forma di governo per nsp - Dipartimento di Giurisprudenza

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LA FORMA DI GOVERNO NEL PROGETTO DI REVISIONE COSTITUZIONALE DEL GOVERNO
BERLUSCONI
di Marco Olivetti (*)
1. Premessa
Il disegno di legge costituzionale presentato in Parlamento il 19 settembre 2003 dal II
governo Berlusconi ed approvato il 25 marzo 2004 dal Senato (1) e, con emendamenti, il 15 ottobre
2004 alla Camera (2), ha sinora conosciuto significative modificazioni durante il suo iter
parlamentare. L’ampiezza del suo ambito di intervento e l’incisività delle modifiche che esso
prefigura al testo costituzionale hanno attirato l’attenzione della dottrina e dell’opinione pubblica.
La stessa Camera dei deputati ha avvertito l’esigenza di ascoltare, fra l’altro, l’opinione di alcuni
studiosi dei problemi affrontati nella riforma, prima di procedere all’esame del testo e degli
emendamenti. Le pagine che seguono riproducono, con modificazioni marginali, il testo utilizzato
come base per l’audizione svolta dall’Autore presso la Commissione Affari costituzionali della
Camera il 25 maggio 2004 e si riferiscono pertanto al testo approvato dal Senato il 25 marzo 2004
(3). Date però le importanti modificazioni successivamente intervenute (alcune delle quali rendono
in parte superate, o quantomeno collocabili in una luce nuova, le critiche qui formulate), si è
ritenuto opportuno aggiungere a tale testo un Post-scriptum, nel quale sono riportate alcune prime
osservazioni sulle modificazioni incluse nel testo approvato dalla Camera il 15 ottobre 2004.
2. L’ispirazione del modello: un approccio condivisibile
La forma di governo delineata nel disegno di legge costituzionale approvato dal Senato il 25
marzo 2004 si ispira al modello del “governo del Primo Ministro”, che è stato oggetto di diversi
progetti di riforma costituzionale e di vari dibattiti durante gli anni novanta4. La denominazione –
tutta italiana, in verità – di “premierato” è un utile punto di partenza, in quanto il Primo Ministro
costituisce l’asse centrale di tale modello organizzativo. Prima di proporre una valutazione sulla
soluzione adottata e di evidenziarne i profili critici, è bene sottolineare i tratti caratteristici della
forma di governo proposta, comparandoli sia con le proposte precedenti ad essa simili, sia con le
soluzioni praticate nei Paesi europei cui essa dichiara di ispirarsi.
* Professore straordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Foggia e
Professore Invitato di Istituzioni di Diritto pubblico nella Facoltà di Scienze sociali della Pontificia Università San
Tommaso di Roma.
1 Atto Senato n. 2544 (XIV legislatura).
2 Atto Camera n. 4862 (XIV legislatura).
3 Il testo in esame, inoltre, era stato pubblicato con il titolo La forma di governo nel dd. Senato n. 2544, ovvero:
dalla Seconda Repubblica al Secondo Impero, nel volume: ASTRID, Costituzione: una riforma sbagliata. Il parere di 63
costituzionalisti, a cura di F. Bassanini, Passigli Editori, Firenze, 2004, p. 390-419.
4 Modelli, fra loro diversi, di “governo del primo Ministro”, ovvero di sistema parlamentare con Premier forte,
erano quelli previsti dal progetto della Commissione bicamerale De Mita-Jotti e dal testo A dell’articolato Salvi discusso
dalla Commissione bicamerale D’Alema.
Il punto di partenza dal quale muovere, peraltro, non può che essere una presa d’atto
positiva. Collocandosi sulla linea del rafforzamento del Primo Ministro come leader di una
maggioranza parlamentare scelta dagli elettori in occasione delle elezioni legislative, il disegno di
legge costituzionale del governo Berlusconi si muove in continuità con la razionalizzazione della
forma di governo italiana realizzata negli anni novanta5. Si sono cioè evitate strade ambigue che
passassero per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, che avrebbero disperso il risultato
delle evoluzioni compiutesi nello scorso decennio. Ciò che occorre verificare è se le misure proposte
nel disegno di legge voluto dal governo di centro-destra siano proporzionali ed adeguate rispetto
all’obiettivo di completare la transizione italiana verso una democrazia dell’alternanza con sistema
bipolare e se, d’altro canto, siano previsti idonei meccanismi di bilanciamento fra i poteri.
3. La formazione del governo
Per quanto attiene alla formazione del Governo, il ddl n. 2544 si muove su una linea che, se
modifica sensibilmente il testo costituzionale, non fa che cristallizzare la lettura di esso che si è
affermata, sia pure con qualche fatica, nell’ultimo decennio. Il nuovo art. 92.2 precisa che “la
candidatura alla carica di Primo Ministro avviene mediante collegamento con i candidati
all’elezione della Camera dei deputati”. La legge elettorale stabilisce le modalità con cui è realizzato
tale collegamento e “disciplina l’elezione dei deputati in modo da favorire la formazione di una
maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo Ministro”6. E’ su questa base che il
Presidente della Repubblica, stabilisce l’art. 92.3, nomina il Primo Ministro.
Si tratta, quindi, di un procedimento di formazione del governo piuttosto simile a quello già
oggi effettivamente operativo, sulla base delle modificazioni verificatesi nell’ultimo decennio nel
sistema elettorale e nel sistema politico, per i casi in cui il nuovo esecutivo deve formarsi
all’indomani delle elezioni legislative. Le varianti principali rispetto al regime attuale
consisterebbero nel fatto che la maggioranza, secondo il progetto governativo, dovrebbe sussistere
nella sola Camera dei deputati e nella configurazione della potestà presidenziale di nomina del
Premier non più come (apparentemente) “libera”, ma come “discrezionale” (se non, in certe
circostanze, come di fatto vincolata). Si tratterebbe, in fondo, del modello del c.d. “premier
indicato”, molto simile a quello previsto per le Regioni ordinarie dalla legge n. 43/1995 (e poi
abbandonato dalla legge cost. n. 1/1999, che ha previsto una elezione anche formalmente diretta),
che consiste in una elezione diretta di fatto, nella quale si mira ad evitare alcune rigidità che
l’elezione diretta vera e propria presenta.
Pertanto, le obiezioni che è possibile formulare a proposito del procedimento di formazione
dell’Esecutivo delineato dal progetto di legge governativo non attengono al contenuto, ma alla
scelta stessa di scrivere queste prassi, cristallizzando, ma anche irrigidendo, la prassi politica. Dopo
5 Da questo punto di vista il punto di svolta nelle posizioni del centro-destra risale all’intervista rilasciata dal
Vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini al Corriere della Sera il 4 gennaio 2003 (p. 5).
tutto, quanto descritto negli art. 92.2 e 92.3 è ciò che accade ormai in buona parte dei regimi
parlamentari europei (Germania, Spagna, Svezia, Gran Bretagna), nei quali il sistema politico si è
dislocato su un assetto bipolare, ma solo in Italia si avverte l’esigenza di scrivere tali regole in
Costituzione7.
4. Primo Ministro e Ministri
La seconda scelta dell’Atto Senato n. 2544 riguarda il potere di nomina e revoca dei
Ministri, che l’art. 95.1 attribuirebbe direttamente al Primo Ministro. Due sarebbero le innovazioni
rispetto all’assetto attuale: verrebbe introdotto anche il potere di revoca, attualmente non previsto,
almeno come potere formale (8); il potere di nomina, attualmente attribuito al Presidente della
Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio, verrebbe attribuito direttamente al Primo
Ministro (e lo stesso accadrebbe per il potere di revoca). La prima scelta è sicuramente
condivisibile, mentre qualche riserva si può avanzare sulla seconda: non si capisce, infatti, perché
la nomina e la revoca dei ministri debbano essere un potere esclusivo del Premier e sia eliminato il
passaggio presso il Capo dello Stato attualmente previsto. Nessuno può ragionevolmente
desiderare che il potere di scelta dei Ministri sia sottratto al Premier e condiviso col Presidente, ma
la nomina formale dei ministri da parte di quest’ultimo, e soprattutto la loro eventuale revoca, può
risultare utile non solo come istanza di controllo formale, ma anche come “camera di
compensazione” per situazioni anomale che possono pur sempre verificarsi (si pensi alla nomina di
Cesare Previti a ministro della Giustizia, bloccata dal Presidente Scalfaro nel maggio 1994, con
effetti sicuramente benefici per lo stesso I governo Berlusconi, che sarebbe stato sicuramente più
criticabile con l’avvocato del Presidente del Consiglio a via Arenula (9)). D’altro canto appare
criticabile che non si imponga al Primo Ministro di riunire il Consiglio dei Ministri prima di
revocare un Ministro, con la conseguenza che l’interessato e i suoi colleghi potrebbero essere
portati a conoscenza di tale atto mediante i media. Ma questo è uno dei tanti punti di emersione
dell’insofferenza dell’Atto Senato n. 2544 verso la collegialità del potere esecutivo: certo, non si
arriva ad attribuire la titolarità del potere esecutivo al solo Primo Ministro; anzi, l’art. 92.1 precisa
che – in continuità con la disciplina attualmente vigente – “il Governo della Repubblica è composto
dal Primo Ministro e dai ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri”; ma l’art.
95.2, laddove stabilisce che “il Primo Ministro determina la politica generale del Governo”, si
colloca in una prospettiva in cui il Premier, che nomina e revoca a suo piacimento i propri colleghi,
è di fatto il governo e non solo il suo capo.
6 Con tale disposizione si procede alla costituzionalizzazione del principio maggioritario (così M. SICLARI, Brevi
note introduttive ad un dibattito sul disegno di legge costituzionale AS nr. 2544, approvato dalla I Commissione del
Senato, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2 febbraio 2004).
7 Non solo, invero, da parte dell’attuale maggioranza: sul punto si veda ad es. il progetto della Commissione
bicamerale della XIII legislatura (che pure accoglieva un modello diverso).
8 Si veda però il caso Ruggiero [e da ultimo anche il caso Tremonti], nel quale la revoca si è avuta di fatto. Si è
invece consolidato un potere di revoca dei sottosegretari (casi Pappalardo nel governo Ciampi, Giorgianni nel governo
Prodi e Sgarbi nel II governo Berlusconi).
9 Ma si possono ricordare anche gli interventi di Scalfaro in occasione della formazione del I governo Amato o
quelli di Ciampi al momento delle trattative informali che hanno preceduto la costituzione del II governo Berlusconi.
5. La presentazione del Governo alle Camere e la fiducia presunta
Entro dieci giorni dalla nomina, il Primo Ministro “illustra il programma del Governo alle
Camere”. E’ verosimile che tale atto segua non solo la nomina del Primo Ministro, ma anche quella
dei ministri (come accade già oggi) e dopo il giuramento da parte dei membri del governo, che,
secondo l’art. 93, deve avvenire (anche qui, come oggi) “prima di assumere le funzioni”.
L’illustrazione del programma alle Camere, tuttavia, cambia di significato rispetto alla Costituzione
vigente: esso è certo un atto giuridicamente obbligatorio (anche se, come spesso accade per le
norme costituzionali, non vi è una sanzione per il mancato rispetto dell’obbligo), ma non è seguito
da un voto di fiducia. Si adotta infatti il meccanismo (praticato in Gran Bretagna, ma anche – sia
pure con modalità diverse – in Svezia, in Olanda, in Danimarca e in regimi semipresidenziali come
la Francia e il Portogallo) della “fiducia presunta”. Il che è del resto coerente con la scelta
dell’indicazione popolare del Primo Ministro. Anche qui l’innovazione è certo forte rispetto al testo
dell’attuale art. 94, che prevede la mozione di fiducia iniziale come condizione risolutiva della
nomina, ma è minore rispetto alla prassi del sistema maggioritario, che ha ridimensionato, se non
svuotato, il significato del voto di fiducia iniziale.
6. I governi di minoranza
Un’ipotesi-limite merita tuttavia di essere segnalata. Quid iuris se le elezioni legislative
partoriscono uno “hung Parliament” (10), cioè una Camera dei deputati senza maggioranza? E’
vero, infatti, che l’art. 92.2 – come si è visto poco fa – impone alla legge elettorale di disciplinare
“l’elezione dei deputati in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al
candidato alla carica di Primo Ministro”, ma “favorire” non vuol dire “assicurare”. Ad es. l’attuale
legge elettorale per la Camera sicuramente favorisce la formazione di tale maggioranza, ma non la
assicura e potrebbe ben darsi una Camera senza maggioranza. Il sistema delineato nel ddl n. 2544
ha, in realtà, una soluzione implicita per questo caso: la nomina di un Premier di minoranza da
parte del Presidente della Repubblica, come accade anche oggi. Ma nel nuovo sistema scompaiono
le valvole di flessibilità che oggi consentono di trovare un equilibrio senza necessariamente
ricorrere a nuove elezioni subito (le quali potrebbero partorire a loro volta una nuova Camera
“hung”). Una volta nominato, infatti, il Premier di minoranza pur non essendo tenuto a chiedere
alla Camera un voto di fiducia, sarebbe protetto dalle medesime garanzie previste per un Premier
che abbia ab initio una maggioranza nella Camera. Anzi, in virtù dell’assenza di una “maggioranza
espressa dalle elezioni” ai sensi e per gli effetti degli art. 88.2 e 92.4, il Primo Ministro “di
minoranza” sarebbe più forte di quello “di maggioranza” e potrebbe essere rovesciato solo con una
mozione di sfiducia che produca immediatamente nuove elezioni, ma non da un Premier diverso
10 Sullo hung Parliament nel sistema costituzionale britannico v. R. BRAZIER, Constitutional Practice, III ed.,
Oxford U.P., Oxford, 1999, p. 30 ss.
da parte della stessa maggioranza iniziale (che in questo caso non esiste). In questo si vedono di
nuovo i limiti dell’iper-razionalizzazione e della scarsa flessibilità cui si ispira il progetto di riforma.
7. La questione di fiducia
Durante la vita dell’esecutivo – che l’atto Senato n. 2544, condivisibilmente, immagina
come di norma coincidente con quella della legislatura della Camera – il rapporto GovernoCamera, e in particolare il rapporto fra il Primo Ministro e la maggioranza parlamentare cui questi
è collegato, è regolato da tre strumenti di importanza capitale per comprendere la strutturazione
della forma di governo in esame: la questione di fiducia, il potere di scioglimento della Camera, la
mozione di sfiducia.
Pur senza nominarla, il disegno di legge n. 2544 disciplina la questione di fiducia nell’art.
94.2, che introdurrebbe la facoltà del Primo Ministro di “chiedere che la Camera dei deputati si
esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo”. Si
tratta di una combinazione tra gli istituti della questione di fiducia e del voto bloccato previsti dalla
Costituzione francese del 1958, che non è radicalmente dissimile dalla questione di fiducia ben nota
alla prassi parlamentare italiana degli anni cinquanta e sessanta e poi regolata dall’art. 116 del
Regolamento della Camera del 1971. Anche la questione di fiducia attualmente prevista nel nostro
ordinamento, infatti, rende inemendabile l’oggetto su cui è posta e ne impone la votazione
prioritaria, con decadenza degli emendamenti non votati.
Due importanti differenze procedurali vanno tuttavia rilevate: a) la questione di fiducia, nel
sistema vigente, è proposta dal Presidente del Consiglio, ma per la posizione di essa davanti alle
Camere, occorre l’assenso del Consiglio dei Ministri (v. art. 2.3 della legge n. 400/1988); b) la
questione di fiducia non può essere posta su un disegno di legge nel suo complesso, ma solo su
articoli o emendamenti ad esso (art. 116 Reg. Cam.). Nel caso ipotizzato dallo schema di disegno di
legge costituzionale in commento, invece, la decisione in materia diverrebbe monopolio assoluto
del Primo Ministro (che non sarebbe nemmeno tenuto a informare il Consiglio dei Ministri) e
potrebbe riguardare qualsiasi oggetto (forse persino una legge costituzionale, o una decisione della
Camera sull’insindacabilità, sull’autorizzazione a procedere o sulla verifica delle elezioni: nulla è
escluso, visto che manca anche un rinvio ai casi fissati dal regolamento della Camera), rendendolo
inemendabile.
Ma l’elemento più destabilizzante della questione di fiducia è un altro: “in caso di voto
contrario” – prosegue l’art. 94.2 dello schema di disegno di legge costituzionale – “il Primo
Ministro rassegna le dimissioni e può chiedere lo scioglimento della Camera. Si applica l’articolo
88”. La questione di fiducia, quindi, verrebbe radicalmente modificata: da minaccia di dimissioni,
come essa è attualmente (il Governo si impegna a dimettersi se non viene approvata una sua
proposta) diverrebbe una minaccia di scioglimento anticipato (11). Per questo, la disposizione in
commento è la più pericolosa fra quelle contenute nel disegno di legge approvato in Senato. Essa va
oltre la Costituzione della quinta Repubblica (ove il voto bloccato di cui all’art. 44 non produce né
sfiducia né scioglimento in caso di esito negativo e la questione di fiducia di cui all’art. 49.3 obbliga
il governo alle dimissioni, se rigettata, ma non conduce automaticamente allo scioglimento
dell’Assemblea Nazionale). E’ vero che nella prassi parlamentare inglese il Primo Ministro può
minacciare lo scioglimento della Camera dei Comuni in relazione all’approvazione di determinate
misure (vi fece ricorso John Major nel 1993 per indurre gli euroscettici del Partito conservatore a
ratificare il Trattato di Maastricht), ma – a parte ora le considerazioni che si dovrebbero fare sul
“modello Westminster” e sulla sua dubbia trasponibilità al di qua della Manica – nel sistema
inglese non vi è alcun automatismo del tipo di quello previsto dallo schema di disegno di legge. Se
fosse sconfitto, il Primo Ministro britannico potrebbe rinunciare a chiedere lo scioglimento e,
anche se lo chiedesse, la Regina potrebbe negarglielo, almeno in casi estremi che, invece, nella
soluzione proposta per l’Italia, non escluderebbero il ricorso immediato a nuove elezioni. Al
riguardo, il testo approvato al Senato ha certo introdotto un (apprezzabile, ma insufficiente)
elemento di flessibilità, poiché, mentre il testo presentato dal Governo nel settembre 2003
prevedeva lo scioglimento automatico della Camera in caso di voto di sfiducia, senza alcuna
discrezionalità per il Primo Ministro e per il Presidente della Repubblica, il testo approvato
dall’assemblea di Palazzo Madama ha stabilito che il Primo Ministro “può chiedere lo scioglimento
della Camera”. Dunque, in caso di rigetto della questione di fiducia si aprono tre possibilità: a) il
Primo Ministro si dimette e non chiede lo scioglimento delle Camere; b) il Primo Ministro si
dimette e chiede lo scioglimento delle Camere e il Presidente lo dispone; c) il Primo Ministro si
dimette e chiede lo scioglimento delle Camere, ma il Presidente non lo dispone in virtù dell’art.
88.3, poiché “entro dieci giorni” dalla richiesta di scioglimento, viene “presentata alla Camera dei
deputati una mozione, sottoscritta dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle
elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera, nella quale si
dichiari di voler continuare nell’attuazione del programma e si indichi il nome di un nuovo Primo
Ministro”. I margini di praticabilità di quest’ultima alternativa sono comunque ridotti e quindi la
flessibilità introdotta al Senato rimane limitata.
Si noti, inoltre, che lo scioglimento (semi-)automatico che avrebbe luogo in questo caso si
affiancherebbe al potere del Primo Ministro di proporre sempre, in qualsiasi momento, al
Presidente della Repubblica, lo scioglimento della Camera, di cui egli assumerebbe l’esclusiva
responsabilità (il che vuol dire che avrebbe il potere di decisione sul punto).
Ma cui prodest uno strumento del tipo della questione di fiducia di taglio berlusconiano? Si
noti che la questione di fiducia è un’arma più contro i dissidenti interni alla maggioranza che
contro le opposizioni. E poiché nella fase attuale l’articolazione interna delle coalizioni è l’unico
possibile freno allo strapotere del Premier, l’introduzione di uno strumento di questo tipo sarebbe,
anche per la sua efficacia deterrente, oltremodo pericolosa, proprio perché eliminerebbe uno dei
pochi superstiti contrappesi al potere del “Premier assoluto”.
11
Un precedente si può invece ravvisare nella “variante Galeotti” al progetto del Comitato Speroni.
La questione di fiducia di cui all’art. 94.2 può essere proposta solo alla Camera, poiché solo
quest’ultima intrattiene il pur anomalo rapporto di fiducia (12) con il Governo che traspare dal
disegno di legge costituzionale. Anche al Senato, tuttavia, il Governo (questa volta non il solo
Premier, ma l’intero organo collegiale) può dichiarare che “le modifiche proposte alla Camera dei
deputati” ad un disegno di legge ad iniziativa senatoriale nelle materie di cui all’art. 117.2 e 70.2
“sono essenziali per l’attuazione del suo programma”: in tali casi – se alla Camera tali modifiche
sono state approvate con la procedura della questione di fiducia con voto bloccato – si procede con
una commissione mista paritetica, prevista dagli ultimi due periodi dell’art. 70.3. Si tratta di un
sistema molto complesso in cui si può vedere il cuore del problema posto dal combinato disposto
della questione di fiducia che il governo può porre alla Camera e del singolare procedimento
legislativo a prevalenza senatoriale contenuto nell’art. 70.2, che costituisce se non un unicum, certo
una rarità costituzionale nei regimi a bicameralismo imperfetto. Ma dietro questa formulazione
contenuta nell’art. 70.2 ora citata si intravede che la questione di fiducia di cui all’art. 94.2 rischia
di essere non una extrema ratio, utilizzabile una-due volte l’anno in situazioni di particolare
gravità, ma quasi una misura ordinaria, cui ricorrere in ogni caso di deadlock fra le due Camere
(fenomeno che potrebbe essere anche molto frequente in caso di coesistenza di due Camere con
maggioranze diverse). Lo svuotamento della rappresentanza parlamentare nella Camera dei
deputati sarebbe allora molto forte, con conseguenze gravi sull’equilibrio del sistema.
8. Il potere di scioglimento della Camera e le norme antiribaltone
Un’altra importante innovazione riguarda il potere di scioglimento della Camera dei
deputati, che costituisce la chiave di volta della razionalizzazione del regime parlamentare (13).
L’atto Senato n. 2544 non prevede più lo scioglimento del Senato, come oggi, e disciplina lo
scioglimento della Camera sulla base di una richiesta del Primo Ministro “che ne assume la
esclusiva responsabilità”. Si è in tal modo ripreso il potere di scioglimento su iniziativa del leader
dell’Esecutivo delineato nell’art. 115 della Costituzione spagnola del 1978. Apparentemente si è
ripresa da tale Costituzione anche la mozione di sfiducia costruttiva che può bloccare il potere di
scioglimento, ma lo si è fatto con una grave restrizione, ovvero il già citato vincolo a che la mozione
di sfiducia costruttiva sia sottoscritta “dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle
elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera”, con l’evidente (e
12 E’ dubbio che si possa ricondurre il rapporto fra Governo e Camera dei deputati – come delineato nell’Atto
Senato n. 2544 – allo schema classico del rapporto di fiducia, visto che la fiducia iniziale è presunta e che la mozione di
sfiducia, se approvata, conduce necessariamente allo scioglimento. Gli strumenti fiduciari previsti nell’Atto Senato n.
2544 subiscono pertanto una torsione a seguito della quale conservano della fiducia solo il nome (e talora, come nel caso
dell’art. 94.2, nemmeno quello).
13 …come insegna la migliore dottrina. Basti citare, oltre ai testi di Bagehot citati da E. BALBONI, Il potere di
scioglimento del Parlamento e l’uso congiunturale de “La Costituzione inglese”, in ASTRID, Costituzione. Una riforma
sbagliata, cit., p. 301 ss., il classico R. REDSLOB, Le régime parlementaire, Giard, Paris, 1924, spec. p. 4. La
individuazione del potere di scioglimento come leva su cui operare per il completamento della transizione è dovuta, nel
dibattito italiano più recente, a S. CECCANTI, Il premierato. Matrici ideali e traduzioni nell’oggi, relazione al convegno
della Fondazione Italianieuropei del 9.1.2003, in www.italianieuropei.it.
in se certo condivisibile nell’ispirazione, anche se non nella strumentazione adottata) finalità di
impedire i tanto temuti “ribaltoni” (14).
Ci troviamo qui al cuore della razionalizzazione del sistema di governo parlamentare,
ovvero al punto di equilibrio tra i due istituti che più lo caratterizzano, distinguendolo dal regime
presidenziale: lo scioglimento delle Camere e la sfiducia. Il tentativo di bilanciare questi due poteri
compiuto dal ddl n. 2544 è cioè ammirevole negli intenti, ma deficitario nei risultati, soprattutto
per la configurazione della mozione di sfiducia costruttiva in termini così rigidi come quelli di cui
all’art. 88.2. L’intento, evidentemente, è rendere possibile la sostituzione del Primo Ministro solo
all’interno della “maggioranza espressa dalle elezioni”, impedendo invece radicali cambiamenti
rispetto a quest’ultima (cioè i ribaltoni). Ma la strumentazione, va ribadito, è troppo rigida, con
effetti paradossali, vale a dire con l’eventualità che un gruppetto anche piuttosto piccolo di deputati
della maggioranza (quelli che fanno la differenza fra la maggioranza conquistata alle elezioni e la
metà più uno dei componenti della Camera) di essere arbitra della prosecuzione della legislatura.
Eventuali apporti, anche minimi, di deputati eletti fuori dalla maggioranza sarebbero rigidamente
esclusi, se necessari a raggiungere la metà più uno dei seggi. Fra l’altro, con tale disposizione si
introdurrebbe una grave deroga al divieto di mandato imperativo fissato dall’art. 67 della
Costituzione, che dovrebbe indurre a chiedersi se non si sia qui in presenza di un vulnus al
principio supremo della democrazia rappresentativa, come tale ipoteticamente sanzionabile dalla
Corte costituzionale in quanto limite alla stessa legge di revisione.
Dietro tutto ciò vi è una pretesa un po’ assurda di imporre alla politica camicie di nesso. Le
variazioni nella maggioranza sono state e sono un fenomeno ricorrente in ogni regime democratico
e così lo sono stati e lo sono le migrazioni di parlamentari da un partito all’altro. Il caso di Winston
Churchill, passato dai conservatori ai liberali e poi tornato ai conservatori nei primi decenni del
secolo scorso, è certo più illuminante al riguardo delle ben note peripezie degli on. Buttiglione e
Bossi, penitenti firmatari dell’atto Senato n. 2544. Ma si può ricordare anche il recente cambio di
casacca di un senatore repubblicano che nel 2001 ha privato il Presidente Bush della cruciale
maggioranza al Senato. Certo, da qui alla mobilità parlamentare sperimentata nella XIII legislatura
vi è molta differenza, ma la pretesa di immobilizzare la maggioranza uscita dalle elezioni è uno dei
tanti deliri di onnipotenza che hanno segnato la cultura dell’ingegneria costituzionale dell’ultimo
decennio.
D’altro canto, i “ribaltoni” non sono impediti in ogni caso: è infatti possibile un mutamento
della maggioranza espressa dalle urne, eventualmente anche imbarcando una porzione
dell’opposizione, purché ciò avvenga “a Primo Ministro invariato”: nessun divieto può infatti
impedire che il Primo Ministro in carica “sbarchi” una parte anche consistente della maggioranza
Sull’ossessione del ribaltone si v. le condivisibili critiche di G. SARTORI, Verso una Costituzione
incostituzionale?, appendice alla V ed., del volume Ingegneria costituzionale comparata, Il Mulino, Bologna, 2004. Sulle
norme antiribaltone sarebbe utile una riflessione anche nel centro-sinistra: le misure antiribaltone sono infatti
condivisibili nell’intenzione, ma sbagliate nella strumentazione utilizzata. La sfiducia costruttiva, combinata magari con
l’ineleggibilità del Premier dimissionario “spontaneamente” (cioè non a seguito di un voto di sfiducia) è più che
14
cui era collegato al momento delle elezioni e la sostituisca con gruppi di deputati eletti in
collegamento con il/i candidato/i Premier sconfitto/i.
Oltre all’ipotesi dello scioglimento su richiesta del Primo Ministro (art. 88.1) e a seguito di
rigetto di una questione di fiducia (art. 94.2) residuano altre due ipotesi di scioglimento anticipato
della Camera dei deputati: quello a seguito dell’approvazione di una mozione di sfiducia da parte
della Camera stessa (art. 94.3) e quello a seguito di morte, impedimento permanente o dimissioni
volontarie del Primo Ministro (art. 92.4).
Il primo è un caso di scioglimento automatico. A seguito di approvazione di una mozione di
sfiducia, infatti, sorgono due obblighi: il Primo Ministro è tenuto a dimettersi e il Presidente della
Repubblica è tenuto a sciogliere la Camera e a indire le nuove elezioni legislative (art. 92.4). Al
riguardo si impongono due osservazioni. In primo luogo la natura della mozione di sfiducia cambia
radicalmente rispetto all’art. 94.5 della Costituzione attuale: essa non è più uno strumento per
obbligare il governo a dimettersi, ma ha dentro di sé la conseguenza necessaria dello scioglimento
automatico della Camera, la quale – pertanto – perde in radice (di diritto e non solo di fatto) la
possibilità di esprimere un nuovo esecutivo. In secondo luogo emerge in questo caso una insana
passione per gli automatismi costituzionali, nella quale maggiormente si vede la distanza fra questo
testo e il costituzionalismo europeo degli ultimi due secoli (quello britannico anzitutto),
caratterizzato dalla presenza di numerosi meccanismi di flessibilizzazione del sistema di governo,
come il veneratissimo “modello Westminster” – tutto affidato a convenzioni costituzionali –
ampiamente dimostra.
Per quanto attiene, invece, alla morte, all’impedimento permanente e alle dimissioni non
obbligatorie del Primo Ministro, la conseguenza dello scioglimento della Camera non è automatica.
E’ cioè possibile la nomina, da parte del Presidente della Repubblica, di nuovo Premier solo con
“maggioranza bloccata”: l’art. 92.4 stabilisce infatti che in questi casi “il Presidente della
Repubblica nomina un nuovo Primo Ministro indicato da una mozione, presentata entro quindici
giorni dalla data si cessazione dalla carica, sottoscritta dai deputati appartenenti alla maggioranza
espressa dalle elezioni, in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera dei
deputati” (15). Al di fuori di questa ipotesi, torna ad operare l’automatismo: “altrimenti, decreta lo
scioglimento della Camera dei deputati ed indice le elezioni”. Per questa ipotesi, dunque, siamo in
presenza di un automatismo light, cioè attenuato: meno rigido, quindi, del meccanismo oggi
imposto alle Regioni dall’art. 126.2, che dà una interpretazione fondamentalistica del principio
simul stabunt simul cadent (e che infatti lo stesso ddl n. 2544 mira – condivisibilmente – a
modificare, allineandolo con quella che sarebbe la soluzione nazionale: v. art. 37 del ddl in
commento).
sufficiente allo scopo perseguito (la stabilizzazione delle maggioranze). Questo era fra l’altro l’equilibrio previsto nel testo
A dell’articolato Salvi.
15 Mi pare condivisibile il rilievo di M. SICLARI, Brevi note introduttive ad un dibattito sul disegno di legge
costituzionale AS nr. 2544, approvato dalla I Commissione del Senato, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2
febbraio 2004, il quale osserva che in questo caso non si fa nemmeno luogo al voto e dunque non si comprende perché si
continui ad utilizzare il termine “mozione”.
9. Prime valutazioni: il premierato assoluto
Nel suo complesso, dunque, il ddl n. 2544 si segnala per un drastico rafforzamento della
posizione costituzionale del Presidente del Consiglio. A sottolineatura di ciò si propone di mutare
anche il nome di tale carica politica, che verrebbe riqualificato come Primo Ministro, mentre i suoi
poteri – come si è visto – verrebbero rafforzati in ogni direzione: verso il Presidente della
Repubblica, verso il Parlamento, verso lo stesso Governo. Ed è soprattutto il rafforzamento del
Premier nei confronti dello stesso Governo (si è visto che spettano al Primo Ministro poteri che in
altri ordinamenti sono condivisi o almeno partecipati dall’organo collegiale di governo) che lascia
trasparire, nei redattori del progetto una seconda passione, oltre a quella per gli automatismi, non
meno insana della prima: quella per il governo personale, che ben merita la qualificazione di
“premierato assoluto”, proposta con la consueta sapienza da Leopoldo Elia (16). Il Presidente del
Consiglio disegnato dall’attuale Costituzione è senza dubbio una figura piuttosto scolorita (17),
anche se ciò non ha impedito in passato che i Premier più autorevoli esprimessero una reale
capacità di guida della politica nazionale. Per questo motivo un rafforzamento dei poteri del
Premier è sicuramente da condividere. Ma non è saggio disperdere il patrimonio di checks and
balances che il costituzionalismo (italiano ma non solo) ha costruito per proceduralizzare e
bilanciare i poteri del Primo Ministro.
Certo, il Premier non viene – almeno dal punto di vista formale – eletto direttamente. Ma
anche rispetto all’unico esempio sinora realizzato di elezione diretta del Primo Ministro (quello
israeliano), mancano molti bilanciamenti, soprattutto nel rapporto col Parlamento (18).
Inoltre non sono previsti limiti alla rielezione del Primo Ministro, che erano invece previsti
dal c.d. “testo A” dell’articolato Salvi, presentato nella Commissione bicamerale D’Alema nel 1997
(19) e dal progetto Galeotti di governo di legislatura, che è un riferimento utile per interpretare il
modello qui in esame (20). E’ vero, infatti, che i limiti alla rielezione sono propri dei sistemi ad
elezione diretta, in particolare di quelli presidenziali, e non di quelli parlamentari, ma nell’Atto
Senato n. 2544 dell’elezione diretta manca solo la forma, ed è invece presente tutta la sua sostanza.
Per comprendere l’impianto complessivo della forma di governo delineata nell’A.S. 2544
occorre da ultimo tenere conto di due ulteriori elementi: gli effetti della riforma del Senato e la
posizione costituzionale del Presidente della Repubblica.
Si v. la relazione di L. Elia al Seminario di Astrid del 22.9.2003 (che si può leggere in www.astridonline.it).
Ed infatti l’esigenza di un rafforzamento dei suoi poteri era condivisa anche dal difensore per eccellenza della
Costituzione: Giuseppe Dossetti (si v. l’intervento a Milano del 21 gennaio 1995: G. DOSSETTI, Il potere costituente, in ID.,
I valori della Costituzione, Edizioni S. Lorenzo, Reggio Emilia, 1995, p. 95).
18 V. infra qualche cenno sulle differenze col sistema israeliano. Rinvio per il resto a quanto esposto in M.
OLIVETTI, L’elezione diretta del Primo Ministro e la teoria delle forme di governo, in Studi parlamentari e di politica
costituzionale, 1997. n. 116, p. 59-87.
19 Il limite era in tal caso di tre mandati (e si prevedeva inoltre lo svolgimento di elezioni primarie): cfr. art. 1, 3°
e
4°
comma
(il
testo
si
può
leggere
all’indirizzo
web
http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/rifcost/ressten/sed028al.htm
20 Un limite di due mandati era proposto anche da uno dei primi progetti di Premier eletto direttamente, quello
elaborato da Serio Galeotti nell’ambito del “gruppo di Milano” (cfr. S. GALEOTTI, Un governo scelto dal popolo: il
“governo di legislatura”, Giuffrè, Milano, 1984, p. 73).
16
17
10. Premierato e Senato “federale”
Il rapporto fra il Senato sedicente federale disegnato dall’atto Senato n. 2544 e il governo
del Primo Ministro è piuttosto difficile da valutare in astratto ed appare segnato da elementi fra
loro contraddittori.
Da un lato, infatti, si potrebbe ipotizzare che anche qui vi sia un rafforzamento, sia pure
nascosto, del potere del Primo Ministro e del suo Governo, derivante dagli snellimenti procedurali
che conseguirebbero al superamento dell’attuale bicameralismo perfetto e paritario.
D’altro lato, però, il Senato viene espressamente disegnato come sottratto all’indirizzo
politico di maggioranza e gli strumenti di cui il Primo Ministro può disporre per ridurre una
Camera recalcitrante a più miti consigli (scioglimento e questione di fiducia, e soprattutto minaccia
degli stessi) sono quasi del tutto assenti al Senato. Se a ciò si aggiunge che il già citato art. 70.2
delinea un inedito procedimento legislativo a prevalenza senatoriale, si ha il quadro di un settore
rilevante delle politiche pubbliche sottratto al potere di guida (e di ricatto) del Primo Ministro.
Non è chiaro, però, quale possa essere l’effetto di un simile assetto e, ciò che è peggio, ciò
non sembra essere chiaro nemmeno ai sostenitori della riforma. Quest’ultima appare sul punto
schizofrenica: si spinge troppo in là nel definire i poteri del Primo Ministro, andando oltre il
necessario e il ragionevole; e al tempo stesso crea un Senato che di federale ha poco più che il
nome, ma che è investito del potere di delineare un suo indirizzo, del tutto slegato da quello della
maggioranza della Camera e del Primo Ministro. D’altro canto queste osservazioni partono
dall’idea che il Senato possa essere “qualcosa d’altro” rispetto alla maggioranza della Camera, ma
ciò non è chiaro dal disegno di legge, che si affida a meccanismi complessi e inediti, come la
contestualità dell’elezione del Senato con quella dei Consigli regionali, che non è possibile sapere se
determinerà una regionalizzazione del Senato o, più probabilmente, una nazionalizzazione delle
dinamiche dei Consigli regionali, specie se si considera che il ddl n. 2544 si muove nella prospettiva
di tenere le elezioni regionali in un’unica data per tutto il Paese (come ben si vede dall’art. 60.4).
11. Premierato e Presidente della Repubblica
Anche la posizione del Presidente della Repubblica è delineata in modo nuovo. Le novità
principali non riguardano tanto il modo di elezione, che è in continuità con quello attuale,
malgrado il cambio di alcuni nomi (Assemblea della Repubblica anziché Parlamento in seduta
comune), che dovrebbe riflettere un accresciuto peso della rappresentanza regionale (e la presenza
di qualche rappresentante delle autonomie locali), non però tale da alterare in maniera decisiva i
rapporti di forza nelle Camere, quanto i poteri di “arbitrato” del Presidente della Repubblica. Da un
lato la discrezionalità presidenziale finisce per scomparire nei due atti oggi più importanti: il potere
di nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri (con la sola eccezione del già citato caso del
Premier di minoranza, in cui il Presidente della Repubblica potrebbe recuperare margini di
discrezionalità) e, soprattutto, lo scioglimento delle Camere (21). D’altro lato, però, il Presidente
acquisirebbe importanti poteri di nomina (del vicepresidente del CSM; dei Presidenti delle autorità
indipendenti) e soprattutto l’esplosivo (almeno in potenza) potere di arbitrato sulle questioni di
interesse nazionale (art. 127). Il Presidente acquisirebbe poi in esclusiva il potere di grazia, che
verrebbe imprudentemente sottratto a controfirma ministeriale, e si vedrebbe riconosciuta
l’esclusiva titolarità di una serie di atti presidenziali per i quali verrebbe espressamente esclusa
dall’art. 89.3 la controfirma ministeriale. La scelta di enumerare gli atti sottratti a controfirma
appare condivisibile alla luce delle Costituzioni più recenti – le quali escludono la controfirma per
gli atti presidenziali propri (22) – con la sola eccezione della già citata scelta compiuta in materia di
grazia, che appare troppo condizionata dalle polemiche di questi mesi sul caso Sofri.
12. Alcuni raffronti: l’Atto Senato n. 2544 e il “testo A” dell’articolato Salvi
Descritto in questi termini il contenuto del progetto, occorre ora procedere ad alcune
sintetiche valutazioni complessive.
Un raffronto deve essere anzitutto operato con il “testo A” dell’articolato Salvi, presentato il
28 maggio 1997 dal relatore sulla forma di governo Cesare Salvi alla Commissione bicamerale
presieduta dall’on. D’Alema nella XIII legislatura e respinto (optando per il modello
semipresidenziale) nella seduta del 31 maggio 1997. Le analogie della forma di governo delineata
nell’A.S. 2544 con il “testo A” sono infatti molteplici e ad esse si fa ricorso da parte di esponenti del
centro-destra per sostenere la strumentalità delle critiche degli esponenti dell’attuale opposizione
al “premierato assoluto” (23). L’analogia di maggiore rilievo sta nell’attribuzione al Primo Ministro
del potere di proporre lo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica, secondo il
modello spagnolo; ma il “testo A” prevedeva che il potere di scioglimento era destinato a cedere di
fronte alla presentazione di una mozione di sfiducia costruttiva (24) e che il Primo Ministro poteva
presentare la proposta di scioglimento solo previo parere del Consiglio dei Ministri: di nessuno di
tali accorgimenti vi è traccia nell’A.S. 2544. Ulteriori analogie erano rappresentate dall’indicazione
del Primo Ministro (25) e dal potere di nomina e revoca dei ministri, che anche nel “testo A” era
attribuita in solitario al Primo Ministro (26). Sulle altre incisive misure di razionalizzazione
delineate nel progetto di legge costituzionale approvato il 25 marzo 2004 vanno invece registrate
significative differenze: non vi era traccia nel “testo A” della questione di fiducia con minaccia di
21 Scomparirebbe, inoltre, il potere del Presidente di autorizzare la presentazione alle Camere dei disegni di legge
di iniziativa governativa.
22 Così ad es. la Costituzione francese del 1958 (art. 19), la Legge fondamentale di Bonn del 1949 (art. 58) e la
Costituzione della Repubblica ceca del 1992 (art. 62 e 63).
23 In questo equivoco cade a mio avviso anche G. SARTORI, Verso una Costituzione incostituzionale?, laddove
afferma che il testo A introduceva il premierato elettivo all’israeliana, che oggi viene ripreso dall’A.S. 2544.
24
Cfr.
l’art.
3,
1°
comma,
del
testo
A
(vedilo
in
http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/rifcost/ressten/sed028al.htm).
25 Stabiliva infatti l’art. 1, 2° comma, del testo A: “La candidatura alla carica di Primo ministro avviene mediante
collegamento con i candidati all'elezione del Parlamento, secondo le modalità stabilite dalla legge elettorale, che assicura
altresi la pubblicazione del nome del candidato Primo ministro sulla scheda elettorale” (vedilo
inhttp://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/rifcost/ressten/sed028al.htm).
26 Art. 2, 2° comma (cfr. http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/rifcost/ressten/sed028al.htm).
scioglimento (27) e la mozione di sfiducia non era connessa all’automatismo dello scioglimento
anticipato, ma era configurata come una mozione di sfiducia costruttiva simile a quella tedesca e
spagnola (28). E queste ultime due differenze non sono affatto marginali, in quanto si innestano su
elementi comuni che segnerebbero già un notevole rafforzamento della posizione costituzionale del
governo e una tutela forte della stabilità dell’esecutivo: in fondo si può dire che fra le due opzioni
passa la differenza fra il premierato “forte” (29) e il premierato “assoluto”.
13. Régime parlementaire adieu?
Detto in altri termini: gli strumenti previsti per rafforzare il Governo ed il Premier nell’Atto
Senato 2544 (indicazione del Primo Ministro; potere di scioglimento attribuito al Premier; potere
di nomina e revoca dei ministri; scioglimento automatico in caso di sfiducia e semi-automatico in
caso di dimissioni, morte e impedimento permanente; questione di fiducia con minaccia di
scioglimento) sono pericolosi non considerati singolarmente, ma nel loro insieme. Ad essi poi
vanno aggiunti i meccanismi di razionalizzazione già operanti: l’interpretazione del regolamento
della Camera cristallizzatasi sotto la Presidenza Violante nella XIII legislatura; il sistema elettorale
prevalentemente maggioritario; la bipolarizzazione del sistema politico.
L’intreccio di tutti questi meccanismi rischia di essere micidiale e di far fuoruscire del tutto
dal calco “parlamentare” la forma di governo italiana. Si costruirebbe così un sistema di governo in
cui il Primo Ministro sarebbe più forte del Presidente degli Stati Uniti (che non è eletto come
leader di una maggioranza parlamentare (30) e non può porre la questione di fiducia, né può
sciogliere le Camere); più forte del Presidente e del Primo Ministro francesi (per l’assenza di
contrappesi come il ricorso delle minoranze parlamentari alla Corte costituzionale, di cui non a
caso non v’è traccia nel debole “statuto dell’opposizione” abbozzato dall’art. 64.4) (31); più forte del
L’art. 6 si limitava a stabilire che “Il Primo ministro può chiedere che un disegno di legge del Governo sia
votato entro una data determinata, secondo le modalità stabilite dal regolamento parlamentare” (cfr.
http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/rifcost/ressten/sed028al.htm).
27
28 Stabilivano i commi 3, 4 e 5 dell’art. 3: “ (3) Il Parlamento può esprimere la sfiducia al Primo ministro
mediante l'approvazione di una mozione, che deve contenere la designazione di un nuovo Primo ministro, con votazione
per appello nominale, a maggioranza assoluta dei suoi componenti. (4) La mozione di sfiducia deve essere sottoscritta da
almeno un terzo dei componenti il Parlamento e non può essere messa in discussione prima che siano trascorsi tre giorni
dalla presentazione. (5) Il Presidente della Repubblica nomina Primo ministro la persona designata nella mozione entro
cinque giorni dall'approvazione.” (cfr. http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/rifcost/ressten/sed028al.htm). Sul testo
A dell’articolato Salvi rinvio a quanto riportato nei contributi da me curati nel volume V. ATRIPALDI, R. BIFULCO, La
Commissione parlamentare per le riforme costituzionali della XIII legislatura, Giappichelli, Torino, 1998, passim,
specie p. 217, 237, 265.
29 Altre proposte nel senso del premierato “forte”, ma non assoluto, erano contenute nel Rapporto Maccanico:
cfr. A. MACCANICO, Rapporto sulle questioni istituzionali, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 2000, p. 33 ss..
30 Ne erano privi, ad es., Ronald Reagan e Gorge Bush sr. e, dal 1995 al 2001, Bill Clinton.
31 Dissento, anche se solo in parte, dall’opinione che il sistema semipresidenziale francese sia più bilanciato del
sistema delineato dall’atto Senato n. 2544 (così S. CECCANTI, Se difendere il mattarellum significa sragionare, in Il
riformista, 2.3.2004, leggibile anche sul sito www.astridonline.it). E’ vero, infatti, che il sistema semipresidenziale è più
sbilanciato del “premierato” spagnolo o tedesco, ma il sistema delineato dall’Atto Senato n. 2544, pur apprezzabile per
aver evitato la strada semipresidenziale, che avrebbe disperso la razionalizzazione prodottasi nello scorso decennio,
appare molto diverso, per la combinazione di poteri del Premier che prevede, rispetto alle forme tradizionali di
“premierato”: mentre queste ultime sono casi di regime parlamentare, quella delineata nell’Atto Senato n. 2544 non lo è,
come provo a spiegare nel testo. A mio avviso i fraintendimenti cui la posizione di Ceccanti su questi problemi da luogo
dipende dalla ambigua nozione di “forma di governo neoparlamentare”, qui chiamata “premierato”, e nella quale si tende
Premier israeliano eletto direttamente negli anni 1996-2001 (era infatti necessaria una sorta di
fiducia iniziale (32); il potere del Premier di sciogliere la Kneseth era subordinato all’assenso del
capo dello Stato (33) mentre le due dimissioni determinavano unicamente nuove elezioni “speciali”
per il solo Premier (34) e non lo scioglimento della Kneseth; quest’ultima era poi eletta con il
sistema proporzionale e il Premier non aveva facoltà di ricorrere ad una questione di fiducia con
voto bloccato come quella delineata nell’art. 94.2) e, ovviamente, ben più forte del Presidente del
Governo spagnolo, del Cancelliere tedesco e del Primo ministro svedese, i quali possono essere, a
certe condizioni, disarcionati dalla loro maggioranza e, in taluni casi, anche da una maggioranza
parlamentare diversa (35).
Rimane certo il confronto con il “modello Westminster”, cioè con il sistema parlamentare
praticato in Gran Bretagna e in alcuni Paesi del Commonwealth che ne riproducono gli assetti
istituzionali (Australia, Canada, Nuova Zelanda, quest’ultima almeno sino all’introduzione del
sistema proporzionale). Ma anche qui vi sono almeno due importanti differenze. La prima è il ruolo
di check rappresentato da quello che in tali sistemi è anche il punto di forza della posizione del
Primo Ministro, ovvero il suo stesso partito: quest’ultimo ne è solo fino ad un certo punto docile
strumento; per altri aspetti ne è anche il controllore e, in casi estremi, esercita la facoltà stessa di
sostituire il leader del Partito, sia egli Primo Ministro (36), sia egli capo dell’opposizione (37). La
facoltà di sostituire il Premier verrebbe invece fortemente limitata dall’Atto Senato n. 2544 ai casi
di cui agli art. 92.4 e 88.2, che danno forma giuridica a questa stessa facoltà in un sistema bipolare
ma multipartitico, con esiti che non sono affatto coincidenti. La sostituzione del Premier da parte
della sua maggioranza rischia di diventare impossibile nel sistema che si sta tentando di introdurre
in Italia e ciò è quasi paradossale se si considera l’attuale deficit di legittimazione democratica dei
processi di selezione delle candidature (alla carica di Primo Ministro, ma anche a quelle di
– a mio avviso erroneamente – ad assimilare forme di regime parlamentare razionalizzato e modelli di governo di
legislatura con elezione diretta o con il meccanismo sfiducia-scioglimento.
32 Si v. gli art. 3 lett. c) e 14 lett. a) della Legge fondamentale israeliana del 1992.
33 Art. 22 della Legge fondamentale israeliana del 1992.
34 Art. 15, 23 lett. c), 24, 26 lett. d), 27 lett. e) e 28 della Legge fondamentale israeliana del 1992.
35 Come esempi di cambi di maggioranza in corso di legislatura si possono ricordare:
a) in Spagna le dimissioni imposte nel 1981 al Presidente del Governo e leader dell’Unione del Centro
democratico Adolfo Suarez nel 1981, con sua successiva sostituzione da parte del compagno di partito Leopoldo Calvo
Sotelo;
b) in Germania la sostituzione di Adenauer con Erhard a metà legislatura nel 1963, di Erhard con Kiesinger nel
1966 (in questo caso cambiò anche la coalizione, poiché ad un governo democristiano-liberale subentrò una grande
coalizione fra democristiani e socialdemocratici) e di Schmidt con Kohl nel 1982 (a seguito di una mozione di sfiducia
costruttiva con cui una coalizione fra democristiani e liberali sostituì una coalizione fra socialdemocratici e liberali);
c) in Svezia si segnalano vari casi di sostituzione “volontaria” del Premier in corso di legislatura (Palme al posto
di Erlander nel 1969; Persson al posto di Carlsson nel 1996) due sostituzioni del Premier deceduto (Erlander al posto di
Hansson nel 1946 e Carlsson al posto di Palme nel 1986). Questi sono però casi che sarebbero possibili anche alla luce
dell’art. 92.4 delineato nell’A.S. 2544. Crisi di governo in corso di legislatura ebbero invece luogo fra il 1976 e il 1992,
durante il periodo delle c.d. coalizioni “borghesi”. La stabilità dei governi svedesi è infatti dovuta alla combinazione di
alcune tecniche del parlamentarismo negativo con la solidità del partito socialdemocratico, che ha sempre governato dal
1932 ad oggi, con l’eccezione di due brevi periodi (1976-82 e 1991-94). Per qualche approfondimento rinvio a M.
OLIVETTI, La forma di governo svedese: il parlamentarismo negativo razionalizzato, in Studi in onore di S. Galeotti,
Giuffrè, Milano, 1998, p. 943 ss.
36 L’ultimo caso di sostituzione del Primo Ministro alla leadership del suo partito è quello che si è verificato il 12
dicembre 2003 in Canada, ove l’ex ministro delle Finanze Paul Martin è subentrato al Primo Ministro Jean Chretien
(vincitore di ben tre elezioni generali consecutive) alla guida del Partito liberale.
deputato e senatore, così come a quelle di capo di governo o di membro di un consiglio a livello
comunale, provinciale e regionale), che – come è noto – è affidata quasi in esclusiva a partiti e
coalizioni, i quali riproducono al loro interno (sia pure in misura diversa) deficit democratici che
sono invece assenti (o almeno molto più ridotti) nei partiti anglosassoni.
14. Un sistema squilibrato
E’ dunque l’assenza di un equilibrio complessivo il limite più preoccupante della forma di
governo proposta nell’Atto Senato n. 2544. I rimedi proposti ai ben noti mali del sistema di
governo italiano appaiono infatti al tempo stesso tardivi ed eccessivi.
Essi sono tardivi perché si continua a ragionare come se il decennio 1994-2004 non fosse
trascorso e come se la forma di governo italiana fosse ferma al parlamentarismo instabile degli anni
della proporzionale. Da allora, invece, molta acqua è passata sotto i ponti del nostro regime
parlamentare, al punto che si può ritenere che la promessa contenuta nell’ordine del giorno Perassi
sia oggi in parte realizzata (38). Certo, alcuni correttivi fra quelli proposti nel disegno di legge
costituzionale in discussione potrebbero essere utili a perfezionare questa evoluzione, ma
rimangono alcune incognite sul piano delle dinamiche del sistema politico che non è possibile
correggere con uno schiocco di dita, cioè con qualche ulteriore meccanismo di stabilizzazione.
Andrebbe invece percorsa la via della riforma del sistema dei partiti, anche se il ben noto paradosso
di Zagrebelsky (39) sulle riforme costituzionali trova qui un suo ulteriore campo di applicazione: i
partiti, che sarebbero i primi destinatari della cura riformista da adottare, sono i primi soggetti a
rifiutare la medicina e ad essere incapaci di curarsi.
I rimedi dell’iper-razionalizzazione sono inoltre eccessivi. Il cocktail di medicine proposte
rischia infatti di uccidere il paziente che si vuole curare e di produrre, invece dell’approdo sulle
agognate spiagge della seconda Repubblica, che dovrebbe essere la meta della transizione italiana
(40), la nascita di un Secondo Impero, in cui il dominio dell’Esecutivo svuoti non solo gli equilibri
fra gli organi costituzionali, ma anche i meccanismi di garanzia, che male vivono in un sistema
squilibrato (41).
A ciò si aggiungano gli altri elementi di squilibrio del nostro sistema costituzionale. Il primo
è il ben noto “fattore B”, cioè la formidabile concentrazione di potere politico, economico e
mediatico nelle mani dell’attuale Presidente del Consiglio, che costituisce il pendant del “fattore K”
37 L’ultimo caso di sostituzione del leader del Partito di opposizione a seguito di una sfida lanciata dall’interno
del Partito si è verificato nell’ottobre 2003 ai danni di Ian Duncan Smith, cui è subentrato Michael Howard.
38 Per l’ordine del giorno Perassi (presentato il 4 settembre 1946 nella II sottocommissione per la Costituzione e
approvato il giorno seguente) si v. CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei
lavori preparatori della Assemblea costituente, vol. VII, Roma, 1970, p. 917 (per l’approvazione, p. 944). Al tempo stesso
si può dire che gli obiettivi dell’ordine del giorno Perassi (la stabilità di governo; evitare le degenerazioni del
parlamentarismo) ben si prestano a circoscrivere l’azione riformatrice ancor oggi utile.
39 G. ZAGREBELSKY, Adeguamenti e cambiamenti della Costituzione, in Studi in onore di Vezio Crisafulli, vol. I,
Cedam, Padova, 1985.
40 Condivido però l’analisi proposta in questo seminario da G. Amato, il quale ha ricordato come le istanze di
svolta del 1993 non erano riducibili alla sola stabilità di governo, ma anche ad esigenze e forme nuove di partecipazione.
degli anni della Repubblica proporzionalistica e che è decisivo per spiegare le dinamiche della fase
attuale più o meno come il “fattore K” lo era per gli anni 1945-89. Il controllo di ampie risorse
economiche da parte di un attore politicamente decisivo e lo squilibrio del sistema dei media fanno
da sfondo al sistema che l’atto Senato n. 2544 propone di introdurre e squilibrano ulteriormente il
quadro determinando una concentrazione di poteri che rischia di non avere pari nei Paesi
dell’occidente democratico. Il secondo è la crisi dei contrappesi che la nostra Costituzione delinea:
il Presidente della Repubblica, che verrebbe fatto oggetto di una vera e propria “castrazione
costituzionale” dei suoi poteri più incisivi; la Corte costituzionale, che rimane al di fuori delle
garanzie del sistema politico (basti pensare all’art. 66, terreno di pesanti violazioni del diritto
scritto e della prassi costituzionale nella presente legislatura (42)); e il referendum abrogativo,
ormai neutralizzato con la tecnica dell’invito a non votare e che la riforma in esame si guarda bene
dal tentare di rianimare rivedendone il quorum lungo linee proposte autorevolmente in dottrina
(43).
Si è autorevolmente evidenziato il rischio che la riforma voluta dal II governo Berlusconi
porti l’Italia in un assetto ormai estraneo alla tradizione dei limiti al potere di governo propria del
costituzionalismo liberal-democratico (44). Certo tale valutazione può sembrare eccessiva e molto
dipenderà in concreto da chi si troverà a manovrare il veicolo costituzionale che è stato costruito
sulla base del lavoro dei sedicenti saggi di Lorenzago. Ma sin d’ora si può convenire che si è in
presenza di un veicolo con un motore troppo pesante, che rischia di sfondarlo e troppo potente,
senza che vi sia un adeguato sistema di frenaggio. Si tratterebbe di un sistema piuttosto singolare
se analizzato in prospettiva comparata. Non più parlamentare (visto che la Camera non può
sfiduciare il governo senza produrre al tempo stesso il proprio suicidio istituzionale), non ancora
presidenziale (per la presenza di poteri di “governo in Parlamento” sconosciuti alla tradizione del
presidenzialismo democratico statunitense) e distante anche dagli altri modelli conosciuti
(direttoriale, semipresidenziale, elezione diretta del Primo Ministro). Un vero e proprio
unidentified political object (45), per il quale può essere utile la nota definizione proposta da
Pufendorf dell’Impero Germanico: “…esse irregulare aliquod corpus, et tantum monstro simile»
(46).
41 Come dimostra la storia dei sistemi presidenziali latino-americani almeno sino ad un decennio fa. In questi
sistemi il superpotere del Presidente ha tradizionalmente svuotato sia gli apparenti contrappesi, sia le garanzie e i diritti
dei cittadini, pur doviziosamente enumerati dalle Costituzioni latino-americane.
42 Ci si riferisce ai ben noti casi dei c.d. “seggi fantasma” (su cui v. ora L. SPADACCINI, Regole elettorali e integrità
numerica delle Camere. La mancata assegnazione di alcuni seggi alla Camera nella XIV legislatura, Promodis Italia
editrice, Brescia, 2003) e dell’ineleggibilità sopravvenuta di deputati eletti sindaci (su cui cfr. G. RIVOSECCHI, Recenti
tendenze in tema di verifica dei poteri: prima l’ineleggibilità sopravvenuta veniva tramutata in incompatibilità, ora
invece scompare!, in Forum di Quaderni costituzionali, sul sito web www.unife.it/progetti/forumcostituzionale.
43 Basti citare A. BARBERA, A. MORRONE, La Repubblica dei referendum, Il Mulino, Bologna, 2003.
44 In questo senso gli interventi di L. ELIA e G. SARTORI nel già citato volume ASTRID, Costituzione. Una riforma
sbagliata, p. 363 ss. e 269 ss..
45 Riprendo, per applicarla alla forma di governo in esame, la definizione ironica dell’Unione europea proposta
da P.C. SCHMITTER, Come democratizzare l’Unione europea e perché, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 10.
46 SEVERINUS DE MONZAMBA VERONENSIS, De statu imperii germanici liber unus, Genevae, 1667, cap. VI par. 9
(sotto tale pseudonimo si celava, com’è noto, il Pufendorf).
15. Post scriptum. Il parziale riequilibrio di un sistema squilibrato. Dal “premierato
assoluto” al “premierato a maggioranza ingessata”.
Come si diceva all’inizio, per quanto riguarda la forma di governo, il disegno di legge di
riforma della seconda parte della Costituzione italiana, approvato al Senato il 25 marzo 2004, è
stato sensibilmente modificato dalla Camera dei deputati nella versione che ha ottenuto luce verde
dall’Assemblea il 15 ottobre scorso (47). A fronte di tali modificazioni, occorre tornare a porsi le
domande sulla idoneità dei suoi contenuti negli aspetti qualificanti di esso. In particolare occorre
chiedersi che ne sia del “premierato assoluto” che caratterizzava il testo presentato dal Governo al
Senato nel settembre scorso (e solo in parte modificato dall’Assemblea di Palazzo Madama): si può
ritenere che l’abnorme concentrazione di poteri nel Primo Ministro che caratterizzava il testo
partorito dai sedicenti “saggi” di Lorenzago contraddistingua ancora la riforma nella sua versione
attuale? La risposta a questa domanda richiede una risposta articolata, capace di andare oltre le
valutazioni entusiastiche o apocalittiche che hanno avuto la prevalenza nei media all’indomani
dell’approvazione parlamentare. Vediamo allora le principali modificazioni apportate al progetto
dall’Assemblea di Montecitorio, per la parte relativa alla forma di governo.
A) La prima innovazione attiene alla formazione dell’Esecutivo. Rimane ferma l’espressa
previsione della candidatura alla carica di Primo Ministro, che deve avvenire in occasione delle
elezioni per la Camera dei deputati. Secondo l’art. 92.2 all’indomani delle elezioni, il Presidente
della Repubblica deve nominare il nuovo Premier sulla base dei risultati elettorali. Il nuovo Primo
Ministro acquisisce il potere di nominare e di revocare i ministri (art. 95) e dovrebbe presentarsi
alla Camera (solo davanti a questa, non al Senato) per esporre il proprio programma di governo
(art. 94.1). Tale esposizione – e qui sta l’elemento di novità – verrebbe seguita da un voto di
approvazione della Camera, riferito però al solo programma e non alla composizione dell’Esecutivo
(art. 94.1). Ricompare pertanto una specie di voto di fiducia iniziale, anche se configurato come
mera approvazione del programma e non della composizione dell’Esecutivo. Si tratterebbe pertanto
di un voto di fiducia iniziale ad oggetto delimitato, che però potrebbe recuperare un ruolo per la
Camera nella nascita dell’esecutivo, con un potere di codecisione sul programma di governo. Non è
però chiaro se ciò possa bastare ad eliminare il possibile inconveniente dell’eventuale assenza di
una maggioranza parlamentare iniziale, e quindi della necessità di formare un Esecutivo di
minoranza. La necessaria approvazione del programma di governo da parte della Camera
ridimensionerebbe la natura minoritaria di tale Esecutivo, anche se rimane il fatto che ad esso (che
potrebbe vedersi confermare il programma con il voto della sola maggioranza relativa della
Camera) si applicherebbero poi i meccanismi di stabilizzazione che si vedranno fra breve (e che si
sono già in parte sopra delineati).
B) Per quanto riguarda la vita del governo, il progetto di riforma si ispira a tre finalità:
garantire la durata dell’Esecutivo per tutta la legislatura, salve limitate eccezioni; cristallizzare la
47 Su questo testo si v. da ultimo le osservazioni di A. Barbera e di C. Fusaro nel Forum online della rivista
Quaderni costituzionali.
maggioranza nella sua composizione uscita dalle urne; riconoscere al Governo ampi poteri di
direzione del lavoro legislativo della Camera.
L’ispirazione del governo di legislatura è visibile nelle disposizioni volte ad evitare le crisi
di governo e a riconnettere ad esse conseguenze talmente gravi da dissuaderne l’apertura. La
conseguenza delle dimissioni volontarie del Primo Ministro, della sua morte o impedimento
permanente, così come del voto di sfiducia è lo scioglimento anticipato della Camera, secondo
quanto risulta dal riformulato art. 88. Allo stesso modo, il Premier può chiedere al Capo dello Stato
lo scioglimento della Camera in qualsiasi momento. In tutti questi casi (con la sola eccezione della
mozione di sfiducia “secca”, di cui all’art. 94.3, la cui approvazione ha come conseguenza lo
scioglimento automatico della Camera) lo scioglimento può essere evitato se entro venti giorni
dall’evento la Camera approva una mozione contenente l’indicazione del nuovo Primo Ministro e
alla condizione che la maggioranza richiesta per l’approvazione della mozione sia raggiunta
esclusivamente con il voto di deputati che componevano la maggioranza parlamentare iniziale (art.
88.2). Dunque la crisi di governo può essere superata all’interno della legislatura solo a condizione
che la maggioranza rimanga immutata, mentre le variazioni alla maggioranza che sostiene
l’esecutivo sono ammesse solo nella misura del superfluo, ovvero di quanto superi la metà più uno
dei membri della Camera.
C) Viene qui in questione il secondo tratto caratterizzante del rapporto fra Governo e
Parlamento durante la vita dell’Esecutivo: la maggioranza iniziale, quella uscita dalle elezioni, è
necessariamente ingessata; nelle votazioni fiduciarie essa può contrarsi, ma senza mai scendere al
di sotto della maggioranza assoluta della Camera; ogni apporto dall’esterno è invece precluso. Non
solo lo scioglimento può essere evitato, nei casi sopra indicati, esclusivamente con l’elezione di un
Premier all’interno della maggioranza iniziale, ma regole analoghe valgono per altri due casi: la
mozione di sfiducia può essere costruttiva anziché semplice a condizione che la maggioranza che la
approva sia ancora una volta composta all’interno di quella iniziale (art. 94.5); la stessa cosa vale
per la questione di fiducia posta dal Primo Ministro, che si intende concessa solo se la maggioranza
che approva la richiesta del Premier è quella iniziale (art. 94.5). In tal modo si intende evitare il
trasformismo non solo della maggioranza parlamentare, ma anche del Premier. Quest’ultima
innovazione, introdotta alla Camera, riequilibra leggermente il rapporto fra Governo e Parlamento
in favore del secondo: ora non è solo la Camera ad essere astretta nei vincoli della maggioranza
ingessata, ma anche il Primo Ministro, che non può procedere alla sostituzione in corsa di pezzi
della sua maggioranza con contributi provenienti dall’opposizione. Deve allora riconoscersi che,
ferme le critiche esposte sopra (e riprese di seguito) all’ingessamento della maggioranza, questa
correzione appare opportuna perché limita la discrezionalità del Primo Ministro in modo eguale e
speculare a quello in cui è limitata la discrezionalità della Camera.
Egualmente positiva è la previsione, accanto alla mozione di sfiducia “secca” prevista
dall’art. 94.3, di una mozione di sfiducia costruttiva (art. 94.5). Mentre la prima produce
inevitabilmente lo scioglimento automatico della Camera, la seconda, se approvata con i voti della
maggioranza parlamentare iniziale e se riferita al proseguimento nell’attuazione del programma
iniziale, obbliga il Presidente della Repubblica a nominare Primo Ministro il candidato in essa
indicato. In tal modo, la Camera recupera uno strumento di indirizzo dell’azione dell’Esecutivo che
le consente di sostituire il proprio Premier all’interno del proprio seno. Rimane comunque la
scarsa praticabilità dell’istituto, che è minore quanto più risicata è la maggioranza iniziale:
paradossalmente, infatti, un Esecutivo con una larga maggioranza parlamentare iniziale potrebbe
essere sostituito più facilmente di un esecutivo sostenuto all’inizio da una maggioranza ristretta. Se
quest’ultima fosse, poniamo, di due deputati, basterebbe al Premier controllare due deputati per
impedire la sfiducia a suo danno (essa, infatti, produrrebbe come conseguenza lo scioglimento
della Camera) e per esercitare più liberamente il potere di scioglimento.
D) La terza particolarità riguarda i cosiddetti poteri del “governo in Parlamento”. Si tratta
di poteri volti a consentire all’esecutivo il controllo dell’agenda legislativa e, attraverso questo,
l’attuazione del programma su cui ha ottenuto, unitamente alla sua maggioranza, l’investitura
popolare (e parlamentare). La riforma riconoscerebbe la corsia preferenziale per i progetti di legge
presentati dal Governo e il diritto che essi siano approvati entro una data determinata (art. 72.5, 1.
frase); il Primo Ministro può poi fare ricorso al voto bloccato, ovvero chiedere che la Camera si
pronunci, articolo per articolo, su un disegno di legge nella forma indicata dal Governo stesso
(escludendo quindi in radice l’emendabilità del testo “bloccato”: v. art. 72.5, 2. frase); infine, il
Primo Ministro può porre la questione di fiducia (ora espressamente denominata come tale) su un
testo all’esame della Camera, nelle forme previste dal regolamento di questa, con l’esclusione delle
leggi costituzionali (art. 94, 2° comma).
Si è così proceduto a separare la questione di fiducia dal voto bloccato e a ricondurla
nell’alveo della disciplina del regolamento della Camera, che è dunque abilitato a circoscriverla e a
delimitarne la portata, in maniera simile a quanto accade oggi. La provvidenziale esclusione delle
leggi costituzionali contiene poi un elemento di chiarezza, che esclude dall’indirizzo governativo ciò
che per definizione non può rientrarvi. Inoltre, in caso di rigetto della questione di fiducia da parte
della Camera (o di approvazione di essa con una maggioranza diversa da quella iniziale), il Premier
deve dimettersi e, diversamente dal testo presentato al Senato, non si ha più lo scioglimento
automatico della Camera, ma si applicano le regole generali viste sopra sulle conseguenze delle
dimissioni dell’Esecutivo.
Occorre riconoscere che tutte le modifiche qui accennate sono migliorative. Quella che nel
testo presentato al Senato nel settembre 2003 era parsa a molti l’arma nucleare nei rapporti Primo
Ministro/Camera è stata in parte disinnescata. Rimane tuttavia il fatto che, con lo scioglimento
semiautomatico della Camera nei casi di crisi (e quindi anche nel caso di crisi aperta dal rigetto di
una questione di fiducia) le condizioni che consentono di proseguire il cammino della legislatura
appaiono oltremodo difficili. Ciò non sarebbe di per sé criticabile se strumenti costituzionali di
questo tipo (la questione di fiducia come il potere di scioglimento) pesassero nella dinamica della
forma di governo non solo per il loro effettivo utilizzo, ma anche per l’effetto deterrente della
minaccia di farvi ricorso. Il rischio che la questione di fiducia (istituto ben noto nel nostro
ordinamento), trasfigurata all’interno di un sistema di governo di legislatura, possa imbavagliare il
Parlamento, rimane un rischio elevato. Al riguardo può essere utile ricordare che proprio uno dei
sistemi parlamentari correntemente considerati fra i meglio funzionanti in Europa (e spesso
ricordati dagli aspiranti riformatori) – quello spagnolo – consente la questione di fiducia solo nella
sua forma “astratta”, ovvero come strumento in mano al Governo per ottenere la conferma della
fiducia della Camera, e non nella forma “concreta” (nota nella nostra esperienza parlamentare e
richiamata dall’art. 94, come modificato dal progetto in commento), ovvero come strumento per
ottenere l’approvazione di una misura determinata.
Si deve fra l’altro osservare che questo sistema di regole farebbe scomparire dalla dinamica
della forma di governo italiana uno dei suoi tratti più caratteristici: le crisi di governo
“extraparlamentari”. Queste ultime, infatti, potrebbero sopravvivere nella forma delle crisi aperte
dalle dimissioni “spontanee” del Primo Ministro (nonché nei casi di morte o impedimento
permanente dello stesso), ma la crisi così apertasi avrebbe due esiti possibili: una
parlamentarizzazione successiva per l’elezione del nuovo Premier (alle condizioni precisate dall’art.
88 Cost.) o lo scioglimento necessario della Camera.
E) Il quadro così sintetizzato va completato ricordando alcuni ulteriori poteri riconosciuti al
governo per regolare il procedimento legislativo fra Camera e Senato.
Il Premier può chiedere al Presidente della Repubblica l’autorizzazione a dichiarare che un
disegno di legge è “essenziale” ai fini della realizzazione del suo programma di governo, con la
conseguenza che, in tal caso, il disegno di legge può essere approvato dalla Camera anche contro la
volontà del Senato (nelle ipotesi in cui, normalmente, l’ultima parola spetterebbe alla Camera alta:
art. 70, 4° comma).
Si tratta di uno strumento fortemente criticabile, per due ragioni.
La prima è l’alterazione che essa produrrebbe nelle regole sul procedimento legislativo in un
sistema bicamerale che diverrebbe – a differenza di oggi – imperfetto: al riguardo meccanismi di
questo tipo ingenerano solo confusione. Si aggiunga che il ricorso a questa procedura rischia di
divenire la regola e non più l’eccezione in casi in cui le due Camere abbiano maggioranze diverse.
Sarebbe invece necessario scrivere un po’ meglio le regole sul procedimento legislativo, nelle quali
si vede un grado di sciatteria e di inutile complicazione che sarebbe agevolmente superabile pur
mantenendo fermi gli intenti cui i sostenitori del disegno di legge costituzionale si ispirano.
La seconda è il coinvolgimento del Presidente della Repubblica nella valutazione circa la
pertinenza di una misura all’esame del Senato al programma di governo: si tratta infatti di una
valutazione squisitamente politica, a meno di non immaginare una formalizzazione del programma
governativo iniziale, che rischierebbe di divenire non più un “contratto con gli italiani”, ma una
sorta di capitolato d’appalto, con migliaia di clausole, che però subirebbero un inevitabile
invecchiamento nel corso della legislatura (la cui durata attuale, di 5 anni, viene confermata nel
progetto).
E’ invece apprezzabile che l’utilizzazione di questo strumento procedurale sia stata
sganciata dal necessario ricorso alla Camera alla questione di fiducia, che avrebbe incentivato il
ricorso a quest’ultima, riducendo al minimo la dialettica parlamentare.
F) Quale valutazione dare di questo complesso sistema? Appare piuttosto difficile
confermare oggi integralmente il giudizio espresso un anno fa da Leopoldo Elia e continuare a
qualificare come assoluto il premierato che esce dalla Camera e che sembrava permanere tale
ancora nella versione approvata a marzo dal Senato. In effetti una serie di meccanismi di
riequilibrio (sfiducia costruttiva, accanto a quella secca; ristrutturazione della questione di fiducia;
limiti al trasformismo del Premier) ridimensiona almeno in parte l’assolutezza del premierato, o,
quantomeno, fa passare questo profilo – che rimane potenzialmente presente – in secondo piano
rispetto ad altri tratti caratteristici.
Ciò non muta però la valutazione, che rimane complessivamente negativa, sul progetto.
E ciò per tre ragioni.
In primo luogo al Premierato assoluto è subentrato un “Premierato a maggioranza
ingessata”. L’intento antiribaltonista è evidente e in sé lodevole, ma le disposizioni cui si fa ricorso
introducono un sistema troppo rigido: non è un caso che regole simili non vengano scritte da
nessuna parte in Europa. Anche nel sistema più simile a quello della riforma voluta dalla Casa delle
Libertà, quello inglese, ci si guarda bene dallo scrivere regole simili e quindi dal cristallizzarle.
L’iper-razionalizzazione che caratterizza il progetto vorrebbe scrivere le regole di un sistema neoparlamentare: ma in tutti i Paesi nei quali il regime parlamentare funziona con modalità simili a
quelle che i riformatori hanno di mira non si procede a irrigidirne le dinamiche in tal modo. Una
Costituzione simile nasce miope, incapace di guardare lontano, e rischierebbe di divenire inadatta
se il panorama politico-istituzionale mutasse rispetto all’assetto attuale. Molto meglio sarebbe
invece affidarsi a meccanismi un po’ più flessibili, come la valutazione del Presidente della
Repubblica sulla corrispondenza fra maggioranza iniziale e maggioranza sfiduciante successiva
(come si prospetta negli emendamenti presentati dai deputati di centro-sinistra alla Camera) (48) o,
addirittura, affidare l’emersione delle dinamiche che il disegno di legge di riforma ha di mira alla
evoluzione delle prassi politiche, avviata, ma non ancora completata, nell’ultimo decennio.
In secondo luogo, la cristallizzazione della maggioranza parlamentare iniziale (dal testo essa
sembrerebbe essere quella composta dai deputati “collegati” al nuovo Primo Ministro)
sembrerebbe creare i presupposti per il superamento della democrazia rappresentativa per come
è nota al costituzionalismo uscito dalle rivoluzioni liberali del XVII e del XVIII secolo. La
48 Questa valutazione – che avrebbe un precedente nella Costituzione portoghese oggi in vigore, ed applicata sul
punto nell’estate scorsa per la sostituzione del Primo Ministro José Manuel Durao Barroso – sarebbe infatti confinata nei
casi limite di crisi della maggioranza, mentre quelle ipotizzate dal disegno di legge in commento (procedura per far valere
l’interesse nazionale; autorizzazione alla richiesta di dichiarare essenziale per il programma di governo un progetto di
legge che dovrebbe essere approvato in via definitiva dal Senato) trascinerebbero il Presidente nella ordinaria dialettica
politica. Per questo motivo, mentre l’arbitrato presidenziale nel caso-limite della decisione sullo scioglimento sarebbe
conforme alla logica di un Presidente garante super partes, l’arbitrato sull’interesse nazionale e sulla procedura
legislativa rischierebbe di fare del Presidente un attore (forse non più un arbitro) della politica day by day.
componente “plebiscitaria”, ravvisata da E. Fränkel (49) nei partiti politici già all’indomani della II
guerra mondiale e ritenuta allora in tensione con la democrazia rappresentativa classica, verrebbe
dotata di rilevanza giuridica formale ed acquisirebbe una chiara prevalenza rispetto all’idea della
rappresentanza senza vincolo di mandato. La maggioranza che traspare dal progetto di riforma
appare simile ad una truppa posta all’ordine di un generale-Premier, in un tentativo di surrogare il
declino dei partiti politici con un’irregimentazione della coalizione elettorale vincente (e,
indirettamente, di quella/e perdente/i) (50).
Infine, impressiona l’insieme dei poteri posti in mano al Primo Ministro (si badi bene: al
Premier come organo monocratico e non al governo come organo collegiale). Premessa l’esigenza
di rafforzarne – in maniera moderata e prudente – la posizione rispetto all’assetto attuale, occorre
rilevare che la riforma va oltre il segno. La panoplia di strumenti di direzione politica posta nelle
sue mani non ne farebbe forse un Premier onnipotente, ma certo non sarebbe ispirata ad un sano
criterio di equilibrio dei poteri (51). Da questo punto di vista, la critica formulata nella prima parte
di questo testo rimane ferma: la pericolosità della riforma non sta tanto nel rafforzamento del
Governo rispetto al Parlamento, ma nel rafforzamento specifico dei poteri monocratici del Primo
Ministro, che rimane il solo depositario degli strumenti di guida del rapporto con il Parlamento
(anche se i nuovi strumenti di guida del lavoro legislativo della Camera – introdotti nel testo
approvato dall’Assemblea di Montecitorio – sono imputati dall’art. 72.5 al Governo come organo
collegiale e non al Premier). Rimane altresì ferma la critica che sottolinea che se nessuno degli
strumenti posti in mano al Premier è di per se eversivo, rischia di essere tale l’insieme di essi, che
partorisce un sistema che continua ad apparire squilibrato, anche se in misura sensibilmente
inferiore al testo della Camera.
Se a ciò si aggiunge che il progetto continua a trascurare il profilo dell’equilibrio del sistema
istituzionale italiano (limiti alla rieleggibilità del Primo Ministro (52); garanzie dell’opposizione;
equilibri del sistema dei media e tutto ciò che ruota attorno al “fattore B”; ruolo del Presidente della
Repubblica (53)) e se si guarda al sistema bicamerale delineato nella riforma, ne risulta un assetto
costituzionale che appare non soltanto barocco, ma addirittura rococò o churrigueresco. Il sistema
parlamentare previsto dalla Costituzione attuale continua a risultare preferibile a quello delineato
E. FRÄNKEL, La componente rappresentativa e plebiscitaria nello Stato costituzionale democratico (1958),
Giappichelli, Torino, 1994.
50 Sui problemi derivanti dalle torsioni della rappresentanza citate nel testo si rinvia a A. DI GIOVINE, Appunto
sulla cultura espressa dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, in G.F. FERRARI, G. PARODI (a cura di), La revisione
costituzionale del titolo V tra nuovo regionalismo e federalismo, Cedam, Padova, 2003, p. 218 e ora A. DI GIOVINE, Fra
cultura e ingegneria costituzionale: una forma di governo che viene da lontano, in Democrazia e Diritto, n. 2/2004,
anticipato in www.astrid.it.
51 Questa mi sembra anche la valutazione complessiva proposta da M. VOLPI, Il presidenzialismo all’italiana,
ovvero dello squilibrio fra i poteri, in corso di pubblicazione in Studi in onore di G. Ferrara, e anticipato nel sito
www.astrid.it.
52 Singolarmente, tali limiti verrebbero previsti per il Presidente della Giunta regionale, ma non per il Primo
Ministro: si v. l’art. 122.5, come emendato dall’art. 42 del progetto di riforma, nella versione approvata dalla Camera.
53 Le innovazioni apportate alla Camera al testo approvato dal Senato per quanto attiene alla posizione del
Presidente della Repubblica si riferiscono soprattutto all’autorizzazione alla richiesta di dichiarare un progetto di legge
all’esame del Senato “essenziale” all’attuazione del programma di governo e all’individuazione degli atti sottratti a
controfirma. Se quest’ultima innovazione – per quanto attiene specificamente al potere di grazia – va valutata
49
nella riforma, anche perché la natura partisan del progetto di riforma rappresenterebbe una
difficoltà in più per il funzionamento dei meccanismi – già in sé discutibili – previsti nel progetto
(la vicenda del boicottaggio del titolo V in questa legislatura è una conferma delle difficoltà che
riforme di questo tipo incontrano in un sistema maggioritario iperpolarizzato come quello attuale).
positivamente, per le ragioni accennate nel testo al par. 11, il “figurino” costituzionale del Presidente della Repubblica non
risulta particolarmente chiaro, se paragonato con quello attuale.
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