LA FORMA DI GOVERNO NEL PROGETTO DI REVISIONE COSTITUZIONALE DEL GOVERNO BERLUSCONI di Marco Olivetti (*) 1. Premessa Il disegno di legge costituzionale presentato in Parlamento il 19 settembre 2003 dal II governo Berlusconi ed approvato il 25 marzo 2004 dal Senato (1) e, con emendamenti, il 15 ottobre 2004 alla Camera (2), ha sinora conosciuto significative modificazioni durante il suo iter parlamentare. L’ampiezza del suo ambito di intervento e l’incisività delle modifiche che esso prefigura al testo costituzionale hanno attirato l’attenzione della dottrina e dell’opinione pubblica. La stessa Camera dei deputati ha avvertito l’esigenza di ascoltare, fra l’altro, l’opinione di alcuni studiosi dei problemi affrontati nella riforma, prima di procedere all’esame del testo e degli emendamenti. Le pagine che seguono riproducono, con modificazioni marginali, il testo utilizzato come base per l’audizione svolta dall’Autore presso la Commissione Affari costituzionali della Camera il 25 maggio 2004 e si riferiscono pertanto al testo approvato dal Senato il 25 marzo 2004 (3). Date però le importanti modificazioni successivamente intervenute (alcune delle quali rendono in parte superate, o quantomeno collocabili in una luce nuova, le critiche qui formulate), si è ritenuto opportuno aggiungere a tale testo un Post-scriptum, nel quale sono riportate alcune prime osservazioni sulle modificazioni incluse nel testo approvato dalla Camera il 15 ottobre 2004. 2. L’ispirazione del modello: un approccio condivisibile La forma di governo delineata nel disegno di legge costituzionale approvato dal Senato il 25 marzo 2004 si ispira al modello del “governo del Primo Ministro”, che è stato oggetto di diversi progetti di riforma costituzionale e di vari dibattiti durante gli anni novanta4. La denominazione – tutta italiana, in verità – di “premierato” è un utile punto di partenza, in quanto il Primo Ministro costituisce l’asse centrale di tale modello organizzativo. Prima di proporre una valutazione sulla soluzione adottata e di evidenziarne i profili critici, è bene sottolineare i tratti caratteristici della forma di governo proposta, comparandoli sia con le proposte precedenti ad essa simili, sia con le soluzioni praticate nei Paesi europei cui essa dichiara di ispirarsi. * Professore straordinario di Diritto costituzionale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Foggia e Professore Invitato di Istituzioni di Diritto pubblico nella Facoltà di Scienze sociali della Pontificia Università San Tommaso di Roma. 1 Atto Senato n. 2544 (XIV legislatura). 2 Atto Camera n. 4862 (XIV legislatura). 3 Il testo in esame, inoltre, era stato pubblicato con il titolo La forma di governo nel dd. Senato n. 2544, ovvero: dalla Seconda Repubblica al Secondo Impero, nel volume: ASTRID, Costituzione: una riforma sbagliata. Il parere di 63 costituzionalisti, a cura di F. Bassanini, Passigli Editori, Firenze, 2004, p. 390-419. 4 Modelli, fra loro diversi, di “governo del primo Ministro”, ovvero di sistema parlamentare con Premier forte, erano quelli previsti dal progetto della Commissione bicamerale De Mita-Jotti e dal testo A dell’articolato Salvi discusso dalla Commissione bicamerale D’Alema. Il punto di partenza dal quale muovere, peraltro, non può che essere una presa d’atto positiva. Collocandosi sulla linea del rafforzamento del Primo Ministro come leader di una maggioranza parlamentare scelta dagli elettori in occasione delle elezioni legislative, il disegno di legge costituzionale del governo Berlusconi si muove in continuità con la razionalizzazione della forma di governo italiana realizzata negli anni novanta5. Si sono cioè evitate strade ambigue che passassero per l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, che avrebbero disperso il risultato delle evoluzioni compiutesi nello scorso decennio. Ciò che occorre verificare è se le misure proposte nel disegno di legge voluto dal governo di centro-destra siano proporzionali ed adeguate rispetto all’obiettivo di completare la transizione italiana verso una democrazia dell’alternanza con sistema bipolare e se, d’altro canto, siano previsti idonei meccanismi di bilanciamento fra i poteri. 3. La formazione del governo Per quanto attiene alla formazione del Governo, il ddl n. 2544 si muove su una linea che, se modifica sensibilmente il testo costituzionale, non fa che cristallizzare la lettura di esso che si è affermata, sia pure con qualche fatica, nell’ultimo decennio. Il nuovo art. 92.2 precisa che “la candidatura alla carica di Primo Ministro avviene mediante collegamento con i candidati all’elezione della Camera dei deputati”. La legge elettorale stabilisce le modalità con cui è realizzato tale collegamento e “disciplina l’elezione dei deputati in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo Ministro”6. E’ su questa base che il Presidente della Repubblica, stabilisce l’art. 92.3, nomina il Primo Ministro. Si tratta, quindi, di un procedimento di formazione del governo piuttosto simile a quello già oggi effettivamente operativo, sulla base delle modificazioni verificatesi nell’ultimo decennio nel sistema elettorale e nel sistema politico, per i casi in cui il nuovo esecutivo deve formarsi all’indomani delle elezioni legislative. Le varianti principali rispetto al regime attuale consisterebbero nel fatto che la maggioranza, secondo il progetto governativo, dovrebbe sussistere nella sola Camera dei deputati e nella configurazione della potestà presidenziale di nomina del Premier non più come (apparentemente) “libera”, ma come “discrezionale” (se non, in certe circostanze, come di fatto vincolata). Si tratterebbe, in fondo, del modello del c.d. “premier indicato”, molto simile a quello previsto per le Regioni ordinarie dalla legge n. 43/1995 (e poi abbandonato dalla legge cost. n. 1/1999, che ha previsto una elezione anche formalmente diretta), che consiste in una elezione diretta di fatto, nella quale si mira ad evitare alcune rigidità che l’elezione diretta vera e propria presenta. Pertanto, le obiezioni che è possibile formulare a proposito del procedimento di formazione dell’Esecutivo delineato dal progetto di legge governativo non attengono al contenuto, ma alla scelta stessa di scrivere queste prassi, cristallizzando, ma anche irrigidendo, la prassi politica. Dopo 5 Da questo punto di vista il punto di svolta nelle posizioni del centro-destra risale all’intervista rilasciata dal Vicepresidente del Consiglio Gianfranco Fini al Corriere della Sera il 4 gennaio 2003 (p. 5). tutto, quanto descritto negli art. 92.2 e 92.3 è ciò che accade ormai in buona parte dei regimi parlamentari europei (Germania, Spagna, Svezia, Gran Bretagna), nei quali il sistema politico si è dislocato su un assetto bipolare, ma solo in Italia si avverte l’esigenza di scrivere tali regole in Costituzione7. 4. Primo Ministro e Ministri La seconda scelta dell’Atto Senato n. 2544 riguarda il potere di nomina e revoca dei Ministri, che l’art. 95.1 attribuirebbe direttamente al Primo Ministro. Due sarebbero le innovazioni rispetto all’assetto attuale: verrebbe introdotto anche il potere di revoca, attualmente non previsto, almeno come potere formale (8); il potere di nomina, attualmente attribuito al Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio, verrebbe attribuito direttamente al Primo Ministro (e lo stesso accadrebbe per il potere di revoca). La prima scelta è sicuramente condivisibile, mentre qualche riserva si può avanzare sulla seconda: non si capisce, infatti, perché la nomina e la revoca dei ministri debbano essere un potere esclusivo del Premier e sia eliminato il passaggio presso il Capo dello Stato attualmente previsto. Nessuno può ragionevolmente desiderare che il potere di scelta dei Ministri sia sottratto al Premier e condiviso col Presidente, ma la nomina formale dei ministri da parte di quest’ultimo, e soprattutto la loro eventuale revoca, può risultare utile non solo come istanza di controllo formale, ma anche come “camera di compensazione” per situazioni anomale che possono pur sempre verificarsi (si pensi alla nomina di Cesare Previti a ministro della Giustizia, bloccata dal Presidente Scalfaro nel maggio 1994, con effetti sicuramente benefici per lo stesso I governo Berlusconi, che sarebbe stato sicuramente più criticabile con l’avvocato del Presidente del Consiglio a via Arenula (9)). D’altro canto appare criticabile che non si imponga al Primo Ministro di riunire il Consiglio dei Ministri prima di revocare un Ministro, con la conseguenza che l’interessato e i suoi colleghi potrebbero essere portati a conoscenza di tale atto mediante i media. Ma questo è uno dei tanti punti di emersione dell’insofferenza dell’Atto Senato n. 2544 verso la collegialità del potere esecutivo: certo, non si arriva ad attribuire la titolarità del potere esecutivo al solo Primo Ministro; anzi, l’art. 92.1 precisa che – in continuità con la disciplina attualmente vigente – “il Governo della Repubblica è composto dal Primo Ministro e dai ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri”; ma l’art. 95.2, laddove stabilisce che “il Primo Ministro determina la politica generale del Governo”, si colloca in una prospettiva in cui il Premier, che nomina e revoca a suo piacimento i propri colleghi, è di fatto il governo e non solo il suo capo. 6 Con tale disposizione si procede alla costituzionalizzazione del principio maggioritario (così M. SICLARI, Brevi note introduttive ad un dibattito sul disegno di legge costituzionale AS nr. 2544, approvato dalla I Commissione del Senato, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2 febbraio 2004). 7 Non solo, invero, da parte dell’attuale maggioranza: sul punto si veda ad es. il progetto della Commissione bicamerale della XIII legislatura (che pure accoglieva un modello diverso). 8 Si veda però il caso Ruggiero [e da ultimo anche il caso Tremonti], nel quale la revoca si è avuta di fatto. Si è invece consolidato un potere di revoca dei sottosegretari (casi Pappalardo nel governo Ciampi, Giorgianni nel governo Prodi e Sgarbi nel II governo Berlusconi). 9 Ma si possono ricordare anche gli interventi di Scalfaro in occasione della formazione del I governo Amato o quelli di Ciampi al momento delle trattative informali che hanno preceduto la costituzione del II governo Berlusconi. 5. La presentazione del Governo alle Camere e la fiducia presunta Entro dieci giorni dalla nomina, il Primo Ministro “illustra il programma del Governo alle Camere”. E’ verosimile che tale atto segua non solo la nomina del Primo Ministro, ma anche quella dei ministri (come accade già oggi) e dopo il giuramento da parte dei membri del governo, che, secondo l’art. 93, deve avvenire (anche qui, come oggi) “prima di assumere le funzioni”. L’illustrazione del programma alle Camere, tuttavia, cambia di significato rispetto alla Costituzione vigente: esso è certo un atto giuridicamente obbligatorio (anche se, come spesso accade per le norme costituzionali, non vi è una sanzione per il mancato rispetto dell’obbligo), ma non è seguito da un voto di fiducia. Si adotta infatti il meccanismo (praticato in Gran Bretagna, ma anche – sia pure con modalità diverse – in Svezia, in Olanda, in Danimarca e in regimi semipresidenziali come la Francia e il Portogallo) della “fiducia presunta”. Il che è del resto coerente con la scelta dell’indicazione popolare del Primo Ministro. Anche qui l’innovazione è certo forte rispetto al testo dell’attuale art. 94, che prevede la mozione di fiducia iniziale come condizione risolutiva della nomina, ma è minore rispetto alla prassi del sistema maggioritario, che ha ridimensionato, se non svuotato, il significato del voto di fiducia iniziale. 6. I governi di minoranza Un’ipotesi-limite merita tuttavia di essere segnalata. Quid iuris se le elezioni legislative partoriscono uno “hung Parliament” (10), cioè una Camera dei deputati senza maggioranza? E’ vero, infatti, che l’art. 92.2 – come si è visto poco fa – impone alla legge elettorale di disciplinare “l’elezione dei deputati in modo da favorire la formazione di una maggioranza, collegata al candidato alla carica di Primo Ministro”, ma “favorire” non vuol dire “assicurare”. Ad es. l’attuale legge elettorale per la Camera sicuramente favorisce la formazione di tale maggioranza, ma non la assicura e potrebbe ben darsi una Camera senza maggioranza. Il sistema delineato nel ddl n. 2544 ha, in realtà, una soluzione implicita per questo caso: la nomina di un Premier di minoranza da parte del Presidente della Repubblica, come accade anche oggi. Ma nel nuovo sistema scompaiono le valvole di flessibilità che oggi consentono di trovare un equilibrio senza necessariamente ricorrere a nuove elezioni subito (le quali potrebbero partorire a loro volta una nuova Camera “hung”). Una volta nominato, infatti, il Premier di minoranza pur non essendo tenuto a chiedere alla Camera un voto di fiducia, sarebbe protetto dalle medesime garanzie previste per un Premier che abbia ab initio una maggioranza nella Camera. Anzi, in virtù dell’assenza di una “maggioranza espressa dalle elezioni” ai sensi e per gli effetti degli art. 88.2 e 92.4, il Primo Ministro “di minoranza” sarebbe più forte di quello “di maggioranza” e potrebbe essere rovesciato solo con una mozione di sfiducia che produca immediatamente nuove elezioni, ma non da un Premier diverso 10 Sullo hung Parliament nel sistema costituzionale britannico v. R. BRAZIER, Constitutional Practice, III ed., Oxford U.P., Oxford, 1999, p. 30 ss. da parte della stessa maggioranza iniziale (che in questo caso non esiste). In questo si vedono di nuovo i limiti dell’iper-razionalizzazione e della scarsa flessibilità cui si ispira il progetto di riforma. 7. La questione di fiducia Durante la vita dell’esecutivo – che l’atto Senato n. 2544, condivisibilmente, immagina come di norma coincidente con quella della legislatura della Camera – il rapporto GovernoCamera, e in particolare il rapporto fra il Primo Ministro e la maggioranza parlamentare cui questi è collegato, è regolato da tre strumenti di importanza capitale per comprendere la strutturazione della forma di governo in esame: la questione di fiducia, il potere di scioglimento della Camera, la mozione di sfiducia. Pur senza nominarla, il disegno di legge n. 2544 disciplina la questione di fiducia nell’art. 94.2, che introdurrebbe la facoltà del Primo Ministro di “chiedere che la Camera dei deputati si esprima, con priorità su ogni altra proposta, con voto conforme alle proposte del Governo”. Si tratta di una combinazione tra gli istituti della questione di fiducia e del voto bloccato previsti dalla Costituzione francese del 1958, che non è radicalmente dissimile dalla questione di fiducia ben nota alla prassi parlamentare italiana degli anni cinquanta e sessanta e poi regolata dall’art. 116 del Regolamento della Camera del 1971. Anche la questione di fiducia attualmente prevista nel nostro ordinamento, infatti, rende inemendabile l’oggetto su cui è posta e ne impone la votazione prioritaria, con decadenza degli emendamenti non votati. Due importanti differenze procedurali vanno tuttavia rilevate: a) la questione di fiducia, nel sistema vigente, è proposta dal Presidente del Consiglio, ma per la posizione di essa davanti alle Camere, occorre l’assenso del Consiglio dei Ministri (v. art. 2.3 della legge n. 400/1988); b) la questione di fiducia non può essere posta su un disegno di legge nel suo complesso, ma solo su articoli o emendamenti ad esso (art. 116 Reg. Cam.). Nel caso ipotizzato dallo schema di disegno di legge costituzionale in commento, invece, la decisione in materia diverrebbe monopolio assoluto del Primo Ministro (che non sarebbe nemmeno tenuto a informare il Consiglio dei Ministri) e potrebbe riguardare qualsiasi oggetto (forse persino una legge costituzionale, o una decisione della Camera sull’insindacabilità, sull’autorizzazione a procedere o sulla verifica delle elezioni: nulla è escluso, visto che manca anche un rinvio ai casi fissati dal regolamento della Camera), rendendolo inemendabile. Ma l’elemento più destabilizzante della questione di fiducia è un altro: “in caso di voto contrario” – prosegue l’art. 94.2 dello schema di disegno di legge costituzionale – “il Primo Ministro rassegna le dimissioni e può chiedere lo scioglimento della Camera. Si applica l’articolo 88”. La questione di fiducia, quindi, verrebbe radicalmente modificata: da minaccia di dimissioni, come essa è attualmente (il Governo si impegna a dimettersi se non viene approvata una sua proposta) diverrebbe una minaccia di scioglimento anticipato (11). Per questo, la disposizione in commento è la più pericolosa fra quelle contenute nel disegno di legge approvato in Senato. Essa va oltre la Costituzione della quinta Repubblica (ove il voto bloccato di cui all’art. 44 non produce né sfiducia né scioglimento in caso di esito negativo e la questione di fiducia di cui all’art. 49.3 obbliga il governo alle dimissioni, se rigettata, ma non conduce automaticamente allo scioglimento dell’Assemblea Nazionale). E’ vero che nella prassi parlamentare inglese il Primo Ministro può minacciare lo scioglimento della Camera dei Comuni in relazione all’approvazione di determinate misure (vi fece ricorso John Major nel 1993 per indurre gli euroscettici del Partito conservatore a ratificare il Trattato di Maastricht), ma – a parte ora le considerazioni che si dovrebbero fare sul “modello Westminster” e sulla sua dubbia trasponibilità al di qua della Manica – nel sistema inglese non vi è alcun automatismo del tipo di quello previsto dallo schema di disegno di legge. Se fosse sconfitto, il Primo Ministro britannico potrebbe rinunciare a chiedere lo scioglimento e, anche se lo chiedesse, la Regina potrebbe negarglielo, almeno in casi estremi che, invece, nella soluzione proposta per l’Italia, non escluderebbero il ricorso immediato a nuove elezioni. Al riguardo, il testo approvato al Senato ha certo introdotto un (apprezzabile, ma insufficiente) elemento di flessibilità, poiché, mentre il testo presentato dal Governo nel settembre 2003 prevedeva lo scioglimento automatico della Camera in caso di voto di sfiducia, senza alcuna discrezionalità per il Primo Ministro e per il Presidente della Repubblica, il testo approvato dall’assemblea di Palazzo Madama ha stabilito che il Primo Ministro “può chiedere lo scioglimento della Camera”. Dunque, in caso di rigetto della questione di fiducia si aprono tre possibilità: a) il Primo Ministro si dimette e non chiede lo scioglimento delle Camere; b) il Primo Ministro si dimette e chiede lo scioglimento delle Camere e il Presidente lo dispone; c) il Primo Ministro si dimette e chiede lo scioglimento delle Camere, ma il Presidente non lo dispone in virtù dell’art. 88.3, poiché “entro dieci giorni” dalla richiesta di scioglimento, viene “presentata alla Camera dei deputati una mozione, sottoscritta dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera, nella quale si dichiari di voler continuare nell’attuazione del programma e si indichi il nome di un nuovo Primo Ministro”. I margini di praticabilità di quest’ultima alternativa sono comunque ridotti e quindi la flessibilità introdotta al Senato rimane limitata. Si noti, inoltre, che lo scioglimento (semi-)automatico che avrebbe luogo in questo caso si affiancherebbe al potere del Primo Ministro di proporre sempre, in qualsiasi momento, al Presidente della Repubblica, lo scioglimento della Camera, di cui egli assumerebbe l’esclusiva responsabilità (il che vuol dire che avrebbe il potere di decisione sul punto). Ma cui prodest uno strumento del tipo della questione di fiducia di taglio berlusconiano? Si noti che la questione di fiducia è un’arma più contro i dissidenti interni alla maggioranza che contro le opposizioni. E poiché nella fase attuale l’articolazione interna delle coalizioni è l’unico possibile freno allo strapotere del Premier, l’introduzione di uno strumento di questo tipo sarebbe, anche per la sua efficacia deterrente, oltremodo pericolosa, proprio perché eliminerebbe uno dei pochi superstiti contrappesi al potere del “Premier assoluto”. 11 Un precedente si può invece ravvisare nella “variante Galeotti” al progetto del Comitato Speroni. La questione di fiducia di cui all’art. 94.2 può essere proposta solo alla Camera, poiché solo quest’ultima intrattiene il pur anomalo rapporto di fiducia (12) con il Governo che traspare dal disegno di legge costituzionale. Anche al Senato, tuttavia, il Governo (questa volta non il solo Premier, ma l’intero organo collegiale) può dichiarare che “le modifiche proposte alla Camera dei deputati” ad un disegno di legge ad iniziativa senatoriale nelle materie di cui all’art. 117.2 e 70.2 “sono essenziali per l’attuazione del suo programma”: in tali casi – se alla Camera tali modifiche sono state approvate con la procedura della questione di fiducia con voto bloccato – si procede con una commissione mista paritetica, prevista dagli ultimi due periodi dell’art. 70.3. Si tratta di un sistema molto complesso in cui si può vedere il cuore del problema posto dal combinato disposto della questione di fiducia che il governo può porre alla Camera e del singolare procedimento legislativo a prevalenza senatoriale contenuto nell’art. 70.2, che costituisce se non un unicum, certo una rarità costituzionale nei regimi a bicameralismo imperfetto. Ma dietro questa formulazione contenuta nell’art. 70.2 ora citata si intravede che la questione di fiducia di cui all’art. 94.2 rischia di essere non una extrema ratio, utilizzabile una-due volte l’anno in situazioni di particolare gravità, ma quasi una misura ordinaria, cui ricorrere in ogni caso di deadlock fra le due Camere (fenomeno che potrebbe essere anche molto frequente in caso di coesistenza di due Camere con maggioranze diverse). Lo svuotamento della rappresentanza parlamentare nella Camera dei deputati sarebbe allora molto forte, con conseguenze gravi sull’equilibrio del sistema. 8. Il potere di scioglimento della Camera e le norme antiribaltone Un’altra importante innovazione riguarda il potere di scioglimento della Camera dei deputati, che costituisce la chiave di volta della razionalizzazione del regime parlamentare (13). L’atto Senato n. 2544 non prevede più lo scioglimento del Senato, come oggi, e disciplina lo scioglimento della Camera sulla base di una richiesta del Primo Ministro “che ne assume la esclusiva responsabilità”. Si è in tal modo ripreso il potere di scioglimento su iniziativa del leader dell’Esecutivo delineato nell’art. 115 della Costituzione spagnola del 1978. Apparentemente si è ripresa da tale Costituzione anche la mozione di sfiducia costruttiva che può bloccare il potere di scioglimento, ma lo si è fatto con una grave restrizione, ovvero il già citato vincolo a che la mozione di sfiducia costruttiva sia sottoscritta “dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera”, con l’evidente (e 12 E’ dubbio che si possa ricondurre il rapporto fra Governo e Camera dei deputati – come delineato nell’Atto Senato n. 2544 – allo schema classico del rapporto di fiducia, visto che la fiducia iniziale è presunta e che la mozione di sfiducia, se approvata, conduce necessariamente allo scioglimento. Gli strumenti fiduciari previsti nell’Atto Senato n. 2544 subiscono pertanto una torsione a seguito della quale conservano della fiducia solo il nome (e talora, come nel caso dell’art. 94.2, nemmeno quello). 13 …come insegna la migliore dottrina. Basti citare, oltre ai testi di Bagehot citati da E. BALBONI, Il potere di scioglimento del Parlamento e l’uso congiunturale de “La Costituzione inglese”, in ASTRID, Costituzione. Una riforma sbagliata, cit., p. 301 ss., il classico R. REDSLOB, Le régime parlementaire, Giard, Paris, 1924, spec. p. 4. La individuazione del potere di scioglimento come leva su cui operare per il completamento della transizione è dovuta, nel dibattito italiano più recente, a S. CECCANTI, Il premierato. Matrici ideali e traduzioni nell’oggi, relazione al convegno della Fondazione Italianieuropei del 9.1.2003, in www.italianieuropei.it. in se certo condivisibile nell’ispirazione, anche se non nella strumentazione adottata) finalità di impedire i tanto temuti “ribaltoni” (14). Ci troviamo qui al cuore della razionalizzazione del sistema di governo parlamentare, ovvero al punto di equilibrio tra i due istituti che più lo caratterizzano, distinguendolo dal regime presidenziale: lo scioglimento delle Camere e la sfiducia. Il tentativo di bilanciare questi due poteri compiuto dal ddl n. 2544 è cioè ammirevole negli intenti, ma deficitario nei risultati, soprattutto per la configurazione della mozione di sfiducia costruttiva in termini così rigidi come quelli di cui all’art. 88.2. L’intento, evidentemente, è rendere possibile la sostituzione del Primo Ministro solo all’interno della “maggioranza espressa dalle elezioni”, impedendo invece radicali cambiamenti rispetto a quest’ultima (cioè i ribaltoni). Ma la strumentazione, va ribadito, è troppo rigida, con effetti paradossali, vale a dire con l’eventualità che un gruppetto anche piuttosto piccolo di deputati della maggioranza (quelli che fanno la differenza fra la maggioranza conquistata alle elezioni e la metà più uno dei componenti della Camera) di essere arbitra della prosecuzione della legislatura. Eventuali apporti, anche minimi, di deputati eletti fuori dalla maggioranza sarebbero rigidamente esclusi, se necessari a raggiungere la metà più uno dei seggi. Fra l’altro, con tale disposizione si introdurrebbe una grave deroga al divieto di mandato imperativo fissato dall’art. 67 della Costituzione, che dovrebbe indurre a chiedersi se non si sia qui in presenza di un vulnus al principio supremo della democrazia rappresentativa, come tale ipoteticamente sanzionabile dalla Corte costituzionale in quanto limite alla stessa legge di revisione. Dietro tutto ciò vi è una pretesa un po’ assurda di imporre alla politica camicie di nesso. Le variazioni nella maggioranza sono state e sono un fenomeno ricorrente in ogni regime democratico e così lo sono stati e lo sono le migrazioni di parlamentari da un partito all’altro. Il caso di Winston Churchill, passato dai conservatori ai liberali e poi tornato ai conservatori nei primi decenni del secolo scorso, è certo più illuminante al riguardo delle ben note peripezie degli on. Buttiglione e Bossi, penitenti firmatari dell’atto Senato n. 2544. Ma si può ricordare anche il recente cambio di casacca di un senatore repubblicano che nel 2001 ha privato il Presidente Bush della cruciale maggioranza al Senato. Certo, da qui alla mobilità parlamentare sperimentata nella XIII legislatura vi è molta differenza, ma la pretesa di immobilizzare la maggioranza uscita dalle elezioni è uno dei tanti deliri di onnipotenza che hanno segnato la cultura dell’ingegneria costituzionale dell’ultimo decennio. D’altro canto, i “ribaltoni” non sono impediti in ogni caso: è infatti possibile un mutamento della maggioranza espressa dalle urne, eventualmente anche imbarcando una porzione dell’opposizione, purché ciò avvenga “a Primo Ministro invariato”: nessun divieto può infatti impedire che il Primo Ministro in carica “sbarchi” una parte anche consistente della maggioranza Sull’ossessione del ribaltone si v. le condivisibili critiche di G. SARTORI, Verso una Costituzione incostituzionale?, appendice alla V ed., del volume Ingegneria costituzionale comparata, Il Mulino, Bologna, 2004. Sulle norme antiribaltone sarebbe utile una riflessione anche nel centro-sinistra: le misure antiribaltone sono infatti condivisibili nell’intenzione, ma sbagliate nella strumentazione utilizzata. La sfiducia costruttiva, combinata magari con l’ineleggibilità del Premier dimissionario “spontaneamente” (cioè non a seguito di un voto di sfiducia) è più che 14 cui era collegato al momento delle elezioni e la sostituisca con gruppi di deputati eletti in collegamento con il/i candidato/i Premier sconfitto/i. Oltre all’ipotesi dello scioglimento su richiesta del Primo Ministro (art. 88.1) e a seguito di rigetto di una questione di fiducia (art. 94.2) residuano altre due ipotesi di scioglimento anticipato della Camera dei deputati: quello a seguito dell’approvazione di una mozione di sfiducia da parte della Camera stessa (art. 94.3) e quello a seguito di morte, impedimento permanente o dimissioni volontarie del Primo Ministro (art. 92.4). Il primo è un caso di scioglimento automatico. A seguito di approvazione di una mozione di sfiducia, infatti, sorgono due obblighi: il Primo Ministro è tenuto a dimettersi e il Presidente della Repubblica è tenuto a sciogliere la Camera e a indire le nuove elezioni legislative (art. 92.4). Al riguardo si impongono due osservazioni. In primo luogo la natura della mozione di sfiducia cambia radicalmente rispetto all’art. 94.5 della Costituzione attuale: essa non è più uno strumento per obbligare il governo a dimettersi, ma ha dentro di sé la conseguenza necessaria dello scioglimento automatico della Camera, la quale – pertanto – perde in radice (di diritto e non solo di fatto) la possibilità di esprimere un nuovo esecutivo. In secondo luogo emerge in questo caso una insana passione per gli automatismi costituzionali, nella quale maggiormente si vede la distanza fra questo testo e il costituzionalismo europeo degli ultimi due secoli (quello britannico anzitutto), caratterizzato dalla presenza di numerosi meccanismi di flessibilizzazione del sistema di governo, come il veneratissimo “modello Westminster” – tutto affidato a convenzioni costituzionali – ampiamente dimostra. Per quanto attiene, invece, alla morte, all’impedimento permanente e alle dimissioni non obbligatorie del Primo Ministro, la conseguenza dello scioglimento della Camera non è automatica. E’ cioè possibile la nomina, da parte del Presidente della Repubblica, di nuovo Premier solo con “maggioranza bloccata”: l’art. 92.4 stabilisce infatti che in questi casi “il Presidente della Repubblica nomina un nuovo Primo Ministro indicato da una mozione, presentata entro quindici giorni dalla data si cessazione dalla carica, sottoscritta dai deputati appartenenti alla maggioranza espressa dalle elezioni, in numero non inferiore alla maggioranza dei componenti della Camera dei deputati” (15). Al di fuori di questa ipotesi, torna ad operare l’automatismo: “altrimenti, decreta lo scioglimento della Camera dei deputati ed indice le elezioni”. Per questa ipotesi, dunque, siamo in presenza di un automatismo light, cioè attenuato: meno rigido, quindi, del meccanismo oggi imposto alle Regioni dall’art. 126.2, che dà una interpretazione fondamentalistica del principio simul stabunt simul cadent (e che infatti lo stesso ddl n. 2544 mira – condivisibilmente – a modificare, allineandolo con quella che sarebbe la soluzione nazionale: v. art. 37 del ddl in commento). sufficiente allo scopo perseguito (la stabilizzazione delle maggioranze). Questo era fra l’altro l’equilibrio previsto nel testo A dell’articolato Salvi. 15 Mi pare condivisibile il rilievo di M. SICLARI, Brevi note introduttive ad un dibattito sul disegno di legge costituzionale AS nr. 2544, approvato dalla I Commissione del Senato, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, 2 febbraio 2004, il quale osserva che in questo caso non si fa nemmeno luogo al voto e dunque non si comprende perché si continui ad utilizzare il termine “mozione”. 9. Prime valutazioni: il premierato assoluto Nel suo complesso, dunque, il ddl n. 2544 si segnala per un drastico rafforzamento della posizione costituzionale del Presidente del Consiglio. A sottolineatura di ciò si propone di mutare anche il nome di tale carica politica, che verrebbe riqualificato come Primo Ministro, mentre i suoi poteri – come si è visto – verrebbero rafforzati in ogni direzione: verso il Presidente della Repubblica, verso il Parlamento, verso lo stesso Governo. Ed è soprattutto il rafforzamento del Premier nei confronti dello stesso Governo (si è visto che spettano al Primo Ministro poteri che in altri ordinamenti sono condivisi o almeno partecipati dall’organo collegiale di governo) che lascia trasparire, nei redattori del progetto una seconda passione, oltre a quella per gli automatismi, non meno insana della prima: quella per il governo personale, che ben merita la qualificazione di “premierato assoluto”, proposta con la consueta sapienza da Leopoldo Elia (16). Il Presidente del Consiglio disegnato dall’attuale Costituzione è senza dubbio una figura piuttosto scolorita (17), anche se ciò non ha impedito in passato che i Premier più autorevoli esprimessero una reale capacità di guida della politica nazionale. Per questo motivo un rafforzamento dei poteri del Premier è sicuramente da condividere. Ma non è saggio disperdere il patrimonio di checks and balances che il costituzionalismo (italiano ma non solo) ha costruito per proceduralizzare e bilanciare i poteri del Primo Ministro. Certo, il Premier non viene – almeno dal punto di vista formale – eletto direttamente. Ma anche rispetto all’unico esempio sinora realizzato di elezione diretta del Primo Ministro (quello israeliano), mancano molti bilanciamenti, soprattutto nel rapporto col Parlamento (18). Inoltre non sono previsti limiti alla rielezione del Primo Ministro, che erano invece previsti dal c.d. “testo A” dell’articolato Salvi, presentato nella Commissione bicamerale D’Alema nel 1997 (19) e dal progetto Galeotti di governo di legislatura, che è un riferimento utile per interpretare il modello qui in esame (20). E’ vero, infatti, che i limiti alla rielezione sono propri dei sistemi ad elezione diretta, in particolare di quelli presidenziali, e non di quelli parlamentari, ma nell’Atto Senato n. 2544 dell’elezione diretta manca solo la forma, ed è invece presente tutta la sua sostanza. Per comprendere l’impianto complessivo della forma di governo delineata nell’A.S. 2544 occorre da ultimo tenere conto di due ulteriori elementi: gli effetti della riforma del Senato e la posizione costituzionale del Presidente della Repubblica. Si v. la relazione di L. Elia al Seminario di Astrid del 22.9.2003 (che si può leggere in www.astridonline.it). Ed infatti l’esigenza di un rafforzamento dei suoi poteri era condivisa anche dal difensore per eccellenza della Costituzione: Giuseppe Dossetti (si v. l’intervento a Milano del 21 gennaio 1995: G. DOSSETTI, Il potere costituente, in ID., I valori della Costituzione, Edizioni S. Lorenzo, Reggio Emilia, 1995, p. 95). 18 V. infra qualche cenno sulle differenze col sistema israeliano. Rinvio per il resto a quanto esposto in M. OLIVETTI, L’elezione diretta del Primo Ministro e la teoria delle forme di governo, in Studi parlamentari e di politica costituzionale, 1997. n. 116, p. 59-87. 19 Il limite era in tal caso di tre mandati (e si prevedeva inoltre lo svolgimento di elezioni primarie): cfr. art. 1, 3° e 4° comma (il testo si può leggere all’indirizzo web http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/rifcost/ressten/sed028al.htm 20 Un limite di due mandati era proposto anche da uno dei primi progetti di Premier eletto direttamente, quello elaborato da Serio Galeotti nell’ambito del “gruppo di Milano” (cfr. S. GALEOTTI, Un governo scelto dal popolo: il “governo di legislatura”, Giuffrè, Milano, 1984, p. 73). 16 17 10. Premierato e Senato “federale” Il rapporto fra il Senato sedicente federale disegnato dall’atto Senato n. 2544 e il governo del Primo Ministro è piuttosto difficile da valutare in astratto ed appare segnato da elementi fra loro contraddittori. Da un lato, infatti, si potrebbe ipotizzare che anche qui vi sia un rafforzamento, sia pure nascosto, del potere del Primo Ministro e del suo Governo, derivante dagli snellimenti procedurali che conseguirebbero al superamento dell’attuale bicameralismo perfetto e paritario. D’altro lato, però, il Senato viene espressamente disegnato come sottratto all’indirizzo politico di maggioranza e gli strumenti di cui il Primo Ministro può disporre per ridurre una Camera recalcitrante a più miti consigli (scioglimento e questione di fiducia, e soprattutto minaccia degli stessi) sono quasi del tutto assenti al Senato. Se a ciò si aggiunge che il già citato art. 70.2 delinea un inedito procedimento legislativo a prevalenza senatoriale, si ha il quadro di un settore rilevante delle politiche pubbliche sottratto al potere di guida (e di ricatto) del Primo Ministro. Non è chiaro, però, quale possa essere l’effetto di un simile assetto e, ciò che è peggio, ciò non sembra essere chiaro nemmeno ai sostenitori della riforma. Quest’ultima appare sul punto schizofrenica: si spinge troppo in là nel definire i poteri del Primo Ministro, andando oltre il necessario e il ragionevole; e al tempo stesso crea un Senato che di federale ha poco più che il nome, ma che è investito del potere di delineare un suo indirizzo, del tutto slegato da quello della maggioranza della Camera e del Primo Ministro. D’altro canto queste osservazioni partono dall’idea che il Senato possa essere “qualcosa d’altro” rispetto alla maggioranza della Camera, ma ciò non è chiaro dal disegno di legge, che si affida a meccanismi complessi e inediti, come la contestualità dell’elezione del Senato con quella dei Consigli regionali, che non è possibile sapere se determinerà una regionalizzazione del Senato o, più probabilmente, una nazionalizzazione delle dinamiche dei Consigli regionali, specie se si considera che il ddl n. 2544 si muove nella prospettiva di tenere le elezioni regionali in un’unica data per tutto il Paese (come ben si vede dall’art. 60.4). 11. Premierato e Presidente della Repubblica Anche la posizione del Presidente della Repubblica è delineata in modo nuovo. Le novità principali non riguardano tanto il modo di elezione, che è in continuità con quello attuale, malgrado il cambio di alcuni nomi (Assemblea della Repubblica anziché Parlamento in seduta comune), che dovrebbe riflettere un accresciuto peso della rappresentanza regionale (e la presenza di qualche rappresentante delle autonomie locali), non però tale da alterare in maniera decisiva i rapporti di forza nelle Camere, quanto i poteri di “arbitrato” del Presidente della Repubblica. Da un lato la discrezionalità presidenziale finisce per scomparire nei due atti oggi più importanti: il potere di nomina del Presidente del Consiglio e dei ministri (con la sola eccezione del già citato caso del Premier di minoranza, in cui il Presidente della Repubblica potrebbe recuperare margini di discrezionalità) e, soprattutto, lo scioglimento delle Camere (21). D’altro lato, però, il Presidente acquisirebbe importanti poteri di nomina (del vicepresidente del CSM; dei Presidenti delle autorità indipendenti) e soprattutto l’esplosivo (almeno in potenza) potere di arbitrato sulle questioni di interesse nazionale (art. 127). Il Presidente acquisirebbe poi in esclusiva il potere di grazia, che verrebbe imprudentemente sottratto a controfirma ministeriale, e si vedrebbe riconosciuta l’esclusiva titolarità di una serie di atti presidenziali per i quali verrebbe espressamente esclusa dall’art. 89.3 la controfirma ministeriale. La scelta di enumerare gli atti sottratti a controfirma appare condivisibile alla luce delle Costituzioni più recenti – le quali escludono la controfirma per gli atti presidenziali propri (22) – con la sola eccezione della già citata scelta compiuta in materia di grazia, che appare troppo condizionata dalle polemiche di questi mesi sul caso Sofri. 12. Alcuni raffronti: l’Atto Senato n. 2544 e il “testo A” dell’articolato Salvi Descritto in questi termini il contenuto del progetto, occorre ora procedere ad alcune sintetiche valutazioni complessive. Un raffronto deve essere anzitutto operato con il “testo A” dell’articolato Salvi, presentato il 28 maggio 1997 dal relatore sulla forma di governo Cesare Salvi alla Commissione bicamerale presieduta dall’on. D’Alema nella XIII legislatura e respinto (optando per il modello semipresidenziale) nella seduta del 31 maggio 1997. Le analogie della forma di governo delineata nell’A.S. 2544 con il “testo A” sono infatti molteplici e ad esse si fa ricorso da parte di esponenti del centro-destra per sostenere la strumentalità delle critiche degli esponenti dell’attuale opposizione al “premierato assoluto” (23). L’analogia di maggiore rilievo sta nell’attribuzione al Primo Ministro del potere di proporre lo scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica, secondo il modello spagnolo; ma il “testo A” prevedeva che il potere di scioglimento era destinato a cedere di fronte alla presentazione di una mozione di sfiducia costruttiva (24) e che il Primo Ministro poteva presentare la proposta di scioglimento solo previo parere del Consiglio dei Ministri: di nessuno di tali accorgimenti vi è traccia nell’A.S. 2544. Ulteriori analogie erano rappresentate dall’indicazione del Primo Ministro (25) e dal potere di nomina e revoca dei ministri, che anche nel “testo A” era attribuita in solitario al Primo Ministro (26). Sulle altre incisive misure di razionalizzazione delineate nel progetto di legge costituzionale approvato il 25 marzo 2004 vanno invece registrate significative differenze: non vi era traccia nel “testo A” della questione di fiducia con minaccia di 21 Scomparirebbe, inoltre, il potere del Presidente di autorizzare la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa governativa. 22 Così ad es. la Costituzione francese del 1958 (art. 19), la Legge fondamentale di Bonn del 1949 (art. 58) e la Costituzione della Repubblica ceca del 1992 (art. 62 e 63). 23 In questo equivoco cade a mio avviso anche G. SARTORI, Verso una Costituzione incostituzionale?, laddove afferma che il testo A introduceva il premierato elettivo all’israeliana, che oggi viene ripreso dall’A.S. 2544. 24 Cfr. l’art. 3, 1° comma, del testo A (vedilo in http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/rifcost/ressten/sed028al.htm). 25 Stabiliva infatti l’art. 1, 2° comma, del testo A: “La candidatura alla carica di Primo ministro avviene mediante collegamento con i candidati all'elezione del Parlamento, secondo le modalità stabilite dalla legge elettorale, che assicura altresi la pubblicazione del nome del candidato Primo ministro sulla scheda elettorale” (vedilo inhttp://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/rifcost/ressten/sed028al.htm). 26 Art. 2, 2° comma (cfr. http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/rifcost/ressten/sed028al.htm). scioglimento (27) e la mozione di sfiducia non era connessa all’automatismo dello scioglimento anticipato, ma era configurata come una mozione di sfiducia costruttiva simile a quella tedesca e spagnola (28). E queste ultime due differenze non sono affatto marginali, in quanto si innestano su elementi comuni che segnerebbero già un notevole rafforzamento della posizione costituzionale del governo e una tutela forte della stabilità dell’esecutivo: in fondo si può dire che fra le due opzioni passa la differenza fra il premierato “forte” (29) e il premierato “assoluto”. 13. Régime parlementaire adieu? Detto in altri termini: gli strumenti previsti per rafforzare il Governo ed il Premier nell’Atto Senato 2544 (indicazione del Primo Ministro; potere di scioglimento attribuito al Premier; potere di nomina e revoca dei ministri; scioglimento automatico in caso di sfiducia e semi-automatico in caso di dimissioni, morte e impedimento permanente; questione di fiducia con minaccia di scioglimento) sono pericolosi non considerati singolarmente, ma nel loro insieme. Ad essi poi vanno aggiunti i meccanismi di razionalizzazione già operanti: l’interpretazione del regolamento della Camera cristallizzatasi sotto la Presidenza Violante nella XIII legislatura; il sistema elettorale prevalentemente maggioritario; la bipolarizzazione del sistema politico. L’intreccio di tutti questi meccanismi rischia di essere micidiale e di far fuoruscire del tutto dal calco “parlamentare” la forma di governo italiana. Si costruirebbe così un sistema di governo in cui il Primo Ministro sarebbe più forte del Presidente degli Stati Uniti (che non è eletto come leader di una maggioranza parlamentare (30) e non può porre la questione di fiducia, né può sciogliere le Camere); più forte del Presidente e del Primo Ministro francesi (per l’assenza di contrappesi come il ricorso delle minoranze parlamentari alla Corte costituzionale, di cui non a caso non v’è traccia nel debole “statuto dell’opposizione” abbozzato dall’art. 64.4) (31); più forte del L’art. 6 si limitava a stabilire che “Il Primo ministro può chiedere che un disegno di legge del Governo sia votato entro una data determinata, secondo le modalità stabilite dal regolamento parlamentare” (cfr. http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/rifcost/ressten/sed028al.htm). 27 28 Stabilivano i commi 3, 4 e 5 dell’art. 3: “ (3) Il Parlamento può esprimere la sfiducia al Primo ministro mediante l'approvazione di una mozione, che deve contenere la designazione di un nuovo Primo ministro, con votazione per appello nominale, a maggioranza assoluta dei suoi componenti. (4) La mozione di sfiducia deve essere sottoscritta da almeno un terzo dei componenti il Parlamento e non può essere messa in discussione prima che siano trascorsi tre giorni dalla presentazione. (5) Il Presidente della Repubblica nomina Primo ministro la persona designata nella mozione entro cinque giorni dall'approvazione.” (cfr. http://www.camera.it/_dati/leg13/lavori/rifcost/ressten/sed028al.htm). Sul testo A dell’articolato Salvi rinvio a quanto riportato nei contributi da me curati nel volume V. ATRIPALDI, R. BIFULCO, La Commissione parlamentare per le riforme costituzionali della XIII legislatura, Giappichelli, Torino, 1998, passim, specie p. 217, 237, 265. 29 Altre proposte nel senso del premierato “forte”, ma non assoluto, erano contenute nel Rapporto Maccanico: cfr. A. MACCANICO, Rapporto sulle questioni istituzionali, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 2000, p. 33 ss.. 30 Ne erano privi, ad es., Ronald Reagan e Gorge Bush sr. e, dal 1995 al 2001, Bill Clinton. 31 Dissento, anche se solo in parte, dall’opinione che il sistema semipresidenziale francese sia più bilanciato del sistema delineato dall’atto Senato n. 2544 (così S. CECCANTI, Se difendere il mattarellum significa sragionare, in Il riformista, 2.3.2004, leggibile anche sul sito www.astridonline.it). E’ vero, infatti, che il sistema semipresidenziale è più sbilanciato del “premierato” spagnolo o tedesco, ma il sistema delineato dall’Atto Senato n. 2544, pur apprezzabile per aver evitato la strada semipresidenziale, che avrebbe disperso la razionalizzazione prodottasi nello scorso decennio, appare molto diverso, per la combinazione di poteri del Premier che prevede, rispetto alle forme tradizionali di “premierato”: mentre queste ultime sono casi di regime parlamentare, quella delineata nell’Atto Senato n. 2544 non lo è, come provo a spiegare nel testo. A mio avviso i fraintendimenti cui la posizione di Ceccanti su questi problemi da luogo dipende dalla ambigua nozione di “forma di governo neoparlamentare”, qui chiamata “premierato”, e nella quale si tende Premier israeliano eletto direttamente negli anni 1996-2001 (era infatti necessaria una sorta di fiducia iniziale (32); il potere del Premier di sciogliere la Kneseth era subordinato all’assenso del capo dello Stato (33) mentre le due dimissioni determinavano unicamente nuove elezioni “speciali” per il solo Premier (34) e non lo scioglimento della Kneseth; quest’ultima era poi eletta con il sistema proporzionale e il Premier non aveva facoltà di ricorrere ad una questione di fiducia con voto bloccato come quella delineata nell’art. 94.2) e, ovviamente, ben più forte del Presidente del Governo spagnolo, del Cancelliere tedesco e del Primo ministro svedese, i quali possono essere, a certe condizioni, disarcionati dalla loro maggioranza e, in taluni casi, anche da una maggioranza parlamentare diversa (35). Rimane certo il confronto con il “modello Westminster”, cioè con il sistema parlamentare praticato in Gran Bretagna e in alcuni Paesi del Commonwealth che ne riproducono gli assetti istituzionali (Australia, Canada, Nuova Zelanda, quest’ultima almeno sino all’introduzione del sistema proporzionale). Ma anche qui vi sono almeno due importanti differenze. La prima è il ruolo di check rappresentato da quello che in tali sistemi è anche il punto di forza della posizione del Primo Ministro, ovvero il suo stesso partito: quest’ultimo ne è solo fino ad un certo punto docile strumento; per altri aspetti ne è anche il controllore e, in casi estremi, esercita la facoltà stessa di sostituire il leader del Partito, sia egli Primo Ministro (36), sia egli capo dell’opposizione (37). La facoltà di sostituire il Premier verrebbe invece fortemente limitata dall’Atto Senato n. 2544 ai casi di cui agli art. 92.4 e 88.2, che danno forma giuridica a questa stessa facoltà in un sistema bipolare ma multipartitico, con esiti che non sono affatto coincidenti. La sostituzione del Premier da parte della sua maggioranza rischia di diventare impossibile nel sistema che si sta tentando di introdurre in Italia e ciò è quasi paradossale se si considera l’attuale deficit di legittimazione democratica dei processi di selezione delle candidature (alla carica di Primo Ministro, ma anche a quelle di – a mio avviso erroneamente – ad assimilare forme di regime parlamentare razionalizzato e modelli di governo di legislatura con elezione diretta o con il meccanismo sfiducia-scioglimento. 32 Si v. gli art. 3 lett. c) e 14 lett. a) della Legge fondamentale israeliana del 1992. 33 Art. 22 della Legge fondamentale israeliana del 1992. 34 Art. 15, 23 lett. c), 24, 26 lett. d), 27 lett. e) e 28 della Legge fondamentale israeliana del 1992. 35 Come esempi di cambi di maggioranza in corso di legislatura si possono ricordare: a) in Spagna le dimissioni imposte nel 1981 al Presidente del Governo e leader dell’Unione del Centro democratico Adolfo Suarez nel 1981, con sua successiva sostituzione da parte del compagno di partito Leopoldo Calvo Sotelo; b) in Germania la sostituzione di Adenauer con Erhard a metà legislatura nel 1963, di Erhard con Kiesinger nel 1966 (in questo caso cambiò anche la coalizione, poiché ad un governo democristiano-liberale subentrò una grande coalizione fra democristiani e socialdemocratici) e di Schmidt con Kohl nel 1982 (a seguito di una mozione di sfiducia costruttiva con cui una coalizione fra democristiani e liberali sostituì una coalizione fra socialdemocratici e liberali); c) in Svezia si segnalano vari casi di sostituzione “volontaria” del Premier in corso di legislatura (Palme al posto di Erlander nel 1969; Persson al posto di Carlsson nel 1996) due sostituzioni del Premier deceduto (Erlander al posto di Hansson nel 1946 e Carlsson al posto di Palme nel 1986). Questi sono però casi che sarebbero possibili anche alla luce dell’art. 92.4 delineato nell’A.S. 2544. Crisi di governo in corso di legislatura ebbero invece luogo fra il 1976 e il 1992, durante il periodo delle c.d. coalizioni “borghesi”. La stabilità dei governi svedesi è infatti dovuta alla combinazione di alcune tecniche del parlamentarismo negativo con la solidità del partito socialdemocratico, che ha sempre governato dal 1932 ad oggi, con l’eccezione di due brevi periodi (1976-82 e 1991-94). Per qualche approfondimento rinvio a M. OLIVETTI, La forma di governo svedese: il parlamentarismo negativo razionalizzato, in Studi in onore di S. Galeotti, Giuffrè, Milano, 1998, p. 943 ss. 36 L’ultimo caso di sostituzione del Primo Ministro alla leadership del suo partito è quello che si è verificato il 12 dicembre 2003 in Canada, ove l’ex ministro delle Finanze Paul Martin è subentrato al Primo Ministro Jean Chretien (vincitore di ben tre elezioni generali consecutive) alla guida del Partito liberale. deputato e senatore, così come a quelle di capo di governo o di membro di un consiglio a livello comunale, provinciale e regionale), che – come è noto – è affidata quasi in esclusiva a partiti e coalizioni, i quali riproducono al loro interno (sia pure in misura diversa) deficit democratici che sono invece assenti (o almeno molto più ridotti) nei partiti anglosassoni. 14. Un sistema squilibrato E’ dunque l’assenza di un equilibrio complessivo il limite più preoccupante della forma di governo proposta nell’Atto Senato n. 2544. I rimedi proposti ai ben noti mali del sistema di governo italiano appaiono infatti al tempo stesso tardivi ed eccessivi. Essi sono tardivi perché si continua a ragionare come se il decennio 1994-2004 non fosse trascorso e come se la forma di governo italiana fosse ferma al parlamentarismo instabile degli anni della proporzionale. Da allora, invece, molta acqua è passata sotto i ponti del nostro regime parlamentare, al punto che si può ritenere che la promessa contenuta nell’ordine del giorno Perassi sia oggi in parte realizzata (38). Certo, alcuni correttivi fra quelli proposti nel disegno di legge costituzionale in discussione potrebbero essere utili a perfezionare questa evoluzione, ma rimangono alcune incognite sul piano delle dinamiche del sistema politico che non è possibile correggere con uno schiocco di dita, cioè con qualche ulteriore meccanismo di stabilizzazione. Andrebbe invece percorsa la via della riforma del sistema dei partiti, anche se il ben noto paradosso di Zagrebelsky (39) sulle riforme costituzionali trova qui un suo ulteriore campo di applicazione: i partiti, che sarebbero i primi destinatari della cura riformista da adottare, sono i primi soggetti a rifiutare la medicina e ad essere incapaci di curarsi. I rimedi dell’iper-razionalizzazione sono inoltre eccessivi. Il cocktail di medicine proposte rischia infatti di uccidere il paziente che si vuole curare e di produrre, invece dell’approdo sulle agognate spiagge della seconda Repubblica, che dovrebbe essere la meta della transizione italiana (40), la nascita di un Secondo Impero, in cui il dominio dell’Esecutivo svuoti non solo gli equilibri fra gli organi costituzionali, ma anche i meccanismi di garanzia, che male vivono in un sistema squilibrato (41). A ciò si aggiungano gli altri elementi di squilibrio del nostro sistema costituzionale. Il primo è il ben noto “fattore B”, cioè la formidabile concentrazione di potere politico, economico e mediatico nelle mani dell’attuale Presidente del Consiglio, che costituisce il pendant del “fattore K” 37 L’ultimo caso di sostituzione del leader del Partito di opposizione a seguito di una sfida lanciata dall’interno del Partito si è verificato nell’ottobre 2003 ai danni di Ian Duncan Smith, cui è subentrato Michael Howard. 38 Per l’ordine del giorno Perassi (presentato il 4 settembre 1946 nella II sottocommissione per la Costituzione e approvato il giorno seguente) si v. CAMERA DEI DEPUTATI – SEGRETARIATO GENERALE, La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, vol. VII, Roma, 1970, p. 917 (per l’approvazione, p. 944). Al tempo stesso si può dire che gli obiettivi dell’ordine del giorno Perassi (la stabilità di governo; evitare le degenerazioni del parlamentarismo) ben si prestano a circoscrivere l’azione riformatrice ancor oggi utile. 39 G. ZAGREBELSKY, Adeguamenti e cambiamenti della Costituzione, in Studi in onore di Vezio Crisafulli, vol. I, Cedam, Padova, 1985. 40 Condivido però l’analisi proposta in questo seminario da G. Amato, il quale ha ricordato come le istanze di svolta del 1993 non erano riducibili alla sola stabilità di governo, ma anche ad esigenze e forme nuove di partecipazione. degli anni della Repubblica proporzionalistica e che è decisivo per spiegare le dinamiche della fase attuale più o meno come il “fattore K” lo era per gli anni 1945-89. Il controllo di ampie risorse economiche da parte di un attore politicamente decisivo e lo squilibrio del sistema dei media fanno da sfondo al sistema che l’atto Senato n. 2544 propone di introdurre e squilibrano ulteriormente il quadro determinando una concentrazione di poteri che rischia di non avere pari nei Paesi dell’occidente democratico. Il secondo è la crisi dei contrappesi che la nostra Costituzione delinea: il Presidente della Repubblica, che verrebbe fatto oggetto di una vera e propria “castrazione costituzionale” dei suoi poteri più incisivi; la Corte costituzionale, che rimane al di fuori delle garanzie del sistema politico (basti pensare all’art. 66, terreno di pesanti violazioni del diritto scritto e della prassi costituzionale nella presente legislatura (42)); e il referendum abrogativo, ormai neutralizzato con la tecnica dell’invito a non votare e che la riforma in esame si guarda bene dal tentare di rianimare rivedendone il quorum lungo linee proposte autorevolmente in dottrina (43). Si è autorevolmente evidenziato il rischio che la riforma voluta dal II governo Berlusconi porti l’Italia in un assetto ormai estraneo alla tradizione dei limiti al potere di governo propria del costituzionalismo liberal-democratico (44). Certo tale valutazione può sembrare eccessiva e molto dipenderà in concreto da chi si troverà a manovrare il veicolo costituzionale che è stato costruito sulla base del lavoro dei sedicenti saggi di Lorenzago. Ma sin d’ora si può convenire che si è in presenza di un veicolo con un motore troppo pesante, che rischia di sfondarlo e troppo potente, senza che vi sia un adeguato sistema di frenaggio. Si tratterebbe di un sistema piuttosto singolare se analizzato in prospettiva comparata. Non più parlamentare (visto che la Camera non può sfiduciare il governo senza produrre al tempo stesso il proprio suicidio istituzionale), non ancora presidenziale (per la presenza di poteri di “governo in Parlamento” sconosciuti alla tradizione del presidenzialismo democratico statunitense) e distante anche dagli altri modelli conosciuti (direttoriale, semipresidenziale, elezione diretta del Primo Ministro). Un vero e proprio unidentified political object (45), per il quale può essere utile la nota definizione proposta da Pufendorf dell’Impero Germanico: “…esse irregulare aliquod corpus, et tantum monstro simile» (46). 41 Come dimostra la storia dei sistemi presidenziali latino-americani almeno sino ad un decennio fa. In questi sistemi il superpotere del Presidente ha tradizionalmente svuotato sia gli apparenti contrappesi, sia le garanzie e i diritti dei cittadini, pur doviziosamente enumerati dalle Costituzioni latino-americane. 42 Ci si riferisce ai ben noti casi dei c.d. “seggi fantasma” (su cui v. ora L. SPADACCINI, Regole elettorali e integrità numerica delle Camere. La mancata assegnazione di alcuni seggi alla Camera nella XIV legislatura, Promodis Italia editrice, Brescia, 2003) e dell’ineleggibilità sopravvenuta di deputati eletti sindaci (su cui cfr. G. RIVOSECCHI, Recenti tendenze in tema di verifica dei poteri: prima l’ineleggibilità sopravvenuta veniva tramutata in incompatibilità, ora invece scompare!, in Forum di Quaderni costituzionali, sul sito web www.unife.it/progetti/forumcostituzionale. 43 Basti citare A. BARBERA, A. MORRONE, La Repubblica dei referendum, Il Mulino, Bologna, 2003. 44 In questo senso gli interventi di L. ELIA e G. SARTORI nel già citato volume ASTRID, Costituzione. Una riforma sbagliata, p. 363 ss. e 269 ss.. 45 Riprendo, per applicarla alla forma di governo in esame, la definizione ironica dell’Unione europea proposta da P.C. SCHMITTER, Come democratizzare l’Unione europea e perché, Il Mulino, Bologna, 2000, p. 10. 46 SEVERINUS DE MONZAMBA VERONENSIS, De statu imperii germanici liber unus, Genevae, 1667, cap. VI par. 9 (sotto tale pseudonimo si celava, com’è noto, il Pufendorf). 15. Post scriptum. Il parziale riequilibrio di un sistema squilibrato. Dal “premierato assoluto” al “premierato a maggioranza ingessata”. Come si diceva all’inizio, per quanto riguarda la forma di governo, il disegno di legge di riforma della seconda parte della Costituzione italiana, approvato al Senato il 25 marzo 2004, è stato sensibilmente modificato dalla Camera dei deputati nella versione che ha ottenuto luce verde dall’Assemblea il 15 ottobre scorso (47). A fronte di tali modificazioni, occorre tornare a porsi le domande sulla idoneità dei suoi contenuti negli aspetti qualificanti di esso. In particolare occorre chiedersi che ne sia del “premierato assoluto” che caratterizzava il testo presentato dal Governo al Senato nel settembre scorso (e solo in parte modificato dall’Assemblea di Palazzo Madama): si può ritenere che l’abnorme concentrazione di poteri nel Primo Ministro che caratterizzava il testo partorito dai sedicenti “saggi” di Lorenzago contraddistingua ancora la riforma nella sua versione attuale? La risposta a questa domanda richiede una risposta articolata, capace di andare oltre le valutazioni entusiastiche o apocalittiche che hanno avuto la prevalenza nei media all’indomani dell’approvazione parlamentare. Vediamo allora le principali modificazioni apportate al progetto dall’Assemblea di Montecitorio, per la parte relativa alla forma di governo. A) La prima innovazione attiene alla formazione dell’Esecutivo. Rimane ferma l’espressa previsione della candidatura alla carica di Primo Ministro, che deve avvenire in occasione delle elezioni per la Camera dei deputati. Secondo l’art. 92.2 all’indomani delle elezioni, il Presidente della Repubblica deve nominare il nuovo Premier sulla base dei risultati elettorali. Il nuovo Primo Ministro acquisisce il potere di nominare e di revocare i ministri (art. 95) e dovrebbe presentarsi alla Camera (solo davanti a questa, non al Senato) per esporre il proprio programma di governo (art. 94.1). Tale esposizione – e qui sta l’elemento di novità – verrebbe seguita da un voto di approvazione della Camera, riferito però al solo programma e non alla composizione dell’Esecutivo (art. 94.1). Ricompare pertanto una specie di voto di fiducia iniziale, anche se configurato come mera approvazione del programma e non della composizione dell’Esecutivo. Si tratterebbe pertanto di un voto di fiducia iniziale ad oggetto delimitato, che però potrebbe recuperare un ruolo per la Camera nella nascita dell’esecutivo, con un potere di codecisione sul programma di governo. Non è però chiaro se ciò possa bastare ad eliminare il possibile inconveniente dell’eventuale assenza di una maggioranza parlamentare iniziale, e quindi della necessità di formare un Esecutivo di minoranza. La necessaria approvazione del programma di governo da parte della Camera ridimensionerebbe la natura minoritaria di tale Esecutivo, anche se rimane il fatto che ad esso (che potrebbe vedersi confermare il programma con il voto della sola maggioranza relativa della Camera) si applicherebbero poi i meccanismi di stabilizzazione che si vedranno fra breve (e che si sono già in parte sopra delineati). B) Per quanto riguarda la vita del governo, il progetto di riforma si ispira a tre finalità: garantire la durata dell’Esecutivo per tutta la legislatura, salve limitate eccezioni; cristallizzare la 47 Su questo testo si v. da ultimo le osservazioni di A. Barbera e di C. Fusaro nel Forum online della rivista Quaderni costituzionali. maggioranza nella sua composizione uscita dalle urne; riconoscere al Governo ampi poteri di direzione del lavoro legislativo della Camera. L’ispirazione del governo di legislatura è visibile nelle disposizioni volte ad evitare le crisi di governo e a riconnettere ad esse conseguenze talmente gravi da dissuaderne l’apertura. La conseguenza delle dimissioni volontarie del Primo Ministro, della sua morte o impedimento permanente, così come del voto di sfiducia è lo scioglimento anticipato della Camera, secondo quanto risulta dal riformulato art. 88. Allo stesso modo, il Premier può chiedere al Capo dello Stato lo scioglimento della Camera in qualsiasi momento. In tutti questi casi (con la sola eccezione della mozione di sfiducia “secca”, di cui all’art. 94.3, la cui approvazione ha come conseguenza lo scioglimento automatico della Camera) lo scioglimento può essere evitato se entro venti giorni dall’evento la Camera approva una mozione contenente l’indicazione del nuovo Primo Ministro e alla condizione che la maggioranza richiesta per l’approvazione della mozione sia raggiunta esclusivamente con il voto di deputati che componevano la maggioranza parlamentare iniziale (art. 88.2). Dunque la crisi di governo può essere superata all’interno della legislatura solo a condizione che la maggioranza rimanga immutata, mentre le variazioni alla maggioranza che sostiene l’esecutivo sono ammesse solo nella misura del superfluo, ovvero di quanto superi la metà più uno dei membri della Camera. C) Viene qui in questione il secondo tratto caratterizzante del rapporto fra Governo e Parlamento durante la vita dell’Esecutivo: la maggioranza iniziale, quella uscita dalle elezioni, è necessariamente ingessata; nelle votazioni fiduciarie essa può contrarsi, ma senza mai scendere al di sotto della maggioranza assoluta della Camera; ogni apporto dall’esterno è invece precluso. Non solo lo scioglimento può essere evitato, nei casi sopra indicati, esclusivamente con l’elezione di un Premier all’interno della maggioranza iniziale, ma regole analoghe valgono per altri due casi: la mozione di sfiducia può essere costruttiva anziché semplice a condizione che la maggioranza che la approva sia ancora una volta composta all’interno di quella iniziale (art. 94.5); la stessa cosa vale per la questione di fiducia posta dal Primo Ministro, che si intende concessa solo se la maggioranza che approva la richiesta del Premier è quella iniziale (art. 94.5). In tal modo si intende evitare il trasformismo non solo della maggioranza parlamentare, ma anche del Premier. Quest’ultima innovazione, introdotta alla Camera, riequilibra leggermente il rapporto fra Governo e Parlamento in favore del secondo: ora non è solo la Camera ad essere astretta nei vincoli della maggioranza ingessata, ma anche il Primo Ministro, che non può procedere alla sostituzione in corsa di pezzi della sua maggioranza con contributi provenienti dall’opposizione. Deve allora riconoscersi che, ferme le critiche esposte sopra (e riprese di seguito) all’ingessamento della maggioranza, questa correzione appare opportuna perché limita la discrezionalità del Primo Ministro in modo eguale e speculare a quello in cui è limitata la discrezionalità della Camera. Egualmente positiva è la previsione, accanto alla mozione di sfiducia “secca” prevista dall’art. 94.3, di una mozione di sfiducia costruttiva (art. 94.5). Mentre la prima produce inevitabilmente lo scioglimento automatico della Camera, la seconda, se approvata con i voti della maggioranza parlamentare iniziale e se riferita al proseguimento nell’attuazione del programma iniziale, obbliga il Presidente della Repubblica a nominare Primo Ministro il candidato in essa indicato. In tal modo, la Camera recupera uno strumento di indirizzo dell’azione dell’Esecutivo che le consente di sostituire il proprio Premier all’interno del proprio seno. Rimane comunque la scarsa praticabilità dell’istituto, che è minore quanto più risicata è la maggioranza iniziale: paradossalmente, infatti, un Esecutivo con una larga maggioranza parlamentare iniziale potrebbe essere sostituito più facilmente di un esecutivo sostenuto all’inizio da una maggioranza ristretta. Se quest’ultima fosse, poniamo, di due deputati, basterebbe al Premier controllare due deputati per impedire la sfiducia a suo danno (essa, infatti, produrrebbe come conseguenza lo scioglimento della Camera) e per esercitare più liberamente il potere di scioglimento. D) La terza particolarità riguarda i cosiddetti poteri del “governo in Parlamento”. Si tratta di poteri volti a consentire all’esecutivo il controllo dell’agenda legislativa e, attraverso questo, l’attuazione del programma su cui ha ottenuto, unitamente alla sua maggioranza, l’investitura popolare (e parlamentare). La riforma riconoscerebbe la corsia preferenziale per i progetti di legge presentati dal Governo e il diritto che essi siano approvati entro una data determinata (art. 72.5, 1. frase); il Primo Ministro può poi fare ricorso al voto bloccato, ovvero chiedere che la Camera si pronunci, articolo per articolo, su un disegno di legge nella forma indicata dal Governo stesso (escludendo quindi in radice l’emendabilità del testo “bloccato”: v. art. 72.5, 2. frase); infine, il Primo Ministro può porre la questione di fiducia (ora espressamente denominata come tale) su un testo all’esame della Camera, nelle forme previste dal regolamento di questa, con l’esclusione delle leggi costituzionali (art. 94, 2° comma). Si è così proceduto a separare la questione di fiducia dal voto bloccato e a ricondurla nell’alveo della disciplina del regolamento della Camera, che è dunque abilitato a circoscriverla e a delimitarne la portata, in maniera simile a quanto accade oggi. La provvidenziale esclusione delle leggi costituzionali contiene poi un elemento di chiarezza, che esclude dall’indirizzo governativo ciò che per definizione non può rientrarvi. Inoltre, in caso di rigetto della questione di fiducia da parte della Camera (o di approvazione di essa con una maggioranza diversa da quella iniziale), il Premier deve dimettersi e, diversamente dal testo presentato al Senato, non si ha più lo scioglimento automatico della Camera, ma si applicano le regole generali viste sopra sulle conseguenze delle dimissioni dell’Esecutivo. Occorre riconoscere che tutte le modifiche qui accennate sono migliorative. Quella che nel testo presentato al Senato nel settembre 2003 era parsa a molti l’arma nucleare nei rapporti Primo Ministro/Camera è stata in parte disinnescata. Rimane tuttavia il fatto che, con lo scioglimento semiautomatico della Camera nei casi di crisi (e quindi anche nel caso di crisi aperta dal rigetto di una questione di fiducia) le condizioni che consentono di proseguire il cammino della legislatura appaiono oltremodo difficili. Ciò non sarebbe di per sé criticabile se strumenti costituzionali di questo tipo (la questione di fiducia come il potere di scioglimento) pesassero nella dinamica della forma di governo non solo per il loro effettivo utilizzo, ma anche per l’effetto deterrente della minaccia di farvi ricorso. Il rischio che la questione di fiducia (istituto ben noto nel nostro ordinamento), trasfigurata all’interno di un sistema di governo di legislatura, possa imbavagliare il Parlamento, rimane un rischio elevato. Al riguardo può essere utile ricordare che proprio uno dei sistemi parlamentari correntemente considerati fra i meglio funzionanti in Europa (e spesso ricordati dagli aspiranti riformatori) – quello spagnolo – consente la questione di fiducia solo nella sua forma “astratta”, ovvero come strumento in mano al Governo per ottenere la conferma della fiducia della Camera, e non nella forma “concreta” (nota nella nostra esperienza parlamentare e richiamata dall’art. 94, come modificato dal progetto in commento), ovvero come strumento per ottenere l’approvazione di una misura determinata. Si deve fra l’altro osservare che questo sistema di regole farebbe scomparire dalla dinamica della forma di governo italiana uno dei suoi tratti più caratteristici: le crisi di governo “extraparlamentari”. Queste ultime, infatti, potrebbero sopravvivere nella forma delle crisi aperte dalle dimissioni “spontanee” del Primo Ministro (nonché nei casi di morte o impedimento permanente dello stesso), ma la crisi così apertasi avrebbe due esiti possibili: una parlamentarizzazione successiva per l’elezione del nuovo Premier (alle condizioni precisate dall’art. 88 Cost.) o lo scioglimento necessario della Camera. E) Il quadro così sintetizzato va completato ricordando alcuni ulteriori poteri riconosciuti al governo per regolare il procedimento legislativo fra Camera e Senato. Il Premier può chiedere al Presidente della Repubblica l’autorizzazione a dichiarare che un disegno di legge è “essenziale” ai fini della realizzazione del suo programma di governo, con la conseguenza che, in tal caso, il disegno di legge può essere approvato dalla Camera anche contro la volontà del Senato (nelle ipotesi in cui, normalmente, l’ultima parola spetterebbe alla Camera alta: art. 70, 4° comma). Si tratta di uno strumento fortemente criticabile, per due ragioni. La prima è l’alterazione che essa produrrebbe nelle regole sul procedimento legislativo in un sistema bicamerale che diverrebbe – a differenza di oggi – imperfetto: al riguardo meccanismi di questo tipo ingenerano solo confusione. Si aggiunga che il ricorso a questa procedura rischia di divenire la regola e non più l’eccezione in casi in cui le due Camere abbiano maggioranze diverse. Sarebbe invece necessario scrivere un po’ meglio le regole sul procedimento legislativo, nelle quali si vede un grado di sciatteria e di inutile complicazione che sarebbe agevolmente superabile pur mantenendo fermi gli intenti cui i sostenitori del disegno di legge costituzionale si ispirano. La seconda è il coinvolgimento del Presidente della Repubblica nella valutazione circa la pertinenza di una misura all’esame del Senato al programma di governo: si tratta infatti di una valutazione squisitamente politica, a meno di non immaginare una formalizzazione del programma governativo iniziale, che rischierebbe di divenire non più un “contratto con gli italiani”, ma una sorta di capitolato d’appalto, con migliaia di clausole, che però subirebbero un inevitabile invecchiamento nel corso della legislatura (la cui durata attuale, di 5 anni, viene confermata nel progetto). E’ invece apprezzabile che l’utilizzazione di questo strumento procedurale sia stata sganciata dal necessario ricorso alla Camera alla questione di fiducia, che avrebbe incentivato il ricorso a quest’ultima, riducendo al minimo la dialettica parlamentare. F) Quale valutazione dare di questo complesso sistema? Appare piuttosto difficile confermare oggi integralmente il giudizio espresso un anno fa da Leopoldo Elia e continuare a qualificare come assoluto il premierato che esce dalla Camera e che sembrava permanere tale ancora nella versione approvata a marzo dal Senato. In effetti una serie di meccanismi di riequilibrio (sfiducia costruttiva, accanto a quella secca; ristrutturazione della questione di fiducia; limiti al trasformismo del Premier) ridimensiona almeno in parte l’assolutezza del premierato, o, quantomeno, fa passare questo profilo – che rimane potenzialmente presente – in secondo piano rispetto ad altri tratti caratteristici. Ciò non muta però la valutazione, che rimane complessivamente negativa, sul progetto. E ciò per tre ragioni. In primo luogo al Premierato assoluto è subentrato un “Premierato a maggioranza ingessata”. L’intento antiribaltonista è evidente e in sé lodevole, ma le disposizioni cui si fa ricorso introducono un sistema troppo rigido: non è un caso che regole simili non vengano scritte da nessuna parte in Europa. Anche nel sistema più simile a quello della riforma voluta dalla Casa delle Libertà, quello inglese, ci si guarda bene dallo scrivere regole simili e quindi dal cristallizzarle. L’iper-razionalizzazione che caratterizza il progetto vorrebbe scrivere le regole di un sistema neoparlamentare: ma in tutti i Paesi nei quali il regime parlamentare funziona con modalità simili a quelle che i riformatori hanno di mira non si procede a irrigidirne le dinamiche in tal modo. Una Costituzione simile nasce miope, incapace di guardare lontano, e rischierebbe di divenire inadatta se il panorama politico-istituzionale mutasse rispetto all’assetto attuale. Molto meglio sarebbe invece affidarsi a meccanismi un po’ più flessibili, come la valutazione del Presidente della Repubblica sulla corrispondenza fra maggioranza iniziale e maggioranza sfiduciante successiva (come si prospetta negli emendamenti presentati dai deputati di centro-sinistra alla Camera) (48) o, addirittura, affidare l’emersione delle dinamiche che il disegno di legge di riforma ha di mira alla evoluzione delle prassi politiche, avviata, ma non ancora completata, nell’ultimo decennio. In secondo luogo, la cristallizzazione della maggioranza parlamentare iniziale (dal testo essa sembrerebbe essere quella composta dai deputati “collegati” al nuovo Primo Ministro) sembrerebbe creare i presupposti per il superamento della democrazia rappresentativa per come è nota al costituzionalismo uscito dalle rivoluzioni liberali del XVII e del XVIII secolo. La 48 Questa valutazione – che avrebbe un precedente nella Costituzione portoghese oggi in vigore, ed applicata sul punto nell’estate scorsa per la sostituzione del Primo Ministro José Manuel Durao Barroso – sarebbe infatti confinata nei casi limite di crisi della maggioranza, mentre quelle ipotizzate dal disegno di legge in commento (procedura per far valere l’interesse nazionale; autorizzazione alla richiesta di dichiarare essenziale per il programma di governo un progetto di legge che dovrebbe essere approvato in via definitiva dal Senato) trascinerebbero il Presidente nella ordinaria dialettica politica. Per questo motivo, mentre l’arbitrato presidenziale nel caso-limite della decisione sullo scioglimento sarebbe conforme alla logica di un Presidente garante super partes, l’arbitrato sull’interesse nazionale e sulla procedura legislativa rischierebbe di fare del Presidente un attore (forse non più un arbitro) della politica day by day. componente “plebiscitaria”, ravvisata da E. Fränkel (49) nei partiti politici già all’indomani della II guerra mondiale e ritenuta allora in tensione con la democrazia rappresentativa classica, verrebbe dotata di rilevanza giuridica formale ed acquisirebbe una chiara prevalenza rispetto all’idea della rappresentanza senza vincolo di mandato. La maggioranza che traspare dal progetto di riforma appare simile ad una truppa posta all’ordine di un generale-Premier, in un tentativo di surrogare il declino dei partiti politici con un’irregimentazione della coalizione elettorale vincente (e, indirettamente, di quella/e perdente/i) (50). Infine, impressiona l’insieme dei poteri posti in mano al Primo Ministro (si badi bene: al Premier come organo monocratico e non al governo come organo collegiale). Premessa l’esigenza di rafforzarne – in maniera moderata e prudente – la posizione rispetto all’assetto attuale, occorre rilevare che la riforma va oltre il segno. La panoplia di strumenti di direzione politica posta nelle sue mani non ne farebbe forse un Premier onnipotente, ma certo non sarebbe ispirata ad un sano criterio di equilibrio dei poteri (51). Da questo punto di vista, la critica formulata nella prima parte di questo testo rimane ferma: la pericolosità della riforma non sta tanto nel rafforzamento del Governo rispetto al Parlamento, ma nel rafforzamento specifico dei poteri monocratici del Primo Ministro, che rimane il solo depositario degli strumenti di guida del rapporto con il Parlamento (anche se i nuovi strumenti di guida del lavoro legislativo della Camera – introdotti nel testo approvato dall’Assemblea di Montecitorio – sono imputati dall’art. 72.5 al Governo come organo collegiale e non al Premier). Rimane altresì ferma la critica che sottolinea che se nessuno degli strumenti posti in mano al Premier è di per se eversivo, rischia di essere tale l’insieme di essi, che partorisce un sistema che continua ad apparire squilibrato, anche se in misura sensibilmente inferiore al testo della Camera. Se a ciò si aggiunge che il progetto continua a trascurare il profilo dell’equilibrio del sistema istituzionale italiano (limiti alla rieleggibilità del Primo Ministro (52); garanzie dell’opposizione; equilibri del sistema dei media e tutto ciò che ruota attorno al “fattore B”; ruolo del Presidente della Repubblica (53)) e se si guarda al sistema bicamerale delineato nella riforma, ne risulta un assetto costituzionale che appare non soltanto barocco, ma addirittura rococò o churrigueresco. Il sistema parlamentare previsto dalla Costituzione attuale continua a risultare preferibile a quello delineato E. FRÄNKEL, La componente rappresentativa e plebiscitaria nello Stato costituzionale democratico (1958), Giappichelli, Torino, 1994. 50 Sui problemi derivanti dalle torsioni della rappresentanza citate nel testo si rinvia a A. DI GIOVINE, Appunto sulla cultura espressa dalla legge costituzionale n. 1 del 1999, in G.F. FERRARI, G. PARODI (a cura di), La revisione costituzionale del titolo V tra nuovo regionalismo e federalismo, Cedam, Padova, 2003, p. 218 e ora A. DI GIOVINE, Fra cultura e ingegneria costituzionale: una forma di governo che viene da lontano, in Democrazia e Diritto, n. 2/2004, anticipato in www.astrid.it. 51 Questa mi sembra anche la valutazione complessiva proposta da M. VOLPI, Il presidenzialismo all’italiana, ovvero dello squilibrio fra i poteri, in corso di pubblicazione in Studi in onore di G. Ferrara, e anticipato nel sito www.astrid.it. 52 Singolarmente, tali limiti verrebbero previsti per il Presidente della Giunta regionale, ma non per il Primo Ministro: si v. l’art. 122.5, come emendato dall’art. 42 del progetto di riforma, nella versione approvata dalla Camera. 53 Le innovazioni apportate alla Camera al testo approvato dal Senato per quanto attiene alla posizione del Presidente della Repubblica si riferiscono soprattutto all’autorizzazione alla richiesta di dichiarare un progetto di legge all’esame del Senato “essenziale” all’attuazione del programma di governo e all’individuazione degli atti sottratti a controfirma. Se quest’ultima innovazione – per quanto attiene specificamente al potere di grazia – va valutata 49 nella riforma, anche perché la natura partisan del progetto di riforma rappresenterebbe una difficoltà in più per il funzionamento dei meccanismi – già in sé discutibili – previsti nel progetto (la vicenda del boicottaggio del titolo V in questa legislatura è una conferma delle difficoltà che riforme di questo tipo incontrano in un sistema maggioritario iperpolarizzato come quello attuale). positivamente, per le ragioni accennate nel testo al par. 11, il “figurino” costituzionale del Presidente della Repubblica non risulta particolarmente chiaro, se paragonato con quello attuale.