Dhammacakkapavattanasutta
Il Discorso della messa in moto della ruota del Dhamma
Il Dhammacakkapavattanasutta, Il Discorso della messa in moto della ruota del Dhamma, noto
anche come Predica di Benares, segna, per i Buddisti, il punto d’inizio della storia della loro fede.
Abbiamo, in questo sutra, un’esposizione dettagliata della dottrina fondamentale del Buddismo,
esposta dettagliatamente dal Tathagata, come il Buddha chiamava se stesso e come veniva chiamato
dai suoi discepoli. Esso ci presenta in poche, brevi e concise frasi l’essenza profonda di quel
notevolissimo sistema di pensiero che così tanta influenza ha avuto nella storia dell’umanità. Mai
prima, nella storia del mondo, uno schema di salvezza tanto efficace era stato presentato in maniera
così semplice, libera da ogni riferimento soprannaturale, indipendente da qualsiasi fede in un’anima
o in un Dio superiore e dalla speranza in una vita futura. Fu un punto di svolta nella storia religiosa
degli esseri umani.
Premesse al Sutra
Questo sutra è conservato nel Canone Pali, insieme di libri che possono essere
definite le Sacre Scritture del Buddismo. Il Canone Pali si divide in tre parti principali
o Canestri, pitaka in pali: 1) Il Sutta Pitaka o Canestro dei Discorsi, 2) Il Vinaya
Pitaka o Canestro della Disciplina, 3) L’Abhidhamma Pitaka o Canestro della
Filosofia. Il Dhammacakkappavattanasutta è incluso nei Sutta Pitaka. Subito dopo la
morte del Buddha, avvenuta intorno al 500 a.C, i suoi discepoli più fedeli, primo tra
tutti Ananda, organizzarono la sistemazione delle predicazioni del Tathagata
realizzando un corpus classico di sermoni. Su questo corpus, considerato come il più
fedele alle parole pronunciate dal Tathagata, si basa la scuola del Buddhismo
Theravada ossia degli Anziani (thera=anziano) che si perpetua oggi nell'attuale
Comunità singalese dove le scritture originarie arrivarono molto presto, in seguito al
Concilio di Patna, tenuto nel diciottesimo anno del Regno di Asoka (304 a.C. – 232
a.C.), il grande imperatore indiano di fervente fede buddista. Fu Asoka,
immediatamente dopo la fine del Concilio, ad inviare missioni ai quattro angoli del
suo impero per diffondere la dottrina del Tathagata e la missione inviata a Ceylon fu
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certamente tra le più importanti. A Ceylon furono inviati gruppi di monaci e i libri
del Canone Pali, sistemati nella versione definitiva dal Concilio, insieme ai
commentari che vennero tradotti in lingua singalese. Sempre a Ceylon il grande
maestro buddista Buddhaghosa, compose il suo grande testo, il Visuddhi Magga o il
Sentiero del Sacro, sorta di enciclopedia della dottrina buddista, e tradusse
nuovamente in lingua pali l’intero Canone di cui in India si andava perdendo la
memoria.
Il Tathagata espone nel Dhammacakkappavattanasutta un sistema di salvezza che egli
chiama Nobile Sentiero e lo divide in otto parti, di fondamentale importanza per una
corretta comprensione di che cosa il Buddismo sia realmente. Il suo obiettivo, non
dimentichiamolo, è l’eliminazione del dolore, sconfiggere ciò che, apparentemente,
non è possibile sconfiggere. Come si può sconfiggere la vecchiaia, la malattia, la
morte? Si può entrandovi dentro, dice il Buddha, penetrando profondamente nel
senso reale di che cosa sono questa vecchiaia, questa malattia, questa morte. Parte
quindi dall’interno come uno scienziato che analizza al microscopio i costituenti
intimi della materia. Proprio questo fa il Buddha. Squarcia, con la potenza del suo
intelletto e della sua determinazione, la superficie apparente della realtà costitutiva
dei fenomeni, vi penetra dentro, li analizza e fa questo servendosi della meditazione,
strumento tanto semplice quanto efficace per la reale, effettiva conoscenza della
verità. Intercettando l’entrata e l’uscita del respiro, il Tathagata penetra poco a poco
sempre più dentro l’intima struttura della materia scomponendola nei suoi elementi
fondamentali e comprendendo il funzionamento effettivo della legge di natura. Il
respiro è, infatti, la sola funzione fisica che sia contemporaneamente cosciente e
incosciente: è possibile alterarlo, respirando più velocemente, ma non è possibile
controllarlo, non è possibile “smettere di respirare”. Il respiro è quindi il ponte tra
conscio e inconscio e la concentrazione su di esso, approfondita, ripetuta,
determinata, ottiene l’effetto di concentrare la mente su quest’unico oggetto, il respiro
appunto, impedendole il vagare incontrollato e il sorgere ripetuto e mutevole dei
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pensieri. Questa concentrazione della mente su un unico oggetto, questa calma,
questa serenità sono i frutti della meditazione samatha alla quale segue vipassana
ossia la meditazione che consente la sperimentazione diretta, sulla propria natura
corporea e mentale, di anicca, l’impermanenza, attraverso il notare del sorgere e
passare delle sensazioni. Non vi è qui lo spazio per esporre in maniera più dettagliata
queste due meditazioni ma esse furono praticate dal Tathagata e furono lo strumento
con il quale il Sublime uscì vittorioso dalla sua lunga ricerca per la cosa che gli
sembrava più importante di tutte: non soffrire.
Dall’illuminazione alla predicazione del Dhammacakkappavattanasutta
Raggiunta l’illuminazione, il Tathagata rimane sette giorni seduto,
a gambe
incrociate, ai piedi dell’albero della saggezza, a Uruvela, sulle rive del fiume
Nerangara, godendo gli incomparabili benefici della liberazione. Il Tathagata sa che
la realizzazione da lui ottenuta non è per tutti. L’impermanenza di tutti gli aggregati
che costituiscono i fenomeni, la negazione dell’io, la catena delle cause e degli effetti
che danno luogo al dolore, l’originazione inter – dipendente, pratityasamutpada, non
potranno che interessare un uditorio colto, preparato, curioso e attento
all’esplorazione di problemi di ordine filosofico. Nell’India dei suoi tempi, tali
persone non potevano che ritrovarsi nelle due classi sociali più alte: i Brahmini e i
Kshatriyas. Solo loro avrebbero potuto comprendere la dottrina, discuterla,
apprezzarla e casomai adottarla. Il Tathagata decide quindi di non insegnare il
Dharma ma il dio Brahma, come racconta il Lalitavistara, testo di scuola Mahayana
che narra le vicende della vita di Buddha, sconvolto da questa sua decisione, lo prega,
lo implora, lo sollecita affinché egli conceda il prezioso insegnamento e liberi gli
uomini dalle catene della sofferenza.
«Allora, o monaci, il Tathagata, con l’occhio di Buddha, esaminando il mondo intero, vide che gli
esseri, che fossero infimi, mediocri, soddisfatti, elevati, abbietti, medi, buoni, molto facili a
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purificarsi, malvagi, molto difficili a purificarsi, di un’intelligenza penetrante, dotati di parola
esercitata, potevano essere suddivisi in tre parti: un terzo certamente in errore, un
terzo
certamente nel vero, un terzo sicuramente nell’incertezza»
Quelli in errore, anche se avessero ascoltato il Dharma, mai lo avrebbero seguito né
avrebbero messo in pratica i suoi insegnamenti, quelli nel vero, se avessero ascoltato
il Dharma, certamente lo avrebbero seguito e avrebbero messo in atto i suoi
insegnamenti, quelli nell’incertezza se mai fossero venuti in contatto con il Dharma,
mai lo avrebbero seguito né mai avrebbero messo in atto i suoi insegnamenti.
Affinché quest’ultima categoria di persone possa, quindi, venire in contatto con il
Dharma, seguirlo e mettere in pratica i suoi insegnamenti, il Tathagata, supplicato da
Brahma, decide di insegnare la meraviglioso Dottrina.
I cinque asceti
A chi insegnarla? Il Tathagata pensa ai suoi primi maestri, Alara Kalama, che gli
aveva insegnato la dottrina che consiste nella povertà e nella restrizione dei sensi, e
Roudraka, che gli aveva insegnato la dottrina della restrizione delle sedi delle qualità
sensibili. Entrambi sono, però, morti. Pensa allora ai cinque asceti che hanno
condiviso con lui i sei anni di mortificazioni corporali. Il Tathagata aveva intrapreso
anche la strada del più rigido ascetismo, annichilendo ogni sua vitalità, mangiando un
solo chicco di riso al giorno, riducendosi pelle ed ossa fino a non poter più reggersi in
piedi. Nemmeno quella si era, però, rivelata la strada giusta. La brama ardente e il
desiderio non erano sconfitti. Non era quella la strada che lo avrebbe condotto alla
liberazione definitiva. Aveva dunque ripreso a nutrirsi, abbandonando quel regime
estremo e mortificante guadagnandosi, però, con questo, la riprovazione dei cinque
asceti che ritenevano quella la sola strada percorribile per chi, veramente, volesse
elevarsi al di sopra della sofferenza, sconfiggere la morte e il dolore. E’ a loro che il
Tathagata pensa. A loro, a questi suoi antichi, increduli compagni, egli rivelerà
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l’incomparabile meraviglia del Dharma che a lui si è rivelato. Con il suo occhio
onnisciente, il Tathagata li vede, tutti e cinque, assisi sotto un albero nel Parco delle
Gazzelle, a Varanasi. Si dirige verso quella città dove arriva sul far della sera.
Quando i cinque asceti lo vedono arrivare decidono di non riconoscere come maestro
uno che ha infranto i suoi voti e di chiamarlo semplicemente per nome. Lo rispettano
ancora, ma un senso forte dell’ortodossia impedisce loro di ricevere come insegnante
autorevole uno che è uscito da quello che, per loro, è il sentiero. Solamente l’anziano
Kondanna rimane lontano da queste intenzioni. Il Tathagata nota tuttavia il cambio di
comportamento degli altri. Li riprende dicendo loro che hanno torto a chiamarlo
semplicemente per nome. Lui ora è il Tathagata, ha trovato il sentiero della salvezza
ed è divenuto così un Sammasambuddha, un Perfettamente Risvegliato. Alcuni, tra
gli asceti, obiettano che, se non vi è riuscito quando ha mortificato il suo corpo, come
ha potuto esservi riuscito senza mortificarlo? E’ il momento culminante. La risposta
che il Tathagata dà loro è il suo primo Sermone. Le sue parole mettono in moto la
ruota del Dharma ed espongono le verità fondamentali del sistema di salvezza che,
con coraggio, determinazione, intuizione senza pari, il Tathagata ha scoperto
autonomamente.
Commentario al Dhammacakkappavattanasutta
La Via di mezzo
«O monaci, coloro che hanno abbandonato la vita mondana non devono indulgere ai due estremi.
Quali sono questi due estremi? Un estremo è il dedicarsi al godimento dei piaceri sensuali: questo
comportamento è infimo, villano, volgare, ignobile e vano. L’altro estremo è il dedicarsi alla
mortificazione di se stessi: questo comportamento è doloroso, ignobile e vano»
Perché questi due estremi sono entrambi ignobili, volgari, vani, infimi, volgari? Lo
scopo principale di uno che sia entrato nella corrente, che abbia abbandonato le
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sensualità gratificanti del mondo o le concezioni mortificanti dell’austerità estrema è
liberarsi dalle «corruzioni» rappresentate dal desiderio ardente e dalla rabbia. Questo
obiettivo non può essere raggiunto indulgendo nei due estremi del piacere mondano e
della mortificazione poiché essi, invece che eliminare, promuovono l’accumulo di
desiderio ardente e rabbia. Dilettarsi negli oggetti dei sensi, apprezzandoli, è
giudicata pratica volgare in quanto questi piaceri conducono alla formazione delle
basi del desiderio, tenaci e lussuriose, e promuovono la concezione di un’ ego,
gratificandolo e conferendogli estrema importanza. L’ego si crede separato dal
mondo, dotato di esistenza reale e questa separatezza fa sorgere pensieri di avarizia,
di gelosia, di invidia, di rabbia, di ardente desiderio. Il successo e l'abbondanza di cui
questo ego può godere, lo fanno divenire spudorato e privo di scrupoli, aggressivo ed
imprudente e fanno sorgere in esso un falso senso di benessere e prosperità e l’errata
convinzione che le proprie azioni non abbiano alcun effetto. Questi sono i risultati del
deliziarsi e provare godimento nei piaceri sensuali ed è per questo che questi piaceri
sono considerati bassi e volgari. Anche il dedicarsi alla mortificazione di se stessi è
una pratica estrema che deve essere evitata. Prima della suprema verità raggiunta da
Buddha, la mortificazione di sé, la rigida vita ascetica, il dormire sulla nuda terra,
cibarsi di radici, rinunciare ad ogni minima comodità della vita materiale era
considerata una pratica nobile e sacra seguita da molti. I cinque asceti ai quali il
Tathagata predicherà il suo primo Sermone erano tra questi. Tuttavia il Buddha dice
chiaramente che tutti coloro che sono entrati nella corrente devono evitare queste
pratiche. Le sue parole si rendono necessarie non solo perché la mortificazione di sé
era universalmente considerata uno dei mezzi per raggiungere la più alta conoscenza
ma anche perché se, ad esempio, i cinque asceti avessero persistito in quella loro
visione errata, essa avrebbe impedito loro di comprendere la dottrina del Nobile
Ottuplice Sentiero. La mortificazione di sé non costituisce quindi il vero interesse di
colui che ricerca che consiste, invece, nel cercare ardentemente la via che conduce
all’affrancamento da vecchiaia, malattia, morte raggiungendo la liberazione da ogni
forma di sofferenza. Il solo modo per sfuggire a ciò è attraverso lo sviluppo della
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moralità (silā), della concentrazione mentale (samādhi) e della visione profonda
(paññā). Solo silā, samādhi e paññā devono essere ricercati, nel vero ed esclusivo
interesse della propria salvezza, e le pratiche estreme di godimento di piaceri sensuali
o di mortificazione di sé, non essendo pratiche che promuovono silā, samādhi e
paññā, sono quindi da evitarsi.
Le Quattro Nobili Verità
La necessità di aderire a questo virtuoso Sentiero di Mezzo, caratterizzato da otto
parti, da cui il nome Nobile Ottuplice Sentiero, risulta dalle fondamentali verità
chiamate le Quattro Nobili Verità (āryasatya):
1) La Nobile Verità del dolore
«Questa, o monaci, è la nobile verità del dolore: la nascita è dolore, la vecchiezza è dolore, la
malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che non è caro è dolore, la separazione da ciò
che è caro è dolore. Il non ottenere ciò che si desidera è dolore. In breve i cinque aggregati che
rappresentano la base dell’attaccamento all’esistenza sono dolore»
2) La Nobile Verità dell’origine del Dolore
«Questa, o monaci, è la Nobile Verità dell’Origine del Dolore: l’origine del dolore si identifica con
la brama la quale conduce a nuove esistenze, è congiunta con il diletto e con la concupiscenza e
trova appagamento ora qua ora là. Esiste la brama per il godimento degli oggetti dei sensi, la brama
per l’esistenza e la brama per la non esistenza»
3) La Nobile Verità della Cessazione del Dolore
«Questa, o monaci, è la Nobile Verità della Cessazione del Dolore: la cessazione del dolore è
l’estinzione, il completo svanimento, l’abbandono, il rifiuto di questa brama, la liberazione e il
distacco da essa»
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4) La Nobile Verità del Cammino che porta al superamento del dolore
«Questa, o monaci, è la Nobile Verità del Sentiero che conduce alla Cessazione del Dolore: esso è il
Nobile Ottuplice Sentiero ovvero retta visione (sammā dițṭhi), retta intenzione (sammā saǹkappa),
retta parola (sammā vācā), retta azione (sammā kammanta), retti mezzi di sostentamento (sammā
ājiva), retto sforzo (sammā vāyama), retta presenza mentale (sammā sati) e retta concentrazione
(sammā Sāmadhi)»
Il Tathagata prosegue quindi esponendo ai cinque monaci asceti le basi della sua
dottrina.
Perfetta comprensione delle Quattro Nobili Verità
Per quanto riguarda il dolore, oggetto della Prima Nobile Verità, il Tathagata, era
venuto in contatto con essa ai tempi in cui era ancora Siddharta Gautama, della nobile
famiglia dei Sakya di Kapilavastu, sulle rive del fiume Rohini, circa 100 km a nord
della città di Benares.
«Chi è, cocchiere, quest’uomo senza forza che, appoggiato a un bastone, marcia con pena e
traballante?»
Così Siddharta aveva chiesto al suo cocchiere, Channa, dopo aver visto un uomo che
procedeva a fatica, dal volto pieno di rughe, la pelle delle braccia cadente. Mai prima
Siddharta aveva visto un uomo così malandato e decrepito, mai era stato sfiorato
dall’idea dell’esistenza di simili realtà. Nessun uomo come quello si trovava nel
principesco palazzo dove Siddharta trascorreva la sua vita, allietato da musici e
fanciulle bellissime, dall’affetto di suo padre, il Re Suddhodhana e della devota e
fedele moglie, la figlia del rajà di Koli.
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«Quest’uomo, signore, è prostrato dalla vecchiaia« risponde il fido cocchiere Channa «i suoi sensi
sono indeboliti, la sofferenza ha distrutto la sua energia. In tutte le creature la gioventù è vinta dalla
vecchiaia. Vostro padre, vostra madre, la folla dei vostri parenti e dei vostri conoscenti tutti
invecchieranno. Non vi è altra uscita per le creature» »
Sono gli dei a inviare a Siddharta quella visione alla quale seguirà quella di un
malato, poi di un morto e infine di un monaco, suggerimento divino, quest’ultimo
che spingerà Siddharta Gautama ad abbandonare il suo palazzo, la sua famiglia, la
sua città, uscendo di casa con il preciso obiettivo di porre fine a quella sofferenza che
lo ha tanto duramente provato.
La Seconda Nobile Verità, l’origine del dolore, si palesa invece al Tathagata la notte
stessa dell’illuminazione. La Seconda Nobile Verità è una sintesi del Principio
dell’Originazione Interdipendente, pratityasamutpada, ed è attraverso la profonda
comprensione di questa catena successiva di anelli concatenati che Siddharta
Gautama
diviene
il
Tathagata,
il
Buddha,
il
Perfettamente
Risvegliato,
Sammasambuddha. Qual è quindi l’origine del dolore?
L’origine del dolore è nell’ 1) ignoranza (avydyā). E’ questa la causa prima, per così
dire, dalla quale origina ogni altro dolore. Da avydiā si producono le 2) formazioni
karmiche (saṃskāra). Dalle formazioni karmiche si produce la 3) coscienza (vijñāna).
Dalla coscienza si produce l’aggregato psicofisico di 4) nome e forma (nāmarūpa).
Da nome e forma si producono le 5) sei basi della conoscenza (ṣaḍāyatana) quindi i
cinque organi di senso, occhi, orecchi, naso, lingua, corpo, inteso come organo del
tatto, e la mente che, per i Buddisti, equivale ad un altro organo sensoriale. Dalle sei
basi della conoscenza, origina il 6) contatto (sparṥa), sia fisico che mentale. Dal
contatto, origina la 7) sensazione (vedanā). Dalla sensazione si produce il 8) desiderio
(tṛṣṇā). Dal desiderio si produce l’9) attaccamento (upādāna). Dall’attaccamento si
produce il 10) processo del divenire (bhava). Dal processo del divenire si produce la
11) nascita (jāti). Dalla nascita si producono tutte le 12) sofferenze dell’esistenza,
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vecchiaia, malattia morte e anche lamento, dolore, afflizione e pena. Questi dodici
anelli possono essere suddivisi in tre gruppi: 1) L’ignoranza, 2) Il desiderio originato
dall’ignoranza, 3) L’azione che segue il desiderio, come mezzo per soddisfarlo. Per
effetto delle sensazioni sperimentate nel compiere l’azione, di nuovo nasce il
desiderio di ri-compierla: desiderio, quindi, di provare di nuovo le stesse sensazioni,
se l’azione ha causato sensazioni piacevoli; desiderio di evitare quelle stesse
sensazioni se l’azione ha causato delle sensazioni spiacevoli. Questo nuovo desiderio
incita al compimento di nuove azioni sia per riprovare le sensazioni piacevoli, sia per
evitare quelle spiacevoli. Queste azioni, a loro volta, producono delle sensazioni che
fanno nascere nuovi desideri, e la catena delle azioni, sensazioni e dei desideri,
determinando delle nuove azioni, prosegue all’infinito fino a che sussiste l’ignoranza.
La notte dell’illuminazione il Tathagata vede chiaramente il processo di formazione
di tutti gli esseri, animati e inanimati. La radice prima, la causa originaria è
l’ignoranza. Ma che cosa intende il Tathagata quando parla di ignoranza? Il termine è
qui da intendersi nel senso etimologico di non sapere, non conoscere, non possedere
quindi gli strumenti adatti per comprendere. Nessuno di noi si renderebbe conto delle
onde radio se non ci fosse il ricevitore radio né potremmo mai osservare i batteri in
una goccia d’acqua se non disponessimo del microscopio elettronico. Siamo
consapevoli di questi eventi del mondo in cui viviamo solo perché ci sono particolari
strumenti, condizioni o addestramenti. Siamo ignoranti, quindi, finché non
disponiamo di strumenti adatti a renderci consapevoli della vera natura della realtà
che ci circonda, di ciò che siamo e dell’esistenza stessa. Ma qual è questa vera
natura? Qual è la vera natura di noi, delle nostre individualità, secondo il Tathagata?
L’essere umano consiste in un assemblaggio di differenti proprietà e qualità. I
buddisti chiamano tutti questi elementi skandas o aggregati. Essi sono: qualità
materiali (rūpa), sentimenti o sensazioni (vedanā), percezioni (saññā) confezioni
mentali o formazioni karmiche (saṃskāra), consapevolezza (vijñāna)
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«Come le varie parti di un carro, formano, quando unite, il carro, così i cinque skanda, quando uniti
in un corpo, formano un essere, un’esistenza vivente»
Mentre nella mentalità occidentale il corpo è un’unità, per i Buddisti il corpo è quindi
un insieme composito di elementi, un’unione instabile e impermanente di parti,
costantemente in mutamento. Da nessuna parte può essere trovato un elemento
stabile, autogenerato, non dipendente da cause, immutabile. Da nessuna parte può
essere individuato quello che chiamiamo io. Nessun io esiste, quale prodotto di questi
aggregati, nessun mio può essere l’aggettivo pronunciato da un individuo che, in
realtà, non possiede nemmeno se stesso. Del resto questa sorte di finitezza,
limitatezza, scadenza, per così dire, non riguarda solo l’uomo ma l’universo stesso.
Anch’esso, nella sua inimmaginabile grandezza, è destinato a passare, a finire. Tutto,
tutto ciò che ci circonda, a partire dal nostro stesso corpo e dalle nostre percezioni
mentali, è perituro.
«Qualsiasi cosa che è nata, divenuta, composta è soggetta al decadimento: come potrebbe essere
possibile diversamente?»
Ignoranza è quindi credere all’esistenza di un’ io, non comprendere la reale natura del
corpo come aggregato di skandas, mancare insomma degli strumenti atti a
comprendere l’esistenza del dolore, la sua origine, il modo per farlo cessare, la via da
intraprendere affinché cessi. In ultima analisi, la vera, reale ignoranza è l’ignoranza
delle Quattro Nobili Verità, il non conoscere la Nobile Verità del Dolore, dell’origine
del Dolore, della Cessazione del Dolore, del Cammino che porta alla cessazione del
dolore.
Il buddismo non è però una filosofia pessimista ma solo estremamente obiettiva.
Riconosciuta l’esistenza del dolore e compresa la sua origine offre però anche la via,
il modo, la maniera di uscire da questo dolore. Questo è l’oggetto della Terza Nobile
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Verità. La cessazione del dolore è la cessazione dell’ignoranza e quindi la distruzione
del desiderio. Se il desiderio cessa di esistere l’incitamento all’azione viene a
mancare. Se l’azione non si produce, le sensazioni risultanti dal suo compimento non
si producono più e i desideri, di cui queste sensazioni sono la sorgente, non nascono
più. Se la causa cessa di esistere, l’evoluzione dell’originazione interdipendente cessa
di esistere. Una completa e permanente liberazione da ogni tipo di sofferenza viene
raggiunta quindi solo quando il desiderio sia stato completamente estinto. Lo
sradicamento di taṇhā (desiderio) è l’oggetto della cessazione della sofferenza, Terza
Nobile Verità.
Il Nobile Ottuplice Sentiero è l’oggetto della Quarta Nobile Verità. E’ un programma
di percorso in otto passi che, seguito dettagliatamente, conduce alla liberazione
definitiva. Per la perfetta comprensione della Quarta Nobile Verità è essenziale
acquisire la visione corretta ossia una comprensione perfetta dei tre caratteri generali:
Impermanenza di tutti gli aggregati, Sofferenza inerente a tutti gli aggregati, Assenza
di ego in tutti gli aggregati. La visione corretta consente di conoscere la natura reale
di tutto ciò che compone il mondo e la nostra stessa natura. Con questa conoscenza si
cessa di desiderare ciò che produce sofferenza e di respingere ciò che produce
avversione. La visione corretta si ottiene in due modi: 1) Attenzione Perfetta che
comprende lo studio, l’analisi delle percezioni, delle sensazioni, degli stati di
coscienza, di tutte le operazioni dello spirito e dell’attività fisica che vi corrisponde,
2) la meditazione perfetta comprendente un allenamento fisico e psichico che produce
la calma del corpo e la concentrazione della mente e, sviluppando l’acutezza dei
sensi, ne causa il risveglio permettendo percezioni che consentono di estendere il
campo dell’investigazione
Dopo avere denominato e caratterizzato le Quattro Nobili Verità, il Tathagata le
riprende una ad una per fare conoscere le operazioni intellettuali che vi si applicano.
Per ogni Nobile Verità vi è un’azione speciale da compiere cioè a dire che vi sono in
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tutto quattro azioni, quattro atti intellettuali applicabili rispettivamente ad ognuna
delle Quattro Verità. Quindi il dolore deve essere “pienamente compreso”
«Questo è il dolore, nobile verità. Il dolore nobile verità deve essere pienamente compreso»
l’origine del dolore deve essere “abbandonata”
«Questa è l’origine del dolore, nobile verità. L’origine del dolore, nobile verità, deve essere
abbandonata»
La cessazione del dolore deve essere “realizzata personalmente”
«Questa è la cessazione del dolore, nobile verità. La cessazione del dolore, nobile verità, deve
essere realizzata personalmente»
Il sentiero che conduce alla cessazione del dolore deve essere “sviluppato e coltivato”
«Questo è il sentiero che conduce alla cessazione del dolore, nobile verità. Il sentiero che conduce
alla cessazione del dolore, nobile verità, deve essere sviluppato e coltivato»
Abbiamo, quindi, da una parte le Quattro Nobili Verità, dall’altra quattro atti
intellettuali o morali che vi corrispondono. In tutto otto termini. A questi, si
aggiungono altre quattro azioni relative alla realizzazione delle Nobili Verità, messe
in pratica successivamente. Per quanto riguarda la Prima Nobile Verità l’azione da
compiere è quella di afferrarne completamente e profondamente il significato,
comprendendo separatamente ognuno dei costituenti di questa verità, vale a dire la
forma, la sensazione, la percezione, le costruzioni mentali, la coscienza-conoscenza.
Questi elementi, a tutti gli effetti, costituiscono la Prima Nobile Verità del Dolore e
sono questi che devono essere “pienamente compresi”.
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«Il dolore, nobile verità, è stato pienamente compreso»
Così per la seconda, la terza e la quarta nobile Verità:
«L’origine del dolore, nobile verità, è stata abbandonata»
«La cessazione del dolore, nobile verità, è stata realizzata personalmente»
«Il sentiero che conduce alla cessazione del dolore, nobile verità, è stato sviluppato e coltivato»
In tutto arriviamo così a dodici termini. E’ attraverso lo sviluppo di quest’aritmetica
duodecimale che il Tathagata giunge all’ottenimento del Sublime Risveglio,
comprendendo profondamente cause ed effetti e svelando il funzionamento, fino ad
allora misterioso, della legge di natura.
NOBILI VERITA’
PRIMA AZIONE
SECONDA AZIONE
PRIMA NOBILE VERITA’
Il dolore nobile verità deve essere pienamente
Il dolore, nobile verità, è stato
Questo è il dolore, nobile verità.
compreso.
pienamente compreso
SECONDA NOBILE VERITA’
L’origine del dolore, nobile verità, deve essere
L’origine del dolore, nobile
Questa è l’origine del dolore, nobile
abbandonata.
verità, è stata abbandonata
TERZA NOBILE VERITA’
La cessazione del dolore, nobile verità, deve
La cessazione del dolore, nobile
Questa è la cessazione del dolore,
essere realizzata personalmente.
verità,
verità.
nobile verità.
è
stata
realizzata
personalmente
QUARTA NOBILE VERITA’
Il sentiero che conduce alla cessazione del dolore,
Il sentiero che conduce alla
Questo è il sentiero che conduce alla
nobile verità, deve essere sviluppato e coltivato.
cessazione del dolore, nobile
cessazione del dolore, nobile verità.
verità, è stato sviluppato e
coltivato
Il Tathagata giunse alla realizzazione della necessità di questa profonda
comprensione in virtù della sola intuizione personale, senza aver mai ascoltato prima
da nessuno dottrine simili. La sua esplicazione di questa sua totale solitudine
nell’esplorazione sistematica della via che conduce alla sconfitta del dolore ossia:
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“Questa visione, o monaci, questa conoscenza, questa saggezza, questa sapienza, questa
illuminazione circa cose mai udite prima nacque in me”
si rende necessaria perché poteva darsi che i discepoli considerassero non importante
realizzare essi stessi la Verità, ma ritenessero sufficiente ascoltarne la spiegazione. Le
parole del Buddha sono un invito e vanno lette in questo senso:
«Così come io, o monaci, ho realizzato questa visione, questa conoscenza, questa saggezza, questa
sapienza, questa illuminazione circa cose mai udite prima ed essa nacque in me anche voi realizzate
questa visione etc, questa conoscenza etc. concretamente, veramente, mettendo in pratica
effettivamente la prima Nobile Verità»
Questa frase, che vale anche per le altre tre Nobili Verità, è quindi un invito a
sperimentare personalmente le sue parole attraverso l’osservazione personale al fine
di comprenderle pienamente. Comprendere profondamente la Prima Nobile Verità
significa comprendere profondamente la natura di anicca, impermanenza. Con questa
comprensione l’origine del dolore deve essere abbandonata, la cessazione del dolore
deve essere realizzata personalmente e il Nobile Ottuplice Sentiero sviluppato e
coltivato. Per ogni Nobile Verità vi sono due azioni da compiere: una comprensione
profonda e una decisa messa in atto dell’azione necessaria.
Riconoscimento del Supremo Risveglio
«E, o monaci, finché questa visione cosciente delle Quattro Nobili Verità, con il suo triplice
svolgimento e i conseguenti dodici aspetti, non fu ben purificata, fino a quel momento io non
dichiarai al mondo, con i suoi deva, Māra, Brahmā, con le intere generazioni di asceti, di brāhmana,
di esseri considerati divini e di uomini, non dichiarai – dico – di aver perfettamente ottenuto il
supremo e perfetto risveglio»
Il Tathagata annuncia di avere raggiunto l’illuminazione, il Perfetto Risveglio, la
sammāsambodhi solo dopo aver chiaramente compreso le Quattro Nobili Verità, nei
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loro dodici modi di svolgimento. Non prima. Se il raggiungimento del Perfetto
Risveglio fosse stato annunciato prima che la conoscenza delle Quattro Verità fosse
stata perfettamente chiara al Beato, sarebbe stato difficile per lui dare risposte
soddisfacenti e sostenere le dispute che sarebbero potute sorgere con i gli eremiti e gli
asceti, i samanas e i brāhmanas. Inoltre c’erano, ai suoi tempi, anche leader religiosi
di grande importanza e la valle del Gange era piena di filosofi, asceti, monaci erranti
che speculavano sulle dottrine riguardanti o meno l’esistenza dell’anima e sulle varie
maniere di ottenere la liberazione definitiva. Inoltre, fuori dal contesto umano, vi
erano potenti devas dall’intelletto acuto, maras, antagonisti dell’insegnamento del
Tathagata e brahmas, più potenti e più intelligenti dei devas e dei maras. Anche
questi avrebbero potuto mettere facilmente in difficoltà il Beato.
Soltanto quando la sua conoscenza delle Quattro Nobili Verità fu completamente
chiara, nei dodici modi derivanti da ciascuna delle due azioni richieste per ogni
Nobile
Verità,
il
Tathagata
dichiara
l’ottenimento
della
realizzazione
dell’incomparabile, eccellente, perfetta illuminazione:
« Ma non appena, o monaci, questa visione cosciente delle Quattro Nobili Verità, con il suo triplice
svolgimento e i conseguenti dodici aspetti, fu ben purificata, allora io dichiarai al mondo, con i suoi
deva, Māra, Brahmā, con le intere generazioni di asceti, di brāhmana, di esseri considerati divini e
di uomini, dichiarai – dico – di aver perfettamente ottenuto il supremo e perfetto risveglio»
Questa dichiarazione fu fatta non a quella parte dell’India in cui il Beato si trovava
allora, Varanasi odierna Benares, ma all’intero universo con i suoi potenti devas
dall’intelletto acuto, i suoi maras ostili alla vera dottrina, i più potenti e intelligenti
brahmas nonché all’intero mondo umano con i suoi colti e preparati samanas e
brahmanas, con i suoi re e la sua gente comune. Questa dichiarazione era un invito a
ogni devas, maras, brahmas, samanas o brahmanas, re o persone qualunque a
investigare, chiedere, domandare, scrutare e una garanzia di risposte soddisfacenti a
tutte le richieste, a tutte le inchieste. E’ davvero una scrupolosa dichiarazione fatta
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dopo avere accuratamente e approfonditamente investigato personalmente, senza
alcun aiuto, grazie alla sola intuizione personale, alla ricerca del costruttore della
casa, dell’architetto che continuava ad erigere la costruzione illusoria dell’esistenza
di tutte le cose. L’architetto infine si era rivelato al Tathagata la notte della sua
illuminazione:
«Ora ti ho trovato! Oh architetto non costruirai più questa casa!»
Esso era taṇhā, l’ignoranza, motore primo della nascita a sempre nuove esistenze,
causa del dolore. Squarciato questo velo il Tathagata è libero. Nuove esistenze non
sarebbero più state possibili per lui anche se, tuttavia, egli dovrà vivere fino in fondo
quella presente, portata a compimento da taṇhā stessa prima che essa venisse
eliminata dalla chiara e perfetta comprensione delle Quattro Nobili Verità. Il
Dhammacakkappavattanasutta si chiude con le parole:
«La conoscenza e la visione sorsero in me: la liberazione è per me inamovibile. Questa è l’ultima
nascita. Ora non esiste più una nuova esistenza»
Ossia, secondo il consueto stile esortativo del Tathagata:
«Come la conoscenza e la visione sorsero in me e come per me la liberazione è inamovibile e come
per me questa è la mia ultima nascita e non esiste più nuova esistenza così per voi può sorgere la
conoscenza e la visione e la vostra liberazione può essere inamovibile. Questa può essere la vostra
ultima nascita e possono non esistere più nuove esistenza con la perfetta conoscenza delle Quattro
Nobili Verità e del Nobile Ottuplice Sentiero»
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