di Costantinopoli figura come meno illustre, composto da
Questa duplice composizione sembra risalire all’imperatore Costanzo che con
una serie di interventi contribuì a rafforzare il prestigio del senato orientale nei
confronti di quello di Occidente. In particolare, l’imperatore nel 340, con
CTh.6.4.5-6, creò tre preture annuali (Flavialis, Costantiniana, Triumphalis), nel
356 autorizzò il senato di Costantinopoli ad eleggere i pretori con la maggioranza
legale di presenti di cinquanta membri (CTh.6.4.8-9) ed infine, nel 357, trasferì in
esso tutti i clarissimi residenti in Achea, Macedonia ed Illirico. Quanto alla
parificazione attuata da Giuliano si veda Zos.3.11.3 e Pan.3.24.5.
162
Non mancano comunque esempi di stranieri introdotti nell’ordine senatorio
dopo essersi distinti nell’esercito, si pensi a Stilicone come ci testimonia
Zos.4.57.2. Si veda in proposito S. Mazzarino, Stilicone, la crisi imperiale dopo
Teodosio, Milano, 1942; P. Straub, Parens principum, Stilichos Reichspolitik und
das Testament des Kaisers Theodosius, Klio, 1952, 94. Altri personaggi sono
ricordati da Jones, Il tardo, 552. Infine sui rapporti dei barbari con Roma si veda
S. Dill, The Roman Society in the Last Century of the Western Empire, 2, New
York, 1960, 292ss.
161
93
membri di più recente designazione e pertanto meno decisivo nelle
vicende politiche dell’impero163.
Rinviando alle apposite trattazioni per l’approfondimento circa le
caratteristiche del senato nel tardo impero164, si può dire che, ai nostri
fini, ciò che interessa osservare è come, senza alcun dubbio, molti
siano stati i privilegi che, a partire dal IV secolo, vennero riconosciuti
e rafforzati a favore della classe senatoria.
Si tratta comunque di un processo lento che si consolida alcuni
decenni dopo la morte di Costantino, il quale aveva invece tentato,
almeno in un primo momento, di ridimensionare la potenza del senato.
Il punto di partenza di questa evoluzione si può individuare proprio in
un provvedimento di questo imperatore e più precisamente in
CTh.9.10.3, emanata il 6 ottobre 317 o 319165, con la quale
s’introdusse nel sistema giurisdizionale penale il principio della
riflessione della pena, che comportava una responsabilità per calunnia
in capo all’accusatore per il solo fatto dell’assoluzione dell’accusato,
In questo modo Costantino cercava di evitare che i senatori abusassero
dello strumento dell’accusa trasformandolo in uno stratagemma
diretto ad eliminare dalla scena politica avversari scomodi per mezzo
di accuse infamanti.
Questo è almeno il panorama che emerge dalle ricerche di M. T. W. Arnheim,
The Senatorial Aristocracy in the Later Roman Empire,Oxford,1972.
164
In proposito: C. Lécrivain, Le Sénat Romain dépuis Dioclétien à Rome et à
Constantinople, Paris, 1888; P. Petit, Les sénateurs de Constantinople dans
l’oeuvre de Libanius, in L’antiquité classique, 26, 1957, 347-382; P. Arsac, La
dignité sénatorial au Bas Empire, in RHD, 47, 1969, 202-213ss.; R. Etienne, La
demographie des familles imperiales et senatoriales au IVe siècle après J.C., in
Transformation et conflits au IVe siècle après J.C., Bonn, 1978, 133-168; G.
Dagron, Naissance d’une capitale. Constantinople et ses institutions de 330 à 451,
Paris, 1984, 119-210; P. Garbarino, Ricerche sulla procedura d’ammissione al
senato nel tardo impero romano, Milano, 1988.
163
94
Questa norma ebbe però, come conseguenza inattesa, dopo la morte di
Costantino, lo sviluppo di un’articolata legislazione, volta a garantire
una sorta di immunità della classe senatoria, impedendo che un
illustris potesse essere sottoposto ad accusatio o comunque
incriminato sulla base di un’inquisitio, fatta eccezione per i delitti di
maiestas e di eresia166.
Tale ampia legislazione spazia dalla determinazione del foro
competente di cui ci siamo già ampiamente occupati, alla prova
testimoniale, fino alla possibilità di sottoposizione alla tortura degli
esponenti del senato.
Abbiamo già accennato trattando di praescriptio fori del divieto di
testimonianza in altri processi imposto al reo confesso e la limitazione
del ricorso alla custodia preventiva in considerazione della dignitas
dell’accusato.
Dando per acquisito quanto finora detto, va ora sottolineato come tutta
la normativa in tema di privilegi senatori in materia penale, finora
discussa, vada reinterpretata soprattutto alla luce di CTh.9.35.3
emanata da Graziano il 27 marzo 377, la quale proibisce la tortura dei
senatori.
Sia nella prima metà del IV secolo, che per tutto il V, diventa infatti
estremamente difficile e rischioso esercitare l’accusa nei confronti di
un senatore e il privilegio dell’esenzione dalla tortura rende ciò ancora
più manifesto.
Secondo O. Seeck, Regesten, 58 e 169 tale costituzione è del 319; per C.
Chastagnol, La Préfecture, 91 nt.5 del 317.
166
Sull’eresia si veda CTh.16.5.9 del 31 marzo 382 emanata da Teodosio a
Costantinopoli. Per un esame più approfondito di questa costituzione si rinvia a J.
Rougé, La législation de Théodose contre les héretiques. Traduction de
CTh.16.5.6-24, in Epektatis. Mélanges patristiques offerts au cardinal J.
165
95
Costantino, con CTh.11.36.1 del 2 novembre 314/315, aveva
circoscritto la possibilità di emettere sentenze capitali ai soli casi di
confessione dell’imputato o di unanime deposizione dei testimoni,
con la conseguenza di un uso sempre più massiccio della tortura, come
mezzo per provocare la confessione.
Sottrarre i senatori a tale cruenta pratica significava perciò di fatto
limitare significativamente la possibilità di condannarli a morte.
Per effetto poi di un susseguirsi di disposizioni, pervenute per mezzo
di P.S. 5.15.1- 3 e 5.16.5 e riprese anche da Edictum Theodorici 48,
vengono sancite una vasta serie di incompatibilità relative alla
testimonianza e all’accusa in capo ad una pluralità di soggetti.
Tra di essi in particolare rientrano i domestici, cioè gli ingenui, non
cognati, che frequentano abitualmente la casa del senatore, i parentes,
cioè i genitori, i liberi, cioè i figli, i cognati, cioè tutti i parenti in linea
diretta o collaterale sia di sesso maschile che femminile ed infine i
servi ed i liberti.
Questi ultimi, qualora trasgressori, per effetto di CTh.9.6.1 del 15
marzo 376, avrebbero addirittura dovuto subire la pena del rogo, fatta
eccezione per il caso di un’accusa di maiestas.
Stesso trattamento e stessa deroga è poi estesa, per effetto di
CTh.9.6.3 dell’8 novembre 398, alla generalità dei familiares, da
intendere come quei soggetti ingenui di nascita che, pur frequentando
abitualmente la casa, non sono parenti.
Tale incapacità relativa di accusare imposta a liberi, domestici o
familiares, schiavi, liberti e parenti tutti ha come ragione giustificativa
l’esigenza di
proteggere la
persona del pater da subdole
Danielou, Paris, 1972, 635-649; G. Barone-Adesi, Eresie “sociali” ed
inquisizione teodosiana, in ARC, 6, Napoli, 1986, 119-166.
96
macchinazioni, ma, se combinata con il divieto di chiamata in correità
di CTh.9.1.19 e le incapacità assolute di accusare previste già in età
classica167, produce una sostanziale impunità della classe senatoria.
Tanto più che CTh.9.6.4 amplia ulteriormente ciò abolendo nel 423
l’eccezione relativa al crimen maiestatis, prevista in tutte le precedenti
leggi dello stesso titolo.
Da questo articolato intreccio di disposizioni si ricava in sostanza che
un senatore poteva essere alla fine accusato o da una persona libera,
purché non sottoposta a procedimento penale e con un reddito
superiore ai 50 aurei (ma quali prove avrebbe mai potuto addurre
questi se tutti coloro che, in qualche modo, avevano contatti abituali
col senatore erano gravati dal divieto di accusa o di testimonianza e lo
stesso accusatore rischiava la pena del reciproco ?) oppure da un suo
pari grado, ma limitatamente ai crimini contro lo stato.
Ne deriva, almeno in Occidente, una disciplina tutt’altro che
ugualitaria, volta all’esaltazione della garanzia personale, che tuttavia,
a mio parere, almeno questa volta, non è il frutto di una deliberata
scelta di politica legislativa, bensì il prodotto stratificato e secolare di
consuetudini, privilegi ed immunità che in uno stato, ormai in declino,
nessuno tentava neppure più di sradicare.
A riprova di ciò si pensi come in Oriente invece tale regolamentazione
non trovi spazio, ma anzi i termini della distinzione si affievoliscano
sempre più fino a costituire, almeno nella compilazione giustinianea,
un mero retaggio della tradizione.
Soggetti a tali incompatibilità assolute erano gli schiavi o i liberti che non
avessero almeno un figlio o un patrimonio pari a 30.000 sesterzi, i poveri che non
possedessero almeno 50 aurei, i magistrati nell’esercizio del loro ufficio, i soldati
sotto servizio militare, le donne, gli impuberi, i minori di 25 anni, i figli di
167
97
b) i militari.
Un’altra tipologia di soggetti che, rientrando nella più ampia categoria
di honestiores, godono, nell’ambito della vita giudiziaria tardo antica,
di particolari garanzie e privilegi, in ragione della carica ricoperta,
sono i militari168.
Ritengo subito utile premettere che, nonostante le disposizioni
dedicate, all’interno del Codice Teodosiano, agli appartenenti a questo
ordine169, ad oggi conosciamo ancora poco o nulla dei giudizi
effettivamente svolti nei confronti di tali soggetti.
In particolare sappiamo con certezza solo di come i militari godessero
della castrensis iurisdictio, cioè della possibilità di essere giudicati
direttamente dai propri superiori di cui abbiamo già trattato, nonché di
trattamenti differenziati in materia di tortura e pene.
famiglia senza l’assenso del pater familias, gli infames e quanti avessero già
esercitato l’accusa due volte.
168
Per un ulteriore approfondimento sulla figura del militare, anche nel tardo, si
rinvia a M. Carcani, Dei reati, delle pene e dei giudizi militari presso i Romani,
Milano, 1874; A.H.M. Jones, Il tardo impero, 488ss.; F. De Martino, Storia,
460ss.; V. Giuffrè, Il “diritto militare” dei Romani, Bologna, 1980, 75ss.; Id.,
Testimonianze sul trattamento penale dei “milites”, Napoli, 1989, 17ss.; F. Goria,
Giudici civili e giudici militari nell’età giustinianea, in SDHI, 61, 1995, 447ss.
169
Ai militari è dedicato l’intero libro settimo del Codice Teodosiano. Già nel
titolo primo, rubricato De re militari, sono tuttavia anticipati sommariamente i
principali contenuti della disciplina dedicata alla materia dell’organizzazione
militare. Le diciotto costituzioni che lo compongono infatti richiamano tutti i più
importanti temi in materia: dalla disciplina delle licenze (poi approfondita in
CTh.7.12) ai privilegi per i veterani (ripresi in CTh.7.20) fino all’obbligo dei figli
dei militari di indirizzarsi all’honor armorum (CTh.7.22) e alla piaga della
diserzione (CTh.7.18). Va comunque sottolineato come nessun titolo sia
specificamente dedicato al trattamento penale degli appartenenti all’esercito.
98
Per quanto attiene alle pene capitali esse di solito sono eseguite fuori
dal campo (extra vallum) ed inflitte con la decapitazione (decollatio) o
con la fustigazione (fustuarium) fino alla morte.
E’ però nel settore delle pene non capitali che si riscontrano
le
principali incongruenze rispetto al “regime ordinario” e, più nel
dettaglio, sorprende il fatto di non trovare mai inflitta la sanzione, al
contrario molto diffusa nella tarda antichità, costituita dalla condanna
ai lavori forzati170.
La spiegazione di questa differenza di trattamento è, a mio avviso,
rinvenibile nello stesso carattere “speciale” della giurisdizione
militare; poiché infatti la scelta delle pene da applicare in concreto è
rimessa agli stessi capi militari si può ipotizzare che questi, qualora
non ritengano di comminare la pena di morte, preferiscano far
scontare le altre sanzioni di ordine fisico nello stesso ambito della
milizia, avendo in questo modo anche maggiori garanzie circa una
loro effettiva esecuzione.
Accade così che, pur non rinvenendo notizia di condanne ad metalla
irrogate a soldati, non è infrequente riscontrare nelle fonti
l’imposizione ai militari di altre mansioni di fatica straordinarie, quali,
ad esempio, la munerum indictio, consistente nella realizzazione di
fossati o di fortificazioni di altro genere, utili all’esercito, in assenza di
una pena si impone pertanto in via discrezionale un munus avente
contenuti analoghi.
Questa esenzione risale già all’età classica per cui si veda in proposito si veda
D.49.16.3.1 per cui “Milites…in metallum, aut in opus metalli non dabuntur” e
D.49.18.3.
170
99
Quanto infine all’esenzione dei milites dalla tortura, si tratta di un
privilegio avente origini assai risalenti171, che tuttavia non manca di
trovare enunciazione anche nel tardo antico.
La norma più di ogni altra significativa da questo punto di vista è
CTh.9.35.1172 dell’8 luglio 369 la quale, fatta eccezione per il crimen
maiestatis, esclude la possibilità di esperire lo strumento della tortura,
senza previa autorizzazione imperiale, nei confronti di coloro che
siano protetti vel militiae auctoramento vel generis aut dignitatis
defensione.
c) I decurioni.
Ancora più scarse sono le notizie pervenute a proposito dei
decurioni173. Benché ad essi sia infatti dedicato l’intero ampio titolo
12.1 del Codice Teodosiano, le disposizioni relative al trattamento
penale loro riservato rimangono estremamente oscure.
La testimonianza più antica riguardo all’esenzione dei militari dalla tortura
risale a Tarrunteno Paterno in D.49.16.7 (Tarrunt. Pat. De re mil, 2), tuttavia Th.
Mommsen, Le droit pénal, 82 nt.2 preferisce ritenere che il privilegio risalga
all’età di Tiberio.
172
CTh.9.35.1: (Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA.
ad
Olybrium praefectum urbi). Nullus omnino ob fidiculas perferendas inconsultis ac
nescientibus nobis vel militiae auctoramento vel generis aut dignitatis defensione
nudetur, excepta tamen maiestatis causa, in qua sola omnibus aequa condicio
est. II quoque citra consultationis modum subiciantur quaestioni, qui
evidentibus argumentis subscriptiones nostras finxisse prodentur, qua in re ne
palatini quidem nominis adsumptionem huius esse volumus quaestionis exortem.
173
Si occupano dei decurioni, tra gli altri, M. Nuyens, Le statut obligatoire des
décurions dans le droit constantinien, Louvain, 1964, 1-332; R. Ganghoffer,
L’evolution des institutions, 215ss.; F. De Martino, Nota storica sui “decurioni”,
in Diritto, economia e società nel mondo romano. Diritto pubblico 2, Napoli,
1996, 147ss.
171
100
Sulla base di una breve esposizione storica si può osservare che molti
erano stati invece i vantaggi riconosciuti a questa categoria sociale nel
corso del II-III secolo.
Se infatti l’imperatore Adriano, come risulta da D.48.19.15, aveva
escluso la possibilità di sottoporre i decurioni ed i loro figli alla pena
di morte, appena un ventennio dopo, M. Aurelio ne aveva vietato
anche la deportazione.
La disposizione più completa in materia di repressione criminale dei
decurioni rimane comunque D.48.19.9.11-14 nella quale Ulpiano
riferisce come gli appartenenti a tale ordine fossero sottratti
all’applicazione di alcune pene terribili e crudeli, che egli identifica
in:
a) condanna in metallum; b) condanna in opus publicum; c)
impiccagione; d) rogo.
Questo elenco brevemente tracciato da Ulpiano è poi completato da
Marciano mediante l’aggiunta di due ulteriori esclusioni e più
precisamente: e) la pena ad bestias; f) la fustigazione.
Non rinvenendo traccia nelle fonti successive di una norma abolitiva
di questi privilegi, ne deduco una generale applicabilità anche nell’età
tardo imperiale.
L’assenza di disposizioni relative al trattamento penale dei decurioni a
partire dal IV secolo, se si esclude CTh.8.2.4 dell’imperatore
Valentiniano che esonera i curiales dalla tortura, può comunque
trovare una spiegazione logica.
E’ infatti consentito supporre o che gli imperatori considerassero
ormai inutile ribadire privilegi già concessi e quindi impliciti
nell’ordinamento oppure che il ruolo, prima assai prestigioso, degli
appartenenti alle curie avesse patito una diminuzione tale da
giustificare perché le fonti letterarie spesso descrivono decurioni più
101
dediti a far valere i propri antichi privilegi che a godere di nuovi
benefici. Anche alla luce delle considerazioni svolte, ritengo perciò
plausibile ipotizzare un ceto curiale ormai assorbito nel sistema
burocratizzato e gravato dall’onere dell’ereditarietà, il quale, se in
Occidente riesce ancora a godere degli antichi privilegi, in Oriente
deve lottare per non sprofondare nell’anonimato della pesante
macchina amministrativa rivendicando l’essenzialità del compito
svolto a favore dell’impero e delle sue casse.
d) Il clero.
Un’ultima categoria che merita la nostra attenzione, sotto il profilo
delle garanzie pro condicione personarum, in quanto destinataria di un
trattamento giuridico privilegiato, è quella degli ecclesiastici174.
Le agevolazioni riconosciute a costoro, tuttavia, a differenza di quanto
si è potuto riscontrare con riguardo a senatori militari e decurioni, non
si
esauriscono
nell’attribuzione
del
privilegium
il
beneficio
fori
e
nel
riconoscimento di una dispensa dalla tortura, bensì si atteggiano come
più varie ed articolate.
Senza
perciò
sottovalutare
consistente
nell’assoggettamento ai tribunali episcopali, misura protettiva che
permette al clero, sia di godere di una giustizia migliore, amministrata
da giudici meglio formati, sia di mettersi al riparo da pene crudeli tra
Tra le principali opere sull’argomento si segnalano: B.Biondi, Il diritto romano
cristiano, 516ss.; J. Gaudemet, L’Eglise dans l’Empire Romain (IV-V siècles),
Parigi, 1958; L. De Giovanni, Chiesa e Stato nel codice Teodosiano. Saggio sul
libro XVI, Napoli, 1980. Tra i più recenti si ricorda anche, nonostante la portata
limitata, L. Cracco Ruggini, La fisionomia sociale del clero ed il consolidamento
delle istituzioni ecclesiastiche nel Nord-Italia (IV-VI secolo), in Morfologie
174
102
cui quella capitale, non si può fare a meno di osservare che questo non
è l’unico settore nel quale le costituzioni imperiali concedono benefici
agli ecclesiastici.
In particolare meritano attenzione le vicende legate al riconoscimento
dell’esenzione dalla testimonianza disposto a favore dei religiosi.
Nel 381 infatti Teodosio I pone il divieto per i vescovi di essere
obbligati a testimoniare. Il fatto che il relativo frammento, riportato da
CTh.11.39.8175, riproduca il testo di due interlocutiones pronunciate
dall’imperatore in un consistorio tenuto a Costantinopoli, induce
tuttavia a ridimensionare, fin da subito, la portata di questa
disposizione.
Posto che l’interlocutio costituisce la forma tipica di decisione degli
incidenti processuali, se ne può fondatamente dedurre che
l’imperatore fosse stato chiamato, in quell’occasione, a risolvere un
caso concreto in cui ci si interrogava circa la liceità di una chiamata in
testimonianza di un episcopo, eventualmente seguita da una sua
traduzione forzata in giudizio.
Teodosio risolve la questione affermando, nella prima interlocutio,
che un vescovo non è costretto a rendere testimonianza in un processo
criminale né dall’honor, né dalle leges.
Sembra pertanto sancire non un’incapacità assoluta dei membri
dell’episcopato a testimoniare, ma solo un privilegio a loro favore di
astenersi, qualora citati in un processo criminale.
sociali e culturali in Europa fra Tarda Antichità e Alto Medioevo (3-9 aprile
1997), Spoleto, 1998, 225ss.
175
CTh.11.39.8: Pars actorum habitorum in consistorio aput imperatores
Gratianum, Valentinianum et Theodosium cons. Syagri et Eucheri die III kal. iul.
Constantinopoli. In consistorio Imp. Theodosius A. dixit: episcopus nec honore
nec legibus ad testimonium flagitatur. Idem dixit: episcopum ad testimonium
dicendum admitti non decet, nam et persona dehonoratur et dignitas sacerdotis
103
Nella seconda interlocutio, tuttavia, Teodosio fa maggior chiarezza, in
quanto dichiara esplicitamente di ritenere sconveniente per un vescovo
assumere la veste di testimone, posto che la dignità sacerdotale di cui
è investito ne uscirebbe deturpata.
Anche questa affermazione va però letta alla luce delle circostanze
storico politiche che portano alla sua emanazione.
Come è stato autorevolmente suggerito da Gotofredo176, è infatti
probabile che il caso concreto sottoposto all’attenzione imperiale
trovasse origine nelle accuse che i vescovi si erano reciprocamente
rivolti in occasione della loro partecipazione al II concilio ecumenico
svoltosi, tra il maggio e il luglio di quell’anno, a Costantinopoli.
Poteva quindi non apparire conveniente che, in quella circostanza, gli
stessi componenti del sinodo si presentassero a testimoniare a favore
di un collega ed a danno di un altro, dal momento che ciò avrebbe
contribuito solo a gettare discredito sulla categoria vescovile.
Ritengo quindi fondato interpretare questo intervento del 381 non
come una inibizione assoluta agli episcopi della possibilità di
testimoniare nei giudizi penali, ma come una mera valutazione di
opportunità espressa al ricorrere di circostanze molto particolari.
A sostegno di una simile lettura è d’ausilio anche il contenuto di
CTh.11.39.10 emanata dallo stesso Teodosio nel 386 e che sembra
estendere anche ai presbiteri i privilegi già riconosciuti ai vescovi.
In essa infatti l’imperatore non mette in dubbio la possibilità degli
ecclesiastici
e
più
precisamente
dei
presbiteri
di
rendere
excepta confunditur. (381 iun. 29).
Gotofredo, Ad h.l., a cui mostra di aderire Biondi, Il diritto romano cristiano,
1, 384. Nonostante l’inserimento all’interno del Codice Teodosiano di questa
norma possa indurre a propendere per una generalizzazione delle sue prescrizioni,
176
104
testimonianza, ma si limita ad assicurare che in tale evenienza essi
possano agire liberi dalla costrizione della tortura.
Tuttavia, al fine di evitare che il clero approfitti di questa sostanziale
immunità, riconosce ai litigatores la facoltà di incriminare quei
presbiteri che, abusando di questa norma di favore, se ne servano per
occultare il vero o, ancora peggio, per dichiarare il falso.
L’imperatore ha comunque cura di precisare che tale privilegio assiste
soltanto i presbiteri, in quanto ogni altro chierico di grado od ordine
inferiore, quando citato come testimone, dovrà rendere le proprie
dichiarazioni nei modi previsti per legge e quindi, qualora l’istruttore
lo ritenga necessario, anche per tormenta.
A tale disparità di trattamento tra appartenenti al clero reagiscono
però, in seguito, le statuizioni del Concilio di Cartagine del 401177 le
quali, disponendo che nessun ecclesiastico possa essere chiamato a
rendere testimonianza davanti ad un giudice laico, cercano di sottrarre
i religiosi di ogni grado dalle vessazioni insite nella tortura secolare .
Esistono comunque ulteriori concessioni, attribuite dalla legislazione
imperiale al clero, che assumono più marcatamente il carattere di
privilegio, rispetto alla disciplina in tema di testimonianza finora
illustrata.
In particolare, Valentiniano III nella Nov.35.1, con un’ulteriore deroga
al diritto comune, dispensa i vescovi dal comparire personalmente in
giudizio quando imputati di un crimine di estrema gravità. In questo
caso infatti l’imperatore dispone che gli ecclesiastici siano
altre costituzioni, come vedremo, sembrano confermarne la portata meramente
particolare.
177
Il 13 settembre del 401 si riunì a Cartagine il concilio plenario. In tale sede,
l’assemblea emanò vari canoni disciplinari, tra cui quello in esame. In proposito si
rimanda a Diz. Patristico, 606.
105
formalmente rappresentati nella causa da un procuratore investito in
modo solenne, pur rimanendo i sostanziali destinatari della sentenza e
del suo dispositivo.
Altre costituzioni perseguono invece l’obiettivo di proteggere il clero
contro abusi e violenze e, fra tutte, di particolare interesse è
CTh.16.2.31 (= Sirm.14) del 399.
Si tratta di un’epistola dell’imperatore Onorio al prefetto del pretorio
Teodoro relativa al delitto di profanazione delle chiese.
In essa si sancisce che, qualora qualcuno, irrompendo nelle chiese,
commetta un sacrilegio tale da arrecare ingiuria ai sacerdoti, ai loro
aiutanti o allo stesso luogo di culto, ciò debba subito essere portato a
conoscenza delle potestates, sia tramite litterae dei magistrati e dei
curatori, sia tramite notoria degli apparitores, affinché siano resi noti i
nomi dei colpevoli identificati.
La pena nei confronti di costoro non potrà essere altro che la morte e,
data la gravità dell’offesa, si dovrà procedere alla sua esecuzione nel
più breve tempo possibile senza attendere che sia il vescovo a
reclamare la punizione.
Questo intervento, in origine indirizzato alla provincia d’Africa, in
ragione del clima turbolento e scismatico imperversante nel territorio,
assume poi, data la sua collocazione nel Teodosiano, carattere
generale, ponendo così una misura di protezione specifica a favore del
clero contro i crimini di violenza e saccheggio, sconosciuta alla
legislazione previgente.
Gli imperatori non si preoccupano però di tutelare gli ecclesiastici solo
dalle eventuali offese dei privati, bensì si curano di predisporre a loro
favore opportune garanzie anche nei confronti degli abusi perpetrabili
dalla stessa burocrazia statale.
106
In
particolare,
l’imperatore
provvedimento relativo
Leone,
nel
472,
in
un
lungo
agli ecclesiastici, pone almeno due
disposizioni di particolare favore178.
Da una parte infatti, mediante C.I.1.3.32.6,
interdice l’uso della
misura della detenzione nei confronti degli appartenenti al clero e,
dall’altra, con C.I.1.3.32.5 si preoccupa di ridurre ad una somma
modesta le remunerazioni, ormai istituzionalizzate, che i funzionari
possono esigere dai clerici che agiscono in giudizio.
Unificando concettualmente tutti gli interventi brevemente illustrati
finora, si può osservare come essi si limitino ad introdurre garanzie
settoriali, giustificate dal ruolo ormai centrale assunto dalla chiesa e
dai suoi componenti nella società tardo antica.
In conclusione va osservato come i privilegi riconosciuti alle quattro
categorie di soggetti finora discussi siano interpretabili come
interventi occasionali, volti a carpire il favore degli strati sociali più
influenti mediante la concessione di quei benefici dei quali la
situazione socio-politica contingente richiede il riconoscimento o,
perlomeno, la riaffermazione degli stessi.
CAPITOLO TERZO
178
In proposito A.S. Scarcella, La legislazione di Leone I, Milano, 1994, 86ss.
107
IL PROCESSO CRIMINALE NEL TARDO IMPERO:
LUOGHI, MODI, TEMPI.
SOMMARIO: 1. I luoghi del processo. – 2. Il dibattimento, la fase istruttoria e la pronuncia
della sentenza. Il contributo delle fonti non giuridiche: il processo per magia di Libanio ed il
racconto di Procopio da Cesarea – 3. La legislazione in materia di durata dei giudizi. 4. I
tempi del processo e la carcerazione preventiva. Cenni in tema di tortura
1. I luoghi del processo.
Dopo aver discusso circa l’identità del potenziale accusatore e
l’individuazione del giudice adito, si tratta ora di ricostruire
sommariamente il concreto dipanarsi dell’attività processuale.
Mi propongo quindi, preliminarmente, di determinare dove e come si
svolgesse il giudizio, dopo di che analizzerò per quanto possibile, data
l’esiguità delle fonti, le modalità di formazione della sentenza e la sua
pubblicazione.
Il processo penale, a differenza di quello civile che aveva come
scenario abituale la basilica179, si mostra problematico già nella
determinazione della sua localizzazione.
Mentre alcuni autori180, infatti, sulla base essenzialmente dei processi
dei martiri, assunti erroneamente a mio parere a paradigma dei
Uno studio accurato ed interessante in materia è stato condotto da G. Dareggi, I
luoghi dell’amministrazione della giustizia nella Tarda antichità, in ARC, 11,
Napoli, 1996, 377ss.
180
G. Lanata, Gli atti dei martiri come documenti processuali, Torino, 1989, 133.
analizza, tra gli altri, gli atti dei martiri Perpetua e Massimiliano, nei quali si
indica come luogo di udienza il foro. Il teatro di Smirne sarebbe stato invece sede
dell’interrogatorio del martire Pionio e del processo di Policarpo; G. Dragon,
Costantinopoli. Nascita di una capitale (330-451), trad.it., Torino, 1991, 322
indica l’ippodromo di Costantinopoli come luogo abituale delle esecuzioni
capitali. Sono comunque nettamente contraria a considerare paradigmatici tali
processi sia perché esulano dall’arco temporale del mio esame, sia perché secondo
me condotti con modalità repressive derogatorie rispetto alla procedura ordinaria.
179
108
processi penali tardo antichi181, individuano come luogo ancora
ricorrente di amministrazione della giustizia criminale il foro o
comunque lo spazio pubblico, altri,
Santalucia182 per primo, si
assestano su posizioni nettamente contrastanti.
Secondo tale autore “l’obbligo di giudicare pubblicamente venne
sempre più rapidamente meno, sostituito dalla prassi delle cognitiones
segrete condotte nei secretaria, uffici riservati dei funzionari imperiali
appartati e interclusi al pubblico mediante l'apposizione di inferriate
(cancelli) e tendaggi (vela) rimossi soltanto in particolari fasi del
giudizio, quali ad esempio la lettura della pronuncia finale”.
A tali secretaria sarebbero stati eccezionalmente ammessi solo i
dipendenti imperiali incaricati della redazione del verbale, nonché
alcuni illustri personaggi, peraltro non identificati con sicurezza dalle
fonti.
Chi immaginiamo si potesse trovare in aula ?
Sicuramente il giudice coadiuvato dagli adsessores, in particolare
quelli destinati alla verbalizzazione, che è ormai assurta a passaggio
ineliminabile del processo tardo antico, dopodiché certa è la presenza
dell’accusatore
(ove
esistente),
dell’accusato
(qualora
non
contumace), dei relativi patrocinatori legali, nonché infine dei
181
Varie sono state le ipotesi interpretative sulle azioni promosse contro i
cristiani, in particolare, mentre per alcuni erano perseguitati in base ad una legge
speciale, valida per tutto il territorio dell’impero, secondo altri invece ci si basava
sull’ordinamento penale comune ricollegandosi alle fattispecie di incesto,
associazione illecita, magia, introduzione di culto straniero e soprattutto maiestas.
Altri ancora infine ritenevano le persecuzioni cristiane fondate su un uso
discrezionale dell’imperium finalizzato al mantenimento dell’ordine pubblico. Per
una ricognizione di tutte le diverse posizioni in materia si rinvia a G. Lanata, Gli
atti dei martiri, 74 ss il quale dal suo canto ipotizza l’esistenza di un autonomo
capo d’accusa costituito dalla qualità stessa di cristiano.
182
B. Santalucia, Diritto e processo, 284, della stessa opinione anche V. Giuffrè,
La repressione, 152.
109
testimoni, più una serie di residentes (honorati, primates, summates,
principales etc.).
Come sempre restia ad accettare acriticamente le opinioni dottrinali,
per quanto autorevoli, intendo condurre un breve esame sui testi, al
fine di trarne tutte le informazioni utili ad una ricostruzione, per
quanto possibile, anche di questo aspetto del processo criminale tardo
imperiale.
In primo luogo, in contrasto con l’opinione di Santalucia mi sento di
riportare:
C.Th.1.16.10 [= Brev.1.6.3]: (Impp. Valentinianus et Valens
AA. ad Valerianum Vicarium Hispaniarum). Libellos iudicibus,
postquam se receperint, vetamus offerri, ne super alienis causis
vel statu pronuntient, quando ab officii conspectu atque ab
oculis publicis recesserint. Praelata VI. id. sept. Veronae,
Valentiniano et Valente AA. conss 183.
Questa costituzione, che viene datata 8 settembre 365 in quanto si
ritiene appartenente allo stesso contesto normativo di C.Th.9.3.4184,
già esaminato in precedenza, vieta ai giudici di accettare ulteriori
elementi di accusa dopo la conclusione del pubblico dibattimento (ab
oculis publicis).
183
Interpretatio: Iudices, postquam se de consessu publico in domum suam
receperint, libellos a litigatoribus non accipiant, nec sine officio suo de causis
alienis vel de statu aliquid cognoscant.
52
Così risulta da Th. Mommsen, ad h.l. e da O. Seeck, Regesten, 226.
53
La tematica della pubblicità del processo criminale tardo antico costituirà
oggetto del § 2 in cui verranno esaminate anche CTh. 1.12.1; CTh. 1.16.6 ; CTh.
1.16.7; CTh. 1.16.9 ; CTh. 1.16.10.
54
Lydus 3.37
110
Ne risulta quindi che, terminate le formalità necessarie alla
costituzione
del
rapporto
processuale,
si
riteneva
formata
un’imputazione già sufficientemente determinata, che non si voleva
pregiudicare mediante la possibile proposizione di motivi nuovi.
Il riferimento al pubblico dibattimento185 poi, (benché posto in
alternativa con ab officii conspectu e quindi da non sopravalutare),
fornisce la possibilità di ipotizzare un giudizio penale che, anche se
svolto nei pubblici palazzi, non precludeva in assoluto la presenza di
una pluralità di spettatori.
Una rappresentazione particolarmente accurata dei luoghi e modi in
cui si svolgevano i giudizi nel periodo imperiale proviene da Giovanni
Lido186, cronista dell’età giustinianea. Tale autore indica come sede
privilegiata di amministrazione della giustizia, almeno nei processi
davanti al prefetto del pretorio,
l’auditorium, che descrive come
diviso in due parti da una parete posta nel mezzo della sala e composta
da pertiche di legno disposte in senso obliquo al fine di formare una
sorta di reticolato. Tale parete, designata con il nome di saeptum o
cancellum, era presidiata costantemente da due addetti all’officium
che, proprio in relazione a tale compito, erano detti cancellarii187.
Da CTh.1.16.7 ed altre fonti188 si ricava poi la presenza dei vela,
tendaggi trasparenti utilizzati per separare il magistrato dalle altre
persone che gli sedevano accanto.
186
Per gli studi relativi a questo personaggio si veda per tutti: J. Caimi,
Burocrazia e diritto nel De magistratibus di Giovanni Lido, Milano, 1984.
188
C.Th.1.16.7 : “…non sit venale iudicis velum..” ; C.Th. 13.9.6 (= C.I. 11.5.5):
“levato velo istae causae cognoscantur..”; Giovanni Crisostomo., Hom., 56, in
P.G.,550ss:“ôá ðáñáðåôáóìáôá óõíåëĸõóáíôåò ïß ðáñåóôùôå”.
111
La coesistenza di tali elementi di sbarramento, a mio parere, anziché
confermare l’idea espressa dal Santalucia189 di un processo ormai
segreto ed intercluso al pubblico, la ridimensionano.
Da un attento esame della testimonianza di Giovanni Lido, infatti, si
ricava che, mentre il velum era alzato nella parte più interna del
secretarium per sottrarre il magistrato alla vista del pubblico in
determinati momenti dell’udienza, il cancellum serviva a separare i
pubblici funzionari procedenti dalla folla degli astanti, la cui presenza
è quindi palese.
Conferma di ciò proviene anche da Sidonio Apollinare che già nel V
secolo ci informa di come alla corte di Teodorico, re dei Visigoti:
“pellitorum turba satellitum, ne absit, admittitur, ne obstrepat,
eliminatur, sicque pro foribus immurmurat exclusa velis, inclusa
cancellis”190.
Il fatto che il processo, ormai, solesse svolgersi in un luogo chiuso,
non esclude affatto che il pubblico potesse esservi ammesso: in tal
senso depone anche la famosa Collatio191, convocata a Cartagine nel
411, su ordine dell’imperatore Onorio, allo scopo di definire la grave
questione relativa allo scisma donatista192. E’ infatti stato tramandato
189
B. Santalucia. Diritto e processo, 279.
Sidonio Apollinare, Ep.1.2.4 ; nello stesso senso anche Amm.18.1 per il quale
l’imperatore Giuliano giudicava palam admissis volentibus.
191
Tale importante documento è citato a proposito, in quanto la Collatio
cartaginese presieduta da Flavio Marcellino, si svolse secondo le più rigorose
norme del diritto processuale. Ciò risulta non solo dall’obbiettivo esame dello
svolgersi di tale cognitio, ma dalle parole dello stesso Marcellino che più volte
impone il rispetto delle regole del procedimento ordinario. In proposito A.
Checchini, Studi, I, Padova, 1925, 23ss.
192
Secondo il Dizionario patristico e di antichità cristiane, a cura di A. Di
Bernardino, 1, Casale Monferrato, 1983, 1018: “…La discussione tra donatisti e
cattolici verteva sulla natura della Chiesa in quanto società e sulle relazioni col
mondo e le sue istituzioni. I donatisti si consideravano gli autentici eredi della
chiesa dell’Africa del nord quale era stata prima della grande persecuzione e, in
190
112
che l’assemblea si riunì nel secretarium thermarum Gargilianarum
alla presenza di un pubblico assai numeroso.
Alcuni passi di Giovanni Crisostomo e Basilio Magno193 ci attestano
poi che i vela venivano abbassati solo nel momento che precedeva la
sentenza, per essere rialzati al momento della sua lettura, che valeva
come solenne pubblicazione.
Il pubblico quindi, a mio parere, continuava a rappresentare una
componente abituale della vita giudiziaria e la sua eventuale
esclusione non trovava tanto giustificazione in ragioni di segretezza,
quanto di uno svolgimento del giudizio privo di interferenze.
La presenza di una folla rumorosa avrebbe infatti potuto distrarre il
giudice ed attenuare il rigore e la solennità di certi momenti e ciò
spiega perché il velo venisse abitualmente abbassato proprio al
momento della decisione ( in un quasi odierno ritirarsi per deliberare).
2. Il dibattimento, la fase istruttoria e la pronuncia della sentenza.
Il contributo delle fonti non giuridiche: il processo per magia di
Libanio ed il racconto di Procopio da Cesarea
Coordinando i diversi risultati delle mie ricerche ne ricavo il seguente
quadro: costituito il rapporto processuale, le parti si riunivano davanti
ad un giudice, spesso indicato col termine disceptator, che presiedeva
particolare, quale era stata al tempo di Cipriano. Erano dunque conservatori nella
loro liturgia e celebravano l’agape, così come l’eucarestia, ignorando le nuove
festività accettate dai cattolici come l’Epifania (Aug., Sermo 212.2), opponendosi
al monachesimo (Aug., C. litt. Petiliani 3.40.48 ed Enarr. in P.S. 132.3) e
mantenendo la Bibbia africana, mentre i cattolici usavano la Volgata…”.
113
allo svolgimento di un giudizio ormai per lo più denominato
disceptatio194 o altercatio. Compito del giudice era quello di causas
cognoscere195 ovvero di lites (o causas) audire ac discingere196,
nonché di adoperarsi affinché il iudicium fosse rectum197
A questo punto la regolare costituzione delle parti veniva
ufficialmente accertata mediante una solenne chiamata (citatio) del
praeco198, che le fonti non giuridiche attestano anche per il processo
penale199. Trattate le eventuali questioni preliminari, le parti potevano
procedere ad un breve dibattito riassuntivo in cui, attraverso
reciproche domande e risposte, chiarivano tanto le proprie posizioni
quanto le questioni su cui il giudice era chiamato a pronunciarsi200.
193
Gotofredo nel suo commentario, con riguardo a CTh.1.7.1, riporta la
testimonianza di Basilio Magno secondo la quale i veli erano eccezionalmente
abbassati solo quando si discutevano le più gravi cause penali.
194
CTh.2.5.2: “studio protrahendae disceptationis…quantum pertinet ad huius
modi disceptationes”; CTh.9.1.13: “Provincialis iudex…cum in eius
disceptationem criminalis causae dictio adversum senatorem inciderit”;
CTh.9.31.3:“disceptatio…cognitione…tractanda”;CTh.2.4.7:“actiones…iudicantu
m disceptatione finiantur”.
195
CTh.9.1.13: (Imppp. Valens, Gratianus et Valentinianus AAA. ad Senatum).
Post alia: provincialis iudex vel intra Italiam, cum in eius
disceptationem
criminalis
causae
dictio
adversum
senatorem
inciderit, intendendi quidem examinis et cognoscendi causas habeat potestatem,
verum nihil de animadversione decernens integro non causae, sed capitis statu
referat ad scientiam nostram vel ad inclytas potestates. Referent igitur praesides
et correctores, item consulares, vicarii quoque, proconsules de capite, ut diximus,
senatorio negotii examine habito. Referant autem de suburbanis provinciis
iudices ad praefecturam sedis urbanae, de ceteris ad praefecturam praetorio.
Sed praefecto urbis cognoscenti de capite senatorum spectatorum maxime
virorum iudicium quinquevirale sociabitur et de praesentibus et
administratorum honore functis licebit adiungere sorte ductos, non
sponte delectos. Et cetera. Lecta in senatu III id. Feb. Valente V et Valentiniano
AA. conss. (376 febr. 11).
196
CTh.1.16.3 e 1.16.9
197
CTh.10.10.3
198
CTh.1.16.6: “..frequens praeconis, ut adsolet fieri, inclamatio…”
199
Eusebii, Hist. Eccles, 7.15.5
200
CTh.2.6.2 parla di “lis…in altercationem adducta”.
114
Il successivo giuramento, prestato da parti ed avvocati201, inaugurava
l’apertura della discussione. In essa erano invitati ad esporre le proprie
ragioni prima l’accusatore ed i suoi eventuali patroni, poi l’accusato e
chi l’assisteva202. Venivano inoltre assunte le testimonianze, le altre
prove ed eventualmente si stimolava una confessione, anche mediante
il ricorso alla tortura.
Le informazioni riportate dalle fonti in materia istruttoria sono
estremamente scarse e sembrano ridursi ad un generico richiamo alla
regola per la quale gli accusatori potranno adire il giudice solo qualora
siano in possesso di prove chiare e rilevanti.
In materia di prove gli imperatori tardo antichi, in molte occasioni,
trascurando completamente i profili di tecnica processuale in materia
istruttoria, si richiamano ad un generico concetto di veritas sulla cui
esistenza in senso oggettivo non sembrano nutrire dubbi.
Le leggi postclassiche con particolare insistenza richiedono infatti che
le prove siano acerrimae et apertissimae in modo da non lasciare
alcuna incertezza circa la colpevolezza dell’accusato.
Può darsi che siano le solite frasi ampollose, tanto frequenti nelle
prescrizioni di quest’epoca, tuttavia non mancano precise disposizioni
a riguardo.
Di veritas, anzi di acerrima indago per raggiungere la medesima parla
già Costantino in CTh.9.19.2.1 del 26 marzo 326 nella quale dispone
che, qualora si tratti di accertare la falsità o meno di un instrumentum,
C.I. 1.3.14 precisa che il giuramento degli avvocati deve aver luogo “cum lis
fuerit contestata, post narrationem propositam et contradictionem obiectam” e A.
Checchini, Studi, 66 dall’esame di questa costituzione trae l’applicabilità di tale
prescrizione tanto al processo civile che penale.
202
Agath.Histor. 4.3 e 4.7
201
115
tanto l’accusatore che il presunto reo debbano illuminare il giudice,
agevolandolo nelle sue indagini, affinché emerga il vero.
La tematica viene ribadita ancora, molto più tardi in termini analoghi,
in una costituzione di Teodosio I del 18 maggio 382 diretta al prefetto
del pretorio Floro, conservata in CTh.9.37.3 e giunta con alcune
varianti in C.I.4.19.25 e C.I.9.46.9, nella quale si legge: “…sciant
cuncti (nel giustinianeo è stato aggiunto accusatores) praemeditentur,
ante praecaveant eam se rem deferre debere in publicam notionem,
quae munita sit testibus, instructa documentis, signis ad probationem
luce clarioribus expedita…”. Tuttavia le fonti non chiariscono cosa si
intenda per instrumentum, per cui si può solo ipotizzare che anche nel
tardo antico le prove ammesse in giudizio fossero di natura tanto
testimoniale che documentale.
Terminata l’istruttoria, il giudice si ritirava per decidere e si ritiene
che, poco dopo, ricomparisse per dare lettura di quello che oggi
chiameremmo il dispositivo della sentenza.
La presenza delle parti alla lettura era richiesta a pena di nullità,
tranne il caso in cui esse, benché formalmente convocate, fossero
deliberatamente non comparse203.
Una costituzione di Valentiniano I del 371204 disponeva che la
decisione dovesse essere scritta su un apposito libello e, ex libello,
letta alle parti. Una costituzione di poco successiva dello stesso
imperatore si preoccupava però di precisare quali fossero le formalità
da rispettare nell’eseguire tale redazione :
203
C.I. 7.43.2 : Imp. Gord. A Severo. Cessante quoque causa peremptorii edicti
adversus eos, qui admoniti iudicio adesse noluerunt, sententiam ab iudice posse
ferri certum est. Gord. A. Severo. A 238 s. III k. aug. Pio et Pontiano conss.
204
C.I. 7.44.2
116
C.Th.4.17.1: (Imppp. Valentinianus, Valens et Gratianus AAA.
ad Probum p.p.). Statutis generalibus iusseramus, ut universi
iudices, quibus reddendi iuris in provinciis permittimus
facultatem, cognitis causis ultimas definitiones de scripti
recitatione proferant. Huic adicimus sanctioni, ut sententia,
quae dicta fuerit, cum scripta non esset, ne nomen quidem
sententiae habere mereatur, nec rescissionem perperam
decretorum appellationis sollemnitas requiratur. Dat. III non.
dec. Treviris Gratiano A. III et Equitio V. C. conss.
(3 dec. 374).
Dall’esame delle costituzioni finora analizzate emerge perciò una
particolare
attenzione
per
la
pubblicità
e
la
necessità
di
verbalizzazione della sentenza che deve essere, a pena di nullità, tanto
conservata per iscritto che solennemente letta agli interessati.
Anche Giovanni Lido205, nel VI secolo, informa di come, in base
all’antico costume osservato nel tribunale del prefetto del pretorio, la
sentenza dovesse essere trascritta in un apposito schedario e poi
presentata al magistrato per la sottoscrizione. A questo punto il
segretario, consegnato il purum (ovvero l’originale) alle parti, ne
redigeva una óõíïøéò in lingua latina, conservandola presso di sé,
ðñïò êùëõìá ôïëìçñáò ðñïóèçêçò ç õöáéñåóåùò206.
Essendo, come si può notare, le costituzioni imperiali in materia di
procedimento penale contenute sia nel Codice Teodosiano sia nel
Giustinianeo estremamente esigue, ritengo utile continuare a ricorrere
alle fonti non giuridiche.
Mi servirò di esse per acquisire la narrazione di quegli episodi
concreti di vita processuale, di cui le fonti del diritto sono state tanto
205
Lyd. De mag. 3.2.
CTh.16.5.55 : Gesta quae sunt translata in publica monumenta habere
volumus perpetuam firmitatem, neque enim morte cognitoris perire debet publica
fides
206
117
avare, non dimenticando però mai di sottolinearne la circoscritta
attendibilità, anche alla luce dei pochi e sicuri riferimenti di carattere
giuridico di cui dispongo.
Per una sorta di rigore sia sistematico che cronologico, tra le varie
testimonianze207 preferisco privilegiare inizialmente quella di Libanio.
Libanio, non solo fu uno dei più importanti maestri di retorica del suo
tempo, ma anche un uomo politico famoso, che si trovò ripetutamente
coinvolto in prima persona, come accusato, in vicende giudiziarie
relative a delitti, anche molto scabrosi208.
Al di là dei racconti di corruzione, talora a forti tinte, che abbiamo già
riportato e nei quali non si può non cogliere una palese vena
tendenziosa e polemica, ciò che ora interessa è la descrizione della
sequenza procedimentale delle cause, delle quali questo autore stesso
fu protagonista e che narra con stile vivace, ma preciso, di particolare
interesse è l’orazione 1.69 209.
In essa Libanio racconta lo svolgimento del processo che si svolge nei
suoi confronti, quando è accusato di magia ad Antiochia e a
Nicomedia.
Il processo viene rappresentato in uno scenario mutevole, scandito
dalla disputa verbale tra l’accusato e l’accusatore, alla presenza del
governatore e di una vasta folla.
Tale svolgimento, che sembrerebbe ancora richiamare quell’idea
arcaica di processo come lotta ormai stilizzata e solo verbale tra due
antagonisti, è intervallata dall’arrivo di illustri personaggi, che si
Tra le più note si possono ricordare quelle dei vescovi Basilio di Cesarea,
Giovanni Crisostomo, Gregorio di Nazianzo e del retore Temistio.
208
Nell’Or.1.98 (1.131ss Forster; 138ss Petit) Libanio racconta di essere stato
accusato di fronte all’imperatore di tenere in casa le teste mozzate di due donne.
209
1. 116 Forster; 126 Petit.
207
118
atteggiano a protettori dei due litiganti e che Libanio rappresenta come
principale minaccia al corretto svolgersi del processo e al suo
concludersi con una pronuncia conforme solo alla legge vigente.
In particolare, il retore racconta come il sofista che lo aveva accusato
non fosse riuscito, forse per l’emozione, a pronunciare il proprio
discorso ed avesse imputato ciò ad un sortilegio dello stesso Libanio.
Invitato
dal
giudice
a
dare
almeno
lettura
delle
proprie
argomentazioni, ne era stato incapace e di fronte all’ordine di far
leggere un terzo, aveva iniziato a pronunciare parole prive di senso.
Al di là della rielaborazione certamente enfatica e letteraria della
vicenda, ciò che importa notare è come il processo sia aperto al
pubblico e basato sull’impulso delle parti che procedono, in apparente
posizione di parità, ad un contraddittorio di fronte ad un giudice che
dirige le operazioni e forma il suo convincimento.
Libanio poi attesta la prassi, confermata anche da Ammiano
Marcellino210, di tenere le udienze di notte, secondo lui al fine di
sfruttare lo stato confusionale di quei momenti ed ottenere la
confessione, che resta sempre la regina delle prove e che spesso
veniva “stimolata” mediante il ricorso alla tortura.
Sempre animata dall’intento di ricostruire la dinamica processuale,
ritengo utile riportare la testimonianza di Procopio di Cesarea211.
210
Amm. 28.1.54
Su Procopio di Cesarea e sui suoi Anekdota si vedano, tra gli altri: B. Rubin,
Prokopios vin Kaisareia, Stuttgart, 1954, ripreso in P.W., 23,1, 1957,273ss.; A.
Carile, Consenso e dissenso fra propaganda e fronda nelle fonti narrative dell’età
giustinianea, in L’imperatore Giustiniano. Storia e mito, a cura di G.G. Archi,
Milano, 1978, 62ss.; A. Cameron, Procopius and the Sixth Century, London,
1984; H.G. Beck, Kaiserin Theodora und Prokop. Der Historiker und sein Opfer,
München, 1986, trad. it., Lo storico e la sua vittima. Teodora e Procopio, Bari,
1988; F. Goria, Aspetti della giustizia penale nell’età giustinianea alla luce degli
Anekdota di Procopio, in ARC, 11, 1996, 565.
211
119
Storico dell’età giustinianea, nato intorno al 500, divenne nel 562
prefetto di Costantinopoli, città nella quale morì poco dopo.
I suoi Anecdota, benché mossi da un chiaro intento diffamatorio e
quindi da valutare molto cautamente, quanto al loro reale apporto
conoscitivo, costituiscono ugualmente, ai fini di questa analisi, una
fonte preziosa in quanto le tematiche dell’amministrazione della
giustizia e dello svolgimento dei processi vi compaiono in modo assai
ricorrente.
Da un esame globale dell’opera di Procopio212 emerge già come
l’autore consideri il processo il mezzo più idoneo ad assicurare
effettività al sistema giuridico attraverso “la repressione dei
comportamenti devianti ”213.
In particolare Procopio, che ai tempi di Belisario rivestì la carica di
adsessor, individua la ricetta per una corretta amministrazione della
giustizia in uno svolgimento processuale libero da condizionamenti
esterni, basato su una certa uguaglianza di trattamento e vincolato al
rispetto di determinate regole procedurali. Tra queste ultime, in
particolare, cita la necessità di un accusatore
214
(quasi a testimoniare
come ormai spesso se ne prescindesse), limiti alle testimonianze (per
evitare che ciò si trasformi in uno strumento dilatorio e d’incertezza) e
divieto di segretezza215.
Tutte queste informazioni sono fornite da Procopio all’interno di un
feroce “ j’accuse “ contro l’attività dei giudici che ancora una volta
sono descritti come lenti e corrotti.
212
In particolare in tal senso: Anecd.7.19 ; 31; 40; 7.13.22; 7.14.20.
Espressione mutuata da F. Goria, Aspetti, 566
214
Anecd.11.35.
215
Anecd. 20.12.
213
120
A differenza però di Libanio, che è un retore, Procopio, che forse ha
compiuto studi giuridici, imposta in modo più tecnico la propria
critica, così tramandando notizie importanti.
Da Anecd.14.13, ad esempio, ricaviamo che Giustiniano, per porre
rimedio all’inflazione processuale che affliggeva i magistrati della
capitale, aveva istituito come loro delegati dodici ulteriori giudici che
tenevano udienza nel portico del palazzo reale.
Allo stesso modo lamentando la prassi del patrocinium216, Procopio
narra come Giustiniano avesse introdotto, anche nei processi
criminali, l’obbligo delle parti di prestare giuramento di non aver dato
o promesso ai giudici o ad altri alcuna utilità a scopo di patrocinio, e
ciò è confermato da Nov.Iust.124.1 del 546. Emerge tuttavia, anche
dal racconto di questo autore, un quadro frammentario ed incerto, che,
pur gettando luce su alcuni particolari interessanti, non si caratterizza
come trattazione esaustiva della procedura penale.
3. La legislazione in materia di durata dei giudizi.
Un versante che gli imperatori si dedicano a disciplinare con regolarità
è quello relativo alla durata dei processi.
A differenza del processo classico che non conosceva limiti di
tempo217, quello tardo antico è sottoposto al rispetto di rigide
restrizioni temporali.
Il primo a stabilire un termine legale è Costantino il arriva a stabilire il
25 marzo 326 :
216
217
già vietato da Leone I nel 468 con CI.11.54.1.
Così almeno ritiene B.Biondi, Il diritto romano, 510.
121
CTh.9.19.2.2: Ultimum autem finem strepitus criminalis, quem
litigantem disceptantemque fas non sit excedere, anni spatio
limitamus, cuius exordium testatae aput iudicem competentem
actionis nascetur auspicium: capitali post probationem
supplicio, si id exigat magnitudo commissi, vel deportatione ei
qui falsum commiserit imminente. Proposita VIII kal. april. in
Foro Traiani Constantino A. VII et Constantio C. conss.
In questa costituzione, nella quale non è riportato il destinatario, ma
che ritengo abbia comunque portata generale, facendosi riferimento ad
un non meglio precisato strepitus criminalis, l’imperatore sancisce il
termine di un anno218, quale spazio temporale entro cui debbano
esaurirsi le corrispondenti attività processuali e fissa come dies a quo
il giorno della proposizione dell’azione.
L’imposizione di un arco cronologico così breve sembra rispondere a
precise esigenze organizzative dell’impero, nel quale i ritardi della
giustizia sono un motivo costante di lagnanze.
La lentezza processuale viene tuttavia imputata, nell’ottica tardo
imperiale, non solo al mancato rispetto del termine finale, ma anche
all’eventuale desistenza dell’accusatore.
Al di là dell’intervento di Teodosio del 380 (CTh.9.3.6) che riguarda
essenzialmente il problema della carcerazione preventiva, ritengo utile
per ora mettere a confronto una costituzione di Valentiniano del 385
218
Quanto alle origini del termine annale in ordine alla conclusione del processo
penale, R. Bonini, Ricerche, 217 nt.130, osserva come esso abbia probabilmente
iniziato ad affermarsi nella prassi (vedi D.48.16.15.5) e soltanto con CTh.9.19.2.2
abbia ricevuto riconoscimento legislativo in relazione al caso particolare del falso.
In proposito: M. Wlassak, Anklage und Streibefestigung in Kriminalrecht der
Römer, Wien, 1917, 102 e 206; M. Lauria, Calumnia, 124 nt. 6; J.A.C. Thomas,
Prescription of Crimes in Roman Law, in RIDA, 3, 9, 1962, 428.
122
con una di Onorio del 409, riportateci entrambe anche dal Codice
giustinianeo219 :
CTh.9.36.1: (Imppp. Valent., Theodos. et Arcad. AAA.
Desiderio vicario). Quisquis accusator reum in iudicium sub
inscriptione detulerit, si intra anni tempus accusationem
coeptam prosequi supersederit, vel, quod est contumacius,
ultimo anni die adesse neglexerit, quarta bonorum omnium
parte mulctatus aculeos consultissimae legis incurrat; scilicet
manente infamia, quam veteres iusserant sanctiones. Dat. IV.
id. iul. Treviris, Arcadio A. I. et Bautone coss.
CTh.9.36.2 : ( Impp. Honor. et Theodos. AA. Caeciliano p.p.).
Post alia: Noverint
iudices cuilibet culmini honorive
praesidentes, necessariis utrique parti, si petantur, dilationibus
non negatis a die inscriptionis intra anni curricula criminales
causas limitandas, quo emenso habeat accusator, quia destitit,
poenam sibi legibus constitutam. In iudicum autem debet esse
diligentia, ut, si nulla rationabilis a reo vel accusatore dilatio
postuletur, urgeant talium causarum notionem, non exspectatis
anni moris. Si vero accusator vel reus, propter documenta
forsitan sibi necessaria, annum voluerint custodiri, dare
assensum debet
patientia cognitoris, in alteram partem
severiorem formatura sententiam. Etc. Dat. XII. kal. febr.
219
A CTh.9.36.1 corrisponde nel Codice giustinianeo, seppure con qualche
variazione, C.I.9.44.1: (Valentin. Theodos. et Arcad. AAA. Desiderio vic).
Quisquis accusator reum in iudicium sub inscriptione detulerit, si intra certum
tempus accusationem coeptam persequi supersederit vel, quod est contumacius,
ultimo die adesse neglexerit, quarta bonorum omnium parte multatus aculeos
consultissimae legis incurrat, scilicet manente infamia, quam veteres iusserant
sanctiones. Invece CTh.9.36.2 è ripresa da C.I.9.44.2pr.: (Impp. Honorius et
Theodosius AA. Caeciliano pp). Noverint iudices cuilibet culmini honorive
praesidentes, necessariis utrique parti, si petantur, dilationibus non negatis
praecedentibus scilicet inscriptionibus, intra certum tempus criminales causas
limitandas: quo emenso subeat accusator, quia destitit, poenam legibus
constitutam, et si persona vilior fuerit, cui damnum famae non sit iniuria, poenam
patiatur exilii, nisi forte intra statuti temporis metas consensus partium
abolitionem poposcerit.
123
Ravennae, Honorio VIII. et Theodos. III. AA. conss.
124
Nella costituzione del 385 sembrano delinearsi due diverse fattispecie
a seconda della condotta tenuta dall’accusator, dopo aver ottemperato
alla formalità dell’inscriptio: nel primo caso “intra anni accusationem
coeptam persequi supersederit”; nel secondo invece si rende
“contumax”220 fino all’ “ultimo anni die”.
In entrambe le ipotesi, l’accusatore che con la sua condotta ha
dimostrato un sostanziale disinteresse per il processo e le sue sorti,
viene punito, sia con le interdizioni insite nella qualifica di infamis, sia
con una sanzione pecuniaria pari ad un quarto del suo patrimonio.
A voler applicare categorie concettuali di tipo moderno, si potrebbe
quasi parlare di perenzione del procedimento per inattività di una
parte221.
La seconda costituzione riguarda invece le dilazioni accordabili agli
intervenuti. Il legislatore, a questo proposito, pur invitando i giudici a
concedere ad entrambe le parti, qualora lo desiderino, le necessarie
dilazioni, ordina loro di vigilare affinché esse, sia da parte del reo che
dell’accusatore, rispondano ad una giusta causa; diversamente i
magistrati saranno tenuti ad affrettare la conclusione del processo,
senza riconoscere alcuna proroga.
La causa criminale - si precisa - dovrà comunque concludersi entro il
termine di un anno222
dal
giorno dell’inscriptio, altrimenti
220
Sul significato di contumacia si veda in generale E. Volterra, Osservazioni
sull’ignorantia iuris nel Dir. Pen. Rom. (Appendice: contumacia nei testi giuridici
romani), in BIDR, 38, 1930, 121ss.
221
Si è osservato come il comportamento dell’accusatore, in questi casi, non sia
facilmente inquadrabile negli schemi classici della tergiversatio. Così almeno
ritengono: M. Lauria, Calumnia, 124ss; B.Biondi, Il diritto romano, 507; In
proposito il Lauria, seguito in ciò dal Brasiello, s.v. calumnia, in Enc. del Dir., 5,
1959, 816 sottolinea acutamente come nell’epoca giustinianea gli abusi perpetrati
dall’accusatore tendessero ormai a confluire nel più ampio concetto di calumnia.
In proposito si veda il § 1 di questo capitolo.
124
l’accusatore, considerato desistente, dovrà essere sottoposto alla pena
prevista per legge. Qui, ancora una volta, il legislatore imperiale si
trova evidentemente a bilanciare due esigenze parimenti importanti.
Da un lato la necessità di concedere alla parte la possibilità di
presenziare ed, eventualmente, di disporre del tempo necessario ad
allestire la propria difesa; dall’altro, evitare che il riconoscimento di
questa facoltà divenga oggetto di abusive dilazioni.
Prima di procedere ad una più specifica ricostruzione delle scelte di
politica legislativa sottese a tali interventi, credo utile anticipare
l’innovativa disciplina dettata da Giustiniano in materia, al fine di
procedere poi ad un esame comparato delle tre costituzioni.
Giustiniano “affinché le liti non fossero quasi immortali e non
eccedessero la misura della vita umana” dettò in C.I.9.44.3 del 529
rigorose prescrizioni, che sicuramente migliorarono la posizione
dell’imputato in attesa di giudizio :
C.I.9.44.3: (Iust. A. Menae. pp. A Decio vc.cons.) Criminales
causas omnimodo intra duos annos a contestatione litis
connumerando finiri censemus nec ulla occasione ad ampliora
produci tempora, sed post biennii excessum minime ulterius lite
durante accusatum absolvi, scientibus iudicibus eorumque
officiis, quod, si litigatoribus admonentibus ipsis litis
introductionem vel examinationem distulerint, poena vicenarum
librarum auri ferientur.
222
Ritengo sia da sottolineare come nella versione teodosiana del testo, il potere
discrezionale del giudice di concedere la proroga sia subordinato all’evenienza in
cui le parti, fin dall’inizio del processo, abbiano concordato, di fronte al giudice,
di dedicare il periodo annuale alla raccolta del materiale probatorio. In tal caso
infatti il giudice è tenuto a rispettare l’accordo privato, salvo poi punire più
severamente l’eventuale soccombente. Nella versione giustinianea invece tale
norma è omessa, con un conseguente rafforzamento dei poteri discrezionali
dell’organo giudicante circa la concessione o meno delle dilazioni.
125
La norma dispone che il processo penale sia sottoposto al termine
perentorio e quindi estintivo di due anni, a partire dalla litis
contestatio.
Trascorso inutilmente siffatto periodo, senza essere pervenuti alla
decisione della causa, l’accusato dovrà essere assolto e in aggiunta,
qualora la mancata conclusione dipenda da un ritardo del giudice nella
litis introductio o nell’examinatio (nonostante l’admonitio dei
litigatores), lo stesso giudice e gli appartenenti al suo officium saranno
soggetti ad una pena pecuniaria pari a venti libbre d’oro.
Ritengo sia da notare come l’assoluzione, in questo caso, sia il mero
riflesso dell’estinzione del processo, e quindi dell’accusa, e non
l’effetto di un provvedimento formale adottato dal giudice, con la
conseguente possibilità di riproporre l’accusa.
Il vero valore di questo intervento legislativo si coglie, però, solo in
quanto rapportato alla disciplina contenuta nelle costituzioni, di cui ci
siamo già occupati e che sono recepite anche da Giustiniano.
L’approccio contenuto in CTh.9.36.1 (=C.I. 9.44.1) e CTh.9.36.2 (=
C.I.9.44.2) è ben diverso da quello di C.I.9.44.3: in quest’ultima
infatti l’attenzione del legislatore, sempre ansioso di rendere più
rapido
il
meccanismo
processuale,
si
concentra
non
sul
comportamento delle parti, ma su quello del giudice e più
precisamente sull’ipotesi in cui questi rimanga inattivo, nonostante le
ripetute sollecitazioni dei privati.
Analizzando da un punto di vista più tecnico i rapporti intercorrenti
fra queste tre costituzioni, si coglie, poi, come l’intervento
giustinianeo risulti peculiare anche sotto il profilo della decorrenza del
dies a quo.
126
Mentre in CTh.9.36.1 e 2 esso coincide con l’inscriptio, invece in
C.I.9.44.3 s’identifica con la litis contestatio223.
Al di là delle difformità sussistenti tra queste norme, ciò che va in
ogni caso posto in risalto è come esse costituiscano un tentativo di
ovviare, con un insieme di limiti temporali e di sanzioni tra loro
diverse, agli inconvenienti connessi alla lentezza processuale.
Gli imperatori manifestano ripetutamente questa esigenza e, sia che
essa corrisponda ad una mera necessità di miglioramento della
funzionalità degli apparati giudiziari, sia ad una volontà di
diminuzione dei costi, connessi ad un prolungamento esagerato dei
giudizi, in ogni caso, essa fa piena prova della tensione imperiale volta
a rendere possibile una giustizia amministrata in quei “tempi
ragionevoli”, posti a fondamento anche della moderna disciplina sul
giusto processo.
Va infine specificato, per ragioni di sistematicità, che l’esame di
C.I.9.44.3 non si può esaurire in un mero coordinamento di questa
costituzione con quelle appartenenti al suo stesso titolo, ma essa va
Circa il dibattito intrapreso dalla moderna dottrina sull’effettiva natura della
litis contestatio nel processo penale, si possono così sinteticamente riportare le
principali posizioni: per primo il Wlassak, Anklage, 142ss. e 198ss., mise in
dubbio l’autenticità delle fonti che estendevano tale istituto anche al processo
penale. Esse, secondo l’autore, sarebbero state infatti il frutto delle interpolazioni
dei compilatori giustinianei, i quali non avrebbero prestato attenzione al fatto che i
classici non avessero mai impiegato l’espressione litis contestatio al di fuori del
processo civile. Questa tesi finì per assurgere a communis opinio e, fra gli altri,
aderirono ad essa: U. Brasiello, Repressione, 24 nt.19 e 340ss; G. Pugliese,
Processo privato e processo pubblico, 73 e 102. Qualche riserva si riscontra
invece nel Di Paola, La “litis contestatio” nella “cognitio extra ordinem” dell’età
classica, in Ann. Sem. giurid. Univ. Catania, 2, 1947-1948, 288 nt.106. La tesi di
Wlassak è stata sottoposta ad una accurata revisione da parte di A. Biscardi, Sur la
“litis contestatio” du procès criminel, 307 ss., dato che, per tale autore,
l’espressione litis contestatio nel processo penale sarebbe già stata usata in epoca
classica per indicare quei sollemnia accusationis, successivi all’inscriptio ed
idonei a costituire il rapporto processuale.
223
127
rapportata anche alle disposizioni collocate sotto altre rubriche e, in
particolare, con quelle relative ai limiti di durata del processo imposti
in caso di carcerazione preventiva dell’imputato.
3. I tempi del processo e la carcerazione preventiva. Cenni in tema
di tortura.
Tra disposizioni in materia di carcerazione preventiva224, il primo
provvedimento che considero meritevole di attenzione, a questo
La communis opinio in relazione al suddetto istituto è orientata a ritenere che
all’affermarsi delle procedure extra ordinem, il carcere abbia riacquistato quella
funzione di custodia, che aveva in parte perso durante l’ultima repubblica.
Massimo esponente di questa linea di pensiero è Th. Mommsen, Strafrecht,
328ss., per il quale il ristabilimento della carcerazione preventiva trova la sua più
ragionevole giustificazione in un’interpretazione estensiva delle eccezioni inserite
nella Lex Iulia de vi publica, la quale limita il ricorso all’imprigionamento e alle
altre misure restrittive della libertà personale alla presenza di determinate
condizioni soggettive, quali ad esempio lo status di iudicatus o di confessus.
Questa tesi accanto all’orientamento, sempre espresso da Th. Mommsen,
Strafrecht, 963, secondo il quale l’ordinamento romano non avrebbe mai
conosciuto la detenzione quale vera e propria pena di carattere criminale, ma solo
come mezzo di coercizione magistratuale con l’unica funzione di misura in attesa
del giudizio o della sua esecuzione, conta ormai tra i suoi sostenitori la stragrande
maggioranza dei romanisti. Fra i principali ricordiamo: C. Ferrini, Diritto penale
romano, estratto dall’Enciclopedia del diritto penale italiano, 1, Milano, 1902,
155ss; E. Costa, Crimini e pene da Romolo a Giustiniano, Bologna, 1921, 96; U.
Brasiello, La repressione, 386; E. Levy, Gesetz und Richter im kaiserlichen
Strafrecht, in BIDR, 45, 1938, 100 nt. 193,104, 211 (= in Gesammelte Schriften, 2,
Köln-Graz, 1963, 463 nt.193 e 466 nt.211); G. Cardascia, L’apparition dans le
droit des classes d’ “honestiores” et d’ “humiliores”, in RH, 28, 1950, 314; T.
Mayer- Maly, s.v. Vincula, in PWRE, 8 a 2, Stuttgart, 1958, 2203ss. (che in parte
avanza riserve, almeno con riguardo al diritto tardo classico, ma nella sostanza
non si discosta formalmente dalla communis opinio); F. La Rosa, Nota sulla
“custodia” nel diritto criminale romano, in Synteleia Arangio-Ruiz, 1, Napoli,
1964, 310; U. Brasiello, s.v. Pena, in NNDI, 12, Torino, 1965, 813; P. Garnsey,
Social status and legal privilege in the Roman Empire, Oxford, 1970, 149; B.
Santalucia, Lineamenti, 517. Per quanto riguarda i restanti autori si registra come
unica eccezione rispetto all’opinione ormai consolidata S. Solazzi, La condanna
ai “vincula perpetua” in CI.9.47.6, in SDHI, 22, 1956, 346 nt.1 (= Scritti di diritto
romano, 6, Napoli, 1972, 716 nt.1). Si distacca dal resto della dottrina M.
Balzarini, Il problema della pena detentiva nella tarda repubblica: alcune aporie,
in Studi economico- giuridici, 54, 1991-1992 ripreso in Il problema della pena
224
128
riguardo, è una costituzione di Costantino del 31 dicembre 320225, in
cui ci siamo già imbattuti nel primo capitolo:
CTh.9.3.1pr (= C.I.9.4.1pr.-3): (Imp. Constantinus A. ad
Florentium rationalem). In quacumque causa reo exhibito, sive
accusator exsistat sive eum publicae sollicitudinis cura
perduxerit, statim debet quaestio fieri, ut noxius puniatur,
innocens absolvatur. Quod si accusator aberit ad tempus aut
sociorum praesentia necessaria videatur, id quidem
debet quam celerrime procurari. Interea vero exhibito non
ferreas manicas et inhaerentes ossibus mitti oportet, sed
prolixiores catenas, ut et cruciatio desit et permaneat fida
custodia. Nec vero sedis intimae tenebras pati debebit inclusus,
sed usurpata luce vegetari et, ubi nox geminaverit custodiam,
vestibulis carcerum et salubribus locis recipi ac revertente
iterum die ad primum solis ortum ilico ad publicum lumen
educi, ne poenis carceris perimatur, quod innocentibus
miserum, noxiis non satis severum esse cognoscitur.
criminale tra filosofia greca e diritto romano. Atti del deuxième colloque de
philosophie pénale (Cagliari, 20-22 aprile 1989), Napoli, 1993, 373-395; Id., La
pena de encarcelamiento hasta Ulpiano, in Seminarios Complutenses de Derecho
Romano, 1, Madrid, 1990, 221-234, il quale ritiene che non si possa ridurre il
ruolo del carcere all’esclusiva funzione di custodia, in quanto il sistema romano
avrebbe conosciuto, e non solo a livello di deviazione pratica, una vera e propria
pena detentiva. In particolare l’autore di fronte all’ostacolo rappresentato alla sua
tesi dal brano ulpianeo D.48.19.8.9 per il quale “…carcer enim ad continendos
homines, non ad puniendos haberi debet…”, lo interpreta come un’opinione di
Ulpiano espressa in una situazione di contingente opportunità. Questo passo
rifletterebbe, pertanto, solo il pensiero di Ulpiano che il carcere, come luogo di
pena, in caso di edificio sovraffollato, renderebbe più difficile la sua utilizzazione
a fini preventivi che ne costituiscono la funzione primaria, ma non esclusiva.
Per il resto evito di addentrarmi nella disputatio circa la configurabilità o meno di
una pena carceraria romana, che esulerebbe dall’ambito di questo studio e inoltre
richiederebbe molto più spazio, rimandando a M. Messana, Riflessioni storico –
comparative in tema di carcerazione preventiva (a proposito di D.48.19.8.9 –
Ulp. 9 De off. Proc.) in AUPA, 41, 1991 e A. Lovato, Il carcere, Bari, 1994.
225
Per i problemi di datazione di questa costituzione vedi supra capitolo 1 § 1 in
cui aderisco alla ricostruzione proposta da O. Seeck, Regesten, 170. Qui si può
aggiungere che la norma è pervenuta attraverso il manoscritto V (Vaticanus
reginae 886) di origine incerta. A proposito rimando a Theodosiani libri XVI cum
constitutionibus Sirmondianis, ed. Th.Mommsen e P.M. Meyer,1,1, Prolegomena,
44-46.
129
Questa disposizione226, nei Codici Teodosiano e Giustinianeo, apre il
titolo De custodia reorum e, fin dalla sua formulazione iniziale,
appare rivolta a sancire prescrizioni aventi carattere generale.
Si dispone infatti che, sia quando l’accusa provenga da un privato
accusatore, che quando sia frutto della publica sollicitudo, non appena
l’accusato sia stato exhibitus, cioè incarcerato, l’istruttoria processuale
abbia subito luogo, in modo che diventi possibile punire il colpevole o
assolvere l’innocente. Nel caso poi in cui l’accusatore sia assente o
emerga l’esigenza della partecipazione di eventuali correi, così da
rendere necessario un rinvio, occorre comunque provvedere a ciò nel
più breve tempo possibile ed assicurare, nel frattempo, al presunto
colpevole in stato di custodia, determinate garanzie di trattamento.
Prima del relativo approfondimento, è necessario sottolineare come
questo intervento sembri attestare, dal suo esordio, la costante
preoccupazione imperiale di abbreviare i tempi del processo, al fine di
evitare che chi è innocente debba sopportare i disagi insiti nella
condizione di accusato.
Costantino tuttavia, pur manifestando il bisogno di circoscrivere
temporalmente la durata della detenzione, a differenza di quanto farà
Giustiniano, non perviene all’indicazione di termini precisi, bensì si
limita solo a sollecitare l’inizio del dibattimento, per giungere ad una
più rapida definizione della causa.
Il suo intervento si qualifica, da questo punto di vista, come generico e
di ciò mi riservo di fornire una possibile spiegazione tra poco. Ben più
226
Tra gli altri, si occupano di questa costituzione: U. Brasiello, La repressione,
488; B. Biondi, Il diritto romano, 439, 486, 508 e 513; R. Bonini, Ricerche,
130
precise ed accurate sono invece le prescrizioni costantiniane volte a
migliorare le condizioni dell’accusato in attesa di giudizio all’interno
del carcere.
In tale lasso di tempo bisogna infatti che l’exhibitus non sia trattenuto
con “manicae ferreae et inhaerentes ossibus”, ma con “prolixiores
catenae”, sufficienti a garantire una “fida custodia”, pur senza
sottoporre il presunto reo ad una eccessiva “cruciatio”.
I compilatori giustinianei precisano ulteriormente che l’uso delle
catene dovrà essere condizionato dalla “qualitas criminis”.
Questa integrazione è di particolare importanza, in quanto sembra
testimoniare un’evoluzione in senso garantistico nell’ambito delle
ragioni giustificative del ricorso allo strumento dell’incatenamento.
Mentre in Costantino l’uso delle “manicae ferreae” si configura infatti
come un necessario complemento della detenzione, in epoca
successiva si atteggia invece come eccezionale e limitato agli imputati
di crimini più gravi.
Le tendenze di favore di questa disposizione, che Gotofredo227 definì
come “humanissima et christianissima” e che il Mommsen228 giudicò
la prima a prescrivere un trattamento umano ai prigionieri, non sono
però circoscritte ad un’attenuazione delle modalità di incatenamento
dei detenuti, ma sono rivolte a realizzare un miglioramento generale
delle condizioni dei carcerati, in relazione a tutti i loro bisogni
primari.
Si ordina così che le celle abbiano luce sufficiente, che solo di notte la
custodia si attui completamente al chiuso e sempre in luoghi salubri,
143ss; G. Pugliese, Garanzie, 617; M. Messana, Riflessioni storico-comparative,
127ss; S. Pietrini, Sull’iniziativa, 71ss; A. Lovato, Il carcere, 178ss.
227
Gothofredus, ed. CTh. ad 9.3.1.
228
Th. Mommsen, Strafrecht, 304
131
mentre al primo sorgere del sole il recluso vada condotto all’aperto.
La finalità di queste misure è dichiarata dallo stesso imperatore che,
con esse, vuole evitare la morte dei reclusi attraverso la pena del
carcere che lui stesso giudica come un supplizio intollerabile per gli
innocenti, ma non abbastanza rigoroso per i colpevoli.
Costantino, in questo suo intervento, non si accontenta poi di
sollecitare genericamente ad un rapido espletamento dei processi e a
dare disposizioni affinché le condizioni carcerarie non siano
disumane, ma si fa anche carico di rendere effettiva la vincolatività di
siffatte prescrizioni, approntando appositi e severi meccanismi
sanzionatori nei confronti dei trasgressori.
In primo luogo, al fine di proteggere gli innocenti da una carcerazione
oltreché ingiusta anche tormentosa, fa assoluto divieto ai carcerieri di
ricevere compensi dagli accusatori, sia per infliggere crudeltà, in
modo da accelerare la morte dei prigionieri, sia per prolungarne le
sofferenze, condannandoli di fatto ad una lunga agonia, che li porta a
consumarsi lentamente fino a spegnersi.
Ma non è tutto: anche gli stessi giudici sono resi responsabili e
minacciati della sanzione capitale in caso di abusi commessi dai
sorveglianti che abbiano causato la morte dei reclusi per inedia o altra
causa.
Costantino inaugura perciò un sistema di controllo “a piramide” che
coinvolge non solo i semplici guardiani, ma anche alcuni dei più alti
rappresentanti della burocrazia tardo antica, arrivando a comminare
loro, ed è la prima volta che nella nostra analisi incontriamo qualcosa
di simile, persino la pena di morte.
Bisogna a questo punto cercare di ricostruire le ragioni di politica
legislativa che si celano dietro una disposizione tanto rigorosa e, al
132
contempo, favorevole per gli innocenti.
Accantonando la motivazione religiosa già da tempo smentita su più
fronti229, rimane da verificare se tutto ciò non sia altro che il frutto di
una mera operazione propagandistica rappresentata dall’adozione di
principi umanitari nei confronti dei detenuti da parte di un legislatore
che, secondo l’iconografia tradizionale, si deve ammantare di
benignitas oppure risponda ad un’autentica volontà imperiale di
miglioramento delle condizioni giudiziarie e carcerarie.
229
Il problema delle motivazioni profonde alla base delle scelte politiche
costantiniane è molto dibattuto. Una breve sintesi della questione si trova in A.
Lovato, Aspetti immorali della tutela nel basso impero, in Diritto e società nel
mondo romano, 1, Como, 1988, 153-155 nt.110. Alcune posizioni dottrinali, per
tutti B. Biondi, Il diritto romano, hanno cercato di dimostrare l’influenza cristiana
sulla politica e sulla legislazione di Costantino, ma tali apporti sono stati ormai da
tempo ridimensionati non solo in campo penale, ma persino familiare.
In particolare per J. Gaudemet, Les transformations de la vie familiale au BasEmpire et l’influence du Christianisme, in Romanitas, 5, 1962, 58-85 (= Etudes de
droit romain, 3, 281-310) l’influenza cristiana fu piuttosto limitata sia sulla
normativa che nella vita quotidiana. Pertanto se queste influenze sono
riscontrabili, esse possono essere provate solo per norme e questioni specifiche: è
il caso ad esempio di CTh.15.12.1 del 1° ottobre 325 che vieta la condanna ai ludi
gladiatorii e la sostituisce con quella ai metalla. Con tale disposizione Costantino
esprime la propria disapprovazione per i cruenta spectacula, offerti dai giochi
gladiatori e sono state individuate nelle Divinae Institutiones di Lattanzio 6.20.1012 le possibili fonti ispiratrici del divieto. Ci sono invece altri casi in cui i
provvedimenti di Costantino sembrano in netto contrasto con gli ideali cristiani ed
è il caso delle norme in materia di vendita dei neonati e di diritti della personalità.
Sul punto si veda G. Crifò, Diritti della personalità e diritto romano cristiano, in
BIDR, 64, 1961, 33-59; Id., Cristianesimo, diritto romano, diritti della
personalità: una rilettura, in Hestiasis. Studi di tarda antichità, Messina, 1991,
373-386. Sugli studi costantiniani del Burckhardt per il quale l’azione politicolegislativa di Costantino non risponde ad una fede sincera nella religione cristiana,
ma a mere esigenze propagandistiche, si veda S. Mazzarino, Burckhardt
politologo. “L’età di Costantino” e la moderna ideazione storiografica, in Il
basso impero. Antico, tardoantico ed era costantiniana, 1, Bari, 1974, 32-50.
Come opere di sintesi sulla problematica in esame segnalo infine: V. Aiello, Alle
origini della storiografia moderna sulla tarda antichità: Costantino fra
rinnovamento umanistico e riforma cattolica, in Hestiasis. Studi di tarda
antichità, 281-312; F. Amarelli, I problemi di metodo per lo studio delle fonti
relative ai rapporti tra cristianesimo e diritto romano, in Metodologie della
133
A tal fine ritengo utile osservare in primo luogo quanto il
ragionamento sotteso alle disposizioni costantiniane di cui ci stiamo
occupando sia ricco di implicazioni.
Costantino non si limita infatti a sancire che, essendo il carcere una
misura penosa per gli innocenti, ne va limitato l’uso, ma detta una
disciplina sintomatica di un’impostazione di fondo ben più articolata.
Se analizziamo l’affermazione per cui “il carcere è troppo per un
innocente e troppo poco per un colpevole” ne risulta che, mentre la
seconda dichiarazione non fa che confermare, ancora una volta, il
carattere di misura solo preventiva e non anche punitiva del carcere, la
prima invece porta a ben altre considerazioni.
In particolare se ne può desumere che nelle prigioni soggiornano due
categorie ben distinte di soggetti: quelli in attesa di giudizio e quelli in
attesa di esecuzione.
Tuttavia, posto che lo status di innocente è sempre successivo
all’accertamento
giudiziario,
sorge
spontaneo
un
dubbio:
o
Costantino, sapendo perfettamente che nelle sue aule spesso si
condannano anche innocenti, con tali disposizioni vuole combattere
questo abuso, oppure è in lui implicito il principio per cui ciascuno è
innocente fino alla condanna.
Il problema si concentra quindi nello stabilire quale fosse il fine
perseguito da Costantino e due sono le possibili letture.
1) L’imperatore vuole, ancora una volta, di fatto, solo giudizi più
veloci, per avere carceri meno affollate e le disposizioni umanitarie
circa il trattamento dei detenuti hanno solo intento propagandistico,
così come le sanzioni previste per i giudici che, nell’intenzione
ricerca sulla tarda antichità. Atti del Primo Convegno dell’Associazione di Studi
Tardoantichi, a cura di A. Garzya, Napoli, 1989, 11-23.
134
imperiale, rimarrebbero solo sulla carta. Non è però questa la tesi che
privilegio.
2) Costantino mira a chiarire a giudici, funzionari e guardiani in
genere, quale debba essere la funzione del carcere. Mancando una
precedente disposizione generale in materia, Costantino, da poco
combattuto il fenomeno delle carceri private, si occupa ora di quelle
pubbliche. Chiarisce perciò che il carcere non è una punizione, ma un
luogo di custodia in attesa del processo o comunque della pena e che
pertanto non deve diventare pretesto per eliminare, prima del tempo, i
rei o per perpetrare corruzioni.
Il carcere, per l’imperatore, serve solo ad assicurare alla giustizia il
presunto reo, a far sì che non scappi prima del giudizio (di qui l’uso
delle “manette”) e non deve perciò trasformarsi in un “lager” in cui le
influenze corruttrici dei privati possono anticipare la sentenza.
Il fatto poi che Costantino non fissi limiti di durata alla carcerazione,
sembra avvalorare la tesi per cui il suo vero fine non è tanto
abbreviare la reclusione, quanto impedirne un uso distorto.
A conferma di tale indirizzo si può notare che, sempre a Serdica e
sempre nel 320, ma in febbraio, con CTh.11.7.3 egli condanna l’uso
della detenzione come strumento di pressione contro i debitori, in una
vera e propria lotta alle carceri private. Ciò potrebbe avvalorare
quanto detto sopra.
Sempre a questo proposito si può poi riportare CTh.11.30.2230 del 313
indirizzata a Catullino, praeses Byzacenae, in cui si vieta che
l’appellante subisca il carcere o altri mezzi di pressione, tranne che in
A riguardo anche U. Vincenti, “Ante sententiam appellari potest”, Contributo
allo studio dell’appellabilità delle sentenze interlocutorie nel processo romano,
Padova, 1986, 102.
230
135
relazione ad alcuni particolari gravi delitti e soprattutto CTh.8.4.2231
del 315, che è un editto ad Afros in cui si vieta agli stationarii232 di
allestire private carceri e trattenere in custodia presso di sé anche
soggetti colti in flagranza di reato.
In entrambi questi casi, Costantino cerca di riportare la giustizia nei
suoi circuiti ordinari ovvero tenta di far sì che il presunto reo o il
condannato, che si appella, non corra il rischio di un’eliminazione
anzitempo, che riporterebbe l’amministrazione della giustizia in
quell’ottica della vendetta personale e privata incompatibile, non tanto
col concetto di stato di diritto, che non c’è ancora, quanto con la più
elementare forma di governo.
Anche dopo il 320, Costantino prosegue in questa direzione come
dimostra CTh.9.3.2233 del 3 febbraio 326 indirizzata ad Evagrium
praefectus praetorio in cui si dispone che, quando si sia accertata la
colpevolezza dell’imputato di qualche crimine, questi debba sostare in
carcere, mentre si procede alla commemoratio in pubblico del crimine
commesso, al fine di evitare eccessi repressivi nella comminazione
della pena, mediante un controllo della collettività. Se interpretata
letteralmente, anche questa disposizione si mostra di una modernità
231
Si occupa, tra gli altri di questo testo, C. Dupont, Le droit criminelle. Les
infractions, 114.
232
Da G. Lanata, Morire di chirurgia o morire di polizia? Variazioni sulla
Novella 13, in Società e diritto nel mondo tardoantico. Sei saggi sulle novelle
giustinianee, Torino, 1994, 15-16 si apprende che “…agli stationarii era
soprattutto demandata la caccia ai banditi; una volta catturato il reo essi dovevano
stendere l’elogium, un breve rapporto, inviato al governatore della provincia
insieme all’arrestato, il quale veniva sottoposto a regolare procedimento…”.
233
CTh.9.3.2: (Constantinus A. ad Evagrium). Si quis in ea culpa vel crimine
fuerit deprehensus, quod dignum claustris carceris et custodiae squalore
videtur, auditus aput acta, cum de admisso constiterit, poenam
carceris sustineat atque ita postmodum eductus aput acta audiatur. Ita enim quasi
sub publico testimonio commemoratio admissi criminis fiet, ut iudicibus inmodice
saevientibus freni quidam ac temperies adhibita videatur. Dat. III non. feb.
136
notevole.
In sintesi perciò, a mio parere, tali disposizioni non sono né solo
programmatiche, né così illuminate da anticipare i presupposti delle
moderne misure cautelari234, ma si prefiggono solo di evitare gli abusi
possibili attraverso la carcerazione e anche questa, a suo modo, è una
garanzia da non sottovalutare.
La legislazione successiva a Costantino riprende e sviluppa, in tema di
carcerazione preventiva, i motivi a cui si era ispirata la normativa
precedente ed in particolare l’imperatore Costanzo emana almeno
quattro disposizioni che ritengo utile segnalare.
Il 6 dicembre 337 con CTh.11.7.7235, indirizzata al governatore della
Sardegna Bibulenio, Costanzo si dichiara sfavorevole alla reclusione
inflitta per debiti e, riprendendo sostanzialmente i temi già espressi dal
padre in CTh.11.7.3, riafferma il divieto di incarcerare i debitori.
Più originali sono gli interventi successivi ed in particolare, con una
costituzione del 18 ottobre 338236, CTh.9.1.7, indirizzata al prefetto
del pretorio Domizio Leonzio, l’imperatore stabilisce che coloro che
siano stati incarcerati sulla base di accuse infondate debbano veder
completata l’istruttoria del proprio procedimento entro il termine
massimo di un mese. Neanche due anni dopo e più precisamente il 5
aprile 340, con un altro provvedimento, CTh.9.3.3, questa volta diretto
Heracleae Constantino A. VII et Constantio Caes. conss.
234
Ad oggi i presupposti delle misure cautelari sono tre e si identificano in base
all’art. 274 c.p.p. nel pericolo di fuga e di reiterazione del reato o
nell’inquinamento di prove.
235
Per un esame di questa costituzione si rimanda a O. Robinson, Private prison,
in RIDA, 15, 1968, 389ss.
236
La datazione di questa costituzione al 338 contrasta con la qualifica di prefetto
del pretorio attribuita al destinatario, posto che Domizio Leonzio rivestì tale carica
solo dal 340 al 344. Si è quindi preferito optare per un errore di qualifica e
ritenere che la norma, benché del 338 fosse indirizzata a Leonzio in qualità di
vicarius Asiae. Così, tra gli altri, ritiene A.H.M. Jones, Il tardo, 1, 502.
137
al prefetto del pretorio Acyndinus, Costanzo237 dispone invece, su
tutt’altro fronte, la separazione dei luoghi di prigionia per uomini e
donne.
Infine nel 355, con CTh.6.29.1, sulla scia di quanto già disposto da
Costantino, scoraggia un uso arbitrario e personale del potere di
arresto nelle mani dei funzionari imperiali stabilendo la necessità,
anche per stationarii e curiosi, di provare le proprie accuse.
Rimandando per l’esame di quest’ultima costituzione a quanto già
detto e trascurando la prima, in quanto meramente ripetitiva di
disposizioni precedenti, posso per ora limitarmi a notare che, in
generale, le problematiche, a cui gli interventi costanziani cercano di
fornire una risposta, non sono molto diverse da quelle già affrontate da
Costantino. Non ritengo utile quindi soffermarmi eccessivamente su di
esse, se non per sottolinearne qualche aspetto innovativo.
In particolare, mentre CTh.9.3.3 continua a rispondere ad un’esigenza
di
umanizzazione
delle
condizioni
carcerarie,
mediante
un
miglioramento degli standard igienico-sanitari ed una maggior
attenzione per i bisogni propri delle diverse categorie di detenuti, le
donne238 in primo luogo che in quanto più deboli avrebbero potuto
essere bersaglio di ancora più gravi abusi, invece CTh.9.1.7 detta una
disposizione meritevole di approfondimento.
Benché l’inscriptio della versione giustinianea C.I.9.4.3 attribuisca tale
costituzione a Costantino, il fatto che il destinatario di essa sia Acindynus che
ricoprì la carica di prefetto del pretorio dal 338-340 non lascia dubbi circa la reale
paternità di Costanzo. Sul punto si veda T.D. Barnes, Praetorian prefects, 337361, in ZPE, 94, 1992, 253 e nt.18 (= From Eusebius to Augustine. Selected
papers 1982-1993, Aldershot, 1994, 13).
238
Per B. Biondi, Il diritto romano, 514 tale disposizione è a garanzia della
pudicitia ed ha la stessa ratio della Nov.134.9.1 per la quale “…le donne, sia pure
colpevoli di gravi reati, non possono essere trattenute nelle carceri comuni, ma
rinviate nei monasteri o affidate ad altre donne, in guisa che siano custodite
pudicamente”.
237
138
La traduzione di A. Lovato239 per cui tale norma limiterebbe
l’operatività del termine perentorio di trenta giorni per l’espletamento
dell’attività istruttoria ai soli casi in cui l’imputato sia stato sottoposto
a custodia in carcere, sulla base di delazioni, se intese come false
accuse, non mi soddisfa.
Reputo infatti che il carattere delatorio o meno di una accusa possa
emergere solo al momento conclusivo delle indagini e non già
all’apertura
dell’istruttoria;
inoltre
accogliere
una
simile
interpretazione darebbe luogo ad un paradosso.
Mi spiego: pensare che il termine di trenta giorni operi solo in caso di
accuse infondate implica attribuire a tale previsione una scarsissima
incidenza pratica. Se infatti l’accusa è inizialmente considerata
fondata e poi solo in seguito riconosciuta come non tale, il termine
non ha operato; se invece fin da subito è nota l’inconsistenza
dell’accusa, viene meno la stessa esigenza di aprire il procedimento e
quindi di far decorrere il termine.
Credo quindi che la soluzione più ragionevole sia quella di attribuire
al riferimento alla delatio contenuto in CTh.9.1.7240 un altro
significato e in ciò aderisco all’opinione espressa da S. Pietrini241 per
la quale in certi casi per delator si indica solo “colui che si limita ad
una mera denuncia, senza voler assumere la veste di accusato”.
Se ne desume una generale operatività del termine breve di trenta
giorni in tutti i procedimenti avviati d’ufficio, con il conseguente
239
A. Lovato, Il carcere, 186.
CTh.9.1.7: (Imp. Constantius A. Domitio Leontio p.p.). Ii, quos
custodia delatae criminationis includit, intra unius mensis spatium audiantur
inquisitione completa, ne, si delati criminis causam segnius iudicantis lenitudo
distulerit, reciprocos poenae sortiatur incursus. Dat. XV kal. novemb. Urso et
Polemio conss. (338 oct. 18).
241
S. Pietrini, Sull’’iniziativa, 103 nt.143.
240
139
riconoscimento di una vera garanzia di rapidità, qualora tale periodo
corrisponda ad un’effettiva solerzia nell’attività investigativa e non
diventi invece pretesto per istruttorie sommarie.
Uno dei più importanti interventi tardo antichi in materia di
carcerazione preventiva rimane, in ogni caso, la costituzione emanata
da Teodosio I a Costantinopoli il 30 dicembre 380.
L’intervento indirizzato al praefectus praetorio Illyrici Eutropius ed
avente portata generale è riprodotto in entrambi i Codici in due
parti242, l’una collocata sotto il titolo de exhibendis vel transmittendis
reis, l’altra nel de custodia reorum.
Prima di passare ad esaminarne il testo, ritengo utile accennare
brevemente al clima243 in cui tale disposizione vide la luce.
Appena dieci mesi prima e più precisamente il 28 febbraio 380,
l’imperatore Teodosio, con una scelta sicuramente più politica che
spirituale, aveva emanato a Tessalonica il celebre editto nel quale
proclamava il cristianesimo religione ufficiale dell’impero.
Questo avvenimento, insieme all’attestata influenza esercitata da
Ambrogio244, vescovo di Milano, sull’imperatore, influì grandemente
sul tenore della norma in tema di carcerazione preventiva, anche se gli
Non è da condividere l’idea di M. Messana, Riflessioni storico-comparative,
70 per cui si tratterebbe di due provvedimenti distinti e che l’autrice motiva
adducendo che CTh.1.1.5 del 26 marzo 429 autorizzava l’inserimento di parti di
una stessa costituzione in titoli diversi. Su tale problema si veda anche G. de
Bonfils, CTh.12.1.157-158 e il prefetto Flavio Mallio Teodoro, Bari, 1994, 16-24
per il quale “…la frammentazione era forse un modo consueto di lavorare per i
compilatori dei due codici…”.
243
Da segnalare in proposito è il lavoro di A. Di Mauro Todini, Aspetti della
legislazione religiosa del IV secolo, Roma, 1990, in cui l’autrice si occupa del
contesto storico e del dettato normativo dell’editto, 117-143.
244
Sul problema dei conflitti ideologici che dividevano Ambrogio e Teodosio, si
veda G. Vismara, Ambrogio e Teodosio: i limiti del potere, in SDHI, 56, 1990,
256-269 e N.Q.King, The Emperor Theodosius and the establishment of
Christianity, London, 1961, 68ss.
242
140
apporti cristiani non vanno comunque esagerati.
Passiamo ad un esame della prima parte della norma emanata il 30
dicembre 380:
CTh.9.2.3: (Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius
AAA. Eutropio p.p). Nullus in carcerem, priusquam
convincatur, omnino vinciatur. Ex longinquo si quis est
acciendus, non prius insimulanti adcommodetur adsensus quam
sollemni lege se vinxerit et in poenam reciproci stilo trepidante
recaverit. Eique qui deducendus erit ad disponendas res suas
componendosque maestos penates spatium coram loci iudice
aut etiam magistratibus dierum xxx tribuatur, nulla remanente
aput eum qui ad exhibendum missus est copia nundinandi. Dat.
III kal. ian. Constantinopoli Gratiano V et Theodosio I AA.
conss.
Già l’inizio di questa disposizione ha creato notevoli problemi
interpretativi. Infatti, mentre alcuni autori245 hanno riconosciuto
nell’affermazione “Nullus in carcerem, priusquam convincatur,
omnino vinciatur” un inequivocabile divieto di carcerazione
preventiva, altri hanno cercato di fornire spiegazioni ulteriori246.
Così reputano, tra gli altri, U. Brasiello, La repressione, 487; R. Bonini,
Ricerche, 141; G. Pugliese, Garanzie, 617; S. Giglio, Relatio 49, 584-585; N.
Scapini, Diritto e procedura penale nell’esperienza giuridica romana, Parma,
1992, 156.
246
Ad esempio M. Messana, Riflessioni, 132 interpreta tale disposizione “…nel
senso che soltanto fondati indizi di colpevolezza possono consentire l’impiego
della custodia carceris…”. L’autrice tuttavia, sul presupposto che si tratti di due
provvedimenti distinti, incontra difficoltà a coordinali in quanto, osserva, il primo
sembrerebbe vietare ogni carcerazione preventiva, il secondo si soffermerebbe su
alcune modalità della stessa. Questo accade perché la studiosa si fonda
sull’erronea convinzione che Teodosio avesse abolito la custodia carceraria. Al
contrario A. Berger, Procanon. Note on a rare term in the scholia to the Basilica,
in Festschrift Schulz, 2, 1951, 18, osserva a proposito di questa costituzione che
con essa si stabilisce che la popolazione non può essere arrestata e trattenuta in
carcere per lungo tempo senza processo.
245
141
Secondo me la soluzione della questione dipende dal significato che si
intende attribuire al verbo “convincere”.
Se infatti lo si interpreta letteralmente come “provare la colpevolezza
di qualcuno”, la frase in esame contiene il divieto di imprigionare
l’imputato prima che ne sia dimostrata la colpevolezza. Tuttavia a
questo punto s’impongono due possibili letture esegetiche a seconda
del
senso attribuito all’altra forma verbale contenuta nella
proposizione e cioè “vincire”.
Se a tale termine si assegna il significato traslato di “imprigionare”, si
può effettivamente supporre che l’imperatore volesse vietare l’utilizzo
del carcere nei confronti di persone in attesa di giudizio, riservando
ormai tale misura a quelle condannate e da giustiziare.
Se invece si privilegia il significato letterale e storico del verbo e cioè
quello di “ legare, incatenare, mettere in ceppi ”, allora la garanzia si
ridimensiona notevolmente.
Teodosio, in quest’ultimo caso, non avrebbe infatti bandito il ricorso
alla detenzione preventiva, bensì, con una disposizione ricca di
umanità, ma, in ogni caso, né più né meno in linea con quella dei suoi
predecessori, si sarebbe limitato a combattere l’invasiva e crudele
pratica dell’incatenamento.
Ritengo di dover aderire a quest’ultima ipotesi che, pur restringendo
molto la portata garantistica dell’intervento teodosiano, mi sembra
comunque l’unica accettabile.
A Teodosio tuttavia non basta regolare le modalità pratiche di
detenzione in carcere, stabilendo il ricorso alle catene solo in caso di
accertamento della colpevolezza, per cui detta altre norme interessanti
di sostegno all’accusato.
Sempre in questa costituzione si specifica infatti che, qualora si renda
142
necessaria una traduzione ex longinquo, il magistrato possa concedere
la relativa autorizzazione solo quando l’accusatore abbia esaurito i
sollemnia accusationis e che al deducendus debba essere concesso
uno spazio di tempo, pari a trenta giorni nella versione teodosiana ed
identificato in un più generico sufficientes dies, comunque non
inferiore a trenta giorni, in quella giustinianea, per consentirgli di
disponere res suas e di componere maestos penates.
Si instaura in questo modo un regime più aperto agli interventi
dell’autorità giudiziaria, in astratto notevolmente più favorevole al
reus deducendus di quello precedente247.
Un orientamento analogo si riscontra nel secondo frammento della
costituzione databile 30 dicembre 380 dove compare l’ormai celebre
riferimento alla velox poena :
CTh.9.3.6: (Imppp. Gratianus, Valentinianus et Theodosius
AAA. Eutropio p.p). De his quos tenet carcer id aperta
definitione sancimus, ut aut convictum velox poena subducat
aut liberandum custodia diuturna non maceret. Temperari
autem ab innoxiis austera praeceptione sancimus et praedandi
omnem segetem de neglegentia iudicum provinciarum ministris
feralibus amputamus. Nam nisi intra tricensimum diem semper
commentariensis ingesserit numerum personarum, varietatem
delictorum, clausorum
ordinem aetatemque vinctorum,
officium viginti auri libras aerario nostro iubemus inferre,
iudicem desidem ac resupina cervice tantum titulum gerentem
extorrem impetrata fortuna decem auri libris multandum esse
censemus.
Con particolare decisione l’imperatore esordisce ammonendo che “o
il reo è velocemente sottoposto alla pena prevista oppure una lunga
143
custodia non tormenti chi deve essere liberato”.
In questo modo Teodosio riprende l’idea già espressa da Costantino,
per la quale la detenzione deve rappresentare un momento di
passaggio prima della destinazione finale dell’imputato e non una
misura permanente, sostitutiva della pena.
Al fine di garantire l’effettività di tale prescrizione, come aveva già
fatto il suo predecessore, anche Teodosio continua a combattere le
possibili corruzioni e negligenze.
Di particolare interesse è l’obbligo imposto al commentariensis248 di
redigere un resoconto mensile contenente l’annotazione del numero e
delle persone incarcerate, dei capi di imputazione e di tutti gli altri
elementi utili a identificare i detenuti.
Il proposito manifestato da Teodosio non si discosta perciò molto da
quello alla base degli interventi su cui ci siamo già soffermati.
Tale disfavore per una carcerazione prolungata non fa quindi altro che
confermare le tristi narrazioni di Libanio sulla disperata condizione
dei reclusi249.
A causa della lentezza dei giudizi e delle condizioni igienico-sanitarie,
infatti, la vita dietro le sbarre si trasforma in una lenta ed inesorabile
Di questo parere sono già S. Giglio, Relatio 49, 585; D. Vera, Commento
storico alle relationes di Quinto Aurelio Simmaco, Pisa, 1981, 345; R. Bonini,
Ricerche, 142 e ntt.146-147.
248
Il testo non chiarisce a quale ufficio debba appartenere questo funzionario,
tuttavia essendo la costituzione indirizzata ad un prefetto del pretorio ritengo
plausibile individuare tra i suoi collaboratori il commentariensis in questione. Sui
commentarienses in generale: A. Premerstein, A commentariis, in RE, 4, 1, 1900,
766ss. Sull’attività di questi funzionari nell’officium del prefetto del pretorio: F.
De Martino, Storia, 306 e nt.60 che cita tra le fonti Lyd., de mag.3.16-18; quanto
invece all’officium del prefetto urbano: W.G. Sinnigen, The officium of the Urban
Prefecture during the Later Roman Empire, Rome, 1957, 57ss.
249
Lib, Or.33.30ss (3.180ss Forster).
247
144
condanna a morte, consumata in celle gremite all’estremo250 che
facilitano l’atroce agonia non solo dei criminali, ma anche dei
colpevoli di reati minori, dei testimoni e degli innocenti.
“Le prigioni sono stipate di corpi - scrive Libanio nell’orazione 45 -
nessuno esce, o solo pochissimi, per quanto moltissimi vi entrino … i
reclusi vivono in condizioni pessime, non riescono neanche a
distendersi per dormire251, il loro cibo è scarso e cattivo e vivono nella
preoccupazione di coloro che hanno lasciato, soprattutto mogli e
sorelle, che se brutte o vecchie, si vedono costrette all’accattonaggio e
se giovani e avvenenti, alla prostituzione…”.
Gli stessi carcerati hanno poi bisogno di denaro sia per procurarsi beni
di prima necessità (ad esempio lampade ad olio) sia per sfuggire alle
torture e alle percosse, e se non ne dispongono sono sottoposti ai
tormenti e la loro unica salvezza è l’intercessione delle donne votate
alla filantropia252.
Accade così - conclude amaramente Libanio - che gli uomini in attesa
di giudizio muoiono a migliaia, mentre gli accusatori restano impuniti
Lib, Or. 33.41 ss (3.186 Forster) sempre con riguardo alla crudeltà del giudice
Tisameno, Libanio ricorda : “ Continuava ad aumentare il numero dei prigionieri,
non ne lasciò mai nessuno né per i tribunali né per l’esecuzione; conseguenza era
che risultava più facile per i prigionieri rendere l’anima che vedere le ossa
cacciate fuori della pelle. Egli stipò le prigioni di corpi e motivo di morte era il
gran numero dei prigionieri. La maggior parte di questi non meritava la prigione,
ma neppure quelli che la meritavano avrebbero dovuto soffrire una morte come
questa. La legge prevedeva il taglio della testa, ma non che restassero soffocati a
causa del sovraffollamento. In questi casi la rapidità del procedimento è il bene
della vittima”.
251
Lib, Or.45.8 (3.362 Forster)
252
Tali donne di cui parla Libanio sono state individuate dalla communis opinio
nelle diaconesse, che avevano come occupazione principale proprio quella della
carità. In materia, tra gli altri: R. Gryson, Il ministero della donna nella chiesa
antica, trad.it., Roma, 1974; A.G. Martimort, Les diaconesses, Roma, 1982; M.G.
Bianco, Diaconesse, in Diz. Patr. e di Ant. Crist. dir. da A. Di Berardino, 1, 1983,
934ss.
250
145
e i giudici indugiano in piacevolezze e si esimono arbitrariamente dal
rendere giustizia253.
Nella stessa orazione 45, “Sui prigionieri”, Libanio ipotizza le ragioni
di tale sovraffollamento e le individua, in parte, nella prassi delle
delazioni, già riscontrata in Ammiano.
Ridurre il numero dei reclusi, in relazione alle strutture carcerarie
esistenti, era un vero problema politico che aveva tra i suoi risvolti più
temuti, oltre al sovraffollamento, rischi di epidemie, disordini ed
evasioni.
Tuttavia, ancora una volta, la ricetta imperiale continua ad essere
incentrata sui soliti semplici punti: istruttorie celeri per abbreviare i
tempi di detenzione, lotta alle corruzioni e alle accuse infondate e nel
frattempo miglioramento delle condizioni dei detenuti in un’ottica non
solo umanitaria, ma anche di ordine pubblico, senza però fissare
termini massimi di custodia.
Neanche con la morte di Teodosio e la conseguente ed irreversibile
divisione delle due partes imperii254, la situazione, ormai cristallizzata,
sembra cambiare, in quanto gli imperatori continuano a tornare sui
precedenti divieti, a riprova della mancata effettività delle passate
disposizioni.
253
Lib, Or.45.25-26 (3.371ss Forster) riferisce come Tisameno, dopo aver a lungo
rimandato un’udienza per omicidio, finalmente la svolse, ma, poco dopo,
l’interruppe annoiato, con il pretesto di essere disturbato dal canto dei monaci che,
in quel mentre, stavano entrando in Antiochia. La conseguenza fu un ulteriore
allungarsi dei tempi di quel processo che mai si concluse, dato che cinque degli
accusati morirono per la troppo lunga detenzione, senza che si facesse luce sulle
loro effettive responsabilità.
254
Bisogna chiedersi se tale separazione sia stata causa di una qualche diversità di
prospettive nelle due cancellerie imperiali circa l’impiego del carcere. Un comune
disfavore verso la misura detentiva è comunque avvertibile, tra la fine del IV e gli
inizi del V secolo, tanto in Occidente (per esempio CTh.9.38.6) che in Oriente (si
veda CTh.9.1.18).
146
Proprio a conferma del fatto che uno dei principali mali del tardo
antico era la mancata osservanza delle prescrizioni imperiali, si può
sottolineare come il legislatore, dopo il 380, non si accontenti più di
reiterare il divieto di carceri private o di ribadire il disfavore per le
detenzioni prolungate, ma miri a punire coloro che di siffatte
degenerazioni potevano considerarsi responsabili e cioè quei
funzionari, per lo più appartenenti ai corpi di polizia255, che in pieno
contrasto con i propri compiti istituzionali, si servivano di prigioni
private per estorcere confessioni o privavano della libertà personale i
presunti rei senza averne i poteri.
Il primo abuso venne colpito nel 388 con l’incriminazione per lesa
maestà tramite CTh.9.11.1.
Nei confronti del secondo, invece, l’imperatore Arcadio nel 395, con
una serie di disposizioni rivolte a Marcello magister officiorum, sancì
la netta separazione delle funzioni di giudici ed agentes in rebus,
proibendo a questi l’esercizio del potere di arresto.
E’ però con l’imperatore Onorio che troviamo una nuova risposta al
problema del coordinamento tra esigenze di rapidità del processo e
tempi della carcerazione preventiva. Mentre nel 395 con CTh.9.1.18
Arcadio, al fine dichiarato di combattere l’inerzia dei giudici e i
conseguenti differimenti della decisione, non fa che riproporre il
rimedio tradizionale: diminuire i tempi di carcerazione al fine di
ottenere una più rapida definizione del giudizio; invece Onorio, in
CTh.9.2.5 del 409, indirizzata a Ceciliano prefetto del pretorio,
introduce quello che potrebbe apparire un nuovo istituto.
255
Sui corpi di polizia tardoimperiali si sofferma in particolare F. Paschoud,
Frumentarii, agentes in rebus, magistriani, curiosi, veredarii: problèms de
terminologie, in BHAC, 10, 1979-1980, 215-243.
147
Limitatamente ad una serie tassativa di crimini256, dispone che i rei,
qualora sorpresi in flagranza di reato, siano esentati dalla carcerazione
preventiva ed immediatamente condannati, in una sorta di antesignano
del moderno giudizio direttissimo.
Negli altri casi il giudizio si svolge invece secondo le regole di
CTh.9.2.6257 emanata da Onorio il 21 gennaio 409: essa consente
all’imputato, qualora lo desideri, di usufruire di trenta giorni sub
moderata et diligenti custodia al fine di sistemare i propri affari
personali, anche in vista della necessità di sostenere le spese
processuali.
E’ da notare come sia nel provvedimento del 380, che in quello del
409 ricorra il termine di 30 giorni.
Tuttavia mentre il primo sembra volto ad escludere abusi da parte dei
funzionari del governatore nel compimento dell’exhibitio, invece il
secondo
presenta
specifici
riferimenti
all’ambito
municipale
(municipalibus actis interrogari). Andando avanti con i decenni, si
nota che la prospettiva formalmente garantista della posizione degli
accusati, in qualità di detenuti, prosegue e si consolida anche con il
legislatore giustinianeo, ma con una sostanziale differenza.
Mentre gli imperatori, che si erano succeduti dal IV fino agli inizi del
VI secolo, avevano adottato numerose seppur generiche prescrizioni,
Essi sono la rapina, la violenza commessa da più persone, l’omicidio, lo
stupro, il ratto e l’adulterio.
257
E’ probabilmente la normativa richiamata da quattro lettere di Agostino
(Ep.113, 114, 115, 116) con le quali egli intendeva ottenere per un certo Faventius
l’osservanza delle disposizioni che consentivano di trascorrere trenta giorni sub
moderata custodia, previa comparizione davanti alla curia cittadina. Sulla
fattispecie: M. Bianchini, Usi ed abusi della custodia reorum: una testimonianza
di Agostino d’Ippona, in Atti del III Seminario Romanistico Gardesano, Milano,
1988, 443-458, che a pagina 449 sottolinea come CTh.9.2.5, appartenente allo
stesso testo normativo da cui venne stralciata CTh.9.2.6, neghi un simile beneficio
al reo di crimine grave colto in flagrante.
256
148
sempre però consistenti, per lo più, in ammonimenti vaghi ai diversi
funzionari, invece Giustiniano, per la prima volta, concretizza questi
propositi, traducendoli in precise e tra loro coordinate previsioni
normative.
Il provvedimento basilare in materia, è una costituzione del 529
pervenuta in greco258, indirizzata al prefetto del pretorio Mena,
riportata in: C.I.1.4.22-23, 9.4.6, 9.5.2 e 9.47.26259.
La costituzione imperiale all’inizio dispone che solamente i
magistrati, sia cittadini che provinciali, e i defensores civitatum
possano sottoporre un uomo a custodia.
Nel prosieguo della costituzione Giustiniano provvede invece alla
fissazione di precisi termini di custodia preventiva.
Essi, che, come abbiamo già ricavato dalle considerazioni precedenti,
non avevano trovato, fino a questo momento, un riconoscimento
ufficiale, variano, ora, a seconda dello stato di libero o schiavo
dell’imputato, nonché in ragione della natura del crimine commesso.
Si ordina così, più nel dettaglio, che gli schiavi vadano trattenuti
258
Sulla scelta della lingua greca potevano aver influito ragioni di opportunità
quali ad esempio la destinazione territoriale della legge all’atto della sua
emanazione, oppure le esigenze della prassi, affinché la normativa potesse essere
alla portata di quanti che dovevano osservarla e farla osservare; forse non fu
estraneo a questa scelta Giovanni di Cappadocia le cui convinzioni sul punto
contrastavano con quelle di Triboniano. Così ritiene G. Purpura, Giovanni di
Cappadocia e la composizione della commissione del primo codice di
Giustiniano, in AUPA, 36, 1976, 53-54.
259
In questa trattazione si intende aderire alla palingenesi proposta da R. Bonini,
Ricerche, 194. L’autore ritiene, infatti, che C.I.9.4.6 faccia parte, insieme ad altre
costituzioni inserite in altre parti del Codice e precisamente C.I.9.5.2 (collocata
sotto il titolo De privatis carceribus inhibendis ) e C.I.9.47.26 (sotto il titolo De
poenis) di un unico ampio provvedimento originario, spezzettato, già all’atto della
compilazione del Novus Codex, in più parti. E’ inoltre da aggiungere che una
parte notevole di C.I.9.4.6 è riportata sotto la rubrica De episcopali audientia et de
diversis capitulis quae ad ius curamque et reverentiam pontificalem pertinent, in
C.I.1.4.22, mentre la disposizione di C.I.9.5.2, pur se con qualche variante è
riprodotta in C.I.1.4.23.
149
almeno venti giorni, dopodiché puniti o, se innocenti, restituiti ai
proprietari o persino rilasciati, qualora questi non si presentino.
Quanto invece ai liberi imprigionati per debiti, essi, a meno che non
siano in grado di prestare fideiussori a garanzia della propria
comparizione, possono essere custoditi per un massimo di trenta
giorni, al termine dei quali la causa va decisa e il convenuto liberato.
Se tuttavia la complessità della questione impedisce al giudice di
pervenire ad una soluzione entro questa scadenza, l’imputato potrà
comunque essere liberato dietro prestazione di una cautio iuratoria.
Qualora però, dopo tale liberazione, egli preferisca rimanere
contumace, sarà punito con la perdita di tutti i suoi beni.
Nei successivi paragrafi 4-6 viene invece disciplinata la reclusione
preventiva dell’uomo libero accusato di un crimine, distinguendo a
seconda che esso abbia o meno natura capitale.
Infatti, se si tratta di un crimen non capitale, il detenuto può essere
rilasciato prestando fideiussori oppure, se non è in grado di
procurarsene, è destinato a rimanere in carcere per un periodo
massimo di sei mesi entro cui la causa dovrà pervenire ad una
conclusione.
Se invece si tratta di un crimen capitale, s’introduce un’ulteriore
distinzione costituita dal rilievo che l’accusa sia stata formulata da
pubblici funzionari, oppure semplicemente mossa da un privato.
Nella prima ipotesi si stabilisce che non possa essere ammesso
l’intervento di fideiussori, ma la custodia non ecceda comunque i sei
mesi; nella seconda, invece, è ripristinata la possibilità di prestare
garanti, ma in loro assenza, il termine massimo di detenzione sale ad
un anno.
In un’ottica di coordinamento con la di poco successiva C.I.9.44.3 del
150
529, che fissa il termine generale di due anni per la durata del
processo e a cui abbiamo già accennato, si può desumere che il limite
biennale si applichi solo nei casi in cui l’accusato non sia sottoposto a
carcerazione preventiva e quindi tutte le volte in cui sia permesso per
legge prestare garanti o l’iniziativa sia di provenienza privata.
Si tratta pertanto, con evidenza, di un sistema molto ben congegnato,
che, come osserva Bonini260, “più dei precedenti interventi mira a
salvaguardare in modo compiuto il principio della libertà personale”.
L’entusiasmo per questa disposizione, che aveva portato Pugliese261 a
parlare di un habeas corpus avanti lettera, va comunque
ridimensionato alla luce del successivo paragrafo 6, nel quale si
sancisce la presunzione di colpevolezza fino al giudizio finale e, in
base ad essa, si ammettono carcerazioni preventive anche superiori ai
termini suindicati.
Il Bonini262 ha interpretato questa clausola nel senso che, “poiché gli
accusati si presumono colpevoli, sono destinati a rimanere in carcere
per tutto il tempo necessario allo svolgimento del processo”,
assegnando così a tale prescrizione un valore essenzialmente
contrastante con le disposizioni precedenti.
Un simile ragionamento non sembra tuttavia condivisibile soprattutto
perché non appare credibile che il legislatore giustinianeo, dopo aver
approntato un meccanismo tanto articolato e rispettoso delle diverse
fattispecie, intenda poi vanificarlo.
Preferisco quindi aderire all’opinione espressa da Pugliese263 per il
quale il paragrafo 6 si limiterebbe a precisare “che se sussistono
260
R. Bonini, Ricerche, 200.
G. Pugliese, Garanzie, 619.
262
R. Bonini, Ricerche, 201.
263
G. Pugliese, Garanzie, 618.
261
151
all’inizio del processo elementi tali da far presumere la colpevolezza
dell’accusato, allora (e solo allora) questi può essere tenuto in carcere
per il tempo indicato, senza che possa liberarsi col dare fideiussori.
Si tratta quindi di una limitazione, non dell'annullamento, dei principi
enunciati prima: una limitazione certamente grave, ma non tale da
togliere a quei principi tutto il loro valore ed il loro interesse”.
In sintesi perciò saremmo di fronte non ad un’intrinseca
contraddizione del legislatore
giustinianeo, quanto ad una sua
manifestazione di sensibilità per le esigenze concrete del processo che
lo portano talora a trasgredire le direttive programmatiche in vista del
conseguimento di fini pratici.
Tornando all’esame dei nostri brani, incontriamo la prescrizione per
cui, chiuso il processo ed emanata la sentenza, questa, sia corporalis
che pecuniaria, va subito eseguita. In questo caso concordo con
Bonini264 per il quale la ratio di questa disposizione può essere
identificata nel proposito di limitare al massimo l’intervallo tra la
conclusione del processo e l’esecuzione della sentenza, e mi riservo di
tornare in seguito sul problema.
Tralasciando per ora anche la menzione delle conseguenze
sanzionatorie poste a carico dei funzionari trasgressori, in quanto
sempre coinvolgenti il ruolo di sorveglianza ed ausilio devoluto ai
vescovi a cui intendo accennare in conclusione, passo ad esaminare il
successivo testo, C.I.1.4.22., appartenente, secondo la palingenesi del
Bonini, a questa lunga costituzione
In esso si ribadisce il divieto di mantenere carceri private, che già ben
conosciamo; l’elemento innovativo tuttavia è rappresentato dalla
264
R. Bonini, Ricerche, 202.
152
risposta
sanzionatoria
elaborata
da
Giustiniano
in
caso
di
inosservanza.
Si stabilisce infatti che i trasgressori, cuiuscumque condicionis vel
dignitatis sint, saranno tenuti a trascorrere in un pubblico carcere un
periodo equivalente a quello passato nella prigione privata dal
soggetto illegalmente detenuto; inoltre, come ulteriore pena, si
dispone a priori la soccombenza dei carcerieri in caso di lite da loro
eventualmente intentata contro i detenuti.
Il brano conclusivo della costituzione è rappresentato da C.I.9.47.26
che, presupponendo come già esaurito il processo penale, è collocato
sotto la rubrica De poenis.
Essendo tuttavia suddetta disposizione incentrata su una figura di
esilio abbastanza affine alla relegatio e limitandosi solo in parte a
richiamare le disposizioni di cui sopra, ritengo inutile indugiarvi.
L’ultima tematica, che reputo necessario, almeno, introdurre, in questa
sede, è la tortura265.
Credo utile soffermarmi brevemente su di essa, sia perché argomento
connesso al tema della carcerazione, sia perché ogni trattazione avente
ad oggetto l’epoca tardo imperiale e tendente ad un minimo di
265
Tra i principali studi in materia segnalo: Th. Mommsen, Le droit pénal, 2, 82;
P. Fiorelli, La tortura giudiziaria nel diritto comune, 1, Milano, 1953, 16ss.;
L.Chevailler, s.v. Torture (la torture e le droit pénal romain, in Dictionaire de
droit canonique, 7, Paris, 1965, 1293-1295; P.A. Brunt, Evidence given under
Torture in the Principate, in ZSS, 97, 1980, 256-265; D. Grodzynski, Tortures
mortelles et catégories sociales. Les “summa supplicia” dans le droit romain aux
IVe et Ve siècles, in Du chatiment dans la cité, Paris, 1984, 361-403; V. Marotta,
Multa de iure sanxit. Aspetti della politica del diritto di Antonino Pio, Milano,
1988, 202ss; P. Cerami, Tormenta pro poena adhibita, in AUPA, 41, 1991, 31-50;
J.Ph. Levy, La torture dans le droit romain de la preuve, in Collatio iuris romani,
1, 1995, 241ss.; S. Toscano, Sub iudice subpliciorum: notazioni sul diritto di
punire nella società tardoantica, in ARC, 10, Perugia, 1995, 603ss; J. Arce, Sub
eculeo incurvus: tortura e pena di morte nella società tardo romana, in ARC, 11,
Perugia, 1996, 355ss.
153
completezza espositiva non può esimersi dall’occuparsene.
Come dimostrano gli importanti titoli De quaestionibus, inseriti tanto
nel Codice Teodosiano (CTh.9.35), quanto nella compilazione
giustinianea (D.48.18 e C.I.9.41), la tortura a carico dell’imputato e
dei testimoni, quale strumento per estorcere la confessione e pervenire
alla verità, è un fenomeno senza dubbio molto diffuso in quest’epoca.
L’istituto in ogni caso va considerato alla luce delle idee del tempo,
senza che il mero rilievo della sua ricorrenza porti, aprioristicamente e
superficialmente, ad etichettare tale periodo come barbara e priva di
ideali. Se solo con Beccaria266 e la rinascita illuminista si sente infatti
il bisogno di condannare definitivamente tale pratica, ciò testimonia in
parte quanto essa prima costituisse una consuetudine radicata.
Gli stessi padri cristiani sembrano ammetterla senza orrore o scandalo
tanto che Ambrogio,
in qualità di vir consularis, la applica267 e
Agostino riconosce in essa una vera necessità sociale268 tanto che,
invitando lo iudex christianus ad esercitare le proprie funzioni pii
patris officium, non esclude che per far emergere la verità egli possa
anche ricorrere virgarum verberibus269.
Nel tardo, in conclusione, due sembrano le tendenze in tema di
tortura: da una parte l’allargamento delle fattispecie criminose in
relazione alle quali si ammette la sua operatività, dall’altra il
progressivo
restringimento
della
sua
applicazione
mediante
l’esclusione di varie categorie di soggetti.
266
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene, Milano, 1764, 306 ss.
P.L. 20.31.
268
Nel De civitate Dei, 19.6 Agostino, a proposito della tortura, la giustifica
dicendo: “…pertrahit humana societas, quam diserere nefas ducit…”.
269
Ep.133.2.
267
154
CAPITOLO QUARTO
IL PROCESSO CRIMINALE NEL TARDO IMPERO:
L’ESECUZIONE DEL GIUDICATO PENALE
SOMMARIO: 1. Il problema del giudicato penale e della sua esecuzione – 2. Le direttive ai
funzionari imperiali.
1. Il problema del giudicato penale e della sua esecuzione.
Ogni sistema repressivo che miri a garantire l’effettività delle proprie
prescrizioni e ad atteggiarsi, nel panorama degli ordinamenti giuridici,
come “giusto”, non può prescindere dal perseguire quell’insieme di
valori che, ad oggi, vengono sinteticamente riassunti nella formula
“certezza del diritto”270. Tale concetto, tuttavia, nel diritto penale,
integra una fattispecie a realizzazione progressiva che, per veder
completato il proprio iter formativo, necessita di almeno tre fasi
successive.
Per aversi certezza, infatti, non basta che il comportamento contestato
come illecito sia contemplato a titolo di reato da una norma
dell’ordinamento e che la pena concretamente irrogata con la sentenza
coincida, per qualità e quantità, con quella prescritta in astratto dalla
legge, ma è soprattutto necessario che suddetta sanzione, una volta
Un bell’esempio dell’importanza che il valore della certezza del diritto può
assumere anche nel mondo antico è fornito dagli studi pubblicati a cura di M.
Sargenti e G. Luraschi, in La certezza del diritto nell’esperienza giuridica
romana. Atti del convegno di Pavia, 26-26 aprile 1985, Padova, 1987.
270
155
comminata, sia effettivamente scontata dal soggetto riconosciuto come
colpevole.
Mentre i primi due momenti sembrano trovare attuazione, almeno
parziale, anche nell’esperienza giuridica romana tardo antica, l’ultimo
appare invece estremamente carente.
La costante preoccupazione manifestata dalle cancellerie imperiali a
proposito dell’attività applicativa della norma, elaborata a livello
centrale, da parte dei funzionari periferici e le numerose direttive
emanate a tal fine sembrano, tuttavia, smentire la natura preordinata e
dolosa di tale mancata esecuzione.
Sussiste pertanto un’aporia di fondo tra i ripetuti interventi imperiali
che, tra IV e V secolo, cercano di prevenire e reprimere l’inattività dei
funzionari locali, anche attraverso la conoscibilità della legislazione
vigente271, ed il desolante quadro della giustizia criminale riportato
dalle fonti letterarie.
Bisogna perciò, in primo luogo, verificare se ed in quale modo la
legislazione imperiale si sia preoccupata di garantire che il colpevole
di un reato venga effettivamente condannato e sconti la relativa
sanzione ed, in secondo luogo, indagare le ragioni profonde per cui,
nonostante tali disposizioni, la pena non sia poi in concreto espiata.
Al fine di fornire una risposta soddisfacente a questi interrogativi,
dovrò perciò addentrarmi in tematiche complesse e non ancora del
tutto chiarite, quali la conoscibilità del diritto, l’indipendenza
dell’organo giudicante, l’effettività delle norme criminali.
271
Proprio questa preoccupazione avrebbe ispirato, secondo G.G. Archi, Le
codificazioni postclassiche, in La certezza del diritto, 149-168, le iniziative
assunte dalle cancellerie di Ravenna e di Costantinopoli negli anni 426-438
156
Tutte questioni che, nel tardo, non hanno ancora trovato risposta
univoca e che, ai fini della mia indagine, andranno comunque
esaminate alla luce di quella sottile linea di confine tra ideologia e
propaganda che permea tutta la legislazione imperiale ed in cui
risiede, a mio parere, la vera chiave di volta circa il problema
dell’efficacia della normativa criminale.
Prima di passare ad esaminare i più rilevanti interventi in materia,
ritengo necessario premettere la menzione di alcune tendenze proprie
del tardo antico che, se opportunamente correlate, possono contribuire
a cogliere meglio il problema del giudicato penale e della sua
esecuzione.
Un primo aspetto meritevole di attenzione è costituito dalla
propensione postclassica, finora qui mai posta in risalto, ma
riconosciuta da larga parte della dottrina272, a privare completamente il
giudice di ogni
discrezionalità circa l’irrogazione della pena in
concreto.
272
Questa tesi sostenuta da F. De Robertis in una serie di studi (F. De Robertis,
Arbitrium iudicantis e statuizioni imperiali, in ZSS, 59, 1939; Id., Sull’efficacia
normativa delle costituzioni imperiali. Il giudice e la norma nel processo penale
straordinario, in Ann. Bari, 4, 1941; Id., La variazione della pena “pro modo
admissi”, Studi di diritto penale romano, Città di Castello- Bari, 1942; Id., La
variazione della pena nel diritto romano. I. Problemi di fondo e concetti giuridici
fondamentali. II. La variazione della pena “ pro qualitate personarum”, Bari,
1954; ora tutti in Scritti varii di diritto romano, 3, Bari, 1987) è ad oggi ormai
divenuta opinione dominante. Tra i tanti che vi aderiscono si ricordi B. Santalucia,
Diritto e processo, 140 per il quale “tutti i principali crimini sono ora assoggettati
alle pene fissate dalle costituzioni imperiali. Il giudice deve limitarsi ad accertare
se l’ipotesi delittuosa si sia o meno verificata: la pena discende direttamente dalla
legge ed è preclusa ogni possibilità di graduarne la portata” e V. Giuffrè, La
repressione, 182 che con estrema chiarezza osserva come ormai “la nuova
concezione del potere…non poteva non comportare la riduzione a minimi termini
dei poteri di valutazione dei tribunali imperiali: la tendenza della legislazione
imperiale fu, infatti, di identificare con precisione minuziosa tutte le possibili
figure criminose e di fissare per ciascuna una pena determinata, lasciando ai
157
Secondo la maggioranza degli autori, si sarebbe infatti consolidato un
sistema repressivo in grado di prevedere per ciascuna fattispecie
criminale una pena edittale determinata, alla quale il giudice si
sarebbe dovuto rigorosamente attenere, senza possibilità di iniziative
autonome.
Tale affermazione, in apparenza non problematica, necessita però,
secondo me, di essere circoscritta e precisata alla luce di ulteriori
fattori. Va infatti sottolineato che il precetto “…perpensas serenitatis
nostrae longa deliberatione constitutiones nec ignorare quemquam
nec dissimulare permittimus…”273, così come le condizioni minime
per poter affermare un obbligo, in capo ai funzionari imperiali, di
conoscere e quindi applicare la legge vigente si possa affermare solo
con la pubblicazione del codice di Teodosio II.
Inoltre tale dovere, anche in seguito, riguarda solo ed unicamente il
complesso delle costituzioni imperiali e non anche le norme di ius
vetus, conservate nelle opere giurisprudenziali ed ancora largamente
applicate nei giudizi criminali; costituzioni imperiali che talvolta non
si preoccupano né di definire il reato, né di comminare espressamente
una pena determinata.
Emerge quindi, almeno fino al Codice Teodosiano, una realtà
normativa frammentata, incerta, contingente, talora contraddittoria,
dove le disposizioni imperiali precedenti, mai esplicitamente abrogate,
giudici il solo compito di accertare in fatto se l’ipotesi criminosa si fosse o non si
fosse verificata”.
273
Questa frase, conservata in CTh.1.1.2 del 391, è probabilmente tratta, secondo
G.G. Archi, Teodosio II e la sua codificazione, Napoli, 1976, 98 e 101, da un più
ampio provvedimento, comprensivo anche di CTh.3.1.6. L’autore suppone quindi
che nel testo originale l’affermazione estrapolata si riferisse ad una specifica legge
imperiale e che solo i compilatori del Teodosiano l’abbiano resa generale
riferendola pur tuttavia “alle sole divales o sacrae constitutiones accolte secondo
le direttive del 435, e cioè alle leges generales”.
158
si sovrappongono a quelle più nuove e contribuiscono a rendere, per il
giudicante, ancora più difficile l’individuazione della norma da
applicare.
Del resto, anche dopo il 429, non sempre è facile reperire nello stesso
Teodosiano risposte sanzionatorie univoche e complete274.
Posto infatti lo stretto legame intercorrente tra norme penali, realtà
contingente e politica legislativa, accade spesso che gli imperatori si
limitino a richiamare le disposizioni dei predecessori, qualora
corrispondenti ai propri indirizzi politici, senza preoccuparsi che alle
enunciazioni di principio, segua una concreta attuazione in sede
giudiziaria.
Le ragioni dell’inapplicabilità nel tardo delle norme incriminatrici non
sembrano risiedere, però, solo nel carattere non sempre tassativo ed
onnicomprensivo della relativa legislazione, ma trovano alimento
anche in problemi di conoscibilità della normativa vigente, legati allo
stesso sistema processuale.
Essendo infatti l’obbligo di applicare le costituzioni imperiali limitato,
di fatto, solo ai testi normativi offerti al giudicante dalle parti durante
la recitatio o dallo stesso personalmente conosciuti, si verifica spesso
che la decisione, stante l’impreparazione di avvocati e giudici, sia
adottata sulla base di un apparato conoscitivo assai inferiore rispetto
all’intera legislazione vigente.
In altre parole si può ipotizzare che i tribunali imperiali non siano in
grado di conoscere completamente tutte le leggi in vigore e quindi
A mero titolo esemplificativo si può citare il fatto che in CTh.9.5 Ad legem
Iuliam maiestatis è riportata un’unica costituzione CTh.9.5.1 del 320-323 che
riguarda l’uso della tortura nei processi di maiestas e vieta a servi e liberti di
accusare i propri domini, senza però né definire il reato, né determinare in
concreto la pena da applicare.
274
159
abbia trovato spazio la prassi di continuare ad applicare solo quelle
più note.
Scarsa conoscibilità della normazione, sua incompletezza ed
impossibilità del giudice di colmare le eventuali lacune appaiono
quindi, a prima vista, le principali cause di tale mancanza di
effettività. Molti altri fattori hanno tuttavia concorso ad aggravare
questa situazione di fondo e sono quelli che giustificano ad esempio le
ipotesi in cui la pena edittale, anche quando disposta in modo chiaro e
preciso, non è applicata o rimane ineseguita.
Ritengo perciò necessario, dapprima, mettere in luce se e come i
diversi imperatori abbiano cercato di garantire l’effettività delle
proprie prescrizioni, poi verificare quale margine di autonomia residui
al giudice nell’applicazione della norma e solo infine cercare di capire
perché, nonostante queste disposizioni, il giudicato possa rimanere
inattuato.
1. Le direttive ai funzionari imperiali.
L’indagine sulle problematiche relative alla responsabilità penale dei
funzionari275, benché sia stata autorevolmente definita “basilare per
spiegare
il
funzionamento
della
amministrazione
imperiale
Sull’argomento, ritengo opportuno segnalare gli studi di: M. Lauria, Calumnia,
97ss. (= Studii e ricordi, Napoli, 1983, 245ss.); M. Clauss, Der magister
officiorum in der Spatantike (4-6 Jahrhundert), München, 1980, 55ss.; K.L.
Noethlichs, Beamtentum und Dienstvergehen, Wiesbaden, 1981; K. Rosen, Iudex
und officium. Kollektivstrafe, Kontrolle und Effizienz in der spatantike
Provinzialverwaltung, in Ancient Society, 21, 1990, 273ss.; A. Laniado, Les
amendes collectives des officia dans la législation inpéeriale après 438, in
Ancient Society, 23, 1992, 83ss.; S. Pietrini, L’iniziativa, 136ss.
275
160
romana”276, resta uno dei temi più oscuri e bisognosi di
approfondimento dell’esperienza giuridica tardo antica, stanti anche le
notevoli conseguenze pratiche ad esso collegate.
Il primo rilievo da cui può prendere avvio la relativa indagine è il fatto
che, solo in concomitanza con la nuova struttura burocratica
postclassica, è possibile rinvenire nella legislazione imperiale un così
consistente numero di illeciti riconducibili all’ambito di attività dei
funzionari.
A sostegno di questa affermazione si può portare ad esempio il primo
libro del Codice Teodosiano che dedica vari titoli all’incriminazione di
comportamenti commissivi ed omissivi, perpetrabili dai soli
appartenenti agli uffici imperiali.
A questo proposito il Lauria ha parlato di un nuovo “diritto penale
disciplinare”277 il quale, possiamo aggiungere noi, attraverso una
responsabilizzazione degli amministratori, sembra realizzare, in via
mediata, anche un miglioramento delle condizioni degli amministrati.
Tuttavia il fondamento di tale disciplina sanzionatoria appare
notevolmente diverso rispetto alle epoche precedenti.
Mentre infatti nei secoli passati ed in particolare durante la repubblica,
i reati, aventi quali soggetti attivi magistrati, ravvisavano tutti la
propria condotta tipica in un uso distorto e quindi illegale
dell’imperium278, invece nel tardo, non solo la responsabilità dei
funzionari si estende, ma spesso prescinde dall’accertamento di una
276
Queste parole sono di M. Lauria, Indirizzi e problemi romanistici, in Il Foro
italiano, 61, 1937, 559 (= Studii e ricordi, 339).
277
M. Lauria, Calumnia, 251.
278
Sulla responsabilità dei magistrati si veda tra i più recenti: O. Licandro, In
magistratu damnari. Ricerche sulla responsabilità dei magistrati romani durante
l’esercizio delle funzioni, Torino, 1999, al quale si rimanda per un
approfondimento delle fonti e della bibliografia.
161
concreta neglegentia, configurandosi come mera conseguenza
dell’incarico ricoperto.
Nella legislazione successiva al IV secolo è quindi frequente
riscontrare, come osservano alcuni autori279, fattispecie punitive tanto
basate sull’elemento soggettivo della colpa, quanto configuranti
ipotesi di responsabilità oggettiva.
Ciò che interessa ai fini del nostro studio non è tuttavia indagare il
coefficiente soggettivo sotteso alle singole norme incriminatrici, bensì
evidenziare gli interventi imperiali concretamente approntati al fine di
garantire il rispetto delle disposizioni vigenti.
L’attenzione imperiale, manifestata su più fronti e finalizzata ad
imporre ai funzionari l’applicazione delle leggi in vigore, va però
sottolineato,
non
sembra
rispondere
principalmente
ad
una
preoccupazione per le sorti dell’imputato, quanto ad un bisogno
imperiale di ribadire la propria supremazia ed evitare inefficienze.
Da ciò discende sia il fatto che i più importanti interventi in materia
riguardano l’ambito fiscale e criminale, dove il pericolo di
ripercussioni dirette sul potere imperiale è più forte, sia il fatto che i
giudici trasgressori vengono duramente apostrofati come arroganti e
condannati al pagamento di cospicue somme di denaro.
Un primo esempio significativo è costituito da un editto di Costantino
del 2 giugno 315, indirizzato ad universos provinciales e conservato in
CTh.2.30.1280.
Per tutti D.A. Centola, In tema di responsabilità penale nella legislazione
tardo imperiale, in SDHI, 68, 2002, 571.
280
CTh.2.30.1: (Imp. Constantinus A. ad universos provinciales). Intercessores a
rectoribus provinciarum dati ad exigenda debita ea, quae civiliter poscuntur,
servos aratores aut boves aratorios pignoris causa de
possessionibus
abstrahunt, ex quo tributorum illatio retardatur. Si quis igitur intercessor aut
creditor vel praefectus pacis vel decurio in hac re fuerit detectus, a rectoribus
279
162
In esso l’imperatore incarica i governatori provinciali di infliggere la
pena capitale all’intercessor (cioè al magistrato nominato dallo stesso
governatore della provincia per la riscossione di quei debita, quae
civiliter poscuntur), al creditore, al praefectus pacis281 o al decurione
che abbiano pignorato anche i beni destinati al pagamento dei tributi.
In questo modo Costantino, con la promessa di un castigo
estremamente dissuasivo quale la pena di morte, impone ai funzionari
(ma anche al privato creditore) un vero obbligo di diligenza e
responsabilizza i governatori provinciali, demandando loro uno
specifico dovere di vigilanza sull’operato dei propri sottoposti.
Il provvedimento normativo che ritengo comunque più interessante e
chiarificatore, tanto della posizione dell’organo giudicante nel tardo
antico, quanto dell’impegno imperiale a far sì che la legge sia
applicata e la pena comminata eseguita, è CTh.9.10.4.1, emanata da
Teodosio I:
CTh.9.10.4.1: Iudicem vero nosse oportet, quod gravi infamia
sit notandus, si violentiae crimen apud se probatum distulerit,
omiserit vel impunitate donaverit aut molliore, quam
praestituimus, poena perculerit. Dat. prid. non. mart.
Mediolano, Valentin. A. IV. et Neoterio V. C. conss.
Si tratta di un’epistula del 6 marzo 390 indirizzata ad Albino,
praefectus urbi, nella quale si prevede per il giudice, presso cui sia
provinciarum capitali sententiae
subiugetur. Dat. IV. non. iun. Sirmio,
Constantino A. IV. et Licinio IV. conss.
281
L’identificazione di questo funzionario non è agevole. Il Codice giustinianeo,
inoltre, riproducendo parzialmente la costituzione in esame in C.I.8.16.7.1
sostituisce il riferimento al praefectus pacis con quello al praefectus pagi vel vici.
E’ pertanto da ritenere preferibile, tra tutte le possibili soluzioni, quella che,
basandosi su una traduzione letterale dal greco, fa coincidere tale personaggio con
l’irenarca.
163
stato provato il crimen violentiae, la pena di una grave infamia, nel
caso che abbia differito od omesso la punizione oppure abbia
riconosciuto al colpevole l’impunità o una pena più lieve di quella
sancita dalle leggi imperiali in materia.
Va subito sottolineato come questa costituzione si preoccupi di colpire
in modo puntuale tutti i possibili usi distorti della capacità giudicante:
dal totale diniego di giustizia, al differimento pretestuoso, fino
all’applicazione di una pena diversa da quella prevista per legge,
ancorché limitatamente al crimen violentiae.
Con tali rigide prescrizioni l’imperatore non mira tanto a sancire un
principio di tassatività e di legalità nell’applicazione delle pene,
quanto ad evitare che quell’equilibrio tra controllo assoluto
e
trattamento severo, ma quantomeno umano, dell’imputato, che si era
cercato di rafforzare a livello legislativo, venga vanificato nella prassi
proprio da coloro che, in ultimo, sono tenuti a far funzionare il
meccanismo limitandosi ad applicare la legge, e cioè i giudici.
Non mi sento quindi di ipotizzare che il pensiero tardo imperiale
anticipi l’idea positivista di un giudice soggetto solo alla legge (non
almeno a livello intenzionale); intendo solo evidenziare come il
legislatore, come sempre, miri a far sì che la repressione criminale sia
efficiente e per farlo questa volta, dopo aver colpito i calunniatori, i
giudici corrotti ed i corruttori, scelga di sanzionare coloro che
amministrano la giustizia al di fuori degli schemi legalmente
determinati.
164
L’attenzione di Teodosio per questa problematica si coglie poi in un
altro suo successivo intervento, datato 9 aprile 392 e riportato in
CTh.1.29.8282.
Questa volta l’imperatore, con una lettera al prefetto del pretorio
Taziano, richiede ai defensores civitatum283 un costante impegno
contro i latrones284 affinché i crimini commessi da costoro non si
accumulino impuniti e siano rimossi i patrocinia che abbiano favorito
i colpevoli e prestato aiuto ai criminali.
Ancora per mezzo di parole dure e ferme, l’imperatore fa appello ai
suoi funzionari affinché l’apparato di leggi, predisposto per riportare
la sicurezza e l’ordine pubblico, sia fatto rispettare in modo capillare.
L’indagine che qui si sta conducendo risulta poi arricchita se si
considera che, in altri casi, la legislazione imperiale non si limita a
colpire la singola persona fisica del magistrato, ma configura una
responsabilità di tipo collettivo dei funzionari preposti ad un
determinato ufficio.
282
CTh.1.29.8: (Imppp. Valentinianus, Theodosius et Arcadius AAA. a Tatiano
p.p.). Per omnes regiones in quibus fera et periculi sui nescia latronum fervet
insania, probatissimi quique atque districtissimi defensores adsint disciplinae et
quotidianis actibus praesint, qui non sinant crimina impunitate coalescere.
Removeantur patrocinia, quae favorem reis et auxilium scelerosis impertiendo,
maturari scelera fecerunt. Dat. V. id. april. Constantinopoli, Arcadio A. II. et
Rufino V.C. conss.
283
Sulla figura di tali magistrati si vedano, per tutti, gli studi compiuti a riguardo
da V. Mannino, Ricerche sul “defensor civitatis”, Milano, 1984 e F. Pergami,
Sulla istituzione del “defensor civitatis”, in SDHI, 61, 1995, 413ss.
284
Per una ricerca più approfondita su tali personaggi si rimanda all’analisi di
CTh.9.29.2 (sull’obbligo di deferire i latrones ai giudici) compiuta da M.A. De
Dominicis, Riflessi di costituzioni imperiali del Basso Impero nelle opere della
giurisprudenza postclassica, Mantova, 1955, 66ss.; in proposito si vedano anche i
più recenti studi di A.D. Manfredini, Municipi e città nella lotta ai “latrones”, in
Annali dell’Università di Ferrara, 5/6, 1992, 23-34 (= in Roma y las Provincias,
Madrid, 1994, 147-159).
165
Al fine di evitare il verificarsi di eventi il cui impedimento sarebbe
rientrato, nella valutazione imperiale, proprio tra i compiti devoluti
agli appartenenti agli uffici, il legislatore tende a moltiplicare le
disposizioni285 volte a punire, non solo il singolo funzionario
responsabile, ma anche tutti i suoi subalterni.
Si assiste così ad un allargamento della responsabilità che non può
trovare altra ragione giustificativa se non quella di costituire un
estremo tentativo di riportare la burocrazia al rispetto della legge e
quindi della sua applicazione.
Per citare le costituzioni imperiali più significative a riguardo, si può
ricordare CTh.6.4.13 di Costanzo II del 3 maggio 361, nella quale si
prevede che, qualora i giudici a ciò destinati abbiano con neglegentia
trascurato le editiones, sia inflitta non solo una multa pari a dieci
libbre d’oro a carico degli stessi giudici, ma anche una di cinquanta
nei confronti dei membri dell’ufficio.
Ancora Teodosio I nel giugno del 380 con CTh.6.10.1, evidenziando
tutto il favore nutrito verso la professione dei notarii286, decreta che
quando a loro carico siano state imposte illecite prestazioni, ancorché
di lieve entità, l’intero officium sia punito con una grave multa.
Di notevole importanza, anche in ragione del suo originale contenuto,
è però, tra tutte, una costituzione di Valentiniano II, CTh.1.6.9 del 27
La comune responsabilità dell’officium e del preside per provvedimenti presi
da quest’ultimo è sancita in molte costituzioni, tra le quali, oltre a quelle citate nel
testo: CTh.12.1.47 del 359; CTh.11.16.11 del 365; CTh.11.29.5 del 374;
CTh.12.1.85 del 381; CTh.11.30.48 del 387; CTh.9.40.15 e 11.36.31 del 392;
CTh.11.30.51 del 393; CTh.8.5.58 del 398; CTh.11.30.58 del 399; CTh.13.9.6 del
412; CTh.13.5.38 del 414.
286
Su tale figura si veda per tutti: H.C. Teitler, Notarii and exceptores. An Inquiry
into Role and Significance of notarii and exceptores in the Imperial and
Ecclesiastical Bureaucracy of the Roman Empire (from the Early Principate to
circa 450 A.D.), Utrecht, 1983.
285
166
aprile 385, indirizzata a Simmaco, prefetto urbano, in cui si sancisce
che il giudice che non osservi le disposizioni di legge, privilegiando la
propria arroganza rispetto al giudizio imperiale, veda sanzionato il suo
ufficio con una pena pecuniaria pari a cinque libbre d’oro, a meno che
egli stesso non preferisca pagarne personalmente il doppio, per
risparmiare la punizione ai suoi collaboratori.
La particolarità di tale disposizione risiede sia nel fatto che per la
prima volta si assiste ad un caso di responsabilità alternativa, anziché
cumulativa, sia nel rilievo che la colpevolezza dei componenti
dell’ufficio è affermata in via principale, mentre quella del giudice si
configura solo come sussidiaria.
Simile differenza di trattamento si riscontra in un altro provvedimento,
sempre di Valentiniano II, di appena tre giorni successivo e cioè
CTh.2.1.6 del 30 aprile 385, indirizzato a Neoterio, prefetto del
pretorio.
In esso si dispone che, qualora il litigante dia prova di non essere stato
ascoltato dal giudice competente o di aver subito il rinvio della
controversia in ragione dell’inerzia o del favore, mostrato dal
magistrato, nei confronti della controparte, sia il giudice che i
primores del suo ufficio debbano essere puniti.
Tuttavia, mentre per il primo la pena consiste in una sanzione
pecuniaria pari al valore della causa (cd. aestimatio litis), per i secondi
è prevista la poena deportationis.
Sia in CTh.1.6.9 che in CTh.2.1.6 figura perciò la tendenza a punire
più severamente i componenti dell’ufficio, benché gerarchicamente
inferiori, rispetto al giudice a capo dello stesso.
Al fine di fornire un’adeguata giustificazione a tale fenomeno, appare
necessario, tuttavia, evidenziare le cause che hanno permesso
167
l’affermarsi, nel tardo antico, di ipotesi di responsabilità collettiva dei
funzionari.
Anche questa problematica è stata riportata dalla maggioranza degli
autori che se ne sono occupati nell’alveo della prospettiva inquisitoria
od accusatoria assunta dal sistema processuale tardo antico.
Mentre il Lauria riconosce in tali costituzioni l’affermazione di un
generale obbligo di inquirere in capo ai funzionari imperiali, in
coerenza con un sistema repressivo in cui “i magistrati ed il loro
officium sono tenuti a reprimere gli ormai innumerevoli delitti e sono
anzi essi stessi colpevoli se i delinquenti restano impuniti” dal
momento che, conclude l’autore “la neglegentia dei giudici che
trascurino di scoprire e punire i delinquenti è configurata in molte
costituzioni come connivenza”287; invece chi opta per un’impostazione
di tipo accusatorio preferisce riconoscere in tali fattispecie meri
“illeciti a carattere amministrativo o procedurale”288.
Senza voler entrare nel merito di questa disputa, sulla quale mi sono
già soffermata in apertura, ritengo che dall’esame dei provvedimenti
fin qui citati e che rappresentano, del resto, solo alcuni degli esempi
più significativi dell’ampia produzione normativa tardo antica a
riguardo, si possa trarre l’impressione di una disciplina in tema di
responsabilità dei funzionari a carattere contingente ed occasionale.
Mancando infatti una disposizione che, a livello generale ed
inderogabile, imponga di applicare tutta la legislazione vigente (forse
perché ci si rendeva conto sia della sua difficile reperibilità, che della
sua continua mutevolezza), gli imperatori si limitano ad esortare
all’applicazione della legge penale in relazione a determinate
287
288
M. Lauria, Accusatio- inquisitio, 277ss.
S. Pietrini, Sull’iniziativa, 136 nt.196.
168
fattispecie o a determinati fenomeni sociali che, in quel momento
storico ed in quell’ambito territoriale, sono percepiti come
particolarmente allarmanti.
E’ così che beneficiano di rinnovata vis repressiva e di un richiamo
all’effettività le norme a tutela delle vittime dei latrones o del crimen
violentiae, le disposizioni a favore di notarii ed in materia di
editiones.
I numerosi ambiti toccati da disposizioni di questo tipo inducono
comunque a ritenere configurabile un’autentica preoccupazione
imperiale per il mancato rispetto della legge.
Un’altra riflessione stimolata dalle costituzioni finora esaminate e
degna, a mio parere, di particolare attenzione è il rilievo di come, a
differenza che nella struttura burocratica moderna, in quella tardo
antica si assista, non ad una responsabilizzazione del funzionario
gerarchicamente sovraordinato per il fatto del sottoposto, ma al
fenomeno contrario.
Abbiamo infatti visto come spesso l’obbligo di vigilanza sia posto in
capo ai componenti dell’ufficio invece che al superiore e come, in
caso di mal funzionamento dell’apparato burocratico, si preferisca
punire più severamente i collaboratori rispetto al funzionario
responsabile.
E’ quindi come se i singoli funzionari fossero gravati dell’onere di
adoperarsi affinché il capo dell’ufficio applichi le disposizioni
imperiali e renda il suo operato efficiente.
Questo fenomeno è stato brillantemente spiegato da Centola289 col
fatto che “mentre i funzionari di grado superiore, posti a capo
dell’officium come il praefectus urbi e quello praetorio…di solito vi
169
rimangono per un periodo di tempo piuttosto limitato, invece i
funzionari subalterni, quali ad esempio gli apparitores290 … svolgono
la loro attività in maniera molto più stabile all’interno dell’apparato
statale”.
Configurare i collaboratori del giudice come una sorta di “coscienza
storica” dell’ufficio e come i veri depositari delle conoscenze
giuridiche che il magistrato sarà chiamato in concreto ad applicare,
sembra anche a me la ricostruzione più plausibile, in quanto coerente
sia con il carattere temporaneo degli incarichi tardo imperiali, che con
le fonti letterarie che descrivono sempre il giudicante assistito da più
adsessores.
A spiegare tale responsabilizzazione dell’organo, anziché del suo
rappresentante, potrebbe poi essere d’ausilio ricordare quella
tendenza, propria del tardo, a far prevalere la tutela dell’ordine
pubblico sulla difesa del singolo individuo, di cui ci siamo già
occupati291.
Il legislatore, infatti, tutto teso a realizzare l’efficienza del sistema
repressivo, potrebbe plausibilmente aver preferito, a fini dissuasori,
colpire l’ufficio nella sua interezza, senza eccessivamente soffermarsi
sulle singole responsabilità individuali, anziché indagare le condotte
personali all’origine dell’evento turbativo del buon funzionamento
dell’apparato burocratico.
Verificata l’esistenza di un obbligo in capo all’organo giudicante di
applicare le leggi imperiali, è ora necessario chiedersi se ciò comporti
per il giudice anche il vincolo assoluto a conformarsi alle pene ivi
289
D.A. Centola, La responsabilità, 578.
Sugli apparitores si vedano le pagine di N. Purcell, The “apparitores”: A
Study in Social Mobility, in Papers Brit. School at Rome, 51, 1983, 125-173.
291
In proposito si veda il capitolo primo § 1.
290
170
previste. Senza dubbio la legislazione tardo imperiale, più di ogni
altra, ambisce ad imporre uno schema sanzionatorio, oltreché severo,
anche molto rigido e predefinito.
Il legislatore di questo periodo infatti, anziché prevedere un massimo
ed un minimo edittale all’interno del quale lasciare libero il giudicante
di comminare in concreto la pena ritenuta più idonea, anche alla luce
delle circostanze292, preferisce fissare già in modo autonomo la
punizione nella sua quantità e qualità.
A proposito di questa precisione legislativa nell’approntamento delle
tabelle sanzionatorie, il Guarino293 ha osservato come “si sarebbe
tentati di dire che sin da allora si profilò il principio nullum crimen
nulla poena sine lege, se non fosse così evidente e sconcertante, nel
sistema penalistico postclassico, la mancanza di una base legislativa
che subordinasse sufficientemente i giudicanti ad un minimo decoroso
di precise regole processuali”.
Senza arrivare a tanto, anche perché tale rigida predeterminazione non
risponde ad esigenze garantistiche, quanto piuttosto a ragioni di
efficienza del sistema, bisogna cercare di capire fino a che punto
questo schema venga rispettato e quali siano i rimedi in caso di sua
inosservanza.
In primo luogo si può notare che, qualora il tribunale ignori una
costituzione imperiale o volutamente ne disattenda le prescrizioni,
irrogando una pena diversa per quantità o qualità da quella prevista, la
prima reazione spetti alla parte lesa dal giudicato troppo rigoroso o
Sull’irrilevanza delle circostanze oggettive nella repressione criminale del
tardo impero si veda per tutti: F. De Robertis, La variazione “pro modo admissi”,
219ss.
293
A. Guarino, Storia, 542.
292
171
troppo mite, la quale, attraverso lo strumento dell’appello, può
chiedere la riforma della sentenza.
Va però precisato che l’accesso all’appello è consentito all’accusatore
solo laddove presente al giudizio294. Perciò in tutti i casi di sua assenza
o anche solo di sua mancata attivazione si pone un problema di
legittimazione a far valere il mancato rispetto della legge, consumatosi
mediante l’irrogazione di una pena troppo lieve.
Ipotizzo quindi che, in queste condizioni, il controllo sull’operato del
giudice sia possibile solo da parte dei suoi collaboratori e, in caso di
inerzia anche di costoro, operino proprio quelle costituzioni imperiali
di cui ci siamo occupati sopra e che, in questo senso, si configurano
come apparati sanzionatori specifici apposti, quando se ne ravvisa
l’opportunità, alle diverse leggi, al fine di assicurarne l’applicazione.
Per non incorrere in tali conseguenze disciplinari, il giudice che vuole
comminare una pena diversa e, nella specie, più mite di quella imposta
dalla legge, può comunque rivolgersi direttamente all’imperatore per
ottenere un provvedimento di temperamento della sanzione ritenuta
troppo severa.
In sintesi quindi, mentre è sicuramente ravvisabile una possibilità per
il giudice di disattendere in melius la pena prevista dalle costituzioni
imperiali, purché ciò costituisca una espressa manifestazione della
volontà imperiale, ben più difficile è invece configurare un’ulteriore
riforma in peius.
Sembra lecito supporre che anche l’accusatore possa ricorrere in appello contro
una sentenza che non lo soddisfa; tuttavia, come nota significativamente G.
Bassanelli Sommariva, Il giudicato penale e la sua esecuzione, in ARC, 11,
Napoli, 1996, 49: “nell’intero codice di Teodosio II una unica costituzione allude
con certezza all’appello proposto dall’accusatore: si tratta di una legge occidentale
del 398 d.C., collocata sotto la rubrica de calumniatoribus”. Questo
294
172
Poiché infatti applicare una pena ancora più rigorosa di quella edittale
si configurerebbe come un affronto al monopolio dell’imperatore in
materia repressiva, non si ravvisa nelle fonti traccia di tale evenienza.
Accanto ai casi in cui la pena edittale non è applicata per decisione
discrezionale dell’organo giudicante, vi sono poi altre circostanze in
cui essa non è comminata in quanto il processo non giunge al suo
epilogo, ad esempio a causa della morte del presunto colpevole.
Nonostante le disposizioni volte ad escludere la competenza ad
incarcerare dei funzionari minori e a rendere più umane le condizioni
carcerarie e più brevi i tempi giudiziari, le morti legate all’uso della
tortura
e
alla
detenzione
preventiva
continuano
ad
essere
frequentissime.
Assodato come esista in capo ai giudici un obbligo di applicare la
legge penale e di come ciò possa trovare una deroga solo nel consenso
dell’imperatore o nel verificarsi di cause di forza maggiore estintive
del processo295, come la morte dell’imputato, resta da esaminare
perché quando nulla di tutto ciò accada, la pena regolarmente inflitta
resti comunque ineseguita.
Posto che il Codice Teodosiano non si occupa in una sede precisa
dell’esecuzione della pena, a differenza di quanto accade per i temi
della carcerazione preventiva296 e della tortura come mezzo
istruttorio297, fornire una risposta esaustiva non appare semplice.
provvedimento è individuabile in CTh.9.39.3 emanato a Milano dall’imperatore
Onorio ed indirizzato al proconsole d’Africa Vittorio.
295
Per ragioni di completezza espositiva ritengo necessario citare come ulteriore
causa di non irrogazione della pena anche quei provvedimenti di clemenza, quali
l’abolitio, concessi dall’imperatore spesso in coincidenza con ricorrenze di tipo
cristiano, quali ad esempio la Pasqua. Data la vastità dell’argomento ho comunque
ritenuto opportuno non includerlo in tale studio.
296
CTh.9.3 De custodia reorum.
297
CTh.9.35 De quaestionibus.
173
Nel titolo De poenis, nel quale sono raccolte numerose costituzioni, ad
esempio, non è possibile rinvenirne alcuna specificatamente dedicata
ai problemi connessi all’esecuzione della condanna, essendo tutte,
invece, direttamente od indirettamente incentrate sul potere di punire e
sulle sue modalità di esercizio.
Pur mancando una disciplina puntuale di tale istituto, è comunque
possibile individuare alcuni interventi che dimostrano ugualmente una
certa attenzione del legislatore a che le pene inflitte siano
effettivamente scontate.
I più significativi che sono riuscita a reperire sono, in particolare, due
provvedimenti orientali, rispettivamente del 13 marzo 392 e del 27
luglio 398, nei quali si contrastano con decisione gli interventi dei
chierici volti a sottrarre i condannati all’esecuzione:
CTh.9.40.15: (Impp. Valentinianus, Theodosius et Arcadius
AAA. Tatiano p.p.). Si quis convictus reus maximi criminis
fuerit subiectusque sententiae, competens iudicium compleatur
nec exquisita commentis ars eiusmodi subornetur, ut direptus a
clericis adseratur vel appellasse simuletur…Dat. III id. mart.
Constantinopoli Arcadio A. II et Rufino conss.
CTh.9.40.16pr.: (Impp. Arcadius et Honorius AA. Eutychiano
p.p.). Post alia: addictos supplicio et pro criminum immanitate
damnatos nulli clericorum vel monachorum, eorum etiam, quos
synoditas vocant, per vim adque usurpationem vindicare liceat
ac tenere. Quibus in causa criminali humanitatis
consideratione, si tempora suffragantur, interponendae
provocationis copiam non negamus, ut ibi diligentius
examinetur, ubi contra hominis salutem vel errore vel gratia
cognitoris
obpressa
putatur
esse
iustitia:
ea
condicione, ut, sive pro consule, comes orientis, praefectus
augustalis, vicarii fuerint cognitores, non tam ad clementiam
nostram quam ad amplissimas potestates sciant esse
174
referendum. Eorum enim de his plenum volumus esse iudicium,
qui, si ita res est et crimen exegerit, rectius possint punire
damnatos.
Entrambe
queste
costituzioni
vanno
interpretate
come
un’affermazione di esclusività del potere repressivo in capo
all’imperatore il quale, tramite esse, sembra ancora una volta ribadire
la propria intolleranza nei confronti di qualsiasi condizionamento
esterno, anche proveniente dal clero.
Tali testi pertanto, pur riguardando il problema dell’efficacia delle
norme criminali, non possono essere letti come un’enunciazione a
carattere generale del principio dell’intangibilità del giudicato e della
sua esecuzione, bensì come provvedimenti emanati al fine precipuo di
riequilibrare i rapporti tra Chiesa ed Impero e nei quali il problema
dell’effettività è toccato solo incidentalmente o meglio costituisce
l’occasione per riaffermare la prevalenza del potere imperiale sulle
velleità clericali.
Le interferenze del mondo ecclesiastico nell’amministrazione della
giustizia sono infatti, con ogni probabilità, ormai così frequenti e
capillari che gli imperatori si vedono costretti ad intervenire.
Accade così che nel 392 Teodosio I vieti l’intervento del clero nei
confronti delle sentenze fondate sulla confessione del colpevole o su
prove manifeste e riguardanti crimini gravi, quali omicidio, magia,
adulterio ed avvelenamento298 e prometta gravi sanzioni ai giudici e in
Già Costantino in CTh.11.36.1 del 313 al ricorrere di tali fattispecie ed in
presenza dei suddetti requisiti aveva negato la possibilità di esperire il rimedio
dell’appello.
298
175
genere ai funzionari, sia di alto che di basso rango, che non si
attengano alle prescrizioni.
Appena sei anni dopo Arcadio si vede comunque costretto a tornare
sul problema e ad intervenire severamente nei confronti di clerici e
monaci che tentano di sottrarre il presunto colpevole a quello che lui
sembra considerare un giusto processo.
Con
CTh.9.40.16
tuttavia
l’imperatore
non
vuole
proibire
radicalmente un regolare esercizio dell’intercessio, che sia ispirata da
un sincero sentimento di umanità e venga sottoposta al giudice
competente per provocare una relatio al prefetto del pretorio e, tramite
essa, una nuova istanza.
Ciò che egli condanna è un uso distorto di tale strumento che viene
utilizzato dal clero per colpire l’autorità imperiale e causare tumulti
che come osserva Gaudemet “…prennent l’aspect d’une guerre civile
plus que d’un jugement…”299.
L’imperatore si riserva perciò di punire personalmente questi episodi e
dichiara di ritenere responsabili i vescovi dei disordini provocati da
monaci e clerici nelle diocesi di loro competenza.
Tali costituzioni quindi, benché non risolutive del problema
dell’esecuzione, servono ad attirare l’attenzione sul rapporto
intercorrente nel tardo antico tra applicazione della legge ed effettività
e sulle conseguenze che ne derivano nelle prassi dei tribunali.
299
J. Gaudemet, L’Eglise, 315.
176