mario luzi tra ermetismo, poesia civile e teatro

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Daniele Maria Pegorari
MARIO LUZI
TRA ERMETISMO, POESIA CIVILE E TEATRO
Dispensa finalizzata esclusivamente alla preparazione dell‟esame di Sociologia della letteratura per l‟anno accademico 2016-2017. La proprietà di questi testi è dell‟autore e degli editori che ne hanno pubblicato versioni a stampa sostanzialmente analoghe.
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scritta. È consentita la loro citazione, solo se accompagnata dalla puntuale indicazione della originaria fonte a stampa.
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INDICE
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Intervista a Daniele Maria Pegorari
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Quel «viaggio terrestre e celeste»: il centenario di Luzi
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Vita di Mario Luzi
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Il poeta, la memoria, la Repubblica
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L‟ermetismo italiano sub specie Dantis
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Attesa ed epoché: il “Libro di Ipazia” come autobiografia dell‟ermetismo
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Per una struttura dei «nostri frammenti»: storia, intertesti e stile
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«È la vita che resta sul campo»: la crudele autonomia del teatro
103
Il meraviglioso cristiano a teatro: il “Corale” palermitano e “Il fiore del dolore”
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Lettura del “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini”
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Bibliografia essenziale ragionata
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INTERVISTA A DANIELE MARIA PEGORARI
DI EMILIANO VENTURA
(FONDAZIONE MARIO LUZI, ROMA 2016)
D) Lei ha dedicato diversi studi a Mario Luzi, a partire da una monografia del 1994,
Dall‟«acqua di polvere» alla «grigia rosa». L‟itinerario del dicibile in Mario Luzi e dalle
curatele Mario Luzi da Ebe a Constant, del 2002, e Non disertando la lotta. Versi e prose
civili di Mario Luzi con l‟omaggio di 41 poeti, del 2006, ormai tutti fuori commercio. Recentemente è tornato a occuparsene con due capitoli del volume Il codice Dante. Cruces della
„Commedia‟ e intertestualità novecentesche, del 2012, e alcuni saggi sulle singole opere poetiche e teatrali. La sua è, dunque, una lunga abitudine e fedeltà al poeta toscano. Ha conosciuto bene
Mario Luzi, lo ha intervistato ed è stato premiato da lui al Premio Internazionale Eugenio Montale.
Può tornare a raccontarci quei giorni?
R) L‟ho incontrato la prima volta il 13 maggio 1993, quando mi accolse nella sua casa
di via Bellariva per un‟intervista: ero giovanissimo, inesperto, emozionato. E pure
zuppo d‟acqua, perché ero arrivato con largo anticipo sotto il suo portone, trovandomi sotto un improvviso scroscio di pioggia dal quale non trovai riparo. Insomma, le
condizioni di partenza non erano ideali per una bella figura, ma evidentemente riuscii
a fargli simpatia! Poi ci siamo scritti continuativamente e rivisti più volte: a S. Benedetto del Tronto il 3-4 giugno 1994, quando la mia monografia su di lui vinse il “Montale”, come lei ha ricordato; a San Gimignano il 30-31 gennaio 1998, per un convegno
su Gli intellettuali italiani e la poesia di Mario Luzi; il 26 settembre dello stesso anno a Lerici, per la consegna di un premio speciale conferitogli dal Presidente della Repubblica.
Ma l‟incontro più toccante è stato l‟ultimo, il 25-26 novembre 1999 a Penne; c‟era il
convegno Mario Luzi nel cuore dell‟esistere e fu l‟unica volta in cui mi fu concesso di cenare privatamente con lui. Il dopocena lo trascorremmo su un divanetto sul quale ci tenemmo le mani per alcuni lunghissimi minuti. Allora finalmente non vidi „solo‟ uno
dei più grandi poeti italiani di sempre, ma anche un uomo tenerissimo e bisognoso di
un rapporto confidenziale.
D) Non sono molti a occuparsi del teatro di Luzi, anche se ormai i contributi si vanno arricchendo
notevolmente rispetto a una ventina di anni fa. Lei si è occupato, fra le altre, anche della pièce su
Ipazia; il poeta ci rende l‟«agone» di questa martire laica senza mostrarci l‟evento della morte. In
questa figura, su ammissione dello stesso poeta, si riconoscono tratti di Cristina Campo; posso chiederle alcune considerazioni?
R) Della Campo l‟Ipazia di Luzi ha il rovello conoscitivo, la ricerca di una profondità
che diventa una vera e propria passione fisica, un‟attrazione quasi fatale che relativizza
ogni altro piacere e sarebbe in grado di esporre persino il corpo a un possibile rischio.
Parimenti il protagonista maschile, Sinesio, è una „controfigura‟ dello stesso Luzi, con
la sua apertura verso l‟ignoto, la sua sensibilità verso ogni aspetto della vita che riveli
indizi di trasformazioni epocali, di travagli (anche civili ed economici) che mettono in
questione l‟identità personale.
D) Mi incuriosisce molto la sua curatela dal titolo da Ebe a Constant. Proprio sul pensatore fran-
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cese ho concentrato i miei interessi. Lo stile di Constant è un bel saggio di Luzi degli anni Sessanta, d‟indiscusso valore; non è mai stato riedito e non figura quasi mai nei lavori di esegesi recenti. Sugli ultimi giorni di Constant Luzi scrive anche un testo teatrale, Ceneri e ardori, l‟unico a non essere mai stato messo in scena. Che idea si è fatto di questa „diffidenza‟ della critica italiana per Benjamin Constant?
R) Constant aveva per Luzi – che, ricordiamolo, aveva insegnato Letteratura francese
in un corso di Scienze Politiche – il fascino di essere pienamente scrittore e altrettanto
pienamente giurista e uomo politico. Constant gli si presentava come un intellettuale
implicato nelle maggiori questioni politiche della sua epoca (dalla Rivoluzione francese
alla monarchia borghese di Luigi Filippo d‟Orléans), fondando il moderno costituzionalismo e contemporaneamente partecipando alla stagione romantica, con un romanzo, Adolphe, di rara tramatura psicologica. Un‟altra proiezione di se stesso, come si
rappresenta nell‟io lirico di Nel magma, per esempio. Forse, però, la critica non ha amato figure così ibride, non squisitamente letterarie.
D) Lei si è occupato anche di Montale e di Pasolini; per Luzi i significati della parola «agone» possono rappresentarsi emblematicamente nelle vicende personali e poetiche di questi autori coevi. Montale
è il poeta che ha dismesso l‟«agone» con i suoi tempi (per Luzi è un poeta in chiave con il suo tempo),
mentre Pasolini porta all‟estremo il suo conflitto-agone; posso chiederle una sua riflessione su questi
diversi „agoni‟?
R) Montale non ignorava i contenuti storico-politici del suo tempo; «più nessuno è incolpevole», riconosce in una poesia molto „politica‟, La primavera hitleriana, ma anche
molto privata, visto che è quella in cui costruisce il mito di Clizia. Ma più forte era per
lui il pensiero che la condizione umana sia „di per sé‟ infernale e pertanto sarebbe
fuorviante ingaggiare un „corpo a corpo‟ con la Storia. Per Pasolini la scoperta della Storia è una sorta di imperativo categorico ch‟egli s‟impone a partire dal 1950 come antidoto contro i rischi del narcisismo artistico e del paternalismo politico nei confronti
delle masse; per coerenza esistenziale, quel „corpo a corpo‟ ha voluto viverlo fino in
fondo, scendendo nei luoghi della contraddizione (l‟«agone» di cui lei parla), facendo
esperienza diretta della miseria, della dannazione e, infine, della morte. Luzi, dopo aver
proposto, negli stessi anni delle Occasioni e delle Poesie a Casarsa, una poesia
dell‟ammutolimento dinanzi all‟«agone» della Storia (si pensi ad Avvento notturno), supererà i suoi compagni di strada con una nuova idea della responsabilità dell‟uomo: se è
vero che la condizione in cui egli vive è infernale, il suo destino è quello di emendare
le colpe storiche, progressivamente trasformando la violenza del tempo
nell‟aspettativa di un‟epifania luminosa. Come dire, procedendo dal fuoco della controversia al viaggio celeste.
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QUEL «VIAGGIO TERRESTRE E CELESTE»:
IL CENTENARIO DI MARIO LUZI
A
LTO,
allampanato, capelli radi e scompigliati, occhi celesti e profondissimi, Mario Luzi in persona mi aprì la sua porta in via di Bellariva, a due passi
dall‟Arno. Mi fece accomodare nel suo studio, su una poltrona di vimini, credo, fra pile di libri accatastati dappertutto, dal momento che sugli scaffali non c‟era più
posto. Ebbi subito l‟impressione che stesse cercando di capire quale punto della sua
orbita cosmica occupasse quel giovanissimo studioso barese, di quale senso potesse
essere portatore, se un senso mai poteva avere quella mia visita, fuorché l‟omaggio
emozionato di un laureando nei confronti dell‟oggetto vivente della sua tesi… Ho avuto altre occasioni di incontro con lui, per mia grandissima fortuna, da quel 13 maggio 1993 al 28 febbraio 2005, giorno in cui si spense poco più che novantenne, mentre
si apprestava a porgere il suo saluto ai colleghi senatori della Repubblica, al cui consesso era stato elevato dall‟allora Presidente Ciampi.
Eppure, fra tutti i miei ricordi, «l‟ago di bussola impazzito / della mente, torna fitto,
torna sempre» (per usare alcuni suoi versi) proprio a quel pomeriggio fiorentino, come
a indicarmi che le ragioni di una sì lunga fedeltà critica stiano nella forza della lezione
che allora raccolsi. Mi ero fatto l‟idea che l‟ermetismo degli anni Trenta si fosse esaurito di necessità con la seconda guerra mondiale, sbalzato di sella dalla gravità degli eventi e dalla conseguente esigenza di abbandonare quella lingua misteriosa e speculativa, in favore prima del realismo civile e poi di un‟avanguardia più consona alla società
neocapitalistica. Ma mi stavo sbagliando: Luzi insegnava che, piegandosi umilmente
alla sovranità della vita, all‟imperativo categorico di dar voce a tutte le sue manifestazioni, private e collettive, la poesia ermetica (ammesso che sia proprio importante
chiamarla così) era sopravvissuta a tutte le incomprensioni e a tutti gli ostracismi,
qualche volta anche ammantati di coloriture politiche.
Alle diatribe socio-letterarie aveva alluso in uno dei suoi testi più belli, Presso il Bisenzio, probabilmente del ‟63, allorché descrisse la frustrazione di non saper spiegare a un
gruppo di operai che il suo «cammino», quello della scrittura, ancorché «più lungo»,
ancorché apparentemente contemplativo e metafisico, mirava nella stessa direzione di
«lotta» e di «amore». Erano quelli gli anni inquieti che culminarono un quindicennio
più tardi nell‟assassinio di Moro e che Luzi seppe interpretare calando la sua poesia
nella „vischiosità‟ della prosa, abbandonando il sublime per il concreto, il monologo
lirico per il dialogo (persino nella forma del teatro, in cui ha dato prove eccelse, come
il Libro di Ipazia e Hystrio, rispettivamente del 1978 e del 1987): raccolte come Nel magma (1966) e Al fuoco della controversia (1978) dicono già nei titoli la coraggiosa compromissione col caos degli anni Sessanta e Settanta. Basterà rileggere la poesia Muore ignominiosamente la repubblica, scritta nel ‟77, per comprendere la potenza di una „profezia‟
che si sarebbe consumata sotto i nostri occhi, in questi ultimi anni.
La catastrofe trovava la sua radice, per Luzi, nella traduzione immediatamente politica di quella crisi e delle sue soluzioni, laddove gli uomini avrebbero dovuto cogliere
l‟occasione, soprattutto, per interrogarsi sulla propria nudità, sulle responsabilità di
ognuno, e fare della Storia un percorso di espiazione laica, di elevazione morale. Non
a caso era il Purgatorio la cantica dantesca che Luzi amava di più, traendone ispirazione
numerose volte e persino portandola in scena nel 1990. Quello che era apparso come
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un atteggiamento rinunciatario e autoreferenziale, si rivelava, invece, la pietas della sospensione del giudizio (una sorta di epoché ellenica contaminata col cristianesimo e con
la filosofia di Antonio Banfi), una ricerca inesausta di senso, un‟attesa di rivelazione
che significava, prima di ogni cosa, uno stile interrogativo e sospensivo, piuttosto che
esclamativo e assertivo, come divenne evidente soprattutto con le opere più mature,
da Per il battesimo dei nostri frammenti (1985) a Dottrina dell‟estremo principiante (2004). Oggi,
nel centenario della sua nascita, rimangono più che mai congiunte quell‟umanità vibrante e calorosa e quella poesia così sublime e cristallina: il suo viaggio terrestre e celeste.
7
VITA DI MARIO LUZI
M
Luzi (nome completo: Mario Egidio Vincenzo) nasce il 20 ottobre
1914 a Firenze, in località Castello, allora sotto l‟amministrazione del comune di Sesto Fiorentino. I genitori, Ciro, capostazione, buon lettore degli autori vociani e dei pensatori contemporanei, e Margherita Papini, provenivano da Samprugnano (oggi Semproniano), in provincia di Grosseto, dove il nonno paterno era
giunto negli anni Settanta dell‟Ottocento, trasferendovisi dalle originarie Marche per
insegnare nelle locali scuole elementari. Il piccolo paese maremmano dei genitori è
anche uno dei primi luoghi geografici che appaiono nelle poesie giovanili di Luzi, col
suo carico di sapori e odori popolari e tradizionalmente cattolici: le poesie della Barca,
intrise di religiosità e pietà popolare, sono in effetti ampiamente ispirate a quadri di vita samprugnanese, così come questa si era scolpita nei ricordi delle sue vacanze estive,
trascorse, fino all‟inizio della seconda guerra mondiale, presso le dimore dei propri parenti. Lo spazio memoriale di Samprugnano, poi, si salda solitamente ad un‟altra presenza, tanto fisica quanto simbolica, fondamentale per la crescita umana e spirituale
del poeta, quella della madre1, testimone di una fede sinceramente cattolica, ma disposta più alla ricerca di momenti di colloquio interiore con il Divino e di solidarietà
col prossimo, che alle ritualità previste dalla tradizione e dall‟istituzione ecclesiastica.
Manifesta già dall‟infanzia una non comune capacità di studio, tanto da leggere
all‟età di soli nove anni, in edizione integrale, I promessi sposi, e da essere ammesso con
un anno di anticipo alla prima classe ginnasiale del liceo Galileo di Firenze, nel 1924.
Non oltre questa data comincia anche a scrivere le sue prime poesie, irrimediabilmente
perdute: non si tratta, certamente, di testi degni di rilievo, ma lo è, invece, il fatto che i
suoi primi versi, scritti sotto l‟urgenza di un‟impressione tanto vaga quanto eccitante,
sono dedicati a Dante, al suo viaggio oltremondano, ricco di fascino visionario e spirituale anche per il giovanissimo Luzi2.
ARIO
Cfr. M. Luzi, M. Specchio, Luzi. Leggere e scrivere, Nardi, Firenze 1993, in particolare le pp. 86-88 (cfr.
ora l‟ed. ampliata M. Luzi, Colloquio, a cura di Mario Specchio, Garzanti, Milano 1999). Fonti privilegiate
per la ricostruzione della biografia di Luzi risultano essere le numerose interviste rilasciate nel corso dei
decenni dallo scrittore, contenenti una gran quantità di informazioni circa gli accadimenti privati, le circostanze pubbliche e gli incontri intellettuali; l‟estensore di queste pagine ha tenuto conto soprattutto
(oltre che del libro-intervista su menzionato) di Spazio stelle voce. Il colore della poesia, a cura di Doriano Fasoli, Leonardo, Milano 1992; A Bellariva. Colloqui con Mario, a cura di Stefano Verdino, in «Annuario della
Fondazione Schlesinger», 1995, pp. 29-73 (poi in M. Luzi, L‟opera poetica, a cura di Stefano Verdino, A.
Mondadori, Milano 1998, pp. 1239-1292); La porta del cielo. Conversazioni sul Cristianesimo, a cura di Stefano
Verdino, Piemme, Casale Monferrato 1997; e, ancora, di testimonianze gentilmente rese dal Maestro,
tramite uno scarno ma preziosissimo scambio epistolare, datato a partire dal 1993, oltre che in ripetute e
affettuose conversazioni private, la più antica delle quali è parzialmente edita in appendice a D.M. Pegorari, Dall‟«acqua di polvere» alla «grigia rosa». L‟itinerario del dicibile in Mario Luzi, Schena, Fasano 1994, pp.
171-185.
2 Si leggano, in proposito, le interviste curate da G. Nascimbeni per il «Corriere della Sera» del 20 ottobre 1984 (Luzi: settant‟anni di timidezza) e da M. Rak per «Mondoperaio», aprile 1986, pp. 98-106 (Viaggi
attraverso il mondo 3: la poesia. Michele Rak intervista Mario Luzi), parzialmente riprodotte in M. Luzi, Conversazioni. Interviste 1953-1998, a cura di Annamaria Murdocca, pref. di Stefano Verdino, Cadmo, Fiesole
1998. Il volume è un curioso montaggio di dichiarazioni organizzate per affinità tematiche, rilasciate nel
tempo dal poeta a numerosi intervistatori (tra i quali anche Ajello, Boralevi, Carifi, Copioli, Davico Bonino, Doninelli, R. Durante, Fabiani, Fasoli, Formisano, I. Landolfi, Manca, Marabini, Messori, Minore,
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Ma questo è anche l‟anno in cui, dopo lo sconvolgente assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti (1885-1924) e delle numerose provocazioni fasciste nei confronti dei dissenzienti, egli conosce la violenza del regime che si sta instaurando, del
quale è bersaglio anche il padre, a quest‟epoca consigliere comunale nelle file liberali,
costretto poi ad abbandonare la politica e a trasferirsi in un comune del senese. Inizia
così, per Mario, la frequentazione di un paesaggio naturale e architettonico diverso,
specie a Siena, dove prosegue gli studi a partire dal febbraio 1927, e dove ha i suoi
primi veri incontri con l‟amore e con l‟arte: sì, perché sin da principio le due sfere passionali, quella sentimentale e quella estetica, gli si offrono intrecciate e indissolubili,
quasi che i movimenti delle fanciulle senesi, il loro passaggio per le vie della città, il loro modo di conversare e di atteggiarsi siano l‟incarnazione di un mondo straordinariamente anticipato dalla fantasia degli artisti e dalla loro capacità di circondare la
realtà di un‟aura di spiritualità e magia. L‟arte si manifesta, così, subito come una lente
speciale di osservazione e di scoperta della vita reale, suscitando nel ragazzo un irrefrenabile desiderio di accostarsi in maniera più attiva all‟ambiente degli intellettuali e
degli artisti.
Intensifica progressivamente, pertanto, le letture poetiche, soprattutto contemporanee – Pascoli, naturalmente, e D‟Annunzio. In campo strettamente sentimentale, si
può annotare e datare al 1928 il suo primo amore, una ragazza di nome Giovanna, un
nome curiosamente ritornante, in seguito, nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, il
capolavoro del 1994, dedicato «alla città di Siena / alla sua adolescenza / alla memoria
dei suoi compagni» e parzialmente ambientato proprio nella città del Palio3. Al termine
della quinta classe ginnasiale, nel 1929, lascia Siena per tornare ad abitare a Castello
(dove il padre, nel frattempo, era stato reintegrato) e a frequentare il liceo Galileo,
dove ebbe come insegnante di Lettere italiane l‟insigne duecentista Francesco Maggini
(1886-1963), formatosi nel clima dello sviluppo della scuola filologica storica di inizio
secolo, autore di numerosi studi di ambito prevalentemente dantesco e futuro docente
nell‟Università di Firenze. Nonostante il personale indirizzo scientifico e di gusto,
Maggini, come ricorderà lo stesso Luzi, favorisce – o quanto meno non ostacola – la
lettura di alcuni autori contemporanei da parte dei più sensibili dei suoi allievi, consentendo così di avvicinare una gioventù, peraltro culturalmente e civilmente oppressa dal
regime, alle esperienze estetiche più recenti e „rivoluzionarie‟ (soprattutto Campana,
Ungaretti e Montale).
Dalla sorella maggiore, Rina, all‟epoca già studentessa universitaria e allieva di Luigi
Russo, riceve altre indicazioni di lettura, specialmente in direzione delle letterature
straniere moderne e contemporanee (Schiller, Goethe, Shelley, Keats, Heine, Lawrence), ma gli interessi del giovane Luzi volgono ora soprattutto in direzione dei filosofi, specialmente quelli greci ma anche Nietzsche, indizio chiaro di una preferenza
Miscia, Ramella Bagneri, Rondoni-Ulivi, Saatçioglu, Verdino, Zavoli, Zinna): se notevole è la quantità di
informazioni e „pensieri d‟autore‟, così raccolti e messi a disposizione del lettore, arbitraria appare la scelta delle interviste, fra le quali mancano alcune davvero fondamentali (solo tre esempi clamorosi: le assenze di Camon, Specchio e Zagarrio), e quanto meno scientificamente discutibile la demolizione del
„sistema intervista‟, entro la cui dialettica particolare e non ripetibile possono soltanto acquistare forza e
significato testimoniale le singole affermazioni. Forse si sarebbe potuta realizzare una più organica raccolta storica delle interviste, magari più selettiva, con un indice degli argomenti notevoli che ne consentisse anche quella lettura trasversale cui mirava la pur volenterosa curatrice.
3 Per quanto concerne i dati relativi all‟infanzia e alla prima giovinezza del poeta bisogna ricorrere soprattutto alla testimonianza delle varie prose memorialistiche, in particolare di quelle raccolte in Id., Siena
e dintorni. Poesie e prose, Il Leccio-La Copia, Siena 1996.
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per una letteratura speculativa e problematica, per una scrittura non impressionistica
né tanto meno decorativa. Molto presto scopre le testimonianze più squisite del pensiero contemporaneo in scrittori come Leopardi, Mann, Proust e Joyce4. Proprio durante l‟ultimo anno di liceo, all‟inizio del 1932 (Luzi ha, dunque, solo diciassette anni),
compone Toccata, dai più considerata la data d‟inizio di accostamento all‟ermetismo:
inizialmente non compresa nella prima edizione della Barca (Modena 1935),
nell‟edizione fiorentina del ‟42 sarà recuperata quale accordo introduttivo, in grado di
suggerire un‟interpretazione più articolata delle poesie „religiose‟ del ‟35, che ne risultano, così, accresciute di un senso di irrequietezza e preoccupazione.
Fra il 1931 e il 1933 inizia a pubblicare su alcuni periodici («Il feroce», «Il Ferruccio»,
«L‟Italia letteraria», «L‟Orto») poesie e interventi di critica d‟arte, cinematografica e letteraria, soprattutto d‟indirizzo francesistico, manifestando subito una schietta tendenza per la teoria e l‟estetica della letteratura. S‟iscrive al corso di laurea in Lettere, avendo maestri insigni in Attilio Momigliano, italianista, Luigi Foscolo Benedetto, francesista, Eustachio Paolo Lamanna, filosofo, Renato Poggioli, slavista, e Giorgio Pasquali,
latinista: nelle aule universitarie e nei caffè letterari, come il „San Marco‟ e, in particolare, il celebre „Giubbe Rosse‟, incontra quelli che saranno i sodali e gli amici di un‟intera vita, il padovano Leone Traverso (1910-1968), il leccese Oreste Macrì (19131998), il toscano Piero Bigongiari (1914-1997) e il genovese Carlo Bo (1911-2001), già
attivo come saggista e studioso di comparatistica, cui si aggiungeranno più tardi il barese Luigi Fallacara (1890-1963), il pittore bolognese Giorgio Morandi (1890-1964), lo
scrittore modenese Arturo Loria (1902-1957), il siracusano Elio Vittorini (1908-1966),
il laziale Tommaso Landolfi (1908-1979), i toscani Aldo Palazzeschi (1885-1974), Alberto Carocci (1904-1972), Alessandro Bonsanti (1904-1984), Romano Bilenchi (19091989), Vasco Pratolini (1913-1991) e Alessandro Parronchi (1914), il salernitano Alfonso Gatto (1909-1976), nonché il milanese Carlo Emilio Gadda (1893-1973), presente continuativamente a Firenze dal ‟40 al ‟50, e il genovese Eugenio Montale (18961981) che, ricordiamo, dal ‟27 al ‟48, vive nel capoluogo toscano, assumendo subito la
direzione del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, che dovette abbandonare nel
‟38, in seguito al suo rifiuto di tesserarsi al partito nazionale fascista5. Il fatto è che
Firenze esercita ancora, in questi anni, un‟importante funzione attrattiva nei confronti
della più vivace giovane intellettualità, proveniente dalle più diverse zone della Penisola, allettata dalla possibilità di avvalersi del magistero di professori universitari di
prim‟ordine e di stringere sodalizi culturali nei circoli e, soprattutto, nelle numerose riviste e rivistine di cui la città è generosa, fra le quali spiccano «Solaria», «Il Frontespizio» e «Letteratura».
A saldare queste fertilissime relazioni intellettuali interviene anche il comune avvertimento della necessità di reagire al clima di ovattamento culturale e civile imposto in
Italia, attraverso il confronto con le più moderne esperienze letterarie straniere, di cui
quasi tutti gli scrittori su menzionati divengono apprezzatissimi traduttori: Vittorini e
Montale dall‟inglese, Traverso dal tedesco (oltre che dal greco dei tragici antichi), Landolfi pure dal tedesco, ma soprattutto dal russo e dal francese, Macrì dallo spagnolo,
lingua con la quale si cimenteranno, accanto al loro più congeniale francese, anche Bo
e lo stesso Luzi, notevole, peraltro, anche nelle prove dall‟inglese; in un certo senso la
4 Cfr. Id., Discretamente personale, apparso dapprima nella seconda edizione dell‟Inferno e il limbo, Il Saggiatore, Milano 1964, poi in Naturalezza del poeta, a cura di Giancarlo Quiriconi, Garzanti, Milano 1995, pp.
108-114.
5 Si veda il ricordo di Montale in Id., Trame, Rizzoli, Milano 1982, pp. 120-122.
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stessa disciplina universitaria delle Letterature comparate (che proprio Luzi insegnerà
a Urbino negli anni Settanta) nasce dall‟originalità di questo incontro tra differenti indirizzi di studio nella Firenze d‟anteguerra. La pratica della traduzione, oltre tutto,
consente a ciascuno di loro di approcciare alla tecnica della composizione, di divenire
severi lettori di poesia e „giudici‟ attenti delle opere dei propri amici: lo scambio affettuoso e trepidante dei manoscritti e delle anteprime entra a far parte del loro costume
formativo, producendo nel tempo un sodalizio, sempre attento, certo, a non divenire
mai scuola o movimento, eppure senz‟altro connotato da una comune circolazione di
motivi e di moduli espressivi6.
Nel ‟33 conosce, sempre all‟università, l‟ascolana Elena Monaci (1913) della quale
presto s‟innamora, sposandola più tardi, nel 1942; Elena è reduce da un dolore familiare grandissimo, il suicidio della sorella maggiore Renata, afflitta da una penosa forma di encefalite letargica, un episodio che indurrà il giovane Luzi a riflettere sul tema
della morte e del suicidio, più volte adombrato nelle liriche da La barca a Un brindisi,
interessando particolarmente le prose di Biografia a Ebe. Nello stesso 1933 viene presentato a Piero Bargellini e Carlo Betocchi, fra i principali esponenti del mensile di estetica e letteratura «Il Frontespizio», espressione del cattolicesimo concordatario e reazionario che si stringeva intorno a Giovanni Papini, ma inizia a collaborarvi, pubblicando prose teoriche, solo a partire dall‟agosto del 1935, vincendo provvisoriamente
l‟insofferenza per quell‟orientamento ideologico, grazie all‟insistenza, fra gli altri, degli
amici Nicola Lisi (1893-1975) e Carlo Bo, il quale ultimo nutre speranze di una modificazione della linea editoriale, verso un cristianesimo più critico e problematico. A
valle di questo disaccordo, tuttavia ancora non manifesto, con quella cultura che era
considerata l‟espressione ufficiale della gerarchia ecclesiastica e della neoscolastica italiana, vi è la scelta di proporre non a Vallecchi, l‟editore del «Frontespizio» particolarmente sensibile alla poesia, ma al modenese Guanda, in un certo senso rivoluzionario
sia rispetto alla Chiesa sia rispetto al regime, la pubblicazione, nell‟autunno del ‟35,
della prima edizione della Barca, nella quale, pure, ampiamente prevalente era
l‟argomento religioso, ispirato a un evangelismo spontaneo e innamorato.
I nuovi contatti umani e intellettuali lo avvicinano alla lettura di autori che diverranno essenziali allo sviluppo della sua futura poetica: sant‟Agostino, Dante (inizialmente
le Rime e la Vita nova: solo negli anni Quaranta troverà interesse non scolastico per la
Comedìa), Novalis, Hölderlin, Rimbaud, Machado, Pirandello, Joyce, García Lorca, Ortega, Hemingway, Alvaro, oltre a Mauriac su cui conduce la tesi di laurea in Letteratura
francese, discussa con successo pieno nel 1936 e pubblicata due anni dopo dallo stesso Guanda, col titolo L‟opium chrétien. Il volume reca una „Premessa‟, datata «marzo
1938», che assume il carattere di un vero e proprio precoce documento di poetica ermetica, precedendo, dunque, il celebre doppio intervento di Carlo Bo, intitolato Letteratura come vita, apparso sui numeri di agosto e settembre 1938 del «Frontespizio»7. Nel
frattempo, sin dal gennaio 1937, ha preso contatto col mondo dell‟insegnamento,
come supplente a Massa, ma le lettere agli amici di questo periodo danno testimonianza del profondo distacco ch‟egli avverte e patisce nei confronti di questo tipo
d‟occupazione che lo condanna a tenersi lontano dalle più feconde relazioni intellettuali e mortifica i suoi tentativi di maturazione artistica. A partire da quest‟anno le sue
poesie e le sue prose d‟arte cominciano a essere accolte sulle pagine del «Frontespizio»
Cfr. anche M. Marchi, Invito alla lettura di Mario Luzi, Mursia, Milano 1998, in particolare le pp. 18-20.
L‟opium chrétien sarà poi ristampato, ma senza „Premessa‟, in Aspetti della generazione napoleonica e altri saggi di letteratura francese, Guanda, Parma 1956.
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e di «Letteratura», la rivista di Alessandro Bonsanti, mentre «Il Bargello» ospita alcuni
suoi saggi di teoria e di critica, tra cui un profilo del pittore fiorentino Ottone Rosai
(1895-1957), col quale nasce un‟altra importante amicizia e nel quale Luzi vede la conservazione di tutta la tradizione figurativa fiorentina e senese, filtrata attraverso le turbinose esperienze dell‟avanguardia, dal futurismo al cubismo, dal simbolismo
all‟espressionismo, fino al ritorno all‟ordine e al paesismo metafisico.
Con la rottura del gruppo del «Frontespizio», dettata dall‟incompatibilità fra
l‟orientamento rigorosamente confessionale e retrivo del gruppo dirigente della rivista
e le esigenze di apertura sperimentale e di discussione ideologica dei giovani ermetici,
questi ultimi eleggono il proprio luogo di raccolta e di scambio fecondo di proposte e
di discussione teorica, a partire dall‟agosto 1938 (cioè proprio quando Carlo Bo innesca la „secessione‟, pubblicando Letteratura come vita) nelle pagine di «Campo di Marte»,
quindicinale formalmente diretto dallo stesso ottimo editore Enrico Vallecchi (per garantire il più a lungo possibile una copertura politica di fronte agli attacchi della censura di regime), ma di fatto curato da Pratolini e Gatto. Luzi stesso vi pubblica, nelle sole
due annate in cui fu consentito alla rivista di esprimersi, dieci titoli fra articoli e poesie,
collocandosi, così, fra i suoi animatori più attivi8. Altro punto di riferimento per i giovani ermetici è subito rappresentato anche da «Corrente» (1938-1940, dapprima denominato «Vita giovanile», poi «Corrente di vita giovanile»), voluta dal precocissimo
genio del milanese Ernesto Treccani (1920), destinato a essere uno dei più notevoli
pittori del panorama italiano contemporaneo: cinque i numeri del periodico contenenti contributi di Luzi, che vanno ad affiancarsi ad altre significative promesse della cultura letteraria, come i versi d‟esordio di Vittorio Sereni (1913-1983) e le prime pagine
critiche di Luciano Anceschi (1911-1995).
Vincitore del concorso a cattedre nella classe di Lettere italiane e latine, Luzi viene
nominato per l‟anno scolastico ‟38-‟39 in una scuola di Parma, dove stringe una profonda relazione d‟amicizia e di stima col filosofo Enzo Paci (1911-1976) e, soprattutto,
col poeta Attilio Bertolucci (1911-2000). Il distacco dall‟amatissima Firenze non fa che
acuire un‟intima melanconia che ormai abita l‟animo del poeta, quale reazione psicologica corrispondente al senso di scoramento che lo prende dinanzi alla crisi dell‟Europa
e del nostro Paese; di questa duplice infelicità, privata e civile, sono documento, oltre
alle intensissime lettere indirizzate, in particolare, a Traverso e Parronchi, le liriche
che, parzialmente anticipate su rivista, furono poi raccolte in Avvento notturno, il libro
chiave dell‟ermetismo italiano, edito da Vallecchi nel 1940, subito salutato con entusiasmo da gran parte dell‟intellettualità emergente italiana e stroncato, invece, dai dirigenti della politica culturale ufficiale. La loro genesi, la sperimentazione di un linguaggio oscuro e inquietante, il definitivo abbandono del frammentismo impressionistico in favore di una scrittura in cui salgano come a galla frammenti di ragionamento
sfuggiti alla morsa dell‟incomunicabilità, ci riportano anche alle coeve prose di Biografia
a Ebe, composte a partire dal 1938, ma sistemate in forma di „libro‟, per gli stessi tipi,
soltanto nel 1942, quando, come si è accennato più su, si rende necessaria una riformulazione radicale della plaquette d‟esordio, ormai riletta – e non solo dallo stesso autore – in una chiave profetica e, per di più, esce la sua prima raccolta di interventi,
Un‟illusione platonica e altri saggi9.
8 Per uno studio opportunamente approfondito della costituzione della poetica ermetica in teoria della
letteratura e dello stile, è d‟obbligo il rimando al datato, ma ancora valido studio sistematico di S. Ramat,
L‟ermetismo, La Nuova Italia, Firenze 1969.
9 Edizioni di Rivoluzione, Firenze 1942; ed. accresciuta: Boni, Bologna 1972.
12
Scampato all‟arruolamento per insufficienza toracica, nell‟anno scolastico ‟41-‟42
viene trasferito a San Miniato (Pisa) con l‟obbligo di trascorrere tre giorni alla settimana a Roma, dove i Ministeri della Cultura popolare e dell‟Educazione nazionale gli affidano un incarico presso la rivista bibliografica «Il libro italiano» (la sua presenza a
Roma gli consente, fra l‟altro di reincontrare Gadda e Pratolini e di conoscere Alfredo
Gargiulo, Renato Guttuso e Giorgio Caproni). L‟aggravarsi della situazione politicosociale durante il conflitto e la raggiunta comprensione delle atrocità commesse dal
regime dittatoriale fanno finalmente maturare in Luzi un‟identità politica dichiaratamente antifascista, piuttosto vicina ad esponenti moderati e liberali dell‟intellettualità
marxista italiana: alla caduta di Mussolini (25 luglio 1943) redige e firma con Vito Pandolfi (1917-1974)10, Bilenchi, Parronchi e Manlio Cancogni (1916) un manifesto politico da pubblicare il giorno dopo su «La Nazione», dove lavora Bilenchi. L‟operazione
non riesce per il severo controllo della polizia badogliana che non lascia dubbi circa
l‟intenzione del governo di proseguire in una linea di condotta autoritaria e liberticida.
Così i firmatari sono costretti, nel timore di rappresaglie poliziesche o di un arruolamento forzato, a darsi alla macchia sulle colline del Chianti e del Valdarno.
Per Luzi alla preoccupazione politica si aggiunge – come emerge nell‟intervista rilasciata a Mario Specchio – il desiderio di assicurare la massima tranquillità anche alla
moglie Elena, nell‟imminenza della nascita del figlio Gianni che viene alla luce il 17 ottobre a Montevarchi; pure in queste condizioni non rinuncia a nutrirsi di buone letture, procedendo nella conoscenza della tradizione stilnovistica, in particolare ora di
Cavalcanti. Nel giugno 1944 riesce, dopo un rocambolesco viaggio in bicicletta, durato
una decina di giorni, in compagnia del fedelissimo Parronchi, a penetrare in una Firenze assediata dai tedeschi e coperta di macerie, rintracciando e riabbracciando, così, i
genitori dei quali non aveva notizia da molti mesi.
Dopo la Liberazione ottiene la titolarità in un liceo scientifico di Firenze, dove resterà fino all‟inizio dell‟anno scolastico ‟63-‟64, avendo come colleghi tre nomi importanti della cultura italiana del secondo Novecento, lo storico della filosofia Eugenio
Garin, il filologo Lanfranco Caretti e l‟acutissimo critico militante Giuseppe Zagarrio,
che soprattutto fra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta offrirà alcuni titoli
significativi nel campo della storiografia letteraria contemporaneistica11: nell‟insegnamento Luzi privilegia la lettura dei classici, Dante in particolare, inducendo gli allievi al
riconoscimento delle dinamiche complesse delle tradizioni e delle ricezioni nel corso
dei secoli. Per qualche tempo prende dimora nella nuova casa dei genitori nel cuore di
Firenze, dove essi si erano trasferiti da Castello, dopo il pensionamento di Ciro: proprio in quella casa, nel 1945, fonda, con Vittorini e Bilenchi, che ne diviene il direttore,
la rivista «Società», col progetto di trovare uno spazio di interrogazione per gli intellettuali italiani, a ridosso dei drammatici eventi bellici, sul rapporto fra cultura e politica,
fra autonomia dell‟arte e istanza morale.
Al quinto fascicolo della rivista (anno II, 1946) Luzi consegna quello che forse può
essere considerato il suo saggio teorico più importante, L‟inferno e il limbo12, nel quale,
10 Vito, dunque, non Elio, come, per un comprensibile refuso, si legge in L. Rizzoli, G.C. Morelli, Mario Luzi, Mursia, Milano 1992, p. 7, seguito da D.M. Pegorari, op. cit., p. 167.
11 Per tutti ricordiamo G. Zagarrio, Luzi, La Nuova Italia, Firenze 1968 (ed. accresciuta 1973) e Febbre,
furore e fiele. Repertorio della poesia italiana contemporanea 1970-1980, Mursia, Milano 1983.
12 Poi raccolto in M. Luzi, L‟inferno e il limbo, Marzocco, Firenze 1949; ed. accresciuta: Il Saggiatore, Milano 1964; successivamente anche in Scritti, a cura di Giancarlo Quiriconi, Arsenale, Venezia 1989; Dante
e Leopardi o della modernità, a cura di Stefano Verdino, Editori Riuniti, Roma 1992; Naturalezza del poeta, a
13
con grande tempestività sugli orientamenti critici e artistici di tutta Europa, getta le basi per un recupero integrale del modello dantesco nella creazione poetica contemporanea, sottoponendo a una severa, ma non iconoclastica, rilettura l‟asfittica tradizione
lirica petrarchesca. Quanto a «Società», però, il rapporto di collaborazione è destinato
a essere troncato allorché la rivista viene a tutti gli effetti inglobata nell‟apparato politico-culturale del partito comunista italiano a Roma, soffocando, così, l‟aspirazione a un
confronto più aperto e laico: anche Bilenchi, che pure conferma orgogliosamente la
propria adesione ideologica al marxismo, non resiste molto di più alle strettoie del nuovo corso e abbandona la testata. Il voto del 2 giugno 1946 vede Luzi schierato a fianco del partito socialista, ma, evidentemente in dissenso sulla scelta del fronte popolare,
il 18 aprile 1948 sposta il proprio voto a favore della democrazia cristiana.
Cresce, intanto, il consenso intorno alla sua produzione che si arricchisce, fra il ‟46 e
il ‟47, di due nuovi volumi, Un brindisi e Quaderno gotico, il primo dei quali, com‟è emerso alcuni anni fa dalla pubblicazione dell‟epistolario fra Eugenio Montale e Gianfranco
Contini, suscita qualche gelosia nell‟autore degli Ossi di seppia e delle Occasioni13. Del
1947 è il suo primo tentativo di scrittura drammatica, Pietra oscura, di cui la censura
impedisce la pubblicazione e la trasmissione radiofonica cui era destinato, per via del
suo argomento ritenuto contrario agli interessi ecclesiastici: nel testo, sul quale pure
Luzi ripone una certa fiducia, si adombra il caso del presunto suicidio di un prete.
Stringe un‟intensissima amicizia con la poetessa Vittoria Guerrini (1924-1977), conosciuta con lo pseudonimo di Cristina Campo, fidanzata con Traverso: l‟affetto tra i
due è nutrito dalla condivisione di un comune itinerario di ricerca religiosa e si trasformerà, nel 1953, in un vero e proprio innamoramento della giovane per Luzi. È
l‟epoca in cui iniziano le sue frequentazioni internazionali, innanzitutto il coetaneo
poeta gallese Dylan Marlais Thomas (1914-1953)14, poi l‟Università di Zurigo dove
talvolta è invitato a tenere lezioni dall‟amico italianista Fredi Chiappelli e, ancora, i
poeti Allen Mandelbaum, statunitense, e Jorge Guillén, spagnolo, di cui diventerà traduttore15. Di contro è mortificato dall‟insegnamento scolastico, da una certa ristrettezza economica e da quella che gli appare essere la sua emarginazione dall‟accademia e
dai nuovi orientamenti culturali in Italia, che ora cominciano a prendere decisamente
una piega in favore del cosiddetto impegno neorealista: a tratti la delusione per la lentezza della propria affermazione prende la via di una preoccupante depressione, di cui
non fa mistero ai suoi amici più fidati, primo fra tutti Giacinto Spagnoletti (1920), il
critico di origine pugliese, che fu tra i primi a dedicargli uno studio16.
Nel 1949 pubblica le sue prime traduzioni inglesi, le Poesie e prose di Samuel Taylor
Coleridge, che seguono quelle francesi del ‟43, quando uscì Vita e letteratura di Charles
cura di Giancarlo Quiriconi, Garzanti, Milano 1995; L‟inferno e il limbo, SE, Milano 1997.
13 Cfr. la lettera di Montale a Contini del 23 settembre 1946, in Eusebio e Trabucco, a cura di Dante Isella,
Adelphi, Milano 1997, p. 142.
14 Si legga lo splendido ritratto di Dylan Thomas, in M. Luzi, Trame cit., pp. 117-119.
15 J. Guillén, La fuente, All‟Insegna del Pesce d‟Oro, Milano 1961; parzialmente ripreso in M. Luzi, La
cordigliera delle Ande e altri versi tradotti, Einaudi, Torino 1983.
16 Si tratta del profilo intitolato La poesia di Luzi, in «La ruota», IV, 6, giugno 1943, pp. 170-173; inoltre,
in questi stessi anni Spagnoletti recensisce Avvento notturno su «Roma fascista», 17 marzo 1940, le prose su
«Prospettive», VI, 28-29, 15 aprile-15 maggio 1942, pp. 20-21 (il contributo s‟intitola L‟umanesimo di Luzi),
e Quaderno gotico su «Libera voce», 11 luglio 1947. In verità in tempi più recenti proprio Spagnoletti non
ha inteso dover riconoscere all‟ultima produzione del vecchio amico fiorentino quella posizione di prima
grandezza nell‟agone letterario italiano ed europeo che, invece, per i più essa ha acquisito nitidamente.
Cfr. G. Spagnoletti, Storia della letteratura italiana del Novecento, Newton, Roma 1994, pp. 534-539: 539.
14
Du Bos, e precedono di poco l‟edizione dell‟Anthologie de la poésie lyrique française, curata
in collaborazione con Landolfi, e la versione del Tempio di Cnido, romanzo di CharlesLouis de Montesquieu17. Dopo le collaborazioni con «Letteratura», «Prospettive», «La
ruota», «Primato», «Il mondo», «Paragone» e il quotidiano «La Nazione», sulle cui colonne, tra l‟autunno del ‟51 e la primavera del ‟52, redige recensioni cinematografiche18, il 1954 è la volta della vallecchiana «La Chimera», che ripropone, in piena età
neorealista, la questione dell‟autonomia poetica e dell‟attualità dell‟ermetismo, ricompattando, in pratica, il gruppo dei giovani toscani degli anni Trenta. Gli atteggiamenti
ideologici ribaditi da «La Chimera», che riconosce ormai in Luzi il proprio capofila,
scatenano interminabili polemiche intorno al tema dell‟„impegno‟, agite soprattutto
dalle riviste del realismo poetico, quali la barese «L‟esperienza poetica» (1954-1956),
fondata da Vittorio Bodini (1914-1970), e la bolognese «Officina» (1955-1959), redatta
da Pier Paolo Pasolini, Francesco Leonetti, Roberto Roversi, Franco Fortini, Gianni
Scalia e Angelo Romanò19; tuttavia le nuove liriche di Primizie del deserto (1952) e soprattutto di Onore del vero (1957) incontrano il favore di più d‟uno fra gli avversari storici dell‟ermetismo, e in particolare di Pasolini (1922-1975) che ripetutamente promuove la collaborazione di Luzi a «Officina».
Il segno che qualcosa sta mutando nella ricezione di Luzi lo danno, nello stesso
1955, l‟omaggio che gli riserva l‟autorevole «Fiera letteraria»20 e la chiamata sulla cattedra di Lingua e cultura francese presso la Facoltà di Scienze politiche, che terrà fino al
compimento dei settant‟anni; inoltre nel 1957 Onore del vero viene premiato col „Marzotto‟, ex aequo con Saba, sebbene la gioia gli sia tolta dalla mancata assegnazione del
medesimo riconoscimento, nella sezione della prosa, al grande amico Gadda, che vi ha
concorso con Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, motivo per il quale Luzi medita la
rinuncia a ritirare il premio. Il periodo di successo prosegue nel 1958 con la commissione, da parte della RAI, della traduzione dell‟Andromaca di Jean Racine, più volte
trasmessa in televisione21.
Un gravissimo contraccolpo gli è però causato, il 9 maggio 1959, dalla scomparsa
dell‟amatissima madre, colpita da una paralisi in seguito alla frattura di un femore, sei
mesi prima. A questo avvenimento, che determinò un repentino riavvicinamento a
una fede più autenticamente vissuta, è legata in gran parte la genesi di Dal fondo delle
campagne, libro composto fra il ‟56 e il ‟61, ed edito da Einaudi nel 1965: in particolare
si rilegga la toccante sezione intitolata „Morte cristiana‟. Escono, intanto, all‟estero le
Ch. Du Bos, Vita e letteratura, Cedam, Padova 1943; S.T. Coleridge, Poesie e prose, Cederna, Milano
1949; poi, con testo inglese a fronte, A. Mondadori, Milano 1977; Anthologie de la poésie lyrique française,
Sansoni, Firenze 1950; Il tempio di Cnido, in AA. VV., Romanzi francesi dei secoli XVII e XVIII, Bompiani,
Milano 1951.
18 Si tratta di articoli a lungo dimenticati e recentemente raccolti in M. Luzi, Sperdute nel buio. 77 critiche
cinematografiche, a cura di Annamaria Murdocca, Archinto, Milano 1997.
19 Su questi temi cfr. D.M. Pegorari, Vittorio Bodini e «L‟esperienza poetica»: l‟opposizione all‟ermetismo, in Id.,
Critico e testimone. Storia militante della poesia italiana 1948-2008, Moretti & Vitali, Bergamo 2009, pp. 445473. Luzi ha successivamente raccolto i suoi interventi su «La Chimera» in Tutto in questione, Vallecchi,
Firenze 1965.
20 Galleria degli scrittori italiani: Mario Luzi, in «La Fiera letteraria», X, 33-34, 14 agosto 1955, pp. 3-5, con
brevi contributi, fra gli altri, di Bertolucci, Bigongiari, Bo, Caproni, Giuseppe De Robertis, Landolfi,
Giorgio Orelli, Parronchi, Leone Piccioni, Romanò, Rosai, Vittorio Sereni, Spagnoletti e Traverso.
21 La versione sarà pubblicata in AA. VV., Il teatro francese del grand siècle, ERI, Roma 1960; poi in AA.
VV., Il grande teatro francese: Il Cid; Andromaca; Britannico, Edipem, Novara 1974; J. Racine, Andromaca, Rizzoli, Milano 1980; un estratto anche in M. Luzi, La cordigliera delle Ande cit.
17
15
prime traduzioni delle liriche luziane, dapprima su rivista, poi, a partire dal ‟62, anche
in volumi autonomi, specialmente in Spagna e Grecia, in seguito anche in Francia,
Romania, Stati Uniti d‟America e Svezia. Il 1962 è anche l‟anno in cui, dopo aver rinunciato a incarichi d‟insegnamento in alcune Università straniere, inizia la collaborazione con l‟Università di Urbino, dove già da qualche tempo era rettore Carlo Bo, tenendo un corso di perfezionamento estivo di Letteratura francese, mantenuto fino alla
fine degli anni Settanta; in questo ambiente, nuovo per lui, incontra giovani critici, alcuni dei quali diverranno storici dell‟ermetismo, come Alfredo Luzi e Mario Petrucciani.
L‟impegno del francesista è piuttosto intenso nell‟ultimo decennio, se si tien conto
dello Studio su Mallarmé (1952), di Aspetti della generazione napoleonica e altri saggi di letteratura francese (1956), dell‟Idea simbolista (1959)22 e del recente Lo stile di Constant (1962),
pubblicato dal Saggiatore di Milano per interessamento di Giacomo Debenedetti
(1901-1967), riconosciuto da Luzi (e certamente non solo) come maestro incomparabile di stile saggistico, di acribia esegetica e di eclettismo culturale. Sul fronte familiare è da registrare, per il 1965, la nascita del nipote Andrea e la morte del padre Ciro.
L‟anno dopo esce la terza e definitiva edizione garzantiana di Nel magma (dopo due
anticipazioni del ‟63 e ‟64 per l‟Insegna del Pesce d‟Oro di Vanni Scheiwiller); è il libro
di una svolta più formale che sostanziale, e per di più contraddetta dagli ultimi e più
maturi svolgimenti accennati già in Al fuoco della controversia, ma decisivo per richiamare
l‟attenzione su un autore dall‟indomita disponibilità alla sperimentazione e al confronto sui temi scottanti dell‟attualità politica e letteraria. Da anni lavora anche ai „Tre temi‟
e ai „Tre poemi‟ filosofici (Il pensiero fluttuante della felicità; Nel corpo oscuro della metamorfosi;
Il gorgo di salute e malattia) che costituiranno nel 1971 Su fondamenti visibili. Sempre nel
1966 compie un viaggio di rappresentanza in Unione sovietica, con la moglie e una delegazione di letterati italiani costituita da Carlo Levi, Leone Piccioni e Edoardo Sanguineti: il passaggio per la Georgia dove partecipa alle celebrazioni per l‟ottavo centenario della nascita del poeta epico Sota Rustaveli (1172?-1216?) gli ispira il motivo centrale del Graffito dell‟eterna zarina, poema in tre parti che sarà incluso in Al fuoco della controversia23. In questi giorni conosce Evgenij Solonovic, che diventerà il suo traduttore
russo.
Nel 1968 viene insignito del Premio dell‟Accademia dei Lincei dedicato allo scrittore
imperiese Angiolo Silvio Novaro (1866-1938); durante le vacanze di fine anno compie
un altro viaggio fondamentale, questa volta in India, in compagnia dell‟anglista e scrittrice Franca Bacchiega, conosciuta a Urbino sei anni prima, e del marito: nel „Fondo
manoscritti di autori contemporanei‟ dell‟Università di Pavia, diretto da Maria Corti,
esiste una cospicua documentazione della tormentata stesura dei poemi di Su fondamenti invisibili, all‟interno della quale alla fine degli anni Novanta il filologo fiorentino Roberto Cardini scoprirà, frammezzati alle prove di quei testi, gli appunti del viaggio in
India, che egli stesso pubblicherà col titolo Taccuino di viaggio in India24, a documenta22 L‟idea simbolista (Garzanti, Milano 1959, ed. riveduta 1976), uno dei titoli più ragguardevoli della bibliografia critica di Luzi, travalica, tuttavia, i confini strettamente francesi, per porsi come una più ampia
ricognizione della questione del simbolismo in tutta Europa, dalla fine del Settecento fino alla metà del
Novecento.
23 Cfr. in questo stesso volume, l‟intervento di E. Solonovic, La poesia immersa nel tempo: il poeta italiano
visto dal suo traduttore russo.
24 Titolo completo: Taccuino di viaggio in India e altri inediti, a cura di Roberto Cardini, Polistampa, Firenze
1998.
16
zione dell‟influenza profonda che la cultura spiritualistica orientale ha giocato nella
stesura dei tre poemi, e in particolare del primo, in cui è adombrata la figura della Bacchiega, «la signora della casa».
Nel ricordo di un libro di poesie di Sinesio di Cirene, prestatogli anni addietro da
Traverso, scomparso proprio nel ‟68, comincia a dare corpo a un‟idea di poema
drammatico, rappresentato nel 1971 col titolo di Ipazia, e poi, dopo la stesura di un secondo atto (Il messaggero), edito e rappresentato col titolo complessivo di Libro di Ipazia
(1978). I nuovi orientamenti poetici e la ricchezza delle soluzioni espressive, dimostrate a partire dalla fine degli anni Sessanta, fanno di Luzi improvvisamente un irrinunciabile punto di riferimento della giovane poesia italiana post-neoavanguardistica,
che trova in lui un giudice discreto e leale, generoso di consigli e cordiale, come sta a
dimostrare l‟enorme quantitativo di volumi poetici, donati allo scrittore nel corso degli
anni, spesso con affettuose e non formali dediche autografe, oggi custoditi e in via di
catalogazione presso il Centro di studi su Mario Luzi „La barca‟, istituito nel 1999 a
Pienza, in provincia di Siena. Su fondamenti invisibili suscita un entusiasmo dilagante in
tutto il mondo della letteratura e si comincia a parlare di Luzi come del più importante
poeta del secolo. Val la pena riportare un paio di testimonianze epistolari di questo
clima di clamoroso apprezzamento: Caproni scrive a Luzi: «A tanta altezza, chi potrà
mai più raggiungerti? […] L‟ampiezza, la profondità, l‟arcata del tuo discorso, la trattenuta risonanza suscitatrice d‟originali „armonici‟, l‟intima irradiazione di vibrazioni non
trovano eguali, non esito a dirlo, nella poesia nostra novecentesca». Quest‟altro, invece, è Betocchi: «ora sembra a me che l‟organica intenzionalità di tutto il libro, che
attraverso il discorso ci si rivela nutrita di vita, e così misteriosamente vivente, rimandi
il pensiero a un modo di far poesia che da sei secoli in qua non si è più visto»25.
L‟autunno del 1972 corrisponde a una nuova svolta sul fronte privato, dal momento
che si separa dalla moglie, restandole però sempre legato da un affetto intimo e sincero, reciprocamente dimostrato in ogni situazione di bisogno: va così a vivere da solo
nella più nota delle sue residenze, in via di Bellariva, 20, una piccola strada traversa del
Lungarno, alquanto distante dal centro storico. La maggiore indipendenza risulta piuttosto funzionale al nuovo impegno accademico assunto a Urbino – dove dall‟anno
1972-1973 tiene l‟insegnamento di Letterature comparate – e ai numerosi viaggi che
dall‟anno seguente farà in giro per il mondo, invitato presso le Università e gli Istituti
di Cultura. Nel 1978 pubblica Al fuoco della controversia, ed è ancora un successo di critica, come sancisce subito il Premio Viareggio.
In quella stessa estate conosce, tramite Leone Piccioni, il rettore del seminario di
Pienza, Fernaldo Flori (1915-1996), una figura fondamentale per la sua più recente
stagione, segnata da un più profondo bisogno d‟interrogazione religiosa, al di fuori
degli schemi rigidamente istituzionali, ma entro i binari della teologia ufficiale. Ricorderà di lui il poeta, che trascorrerà come suo ospite periodi estivi di riposo a Pienza, da
allora fino al 1995, tornandovi poi ancora dopo la sua scomparsa, quasi rispettando
una sorta di superiore promessa d‟amicizia: «lui mi ha fatto sentire veramente la messa
e l‟eucarestia, quando, sacerdote, superava la sua e nostra umanità, investendosi del
sacrificio della messa, così avvertivi che nelle sue funzioni in lui il cristianesimo avveniva, in modo inesauribile […] Era anche in perenne atteggiamento critico verso la
tradizione, sia nei confronti della storia della Chiesa, sia rispetto alle affermazioni di
25 I frammenti delle due lettere sono riportati dall‟ottimo Stefano Verdino nella Cronologia che accompagna l‟edizione critica di M. Luzi, L‟opera poetica cit. (d‟ora in poi Verdino, Cronologia), pp. LV-CX:
XCVIII.
17
principio assoluto»26. Proprio in uno di questi soggiorni agostani di Pienza, nel 1990,
Luzi scriverà il saggio Sul discorso paolino, che servirà da introduzione all‟edizione einaudiana delle Lettere di san Paolo27. Dal 10 al 30 ottobre 1980 compie il suo viaggio più
importante dopo quello in India: questa volta è in Cina, ospitato con una delegazione
del Sindacato nazionale degli scrittori italiani che comprende anche Vittorio Sereni,
Luigi Malerba (1927) e Alberto Arbasino (1930). Ne scaturiscono il poema in tredici
„paragrafi‟ intitolato Reportage, che diverrà una sezione di Per il battesimo dei nostri frammenti, e un nuovo taccuino di viaggio, edito insieme col poema nel 198428.
Il 9 e 10 maggio 1981 si tiene presso l‟Università di Siena il primo convegno in suo
onore, con l‟autorevole partecipazione, fra gli altri, di Ramat, Fortini, Baldacci, Serrao,
Sereni, Mussapi, Memmo, Giunta, Verdino, Jacobbi, Zagarrio, Quiriconi, Zinna e Mariella Bettarini. Lo stesso anno vince, finalmente, il concorso per professore ordinario
di Letteratura francese, ed è provvisoriamente assegnato alla Facoltà di Magistero di
Firenze, conservando ancora l‟incarico presso quella di Scienze politiche, ma abbandonando la collaborazione con Urbino; dal successivo anno accademico ‟82-‟83 ottiene la chiamata come ordinario di Lingua e cultura francese nella „sua‟ Facoltà di
Scienze politiche, dove preferisce chiudere la carriera.
Nel 1983 viene rappresentato e pubblicato il suo secondo dramma in versi, Rosales, e
due anni dopo è la volta di Per il battesimo dei nostri frammenti, il libro ancipite che da un
lato chiude la stagione dei riferimenti cronachistici e civili (ancora presenti qua e là
nelle sezioni „Fuori o dentro lo strampalato albergo‟ e „Reportage‟), dall‟altro apre la
via nuova di un canto assorto e „riepilogativo‟ di tutta una luminosa carriera, adesso
riletta decisamente in chiave filosofica e cristiana; ora, al culmine di un percorso artistico e teoretico solitario e discusso, la sua voce è – timidamente – cercata anche dal
cattolicesimo ufficiale italiano, come in occasione della visita di papa Giovanni Paolo
II Wojtyla a Firenze, il 18 ottobre 1986, quando viene incaricato di tenere il discorso
di Saluto al pontefice29. La sua affermazione pubblica prosegue nel 1987, quando, in occasione del centocinquantesimo anniversario della morte di Giacomo Leopardi, viene
invitato a Recanati per leggere, dinanzi alle massime autorità dello Stato, il celebre discorso dal titolo Nella poesia e nel pensiero una necessaria rifondazione30: riceve inoltre dalla
Queen‟s University di Belfast una laurea honoris causa, e subito dopo viene invitato dalla
Sorbona di Parigi a tenere un ciclo di conferenze sulla lirica italiana del Novecento.
Ormai il poeta si è impadronito del mezzo teatrale e si avvale delle dinamiche dialogiche per esprimere al meglio le „personificazioni‟ che sempre più frequentemente i
concetti astratti vengono assumendo nella sua scrittura: così, nel 1987 e nel 1989,
pubblica e fa rappresentare, rispettivamente, Hystrio e il Corale della città di Palermo per S.
Rosalia. Una provvisoria destinazione teatrale hanno anche le liriche (La lite), La vita
cerca la vita e È oscura in loro (poi incluse nella sezione „Genia‟ di Frasi e incisi di un canto
salutare, 1990) che, fuse in un «oratorio» in due tempi e quattordici scene, vengono
musicate dal giovane e valente Luciano Sampaoli ed eseguite in un concerto che assume il titolo La lite (24 agosto 1989). L‟esperienza musicale si ripeterà cinque anni più
M. Luzi, La porta del cielo cit., pp. 24-25.
Sul discorso paolino sarà poi incluso in Id., La porta del cielo cit., pp. 155-164.
28 Il volumetto, ormai una vera e propria rarità bibliografica, recherà il titolo di Reportage. Un poemetto seguito dal Taccuino di viaggio in Cina (All‟Insegna del Pesce d‟Oro, Milano 1984); il diario di viaggio non sarà
più ristampato.
29 Poi edito in Id., Naturalezza cit., pp. 281-283.
30 Edito in Id., Dante e Leopardi cit., pp. 91-104; poi in Naturalezza cit., pp. 223-231.
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tardi quando il maestro Sampaoli musicherà e farà eseguire «quattro Lieder per voce e
pianoforte», cui Luzi darà il titolo di Torre delle ore: a differenza della Lite, questo nuovo
libretto è concepito sin dall‟inizio come testo per musica e non sarà rifuso in alcuna
successiva plaquette31.
Contemporaneamente inizia la collaborazione con la compagnia dei „Magazzini‟ di
Prato, diretta da Federico Tiezzi, che sta realizzando un progetto triennale consistente
nella drammatizzazione della Comedìa dantesca: l‟operazione prevede che a tre grandi
poeti contemporanei venga affidato l‟adattamento delle tre cantiche, selezionando gli
episodi e predisponendo le didascalie per la messinscena. Se a Sanguineti era toccato
nell‟‟89 la Commedia dell‟Inferno. Un travestimento dantesco, Luzi, cui la critica da decenni ha
riconosciuto modulazioni e simbologie purgatoriali, è autore nel ‟90 del Purgatorio. La
notte lava la mente; l‟anno seguente è la volta di Giovanni Giudici alle prese con Il Paradiso. Perché mi vinse il lume d‟esta stella32. Nel 1992 Luzi pensa ancora al teatro, dando alle
stampe Io, Paola, la commediante, omaggio, solo parzialmente rappresentato, dedicato
all‟attrice e sua interprete Paola Borboni (1900-1996).
La cessazione dell‟attività accademica non implica certo il disimpegno scientifico di
Luzi che nel 1991 pubblica in Francia un saggio su Mallarmé e ne redige un altro che
servirà da introduzione alle Opere complete di Arthur Rimbaud, edite da EinaudiGallimard l‟anno seguente33. Durante la guerra del Golfo persico dell‟inverno 1991 si
schiera apertamente contro l‟attacco militare internazionale, preludio a una serie di interventi politici, a volte suscitatori di clamorose polemiche, come quando nel ‟94, in
un incontro internazionale a Varsavia, esprime viva preoccupazione per la recente ascesa al governo della destra italiana, dando contemporaneamente a «Micromega»
(1994, 3) l‟articolo Essere è non dimenticare, indignata stigmatizzazione dei tentativi di
riabilitazione storica del fascismo. In occasione di tutte le successive competizioni
elettorali, non evita di dichiarare pubblicamente la propria scelta a favore del fronte
comune democratico espresso dai movimenti della sinistra e del centro, ammonendo
dai principali quotidiani circa il rischio che l‟assuefazione politica e l‟indifferenza ideologica degli italiani aprano la strada a forme subdole e infide di nuovo autoritarismo34.
Nello stesso 1994 il poeta, ottantenne, torna a pubblicare un libro di poesia, ed è
quello che, con ogni probabilità, sarà ricordato come il suo capolavoro, Viaggio terrestre
e celeste di Simone Martini, cui lavora già dal 1990, ordinando, rivedendo e riassemblando
frammenti poetici che era andato componendo nel corso del tempo e che ormai si
configurano nella sua mente come parti di un unico grandioso poema, quello cercato a
partire da Per il battesimo dei nostri frammenti e ora finalmente trovato in un‟idea ispirata
31 La collaborazione fra i due artisti sarà oggetto di un convegno, svoltosi presso la Fondazione Tito
Balestra del Castello Malatestiano di Longiano, il 10 dicembre 1995, con la partecipazione, fra gli altri, di
Gualtiero De Santi, Giancarlo Quiriconi e Stefano Verdino; gli atti e il catalogo della mostra collegata al
convegno (replicata a Gubbio nel 1997 e a Firenze nel 1998) sono stati pubblicati col titolo Mario Luzi Luciano Sampaoli. Il tempo tra Poesia e Musica, Crocetti, Milano 1997.
32 Le tre pièces sono prontamente edite da Costa & Nolan di Genova, rispettivamente nel 1989, 1990 e
1991.
33 Il primo contributo, Con Mallarmé, a lungo, nella traduzione francese di Jean-Yves Masson, è apparso,
col titolo Au fil du temps, come introduzione a S. Mallarmé, Poésies, Orphée La Difference, Paris 1991; insieme col saggio su Rimbaud, Nel cuore dell‟orfanità, è stato poi pubblicato in M. Luzi, Naturalezza cit.
34 Si vedano, ad esempio tre interviste su «L‟Unità», pubblicate il 5 aprile 1995 («Lanciamo la sfida della
modernità»), il 10 luglio 1995 («Un‟Italia normale va inventata») – entrambe a cura di R. Cassigoli – e il 12
febbraio 1996 («Rottami e maschere riempiono la scena»), a cura di E. Manca. Si possono consultare anche sul
sito www.mclink.it/unita.
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alla vicenda storica del pittore gotico senese, liberamente reinventata sul modello del
suo ben collaudato teatro „storico-fantastico‟. Scompare ormai ogni intrusione pluringuistica, l‟opera è di quelle che costano un intero itinerario artistico e che collocano
inequivocabilmente l‟autore ai vertici della poesia mondiale. Per interessamento di Stefano Verdino, italianista genovese che, con affetto filiale unito a indiscutibile impegno
scientifico, da molti anni segue ormai l‟opera di Luzi, collocandosi, insieme a Giancarlo Quiriconi e pochissimi altri, tra i più autorevoli esegeti e biografi del maestro fiorentino, viene pubblicato nello stesso 1994, presso una piccola casa editrice emiliana, il testo teatrale censurato nel dopoguerra, Pietra oscura, poi rappresentato nel 1999.
Per gli ottant‟anni del poeta si moltiplicano le occasioni di celebrazione e di pubblico
omaggio, di cui resta traccia nelle edizioni che gli vengono offerte35. Al Maggio Musicale Fiorentino del 1995 “I magazzini” di Prato mettono in sciena Felicità turbate, la
nuova pièce ispirata ancora una volta alla vita di un pittore – questa volta si tratta di Jacopo Carucci, detto il Pontormo, artista del tardo Rinascimento fiorentino – come quasi sempre prontamente edita da Garzanti. Individuato come simbolo vivente della letteratura nazionale e come maestro di educazione civile democratica, a cento anni di
distanza da Giosuè Carducci, il 7 gennaio 1997 viene invitato a Reggio Emilia a tenere
il discorso celebrativo Per il bicentenario del tricolore italiano36. Pochi giorni dopo viene
insignito della Legion d‟Onore dal Presidente della Repubblica francese.
A settembre pubblica Ceneri e ardori, commossa rievocazione teatrale degli ultimi
giorni di vita del narratore francese Benjamin Constant (nome completo: HenriBenjamin Constant de Rebecque, 1767-1830), non priva di qualche accento autobiografico37. L‟anno 1997, tuttavia, non si chiude senza lasciare un segno profondo della
pungente ostilità che l‟opera di Luzi incontra presso l‟establishment letterario internazionale: per molti anni indicato dall‟Accademia dei Lincei come candidato italiano unico
al Premio Nobel38, Luzi vede sfumare definitivamente quello che gli pare essere il più
desiderabile coronamento di una vita dedicata interamente alla testimonianza letteraria
e segnata da così alti risultati poetici, allorché il Nobel viene inaspettatamente assegnato all‟italiano Dario Fo, i cui meriti teatrali sono innegabili sul piano registico e attoriale, un po‟ meno su quello compositivo. Ne nascono infinite polemiche, quasi sempre di pessimo gusto e di squallido profilo culturale.
Il 30 e 31 gennaio 1998 si tiene al Teatro dei Leggieri di San Gimignano (Siena), per
35 Ricordiamo: G. Tabanelli (a cura di), Per Mario Luzi, Edizioni del Leone, Venezia 1994 (con testi, fra
gli altri, di Bigongiari, Bo, Macrì, Parronchi, Rafael Alberti, Amado, Bonnefoy, Brodskij, García Marquez, Heaney e Milosz); Questa terra… quella luce. Omaggio di Pienza a Mario Luzi e ai suoi meravigliosi 80 anni,
Bandecchi & Vivaldi, Pontedera 1994 (fra gli altri, vi compaiono contributi di Asor Rosa, don Flori, Piccioni e Specchio); Conferimento della cittadinanza onoraria a Mario Luzi dal Comune di S. Miniato, FM, S. Miniato 1994 (vi interviene Quiriconi); ricordi di Flori e Piccioni appaiono anche nella pagina di omaggio
dell‟«Informazione» del 20 ottobre 1994. È ancora riconducibile a tale clima di festeggiamenti la giornata
di studio Per Mario Luzi, organizzata dall‟Università di Firenze il 20 gennaio dell‟anno seguente, i cui atti
sono stati pubblicati, a cura di G. Nicoletti, da Bulzoni di Roma nel 1997, con relazioni anche di Bo,
Prete, Panicali, Gramigna, Jacomuzzi e Orelli.
36 Poi edito in G. Carducci, M. Luzi, Discorsi per il Tricolore, Zanetto, Brescia 1999, pp. 15-22.
37 A Constant Luzi ha guardato sin dalla giovinezza come un modello intellettuale, un esempio di robustezza culturale e coerenza morale, nonostante i tentativi delle opposte fazioni, che si fronteggiavano
nella Francia dell‟età napoleonica, di trascinarlo ciascuna a sostegno delle proprie ragioni. Luzi lo ricorda
fra le sue letture francesi giovanili e ne fa oggetto di studio critico nel Diario di Constant (in Aspetti della
generazione napoleonica cit., pp. 83-88) e nello Stile di Constant, Il Saggiatore, Milano 1962.
38 Secondo L. Rizzoli e G.C. Morelli (op. cit., p. 13) la candidatura rimonta addirittura al 1980; secondo
Verdino, Cronologia, p. CVI) al 1991.
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iniziativa del meritorio Centro di Studi sul Classicismo, diretto da Roberto Cardini,
ordinario nell‟Università di Firenze, in collaborazione con l‟Istituto Italiano per gli
Studi Filosofici, un importante convegno intitolato „Gli intellettuali italiani e la poesia
di Mario Luzi‟, che vede la partecipazione di filosofi del calibro di Massimo Cacciari
(Luzi: il dicibile e l‟indicibile nel linguaggio della poesia), Sergio Givone (Voce e silenzio nel linguaggio poetico di Luzi), e Vincenzo Vitiello (Silenti Deo: dire Dio per “frasi e incisi”) e di uno
dei maggiori teologi contemporanei, Bruno Forte (Metafore della verità: Mario Luzi testimone dell‟Altro)39: il dibattito verte sull‟influenza decisiva che il magistero intellettuale di
Luzi ha esercitato negli ultimi decenni sulla ricerca filosofica e teologica italiana. Al
termine del convegno è inaugurata la mostra „Mario Luzi. Autografi, brogliacci, documenti‟ (31 gennaio - 31 marzo).
Il 26 settembre è a Lerici (La Spezia) dove riceve il premio alla carriera e un tributo
del Presidente della Repubblica, per il tramite del ministro Bogi; è presente Stefano
Verdino che annuncia l‟imminente uscita della sua edizione critica dell‟Opera poetica di
Mario Luzi, nella collana mondadoriana dei „Meridiani‟, che si rivela un successo editoriale, vedendo esaurita la prima edizione prima della fine dell‟anno. Un nuovo evento clamoroso degli ultimi anni è rappresentato dall‟invito di Papa Giovanni Paolo II a
scrivere i testi di meditazione della tradizionale e imponente Via Crucis al Colosseo,
presieduta dallo stesso Pontefice il Venerdì santo, 2 aprile 1999; è la prima volta nella
storia che tali testi vengono redatti da un poeta laico. Ma il ‟99 è anche l‟anno della
guerra della Nato contro la Yugoslavia, nuova occasione di un intervento di polemica
civile per Luzi che in maggio redige un documento di protesta non violenta dal titolo
Svegliati Europa umiliata. Esci dalla follia sanguinaria, firmato con Rafael Alberti (19021999), Carlo Bo, Fernanda Pivano (1917), Harold Pinter (1930) e Giovanni Raboni
(1932)40.
Pubblica e fa rappresentare nel Duomo di S. Maria del Fiore in Firenze la nuova
pièce, dedicata al settimo centenario della fondazione della Cattedrale stessa, Opus florentinum. Tra luglio e novembre si tengono due convegni in terra pescarese sull‟opera di
Luzi, rispettivamente a Spoltore, nell‟ambito del Premio Flaiano (con interventi, fra gli
altri, di Elio Gioanola, Alfredo Luzi e Giancarlo Quiriconi) e a Penne, nell‟ambito del
Premio internazionale di letteratura Città di Penne-Mosca (con interventi di Maria Antonietta Abenante, Lothar Knapp, Luciano Luisi, Vito Moretti, Giancarlo Quiriconi,
G. Singh, Evgenij Solonovic, Vincenzo Cappelletti, Franco Foschi, Emerico Giachery,
Bernard J. Hickey, Evgenij Sidorov). In quest‟occasione viene presentata la sua ultima
raccolta lirica, Sotto specie umana, parzialmente anticipata l‟anno prima nel „meridiano‟
Mondadori dal ciclo Un mazzo di rose, un titolo che è anche un‟indicazione di lettura
per un libro che, se nulla di nuovo aggiunge all‟ormai lungo e splendido percorso letterario di Luzi, si offre come un omaggio e un affettuosissimo saluto del maestro ai
suoi lettori.
Diversamente da quanto riportato in Verdino, Cronologia, p. CX, non erano presenti l‟anziano regista
teatrale Orazio Costa Giovangigli, il politico Mino Martinazzoli e l‟italianista Ezio Raimondi, pure annunciati dal programma insieme a Giovanni Giudici e all‟attore Sandro Lombardi. Intervenne, invece,
Giancarlo Quiriconi.
40 Pubblicato sul «Manifesto» del 23 aprile 1999.
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IL POETA, LA MEMORIA, LA REPUBBLICA
Caro Luzi,
no, sono sicurissimo che la tua collaborazione a «Officina» è una cosa felice: non avere dubbi.
Io predico sempre con Leonetti e Roversi di evitare le piccole polemiche, perché in esse,
anche senza che il facitore se ne accorga, c‟è sempre per la loro natura stilistica qualcosa di
odioso e di presuntuoso. Credimi che anche Leonetti e Roversi ti vogliono molto bene, e sarebbero felici di vedere dei tuoi versi tra i „Testi‟. Tu hai capito benissimo che «Officina» non
ha „posizioni‟ da difendere: il suo abito è filologico, intanto, e perciò tutto è assumibile a suo
oggetto, a soddisfare una curiosità (che è poi amore) senza limitazioni: quanto poi alla scelta dei
testi, essa cade non genericamente sui più belli (cioè quelli in cui si presumono dei valori assoluti), ma sui più belli e i più interessanti, carichi cioè, come ti dicevo l‟altra volta, di valori relativi. I tuoi versi in questo senso sono ideali. Ecco perché ci terremmo tanto ad averli. Vedrai
che nel suo farsi «Officina» ti si rivelerà diversa da quella che forse ti è potuta apparire finora: e
il suo „sperimentalismo‟ assolutamente consono alla tua passione. Aspettando dunque le tue
poesie, ti saluto affettuosamente, tuo
Roma, 17 nov. ‟55
Pier Paolo Pasolini
C
questa lettera, battuta a macchina su carta intestata «Officina / Fascicolo
bimestrale di poesia / 4, via Rizzoli – Bologna»1 Pasolini torna a insistere, con
tono accorato e ferma intenzione di persuadere, nell‟invito alla collaborazione
con la sua neonata rivista, rivolto a un poeta certamente molto distante per sensibilità
stilistica e inclinazione ideologica, eppure così prezioso agli occhi di Pasolini da indurlo a mediare con i suoi due principali sodali officineschi, Leonetti e Roversi, circa alcune intuibili riserve e perplessità. Da queste righe appare evidente, infatti, che a una
precedente richiesta di Pasolini Luzi si sia sottratto, adducendo le ragioni di
un‟incompatibilità fra il proprio percorso ermetico e la vivace ricerca sperimentale della rivista bolognese, tramata di un acuto risentimento civile, avendo probabilmente già
assaggiato qualche accento polemico maturato in redazione. Ma il felibrista de La meglio gioventù, il poeta politico de Le ceneri di Gramsci non demorde, assicura circa i sentimenti d‟affetto dei suoi compagni («ti vogliono molto bene»: ma la categoria
dell‟amore non è estranea alla singolare riflessione politica e sociale di Pasolini, come
principio di sincerità d‟azione, più che di ricomposizione pacifica) e insiste sulla totale
organicità fra i «valori relativi» della poetica luziana e gli interessi teorici di «Officina».
Non s‟insisterà mai abbastanza sulla qualità specificamente critica del giovane Pasolini – soprattutto negli anni Quaranta-Cinquanta –, sulla sua capacità, cioè, di tenere
separate le sue ragioni originalmente poetiche dai giudizi fondati su competenze specificamente letterarie e storiografiche (evento alquanto raro, direi, fra i poeti-critici di
ieri e di oggi). L‟episodio da cui abbiamo preso le mosse ne conferma il tenace sforzo
di obiettività critica e la sottigliezza di giudizio, che consente al poeta bolognesefriulano di avvertire le corde etiche e l‟autonoma ricerca linguistica di Mario Luzi, che
proprio in questi anni viene da più parti accusato di manierismo neo-simbolista, di auON
1 Riprodotta fotograficamente nel catalogo della mostra Mario Luzi – Luciano Sampaoli. Il tempo tra Poesia
e Musica, Longiano 10 dicembre 1995 – 31 gennaio 1996 (replicata a Gubbio nel ‟97 e a Firenze nel ‟98),
a cura di A. Buoninsegni, F. Balestra, G. De Santi, Crocetti, Milano 1997, p. 136.
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toreferenzialità individualista, di petrarchismo ermetico, di colpevole assenteismo civile; basti ricordare l‟antiermetismo viscerale della coeva «Esperienza poetica» di Vittorio Bodini (per altri aspetti così cara proprio a Pasolini), il dibattito a distanza che Luzi
sviluppò sulle pagine della «Chimera» (raccogliendone gli esiti in Tutto in questione)2 e
l‟ostracismo immeritamente subito dalla critica engagé. D‟altra parte, persino fra i tanti
„devoti‟ di Luzi (poeti, critici, forse anche politici), Pasolini sospettava che allignassero
comportamenti ipocriti, come di chi, dietro le palesi lusinghe, nascondendesse amicizie strumentali e inclinazioni al tradimento, come pare documentato da un epigramma
che lo scrittore bolognese scriverà tre o quattro anni dopo la lettera ora ricordata, e
dunque ancora nella stagione „officinesca‟; nell‟icasticità ironica ch‟è tipica del genere, i
quattro versi lunghi sono dedicati all‟autore di Onore del vero, ritratto nella sua consueta
pensosità inalterabile, in cui la cordialità tipica del vicino di casa si associava mirabilmente a una certa ieraticità: «Questi servi (neanche pagati) che ti circondano, / chi sono? A che vera necessità rispondono? / Tu taci, dietro a loro, con la faccia di chi fa
poesie: / ma essi non sono i tuoi apostoli, sono le tue spie»3.
Con quel tipico tratto che sposava la veemenza del dettato con la mitezza del ragionamento, Pasolini incrociava con Luzi le „armi‟ pacifiche del dibattito, non risparmiandosi certo l‟un l‟altro qualche accento polemico, come nel caso della dichiarazione rilasciata da Luzi a «L‟approdo letterario» nel primo trimestre del 1958, riguardo
alla «mancanza di ideologia» e «di un preciso orientamento del linguaggio» in Pasolini e
in altri «giovani avversari dell‟ermetismo»4; ma pur sempre il bolognese intravedeva nel
fiorentino alcuni interessanti «valori relativi», quelli che svelavano un poeta per nulla
amante della bianca assolutezza dell‟autoreferenzialità (stigmatizzata dai suoi detrattori), ma anzi attratto dalle lacerazioni storiche di un tempo drammaticamente speciale,
stretto fra la ferocia di un regime e della sua guerra e i chiaroscuri della ricostruzione
repubblicana. Perché la tensione etica dell‟impegno intellettuale di Luzi appaia in tutta
evidenza, anche nei suoi accenti di schietta preoccupazione politica, la critica più distratta dovrà attendere ancora molti anni, e anzi apparirà quasi un po‟ sorpresa quando
nei primi anni Duemila, a inizio di legislatura, un gruppo di politici e intellettuali proporrà al Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi la sua nomina a senatore a
vita, cosa che avverrà giovedì 14 ottobre 2004, pochi giorni prima del suo novantesimo compleanno e del suo quindicesimo e ultimo libro di liriche, Dottrina dell‟estremo
principiante5. Ma se l‟ultimo decennio è stato quello indubbiamente più ricco di esternazioni dirette, perlopiù affidate a discorsi pubblici o a interviste, è nella poesia lirica e
poi anche drammatica dei decenni precedenti che Luzi aveva dato prova di una dispo2 Vallecchi, Firenze 1965. Per la ricostruzione della polemica fra neorealismo poetico ed ermetismo mi
permetto di rinviare al capitolo Vittorio Bodini e «L‟esperienza poetica»: l‟opposizione all‟ermetismo del mio libro
Critico e testimone. Storia militante della poesia italiana 1948-2008, Moretti & Vitali, Bergamo 2009, pp. 445473.
3 P.P. PASOLINI, A Luzi, in La religione del mio tempo, Garzanti, Milano 1961, ora in ID., Tutte le poesie, a
cura di W. Siti, con scritti di F. Bandini e N. Naldini, A. Mondadori, Milano 2003, vol. I, pp. 889-1060:
1019.
4 La circostanza è ricordata nella nota all‟epigramma di Pasolini alle pp. 1678-1679 dell‟edizione critica
ora citata.
5 Escludo da questo computo le antologie e le quattro plaquettes di poesie extravaganti, quasi tutte curate da Stefano Verdino: Perse e brade, Newton Compton, Roma 1990; Torre delle ore, All‟Insegna del Pesce
d‟Oro, Milano 1994; Parole pellegrine, postfaz. di Ciro Vitiello, Pironti, Napoli 2001; Poesie ritrovate, Garzanti, Milano 2003. Naturalmente a parte stanno anche i testi teatrali, le prose d‟arte, i saggi, le traduzioni e i
volumi-intervista.
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nibilità a compromettere la „purezza‟ di una poesia che voleva proiettata alla ricerca di
un Essere metastorico con i segni di un dolore storico, di un‟assenza che tanto nella sua
genesi, quanto nella sua fenomenologia ravvisa le responsabilità degli uomini, con le
loro cupide follie o le loro intolleranti refrattarietà al dialogo.
D‟altro canto più volte Luzi ha postulato la necessità per la parola di giungere alla sua
trasfigurazione luminosa nel Verbo, senza perdere il carico semantico della sua «fisica», della sua «naturalezza», della sua umanità che il mito tragico di Orfeo aveva dimostrato essere consustanziale alla magia poetica. In questo consiste la più decisiva delle
differenze fra il poeta ermetico e il suo „genitore‟ simbolista; laddove questi aspira
all‟impossibile alterità della creazione artistica rispetto alla realtà biologica e storica,
Luzi accetta consapevolmente che la sua Euridice perduta (cioè la materia radicalmente umana dei suoi affetti) sia insieme fonte e mezzo del suo canto. Con la mediazione dell‟etica dantesca e del platonismo agostiniano, entrambi evidenti nei saggi e
nella poesia degli anni Quaranta, ma culminanti, a mio modesto avviso, in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), l‟elevazione della parola non avviene tramite spoliazione, ma per attraversamento e comprensione dell‟umano, secondo un itinerario che
il poeta ha additato esemplarmente in Primizie del deserto, allorché così si rivolge a una
memorabile figura muliebre, personificazione volutamente polisemica della poesia e
della fede (già connesse nel primo libro nella metafora della barca): «Vieni, interpreta
l‟anima sconfitta / tra questo essere e questo non esistere, / vieni, libera il nostro grido, spazia, / ma ferisciti, sanguina anche tu» (Invocazione, vv. 108-1116). E un‟analoga
invocazione sarà quella rivolta dalla «cosa» (cioè la realtà umana, storica) alla «parola»
(quella poetica, destinata alla sublimazione sapienziale, alla sua trasfigurazione luminosa) in Per il battesimo dei nostri frammenti: «però non separarti / da me, non arrivare, / ti
prego, a quel celestiale appuntamento / da sola, senza il caldo di me / o almeno il mio
ricordo, sii / luce, non disabitata trasparenza» (Vola alta, parola, vv. 5-10). Ancora, nel
Simone Martini, il protagonista di questo straordinario poema così si rivolge all‟oggetto
della sua arte, che è insieme Siena, dalla quale si sta definitivamente congedando, e la
Vergine, che ha deciso di ritrarre: «Non lasciare deserti i miei giardini / d‟azzurro, di
turchese, / d‟oro, di variopinte lacche / […] Non fare che la mia opera / ricada su se
medesima, / diventi vaniloquio, colpa» (Rimani dove sei, vv. 7-9, 17-19).
Provando a ripercorrere l‟opera di Luzi seguendo il filo delle sue cure civili, partirei
da un testo giovanile come Europa, risalente addirittura al 1938, pubblicata per la prima volta nel fascicolo novembrino di quell‟anno del «Frontespizio» (X, 11, p. 674) –
segnando il congedo del poeta dalla rivista, ormai attestata su una linea di intransigenza clerico-fascista – e inclusa poi in Avvento notturno7, il libro forse più tipico del soggettivismo del primo ermetismo fiorentino, quello più oscuro e compromesso con le sue
radici orfiche. Eppure, all‟inizio della quarta quartina di endecasillabi, compare
un‟inquietante «orda» che «[…] incede / lungamente nel vento e nella luna / per le
fratte […]» (vv. 13-15), prima incursione stravolta della storia contemporanea nel dominio poetico luziano.
Si tratta di una visione cifrata delle truppe naziste che intorno a quella data, raggiunTutte le citazioni dalle raccolte edite entro il 1994 (da La barca a Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini) sono attinte all‟edizione critica che le ricomprende: M. LUZI, L‟opera poetica, a cura di Stefano Verdino,
A. Mondadori, Milano 1998.
7 Per un‟analisi dell‟opera luziana fino a Un brindisi e per una ricostruzione del contestuale dibattito
sulle riviste rinvio al mio Dall‟«acqua di polvere» alla «grigia rosa». L‟itinerario del dicibile in Mario Luzi, Schena,
Fasano 1994.
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to il potere in Germania, procedevano all‟occupazione di gran parte dell‟Europa centro-orientale cominciando dall‟Austria, e il titolo della poesia, insolitamente esplicito
nella sua caratterizzazione geografica, sembrerebbe riferirsi alla crisi della civiltà (di
quella liberale, scaturita dalla Rivoluzione francese e dal Risorgimento; ma, direi, della
civiltà tout court, come starebbe a indicare il termine «orda» che vi si contrappone, alludendo all‟esplosione violenta di forze barbariche ed irrazionali) in tutto il territorio
continentale, coinvolgendo anche la soppressione delle libertà individuali e politiche,
dapprima nella stessa Italia e poi in Spagna. Allora, per la prima volta, la visione di un
male storico e collettivo disegna le «frontiere», cioè i limiti, del «soffrire» individuale e
fa scoprire la necessità dello slancio etico verso il prossimo («[…] delle altrui sopravvivenze / hai fatto la tua vita», vv. 17-18); da questo momento la poesia non si sottrarrà
alla solidarietà con i silenzi a lungo imposti a chi attendeva una liberazione morale e
politica, accetterà di essere appena «[…] il bianco / dell‟inane graffito […]» sul muro
di una via abbandonata, ma pur sempre la testimonianza irriducibile della disapprovazione di un regime e di una cultura di morte: altro che ermetismo come «ninnolo del
regime», come ha rilanciato un inaspettato trafiletto apparso il 5 marzo 20058 (p. 37),
che, chiamando inopportunamente in causa valutazioni di Pier Vincenzo Mengaldo
(che invece riguardavano il mero aspetto stilistico), immagina fantasiosamente che gli
interessi civili del poeta appena scomparso si fossero accesi solo negli «ultimi tre mesi», evidentemente ignorando alcuni dati della biografia sua e di quella del padre9: se
poi per l‟estensore di quella nota gli unici antifascisti sono stati i partigiani, l‟elenco
sarà allora molto corto e in compenso comprenderà figure davvero eroiche e di specchiata virtù democratica: come Edgardo Sogno…
Invero, ad uno sguardo più attento l‟intera questione merita di essere rivalutata: gli
anni Trenta e Quaranta costituiscono la stagione delle risonanze nascoste, dei rinvii
alle vicende storiche mascherati per timore della censura, ma soprattutto per quella
necessità di trasfigurare ogni dato di realtà in un grumo di verità possibile, in una
promessa di significazione che non sia totalmente e definitivamente risolta a priori, ma
sia suscettibile di continue riqualificazioni, riportando così la poesia alla sua radice mitica e religiosa: la chiave di lettura dell‟eticità, diciamo pure della politicità della scrittura di Mario Luzi è tutta qui, nella correzione di un insostenibile giudizio di astoricità in
quello di metastoricità.
Così, se la strofa iniziale del poemetto che dà il titolo alla terza raccolta, Un brindisi,
composto nel 1941 e già parzialmente anticipato nell‟aprile-maggio di quello stesso
anno su «Prospettive» (V, 16-17, pp. 7-8), contiene tracce allucinate dei bombardamenti che si abbattono sulle città europee («[…] i vetri si rimandano / nelle brulle città
bianche ferite, / lunghi sorsi di febbre dai colori di Dite / che attraversano il cielo
fulminando», vv. 5-8), il costume di rivestire di toni mitici la tragedia in atto si ripete
nella lirica seguente, A Ebe, anch‟essa affidata dapprima alle pagine di «Prospettive»,
8 P. DI STEFANO, Luzi antifascista. La patente al poeta, in «Corriere della Sera», sabato 5 marzo 2005, p.
37. Davvero inaspettata la sortita di Di Stefano, diversamente apprezzabile nelle precedenti incursioni
sulla figura di Luzi: voglio qui ricordare un‟intervista al poeta del 18 agosto 1993 e il profilo pubblicato il
15 ottobre 2004, entrambi sul «Corriere della Sera».
9 Nell‟estate del 1924 il padre, Ciro Luzi, ferroviere e consigliere comunale nelle fila liberali a Sesto Fiorentino, subisce delle minacce e delle aggressioni fasciste, in seguito alle quali decide di ritirarsi dalla politica e di allontanarsi per qualche tempo da Firenze. Mario Luzi ricorda l‟impostazione laicorisorgimentale del padre ancora nella conversazione avuta con Renzo Cassigoli, Le nuove paure, edita da
Passigli di Firenze, in una seconda edizione ampliata, nel 2005, pp. 71-72.
25
nell‟ottobre del 1941 (V, 22, p. 9): qui la personificazione mitologica della giovinezza,
cui si riferisce il titolo, chiaramente riprendendo il tema che in una chiave più individualistica aveva trattato in Biografia a Ebe (proprio in quei mesi in corso di stampa), si
rispecchia in altre due immagini pagane, quelle «di Venere e di Marte» su cui si chiude
il componimento e che rappresentano il conflitto radicale fra l‟amore (inteso nel suo
senso più elementare e carnale) e la guerra, reciprocamente incompatibili eppure terribilmente connessi nella sorte toccata alla sua generazione. Specularmente, a chiudere
la medesima terza sezione del libro, si colloca la lirica Ritorno10, in cui, sullo sfondo di
una «Giudecca» veneziana funebre e «nebbiosa», Luzi si lascia cogliere in uno stato interdetto e irresoluto, mentre contempla «[…] riflessi nei canali / i giardini d‟amore vietati dal tempo» (vv. 16-17): ancora, dunque, una lotta impari fra un «tempo» storico
luttuoso e inaridente («un secolo di noia», v. 11) e un bisogno di amare che è indizio di
una vita che non si arrende, e che dai suoi atteggiamenti sensuali e vagamente liberty
trascende a un‟accezione morale e religiosa, secondo i toni del suo libro d‟esordio.
E infatti Un brindisi si chiude con un dittico chiaramente allusivo di un amore inteso
come solidarietà, come com-passione per le vittime e, al rovescio, come «orrore» della
distruzione. Nei lunghi mesi in cui, ricercato dalla polizia badogliana per aver steso
con V. Pandolfi, R. Bilenchi, A. Parronchi e M. Cancogni un proclama liberalsocialista
dopo la caduta di Mussolini, si dà alla macchia con la moglie in Val d‟Arno, periodo
durante il quale nasce il suo unico figlio, Gianni, Luzi conosce da vicino la disperazione di quanti hanno perso i propri cari o le proprie cose a causa della guerra; a questo contesto si riferisce Viso, orrore, composta nel 1944, descrizione dell‟enormità della
tragedia di una madre che si è vista portar via i figli e che li piange «confitta nel silenzio». Anche qui agisce in profondità il mito classico, come dimostra l‟antica intitolazione Ad te, ad Nioben, che accostava la figura descritta alla madre punita da Diana ed
Apollo con la morte dei suoi dodici figli, a causa della sua sfrontatezza.
E con un corto circuito di senso «Diana» ritorna ancora nel successivo e ultimo
componimento del libro, Diana, risveglio, dove sta a indicare la dea notturna invocata a
soccorrere i derelitti e, insieme, il segnale militaresco di sveglia: «È tempo di levarsi su,
di vivere / puramente […]» (vv. 5-6). È la Firenze liberata nel luglio del 1944 quella
che Luzi vede rialzarsi, quella ch‟egli riscopre con viva commozione al termine di un
rocambolesco viaggio in bicicletta insieme con l‟amico poeta Alessandro Parronchi,
attraverso la campagna toscana, i posti di blocco tedeschi e l‟unico ponte rimasto in
piedi sull‟Arno, Ponte Vecchio, per ricongiungersi con i genitori, rimasti nel centro
storico, dei quali non aveva alcuna notizia da mesi. È un panorama di macerie, di miseria, di offesa alla vita umana e alla sua memoria storica: tutto, allora, parla ancora il
linguaggio della guerra e delle armi (per questo l‟esortazione non può che avere il suono della diana), ma il segno sta ormai cambiando, gli «specchi», che nella topica luziana
precedente avevano rappresentato il correlativo oggettivo dell‟angoscia e della disperazione, sono ora percorsi da «un sorriso», dalle finestre dischiuse si percepisce «un suono» annunciatore di giorni migliori.
Così il ciclo di Quaderno gotico, scritto tutto nel 1945, ha l‟andamento febbrile di un
canzoniere allegorico, che della prima maniera ermetica mantiene la densità sintattica e
l‟opacità semantica, ma per uniformità tematica prelude già alle stagioni maggiori
dell‟età matura: la figura femminile alla quale il poeta si rivolge nelle quattordici liriche
è tratteggiata secondo non poche reminiscenze stilnovistiche (qua e là è possibile per10
Composta nel 1942 e apparsa su «La ruota» nel giugno dell‟anno seguente.
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sino ravvisare intertesti della Vita nova11), ma cela sotto l‟apparente discorso amoroso
l‟identità della patria liberata, ritrovata al termine di un incubo, bagnata di lacrime e di
sangue («e piangevi il tuo pianto irreparabile», X, v. 11), ma quasi ringiovanita e pronta
a riprendere il cammino nel «mattino» di un mondo pacificato e concorde. D‟altra
parte la riscoperta di Dante, tempestivamente accordata a quella coeva di Eliot, Pound
e Montale, proprio in quell‟anno aveva avuto il suo momento decisivo nella stesura del
saggio L‟inferno e il limbo, poi pubblicato nel 1946 nel quinto fascicolo della rivista «Società». Sfortunatamente pochi ricordano che questa testata, destinata a rappresentare
un punto di riferimento del dibattito ideologico italiano del dopoguerra, era nata proprio nella casa paterna di Luzi, in via Condotta 10, nei pressi di Piazza della Signoria,
dove il poeta era ospite, in attesa di poter prendere una propria dimora.
In una Firenze profondamente umiliata e ancora ingombra di macerie, Luzi era da
poco rientrato con l‟intenzione di rianimare la scena culturale della città così sfolgorante fino a soli sei o sette anni prima. S‟incontra così con Vittorini e Bilenchi dalle cui
conversazioni scaturisce il progetto straordinario di una rivista che possa mettere insieme letteratura e partecipazione politica, lasciando convergere, fatto pressoché inedito ancora nella storia della cultura italiana, la tradizione marxista e quella cristiana, nella ricerca di comuni fondamenti democratici ed antitotalitari. Questo avrebbe dovuto
essere «Società», ma, com‟era prevedibile, al quarto numero la direzione viene trasferita a Roma, assorbita dal controllo centrale del Partito comunista italiano, e diviene inospitale nei confronti di chi non si allinea all‟ortodossia della sua politica culturale.
L‟amarezza per l‟esaurimento di questo cammino di convergenza e il sospetto verso
ogni forma di contenimento dell‟autonomia intellettuale determineranno il definitivo
distanziamento del poeta da quel partito e dai suoi alleati, spingendolo alla ricerca di
una posizione radicata nel solidarismo cristiano e progressista.
Primizie del deserto è il libro che racconta proprio lo stato d‟animo di quei formidabili
anni di ricostruzione non solo materiale ma anche morale del Paese: ad un‟umanità ferita e desertificata si offrono i primi segni della rifioritura, cominciando dalla poesia
stessa, inesausta occasione di riflessione e di riconoscimento della comune condizione
di „uomini in ricerca‟. E alle contraddizioni fra impegno ed eteronomia, e, soprattutto,
fra Liberazione e sudditanza ai contrapposti blocchi si riferisce, secondo una brillante
ma incompiuta intuizione di Zagarrio12, una delle liriche più belle del libro, Villaggio,
scritta nel 1949, quando il poeta ha un‟«età indecisa» (v. 37), un‟espressione straordinaria che indica da un lato la condizione personale (il poeta ha trentacinque anni e, dunque, è dantescamente nel mezzo del cammin di sua vita, «né giovane né vecchio», «tra
gioventù e vecchiaia», come scrive in altre due liriche dello stesso anno, rispettivamente Notizie a Giuseppina dopo tanti anni e Visitando con E. il suo paese), dall‟altro la qualità peculiare di quegli anni, contesi fra tendenze contrastanti e opzioni politiche opposte, rancori e rimorsi di cui è piena la migliore e più onesta letteratura sulla Resistenza e sulla nascita della Repubblica: «A questo punto, a questa età indecisa / è troppo poco attendere che alfine / all‟orizzonte ambiguo una figura, / un portatore di notizie appaia. / Tutto, se mai verrà, verrà dal fondo / di questa angoscia eterna senza
nome / goccia a goccia durata e fatta mia» (vv. 37-43). È la riproposizione convinta di
un dovere di misurazione dell‟uomo col dolore del suo tempo, antico e originario fon11 Mi sia permesso rinviare al capitolo Città infernali e ispezioni celesti in Mario Luzi del mio libro Il codice
Dante. Cruces della „Commedia‟ e intertestualità novecentesche, Stilo, Bari 2012, pp. 173-246 (in particolare il primo paragrafo: “Neostilnovismo del giovane Luzi”, pp. 175-208).
12 Cfr. G. ZAGARRIO, Luzi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 101.
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damento dell‟ermetismo, finalmente depurato dalle contrazioni linguistiche e figurali
della gioventù, ma conservato in tutta la sua valenza etica.
Con pacatezza Luzi rimprovera a tanti suoi amici la speranza in una scorciatoia politica, un «soccorso» esterno provvidenziale comunque connotato (e il forte dantismo di
questi versi, culminante nella scelta di un cammino infernale, ma necessario alla conoscenza, autorizza a pensare che per questo aspetto Luzi si distacchi dal suo modello,
facendo virilmente a meno tanto di una guida, quanto di un veltro liberatore13): si tratta di un‟invettiva in sordina, rivolta soprattutto contro l‟ipotesi che la scrittura possa
limitarsi alla descrizione o alla narrazione apologetica, proiettando fuori di sé (ad ovest, ad est) le speranze di soluzione (il mercato, la Rivoluzione). Gli eventi dolorosi di
quegli anni mostrano che in realtà ogni lotta richiede un‟assunzione di responsabilità e
un‟alleanza fra intellettualità e popolo, ma è quest‟ultimo a pagare, tragicamente, il costo più alto.
È il tema di A Niki Z. e alla sua patria, lirica del 1956 inclusa in Onore del vero: la dedicataria, Nike Zoroyannidis (1921), più nota con lo pseudonimo di Margherita Dalmati,
musicista cipriota di lingua greca, traduttrice, tra l‟altro, dei “Mottetti” di Montale e di
Quaderno gotico di Luzi, a quel tempo manteneva i contatti fra l‟irredentismo antibritannico di Cipro e l‟arcivescovo Makarios, dapprima deportato alle Seychelles e poi in esilio a New York. A questa sensibile e raffinata pasionaria e al suo popolo in lotta sono
rivolti versi d‟inusitata evidenza, in una poesia che ora si può compiutamente definire
civile, pur all‟interno di una concezione complessivamente purgatoriale, espiatoria della vita, che coinvolge anche le vicende politiche. I tormenti collettivi, i «gemiti /
d‟uccisi ingiustamente» (vv. 14-15) – non a caso indicati in una lirica di poco successiva, Caccia, come «i miei morti per forza», con un prezioso e sonoro dantismo da Pg V
52, allusivo dei caduti durante la prima e la seconda guerra mondiale («prima i miei
padri, dopo i miei fratelli») – appaiono vieppiù come il risvolto storico di una redenzione individuale, e, come quest‟ultima, orientati al bene e a una finale riconciliazione
e pacificazione. È per questo che se la poesia dedicata A Niki è collocata in coda a
Onore del vero, in una climax di precisazione purgatoriale che culmina in La notte lava la
mente («Poco dopo si è qui come sai bene, / fila d‟anime lungo la cornice», vv. 2-3),
l‟atmosfera è ripresa nelle prime pagine del successivo Dal fondo delle campagne, dove
l‟umanità reduce dalla guerra è vista «giro su giro lungo la montagna aggrondata» (Il
soldato, v. 3214).
Sono trascorsi non più di tredici anni dalla fine del conflitto e la vista di una compagnia di bambini che gioca „al soldato‟, se da un lato procura una certa perplessità e
un moto di disgusto, dall‟altro offre l‟occasione per il bilancio morale di chi la guerra
l‟ha fatta sul serio (nella finzione lirica è appunto il soldato che parla) e si è trovato costretto ad uccidere da ragioni superiori che non erano le proprie, o a trarre le estreme
conseguenze dagli ideali che aveva abbracciato, salvo nascondersi «nei granili» o condividere il «pane» con l‟avversario o con i civili, nella speranza di riscattare con un gesto di carità la disumanità delle armi, nell‟amara consapevolezza di non avere avuto al13 Sul dantismo di Luzi si vedano anche il mio Vocabolario dantesco della lirica italiana del Novecento, Palomar, Bari 2000, pp. 497-555; M.S. TITONE, Cantiche del Novecento. Dante nell‟opera di Luzi e Pasolini, Olschki,
Firenze 2001, pp. 41-68, 137-192, 195-202; e R. DE ROOY, «Il poeta che parla ai poeti». Elementi danteschi nella
poesia italiana e anglosassone del secondo Novecento, Cesati, Firenze 2003, pp. 52-55, 92-118.
14 Il verso richiamato contiene senz‟altro suggestioni purgatoriali e forse più precisamente da Purg.
XVII, XIX, XXII e XXIII che presentano l‟occorrenza «giro»; nella medesima lirica «uscire fuori dal bando»,
al v. 41, è debitore di Purg. XXI 102.
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tra responsabilità che quella di dare un senso individuale alla propria sorte, escluso
com‟era dai grandi poteri decisionali: «Di più non era opera mia soltanto» (v. 44). La
memoria della Resistenza nella Toscana centrale e delle conseguenti rappresaglie naziste (tristemente note sono quelle, ad esempio, di Castelnuovo dei Sabbioni, Meleto e
Sant‟Anna di Stazzema, tra il luglio e l‟agosto del 1944) non abbandona il poeta
neanche a distanza di circa «venti anni», mentre attraversa «paesi che solo a nominarli
il sangue s‟agghiaccia. / Luoghi uno accanto all‟altro / dove il pensiero soverchiato /
si fissa in un‟idea di morte» (A mezzacosta, vv. 3-6). Il poeta si chiede se sia un «miracolo» il ritorno alla vita in questi luoghi; ma ecco che il suo cristianesimo di fondo sorregge un disegno provvidenzialistico, per il quale il presente non si determina a dispetto e nonostante quelle stragi, bensì queste ultime erano finalizzate a un futuro e più
pieno amore per la vita: «Colpi a vuoto, colpi dati all‟impazzata / non c‟erano, miravano nel segno / se pure era difficile comprendere (vv. 14-17)». E qui i colpi – certamente le raffiche delle armi da fuoco contro le vittime innocenti di quelle follie omicide – con un raffinatissimo „gioco‟ intratestuale richiamano il testo eponimo incluso
nello stesso libro, in cui, riferendosi alle percussioni d‟accetta dei taglialegna, erano
metafora delle vicissitudini della vita e del destino umano: ne emerge, dunque, una visione storicistica in cui liberalismo post-risorgimentale e progressismo democratico
convergono sul medesimo piano del provvidenzialismo cristiano, come d‟altra parte
suggerisce il titolo stesso, A mezzacosta, che dal contesto macrotestuale riceve una chiara impronta, ancora una volta purgatoriale: la strada «sale lentamente» e la rimemorazione del passato di sangue vale ad espiazione delle colpe storiche e ad ammaestramento secondo virtù.
Altrove sono scene di lotte agrarie a Samprugnano (oggi Semproniano, paese della
Maremma grossetana da cui provenivano i genitori del poeta), ma con i contorni geotopografici così volutamente sfumati (sin dal titolo: Qualche luogo) da potersi ambientare in una qualunque contrada rurale del nostro Paese all‟inizio degli anni Sessanta15.
Qui abbiamo un esempio di come il poeta cerchi di astenersi da un giudizio che non
sia sorretto dalla condivisione delle sofferenze, dalla comprensione profonda dei punti
di vista altrui: il testimone «per caso» (v. 14) non può permettersi di brandire «il coltello del giudizio», scopre la nudità della propria mente dinanzi alle legittime ancorché
scomposte aspirazioni sociali di una massa derelitta: «È un giorno, un giorno d‟ira in
un paese / di questa terra arida, graffiata / da un aratro ch‟è poco più di un chiodo»
(vv. 11-13).
E intorno a questo tema del giudizio e della misericordia, come nodo centrale della
qualificazione della partecipazione del letterato alla situazione storico-politica, ruota
addirittura tutto il libro successivo, Nel magma, l‟opera che per più aspetti spiazza il
mondo della poesia italiana negli anni delle neoavanguardie. Con uno stile che sviluppa il realismo cordiale delle tre raccolte precedenti in una versificazione insolitamente
lunga e narrativa, Luzi sceglie di trasferire immediatamente sulla pagina la consuetudine con la polemica ideologica e le contese sociali, nella forma del dialogato,
nell‟animazione del testo attraverso interlocutori reali, non più semplici destinatari del
monologo riflessivo del poeta. Parole-chiavi della pubblicistica e del linguaggio giornalistico, improvvisi accostamenti lessicali di registri diversi e contrastanti sono la nuova
sfida stilistica di Luzi che, ancora una volta, sceglie di ribadire la costanza e la fermezza del proprio pensiero (ermetico, vorrei dire, ancora), scendendo però sul terreno
15 La lirica in questione è forse del 1962, anno in cui fu pubblicata su «L‟Approdo letterario», n.s., VIII,
19, luglio-settembre 1962, pp. 51-52.
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delle grandi questioni collettive.
Orfico nell‟età della poesia pura, discorsivo al tempo del neorealismo, plurilinguista
nel fuoco degli sperimentalismi, Luzi, secondo un peculiarissimo percorso che ben
sarà rappresentato nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, trova il momento opportuno per una catabasi nei traumi del contemporaneo, durante la medesima ascesa
espiatoria: elevazione e conoscenza del male sono coimplicate e inscindibili e questo è
il primo ostacolo da superare nel confronto con i propri compagni di strada, spesso
più convinti della separazione netta fra giustizia e colpa, senza margini per il dubbio o
il ripensamento. È un tema che si affaccia nel celebre testo di apertura, Presso il Bisenzio, del 1963, in cui il poeta è affrontato da alcuni giovani operai comunisti della zona
industriale a nord-ovest di Firenze, in un paesaggio dagli immediati connotati infernali,
ricreati dal termine «gora»16, per indicare il modesto corso d‟acqua nei pressi del quale
sorgeva una conceria. Il poeta si sente rimproverare da uno di loro di non essersi
compromesso con la «lotta» più dura, di aver disertato le istanze civili, chiudendosi in
quella che appare un‟aristocratica contemplazione metafisica («e accordi le sfere
d‟orologio della mente / sul moto dei pianeti per un presente eterno / che non è il
nostro, che non è qui né ora», vv. 47-49); il dialogo a muso duro si arresta dinanzi
all‟indisponibilità a comprendere che «il cammino» del poeta «era più lungo […] e passava da altre parti», ma che era pur sempre un «lavoro» svolto «per amore» dei medesimi compagni. E ancora una volta la virilità del poeta («[…] e anche io piangerei / se
non fosse che devo mostrarmi uomo a lui che pochi ne ha veduti», vv. 78-79) si dimostra nella comprensione e nell‟indulgenza, anziché nel tono muscolare del diverbio:
«Non potrai giudicare di questi anni vissuti a cuore duro, / mi dico, potranno altri in
un tempo diverso. / Prega che la loro anima sia spoglia / e la loro pietà sia più perfetta» (vv. 84-87).
Il dialogo, il dialogo interrotto o quello impossibile, il dialogo tentato come atto profondo di carità – in quanto istituzione di un contatto finalizzato alla com-prensione,
all‟assunzione entro di sé dell‟altro riconosciuto come parte occulta della propria identità – è il tema di tutto il volume e non di rado accoglie riferimenti più o meno espliciti
alla politica. È il caso di Nel caffè, trasposizione lirica dell‟incontro col cognato Carlo
Monaci, incamminato sulla triste, declinante strada di una malattia letale: nel testo
l‟interlocutore viene trasformato in un vecchio compagno di banco, descritto con una
tessera di crudo realismo e, insieme, di preziosa letterarietà: «Perché non parlare un
po‟ tra noi / mi dice uno forato nella gola».
È un dantismo eccellente, proveniente dal ritratto di Bonconte da Montefeltro nel
canto V del Purgatorio (v. 98), unito al povero amico di Luzi dal comune destino di testimone di una tragedia storica (la dittatura prima, poi la guerra) che ha reso gli uomini,
se non cinici, «un tantino empi». Il testo segue il colloquio intermesso da silenzi in cui
esso è fatto oggetto di un‟auscultazione interiore più decisiva («Io non so dire altro,
penso a questo incontro / se si può cavarne un senso che non sia di rimorso e basta /
e sto senza parole qui davanti»). Le lunghe pause sono i passaggi fra uno stato d‟animo
e l‟altro, i tempi di una trasformazione psicologica e riflessiva, e ancor più il confronto
fra due posizioni diverse: mentre il poeta s‟immalinconisce dinanzi al contrasto fra un
disco che suona una musica da ballo e la radio che annuncia l‟esecuzione a Tel Aviv di
Adolf Eichmann17, l‟amico avviato alla morte trova comunque «un che di santo» in
16 Voce ripresa da Inf. VIII 31, ma usato già da Campana, Rebora, Sbarbaro, Montale e Pasolini e dallo
stesso Luzi in una poesia del 1939, Città lombarda, contenuta in Avvento notturno.
17 Si tratta del giovane colonnello nazista, nato nel 1906, a cui Hitler aveva affidato l‟attuazione della
30
quella situazione. Pur avviato alla morte con mansuetudine e possente anelito espiatorio, egli non cessa di additare le responsabilità civili e storiche e confida in un‟«azione»,
cioè in una partecipazione politica capace di attuare la giustizia.
La sicurezza di essere dalla parte giusta, di essere ingiustamente criticato, propria di
Presso il Bisenzio, si è rovesciata, dunque, in quest‟ultima lirica nella posizione dubbiosa
dell‟uomo che cerca nel confronto di acquisire un‟esperienza di dolore, di carità e di
saggezza, facendo ammenda tanto del rischio di separatezza dell‟artista dinanzi alle
controversie politiche in atto, quanto di giudizi sbrigativamente pronunciati. Pertanto
il colloquio con un «compagno» di viaggio è di per sé una funzione „espiatoria‟ e autocorrettiva, come in Tra notte e giorno, dove l‟iniziale diffidenza nei confronti di un interlocutore dal «[…] viso servo e ghiotto, / fiducioso della buona sorte / dell‟anima e,
perché no, della rivoluzione inesorabile ch‟è alle porte» (vv. 19-21), probabilmente un
cattocomunista18, come si è usato dire tra gli anni Sessanta e gli Ottanta, si trasforma
nelle successive e più serrate strofe nella comprensione di una comune ricerca della
giustizia, frutto di «un amore più grande» e di «una saggezza più perfetta che prende il
buono / e per il buono chiude un occhio sul corrotto e il guasto». Analogamente il
«diverbio» con un «pretonzolo» dall‟aspetto «di oscura formica» intorno ai caratteri eccessivamente conservatori e ritualistici del Cristianesimo è il tema rivissuto in Tra quattro mura, ma le parole sembrano quasi sfuggire al poeta, appaiono pronunciate e subito ritratte in una zona di pentimento o di ripensamento intorno alle ragioni che muovono in profondità il confronto fra le posizioni; «l‟alterco», sotto la spinta di una disperazione ideologica, cessa di essere una pura articolazione dialettica, per essere esso
stesso l‟espressione di una spinta necessaria al contrasto, l‟unico modo per scoprire,
sia pur in questa forma contraddittoria, di essere percorsi ancora e sempre dallo stesso
dolore, di essere legati dalle medesime preoccupazioni.
Su fondamenti invisibili segna il punto massimo di contrazione semantica, con
un‟ipotesi di discorso filosofico all‟interno del quale le differenti voci, dialoganti al
tempo del Magma, sono sussunte entro il medesimo io lirico, in un monologo interiore
intrinsecamente plurivoco, poiché ogni stadio del pensiero che si dipana porta con sé i
segni della storia e della cronaca. Il libro, come si sa, dopo la proposta di „Tre temi‟, si
sviluppa attraverso „Tre poemi‟, il primo dei quali, Il pensiero fluttuante della felicità19 è appunto il dialogo del poeta con la sua voce interiore, la sua anima, graficamente segnalata dall‟uso del corsivo e connotata con tratti femminili: in più punti del poema si affacciano i dati della violenza contemporanea (la bomba atomica che distrugge Hiroshima, il lager nazista di Mauthausen, le fiamme del napalm e dei bazooka che distruggono i poveri villaggi nella giungla vietnamita; ma in altri punti del libro vi sono fuggevoli ma espliciti riferimenti, per esempio, al sogno rivoluzionario di Trotzkij o a
quello conciliare di Giovanni XXIII), dinanzi ai quali il poeta, il cui attuale stato di
coscienza è espresso dalle parti in tondo, pronuncia il suo grido religiosamente disperato. A sorvegliare le opposte forze del male e del bene non sembrano esserci, o almeno non si mostrano all‟uomo, né il dio negativo Arimane (di tradizione persiana, sul
cosiddetta „soluzione finale‟, lo sterminio di sei milioni di ebrei. Rifugiatosi, come altri gerarchi nazisti, in
Argentina fu rintracciato dal servizio segreto israeliano nel 1960 e giustiziato due anni dopo.
18 Stando almeno all‟interpretazione di Stefano Verdino nella nota al testo in M. LUZI, L‟opera poetica
cit., p. 1541.
19 Composto già nell‟estate del 1962, come agglomerato di liriche prima pensate separatamente, fu
pubblicato per la prima volta su «Paragone», XVIII, 210, agosto 1967, pp. 3-14, con una lunghezza
complessiva di 364 versi.
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quale Leopardi ci ha lasciato un abbozzo lirico) né il dio cristiano, che sembra sottrarsi
al contatto col poeta, forse indegno della Rivelazione. Ma il finale del poema consegna
alle ultime parole dell‟anima l‟esortazione a una rappresentazione non manichea della
realtà («[…] nulla da nulla è più diviso, / né morte da vita / né innocenza da colpa », vv. 347349), un ammonimento ch‟è un respiro di speranza per il poeta (lo «scriba»), non certamente per i cinici calcolatori che reggono le sorti della storia, impenetrabili nella loro
«faccia di quisling» (dal nome dello statista norvegese che aveva instaurato nel suo
paese un regime collaborazionista con Hitler).
Il pensiero fluttuante è, dunque, un „metodo‟ di conoscenza, fondato sulla verifica continua e sul dubbio, sull‟interrogazione piuttosto che sull‟asserzione, sulla combinazione di molteplici punti di vista piuttosto che sulla presunzione monologica della filosofia sistematica e dell‟ideologia. Pertanto i due poemi seguenti affiancano alle istantanee della vita sociale e privata (fra le quali un posto importante avranno i ricordi del
viaggio in India intrapreso alla fine del 196820) una critica all‟ideal tipo dell‟intellettuale
sicuro di sé, così spesso formatosi alla scuola della militanza progressista e comunista,
eppure così precocemente risucchiato nelle medesime logiche del potere e del profitto
e nelle lusinghe della comunicazione mediatica e popolare. L‟illusione olivettiana di un
felice connubio fra spirito aziendale e istanze socialiste, attraverso le quali era passato,
ad esempio, Volponi che proprio in quegli anni andava maturando la sua sfiducia nella
riforma del capitalismo dal suo interno, è probabilmente il bersaglio di una strofa di
Nel corpo oscuro della metamorfosi21 (vv. 58-69), nella quale il poeta ironizza sull‟ipocrisia
dei teorici della «rivoluzione mancata», che si consolano con un inutile «chiacchiericcio» da mercato arabo, mortificazione del sostenuto dibattito ideologico di un tempo,
mentre in realtà tengono d‟occhio piuttosto il proprio tornaconto.
Analogamente Il gorgo di salute e malattia contiene una precoce satira dell‟„intellettuale
mediatico‟, destinata a una grande fortuna nei decenni successivi, preparazione e sostegno dell‟avvento di un‟altra mostruosa creatura sociale, quella del „politico televisivo‟; il filosofo è ormai ridotto a un animale da salotto, grottescamente costretto a
semplificare i grandi interrogativi della ricerca teoretica e morale dinanzi ai «reporters»
che gli chiedono: «C‟è un futuro per l‟uomo?»22. L‟ovvia evasività della sua risposta,
compensata dall‟apparato scenografico e di costume che lo circonda e che ha il compito di restituire credibilità a una parola che non può più averne, è il sintomo di un
mondo contemporaneo che si sgretola o che implode in se stesso e che consuma il
suo desiderio di risposte con la stessa velocità dettata dai tempi televisivi. Assolto il
rituale compito di ascoltare l‟intellettuale «futuribile», non solo i giornalisti, ma l‟intera
umanità sembra polverizzarsi «d‟un tratto» e sparire nei rari spazi erbosi rimasti inviolati al di là degli aeroporti, a loro volta simbolo di una modernità ulissiacamente suÈ in particolare l‟ultimo poema, Il gorgo di salute e malattia, ad essere intessuto fittamente di ricordi del
soggiorno indiano compiuto durante le vacanze di Natale del ‟68-‟69, in compagnia di Franca Bacchiega
e del marito. Interessante è il confronto fra la stesura del poema e gli appunti di viaggio, reso possibile
dal Taccuino di viaggio in India, rinvenuto nella seconda metà degli anni Novanta da Roberto Cardini presso
il „Fondo manoscritti di autori contemporanei‟ dell‟Università di Pavia, a quel tempo diretto dalla sua
fondatrice, Maria Corti, e pubblicato da Polistampa di Firenze nel gennaio del 1998. Ora in M. LUZI,
Prose, a cura di S. Verdino, Aragno, Torino 2014, pp. 241-249.
21 Steso a partire dal 1966, il poemetto fu pubblicato integralmente per la prima volta in «L‟Approdo
letterario», n.s., XV, 46, aprile-giugno 1969, pp. 154-166.
22 Composto contemporaneamente al Corpo oscuro, Il gorgo è stato anticipato solo frammentariamente
su rivista, prima di essere ricompreso nei Fondamenti; in particolare il brano qui ricordato apparve, col titolo C‟è un futuro per l‟uomo, in «Comma», VI, 3, giugno-luglio 1970, p. 26.
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perba e fraudolenta a proprio danno (vv. 38-58).
Il rigore dell‟ideologia può rendersi responsabile di crimini atroci ed entrare in contraddizione con se stessa e col proprio dovere di cercare una risposta soddisfacente ai
bisogni reali del popolo; come s‟intende, è il tema saliente della storia della sinistra europea di tutto il secondo dopoguerra e Luzi non dimentica l‟evento più sconvolgente
dell‟anno appena trascorso: la cosiddetta Primavera di Praga e il suo violento accantonamento, ad opera dei carri armati sovietici, nell‟agosto del 1968. I vv. 258-275 mostrano la sconfitta di Alexander Dubček, leader del partito comunista cecoslovacco, che
pose la questione di un marxismo democratico, fondato sul consenso popolare, incontrando, come era già avvenuto dodici anni prima in occasione dell‟analogo tentativo
ungherese, l‟ostilità dottrinale dei «professori d‟ortodossia» e quella armata dell‟Unione
sovietica. Al povero statista deposto non resta che arrovellarsi continuamente intorno
al dubbio che si sia trattato di un immenso «equivoco», di un‟incredibile inversione di
rotta della «storia» e delle sue magnifiche sorti e progressive23.
La solitudine dell‟intellettuale dinanzi alla violenza della storia, dunque, non è conseguenza del suo isolamento, della sua separatezza (che anzi sono aborrite dal pensiero
luziano), ma è la condizione di colui che è stritolato dai tentacoli del potere, costretto
ad essere alternativamente complice o vittima del sistema: il tema, già accennato nei
versi su ricordati del Gorgo, viene ripreso nell‟accorata commemorazione di Pasolini –
e, insieme, di altri due „martiri‟ dell‟autonomia letteraria: Federico García Lorca e Osip
Emil‟evic Mandel‟štam – che apre il Poscritto, seconda lirica di Al fuoco della controversia.
Le rispettive morti violente ad Ostia, a Granada e in un «gulag siberiano» sono il prodotto di un secolo maledetto che non risparmia nessuno e che stringe «il poeta e
l‟assassino» in una comune sorte di violenza, non più metaforica, non più languidamente sognata come tema d‟arte, ma reale, tragicamente destinata a spegnere il sogno
di una valutazione equanime ed equilibrata della storia. L‟urgenza dell‟ora, l‟impatto
con l‟evento storico – e siamo entrati, nel frattempo, nel cuore di tenebra degli anni di
piombo – producono in Luzi una nuova riflessione sul concetto di metafora, che
grande sviluppo avrà in Per il battesimo dei nostri frammenti.
Se, infatti, il recupero della nozione platonica di arte come imitazione e dunque allontanamento dalla realtà produrrà nel libro successivo l‟anelito a una poesia non più
metaforica, ma metafisica, potremmo dire, capace di tendere allo scioglimento di qualunque linguaggio allegorico a tutto favore della pronuncia diretta del Logos, già qui, al
fuoco della controversia, appare chiaro che la distanza metaforica che preservava
l‟autonomia reciproca dei destini e dei domini dell‟artista e del politico non regge più,
poiché la brutalità del quotidiano irrompe con prepotenza nella pagina e rende attuale,
e nondimeno incomprensibile, ciò che un tempo poteva essere solo fantasticato eppure spiegato dall‟invenzione narrativa: il fatto, cioè, che il vero poeta sia non solo intrinsecamente estraneo ai meccanismi del potere, ma persino irriducibile e dunque pericoloso, avversario da piegare o eliminare. Il libro in questione è quello cruciale della
partecipazione civile di Luzi, dal momento che raccoglie l‟eredità della distensione discorsiva e plurilinguistica delle due raccolte precedenti e insieme trasferisce nei versi
l‟enorme quantità di stimoli e suggestioni che gli eventi della cronaca internazionale e
italiana propongono all‟autore. Se qualche impressione del viaggio in Unione Sovietica
del 1966 (come membro di una delegazione di scrittori italiani, insieme con Carlo Levi, Leone Piccioni ed Edoardo Sanguineti) aveva già trovato posto in qualche sequen23
7.
Questo passaggio del Gorgo fu anticipato in «Questioni di letteratura», I, 1, gennaio-febbraio 1971, p.
33
za del Corpo oscuro della metamorfosi, la meditazione più complessa suggerita dalla partecipazione alla tappa georgiana è documentata dal poema in tre parti Graffito dell‟eterna
zarina24, che segue immediatamente il Poscritto in Al fuoco della controversia.
La visione delle grandiose manifestazioni di regime dedicate al leggendario poeta nazionale del sec. XII Šota Rustaveli, origina una catena di riflessioni sui rapporti fra il
flusso storico e le manipolazioni ideologiche, fra il mito letterario e il pragmatismo politico, fra il sogno della giustizia e il cinismo del potere: alfine il tema nodale, direi, è
quello del contrasto fra la trasposizione epica delle guerre e della figura del principe
(che è materia tipicamente rustaveliana) e la realtà attuale delle guerre in corso e della
politica contemporanea. Così già nella prima sezione del poema (vv. 48-60), il pensiero
della zarina tutrice della pace, protagonista del poema di Rustaveli, richiama la tragedia
vietnamita in corso (siamo nei primi anni Settanta) e l‟eterna farsa della diplomazia («i
grandi provveditori della pace / con la loro coda di esperti […] i signori dell‟onesta
convivenza / assai larghi di sorrisi») che finge di prendersi cura dei destini dei popoli:
il loro volare da una parte all‟altra del mondo come veri e propri testimonial della civiltà
democratica è figura del loro facile sorvolare sulla realtà dei «morti che la storia ha voluto».
Ancora alla lunga spedizione statunitense in Vietnam sono dedicati alcuni versi della
seconda sezione (vv. 111-130), che ritraggono i soldati americani in una pausa del
combattimento, «al parlottio sospetto della corrente […] lungo il delta del Mekong»:
essi, ormai svuotati dalla consuetudine con il «massacro», ridotti essi stessi a dei morti
costretti a indossare la maschera dei vivi, sognano il loro ritorno a casa, nella mediocre
cornice di un «minigiardino» piccolo-borghese. Di questo passaggio vorrei segnalare la
precocità della riflessione sulla peculiare alienazione dei marines statunitensi, che precede di qualche anno la letteratura e soprattutto la ricca e nota cinematografia sul disagio dei reduci che costituisce oggi una sorta di anti-epica americana contemporanea.
Ma la seconda sezione del poema non trascura di guardare anche ai recenti temi del
dibattito e della cronaca politica italiana di quegli anni; i vv. 41-57, con un arguto gioco
di parole tra «ammiraglio» e «almirante», si riferiscono ai fondati timori circa la ricostituzione di un partito autenticamente fascista, nonostante i divieti imposti dalla Costituzione repubblicana. A preoccupare il poeta è la recente adesione al Movimento sociale italiano, guidato dal suo coetaneo Giorgio Almirante, da parte dell‟ammiraglio Birindelli, che genera il sospetto di una deviazione golpista di una parte delle nostre
forze armate, ma ancor più preoccupante è l‟oblio che «la repubblica» stende rapidamente su coloro che morirono per consentirne la nascita o per preservarne la natura
democratica e libertaria.
Né il triste destino dell‟oblio riguarda solo lo scenario italiano, anzi un altro viaggio,
in Ungheria questa volta (e siamo nel 1970), è l‟occasione per riflettere con sconcerto
circa la capacità del regime totalitario (restaurato dopo la repressione sovietica di Budapest del 1956) di stroncare non solo gli oppositori, ma anche la loro memoria, la loro presenza nei libri di storia, complice proprio la riduzione dell‟intellettuale a mero
«amanuense», «prendinota ufficiale degli avvenimenti» (Cacce all‟uomo25). Figura
dell‟intellettuale comunista, chiuso nell‟«abbraccio […] protettivo» del Partito è anche
la donna che apre la sezione „Il filo perduto dell‟avvenimento‟, colta in un momento di
24 Pubblicato in anteprima in M. FORTI (a cura di), L‟Almanacco dello Specchio IV, A. Mondadori, Milano
1975, pp. 95-111.
25 Anticipata in «Nuova Rivista Europea», I, 1, settembre-ottobre 1977, p. 48, insieme, tra l‟altro, a
Muore ignominiosamente la repubblica, di cui parlerò fra breve.
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sospensione, tra incanto per la visione di una rondine in volo e quieto riposo «su una
sdraia», mai scalfita dal dubbio che il «compito» affidatole non sia in accordo con quel
progresso spirituale e materiale in cui ella crede; questa straordinaria icona femminile
di La rondine salita incontro alla pioggia, è la manifestazione forse più evidente di un topos
ad alta frequenza nei libri luziani di questa stagione, offrendosi come estroflessione
della meditazione del poeta sulla storia, eppure non semplice suo alter ego, ma figura di
interlocutore silenzioso dal quale il poeta può all‟occorrenza prendere le distanze o, al
contrario, essere sollecitato al dubbio, memore della funzione dialogica scoperta nel
Magma. Così la sua calma postura, la parvenza di libertà che traspare dal suo sguardo e
da una certa sua luminosità sembrano dibattere il poeta fra l‟«ammirazione», per la sua
sicurezza ideologica e per la sua grande spinta morale, e l‟«indulgenza» per l‟inganno e
il controllo politico di cui è ella stessa vittima.
Il tono ormai esplicito con cui Luzi si riferisce alle vicissitudini collettive ha in Muore
ignominiosamente la repubblica (1976), nel cuore della Controversia, il suo testo con ogni
probabilità più memorabile, anche per via di quell‟avverbio così fastidioso da leggere e
così impoetico da segnare il culmine della prosaicizzazione del testo poetico
nell‟itinerario di Luzi: «ignominiosamente» è ripetuto ben sei volte in una lirica di soli
dieci versi e dice tutta la mortificazione provata dal poeta nello scoprire l‟irredimibilità
della crisi della Repubblica, l‟orrore dinanzi allo sfacelo delle istituzioni che dovrebbero non solo regolare la vita dei cittadini, ma anche salvaguardarne le libertà e i diritti,
consacrando la Storia nel segno della pacificazione e della democrazia reale. Invece i
cosiddetti „anni di piombo‟ sono scanditi da una lingua altra da quella della legge e della convivenza civile, una lingua minacciosa e sospettosa, una lingua di complotti e di
menzogna; il riferimento immediato della poesia riguarda, infatti, gli opposti terrorismi
di destra e di sinistra, infame e stragista il primo, crudelmente ideologico il secondo e
ispirato alla folle mitologia del „tribunale del popolo‟, ma più in generale i versi descrivono il cinismo di ogni violenza politica e il tramonto della cultura repubblicana nata
dalla Resistenza e dall‟antifascismo, colti dal poeta con estrema lucidità analitica, oltre
quindici anni prima che questa dissoluzione assumesse il nome di „seconda repubblica‟26.
L‟angoscia causata dalla violenza armata, lungo tutto l‟arco degli anni Settanta ed ancora oltre, non cessa di corrugare la poesia di Luzi, neanche nel libro ch‟egli stesso ha
voluto considerare d‟inaugurazione di un modo nuovo di scrittura, Per il battesimo dei
nostri frammenti; in verità, se questa è, in effetti, la raccolta che fonda la nozione di
frammento lirico come nucleo ricompositivo di un poema metafisico e luministico,
tracciando il solco nel quale andranno a inserirsi le prove preziose di Frasi e incisi di un
canto salutare e Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (senza che gli ultimi due libri, Sotto specie umana e Dottrina dell‟estremo principiante, possano effettivamente aggiungere alcunché al fulgido e settuagenario itinerario creativo del loro autore), numerosi sono i
fatti di stile e i riferimenti storici che riallacciano l‟opera piuttosto ai libri precedenti
che a quelli successivi. Intanto, sul piano della lingua, prosegue la ricerca coraggiosa di
un timbro misto, in cui siano accostati, senza mai amalgamarsi perfettamente, accenti
puri della tradizione lirica e lacerti dei linguaggi correnti; le epifanie misteriose e quasi
angeliche e le pagine di cronaca si affiancano con studiato disordine nelle numerose
sezioni in cui si suddivide il libro.
26 Sulla continuità fra la crisi della classe dirigente degli anni Settanta e la „rivoluzione‟ istituzionale degli
anni Novanta si veda la testimonianza resa a Paolo Di Stefano in Dalle macerie in attesa di rigenerazione,
pubblicata sul «Corriere della sera» il 18 agosto 1993.
35
Ma è proprio sul piano degli argomenti che Il battesimo appare maggiormente debitore del clima civile degli anni Settanta, come attestano alcune liriche della sezione
„Fuori o dentro lo strampalato albergo‟, Alfabeto infernale, Appeso come una lanterna, Acciambellato in quella sconcia stiva e A che nere riserve, tutte dedicate all‟escalation del movimento armato in Italia27. Il primo di questi testi si riporta al tema di fondo del libro –
l‟inventio di una lingua nuova, non più metaforica e perfettamente in grado di soddisfare l‟esigenza della comunicazione e quella dell‟„ascesi‟, vale a dire la duplice dimensione, terrestre e celeste, del viaggio di conoscenza – rileggendo la violenza politica
proprio come negazione di questa prospettiva, in quanto interessata all‟imposizione di
un altro tipo di linguaggio, un «inarticolato dialetto», una sistema semiotico deformato
e falso, finalizzato non all‟informazione e alla persuasione del destinatario, bensì alla
sua soppressione (ed infatti è detto anche «soliloquio» o «cupo dialetto» dettato da
«rabbia proletaria» in A che nere riserve). Se la lingua umana è neoplatonicamente riflesso
della lingua divina, se il mistero dell‟Incarnazione divina addita al cristiano la presenza
del Cristo in ogni nostro simile, il poeta è attraversato da un brivido di dolore e di follia al
pensiero che il divino voglia rivelarsi nella storia e possa chiedere udienza anche attraverso quel linguaggio di violenza, «quell‟abominevole dialetto» (In ogni nostro simile, v.
15), parlato da uomini altrettanto deformati, «[…] umanoidi trasudanti / cupidigia ed
assassinio […]». Gli agenti di questo alfabeto infernale vengono precisati in una lirica di
questa raccolta proprio come dannati seminatori di discordie: «Appeso come una lanterna, i più: / […] così / portano il viso / ossia quel nero grumo / di rabbia e ottusità»
(Appeso come una lanterna, vv. 1-6), secondo la memoria dantesca di Bertran de Born, le
cui parole malfide avrebbero portato ai disaccordi intestini e infine allo scontro armato
in seno alla famiglia reale d‟Inghilterra (seconda metà del sec. XII): «e ‟l capo tronco
tenea per le chiome, / pesol con mano a guisa di lanterna» (Inf. XXVIII 121-122).
L‟insistenza sul linguaggio dei terroristi rossi è motivata soprattutto dall‟ampio ricorso ai documenti teorici prodotti in particolare dalle Brigate Rosse e fatti rinvenire in
coincidenza con episodi dimostrativi o cruenti e in cui non solo si rivendicava la paternità dell‟operazione, ma se ne illustravano i principi e le finalità, secondo un lessico
pretenziosamente attinto alle strumentazioni delle scienze sociali e politiche. Indimenticabili, per esempio, i documenti che accompagnarono il caso Moro, il rapimento e la
successiva uccisione del grande statista pugliese, propugnatore di una „convergenza‟
democratica e costituzionale fra i due maggiori partiti popolari italiani, la Democrazia
cristiana e il Partito comunista italiano: proprio al ritrovamento del cadavere di Moro
(«[…] il capo di cinque governi, / punto fisso o stratega di almeno altri dieci», vv. 3-4),
il 9 maggio 1978, è dedicata la lirica Acciambellato in quella sconcia stiva (con riferimento
all‟abbandono del cadavere nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, nel cuore istituzionale di Roma, in via Caetani). Quando Luzi recitava questo suo testo, sicuramente fra
quelli che gli erano più cari, inarcava con commozione la sua voce sul corsivo contenuto nel secondo verso: «crivellato da quei colpi», quasi che la maggior meraviglia, il
più forte sgomento non fossero dati dall‟assassinio in sé, ma dalla provenienza e dalla
presunta giustificazione dei proiettili omicidi; l‟uomo del dialogo, l‟incarnazione stessa
della «metodica pazienza» di cui era strenuo difensore e applicatore, sin da quando era
stato eletto poco più che trentenne fra i padri costituenti, era stato ucciso da uomini
che avrebbero potuto essere suoi interlocutori, anziché nemici, giustiziato a nome e
per conto di un popolo ch‟egli in verità aveva sempre servito, come forse solo quella
27
Appeso come una lanterna fu pubblicato già sul quotidiano «Il Tempo», 23 novembre 1979.
36
generazione politica aveva saputo fare28.
La successiva sezione del Battesimo, „Tutto perso, tutto parificato?‟, pare voler iniziare
a trasferire lo sguardo sconsolato sulla situazione più generale della politica italiana, e
forse non solo: Giocano al ribasso sulla vita esplicita sin dai primi versi un‟invettiva non
più diretta solo contro il movimento armato interno, peraltro in riflusso proprio a partire dalla fine del 1981, quando la poesia viene edita per la prima volta su «Nuova Antologia» (CXVI, 2140, p. 259), bensì contro una società allo sbando, una collettività
che ha fatto della «morta rabbia» l‟habitus quotidiano delle proprie relazioni. La riflessione di Luzi ora non è solo profondamente dolente, ma attivamente preoccupata,
poiché lo stato in cui precipitano gli eventi e lo smantellamento dei vincoli etici che
garantivano il consenso alla costruzione repubblicana paiono ricondurre alla mente
traumi che si speravano cancellati o ricacciati in un vecchio «sogno già sognato»; se
l‟insufficienza dello stato liberale aveva condotto al mortifero azzardo della dittatura,
la crisi della Repubblica fa temere future imprevedibili compressioni della libertà e della dignità umana: «Giocano al ribasso sulla vita / umana e non umana dovunque, / la
svendono in tutte le sue forme, / la spregiano in tutte le sue guise» (vv. 1-4).
E in questo progressivo allargamento dell‟orizzonte geo-politico, il punto forse più
alto è offerto nel Battesimo dal Reportage poetico del viaggio in Cina, effettuato
nell‟ottobre del 1980 in compagnia di Vittorio Sereni, Luigi Malerba, Alberto Arbasino
e Aldo De Jaco, anche questa volta, come nel 1966 in Unione Sovietica, in qualità di
membro di una delegazione di scrittori invitati dal governo straniero29. Sono anni caldi
in Cina, Mao Tze-Tung, il padre della repubblica popolare cinese e della cosiddetta rivoluzione culturale (1965-1969) è morto da quattro anni, lasciando un‟impossibile
eredità alla nuova dirigenza del partito unico, alle prese con quella che fu definita la
Banda dei Quattro (Chiang-Ching, vedova di Mao, Zhang Chunqiao, Wang Hongwen
e Yao Wenyuan), l‟ala più dura del regime negli anni Settanta, che sperava di mantenere il controllo del partito comunista e della dittatura dopo la morte del leader e che
invece venne sconfitta durante l‟XI congresso del partito, arrestata nel 1977 e messa
sotto processo proprio dal 1980 all‟81. Il secondo dei passaggi di questo poemetto,
che inizia col verso Ma ecco dai suoi penetrali, è il racconto dell‟incontro con il vice primo
ministro cinese, la cui rappresentazione, tra onirico e grottesco, è il ritratto diabolico di
un essere inumano («una membrana […] molliccia […] spettrale […] biancastra […]
una murena») che può mutare camaleonticamente aspetto, sottraendosi ai suoi contorni e alla sua fisionomia, impedendo così di essere decifrato ed autenticamente conosciuto, aiutato, d‟altra parte, anche dagli occhiali scuri dietro i quali cerca di nascondere le sue ingannevoli intenzioni.
Sembra proprio una «sozza imagine di froda» di memoria dantesca (Inf. XVII 7), che
spera d‟incantare i suoi ospiti italiani con promesse di ripristino di un‟autentica vita
democratica, come quella che lo stesso Mao aveva promesso con la dottrina dei «Cento fiori» e che egli stesso aveva poi tradito col regime poliziesco degli anni SessantaSettanta. A Luzi non sfugge, però, che l‟arresto e la successiva condanna di «Chiang28 Acciambellato in quella sconcia stiva, con il primitivo titolo 1978 – Moro, apparve dapprima in «Nuova
Antologia», CXV, 2135, luglio-settembre 1980, p. 301. Un ricordo di Moro, con alcune importanti osservazioni sulla relazione fra il delitto e i versi „profetici‟ di Muore ignominiosamente la repubblica, è
nell‟intervista concessa a M. CIAMPA, L‟Italia è sfibrata ma la speranza è dovere, in «Liberal», luglio 1995.
29 Il poemetto fu anticipato per la prima volta da Scheiwiller (All‟Insegna del Pesce d‟Oro, Milano 1984),
con l‟appendice del Taccuino di viaggio in Cina, poi escluso dall‟edizione di Per il battesimo dei nostri frammenti,
Garzanti, Milano 1985.
37
Ching e degli altri della banda» non è che un regolamento di conti interno al partito e
che la stessa generosa apertura della nuova dirigenza verso l‟Occidente nulla ha a che
vedere con la ricerca della libertà e della democrazia, ma riguarda la costituzione di
nuove alleanze diplomatiche ed economiche («l‟amicizia di molti amici per la Cina»)
che creino condizioni favorevoli al nuovo blocco di potere instaurato, soprattutto in
considerazione del definitivo distacco della Cina dall‟orbita sovietica e dei timori di un
accerchiamento politico-militare, dati i recenti sviluppi dell‟imperialismo russo
nell‟Asia centrale (si pensi all‟invasione afgana).
Da Frasi e incisi di un canto salutare in poi i dati della storia civile collettiva scompaiono
improvvisamente quasi del tutto dalla poesia di Luzi, dopo oltre un ventennio durante
il quale, come ho illustrato finora, egli aveva lavorato con continuità come poeta e intellettuale dalla spiccata vocazione etica e politica. Quello che sta avvenendo
nell‟itinerario artistico di Luzi può forse essere compreso meglio se si tiene conto
anche della recente scoperta del mezzo teatrale e della conseguente diversificazione
della sua scrittura: se dagli anni Trenta agli anni Settanta Luzi aveva riversato interamente nella produzione lirica la sua attenzione30, affidandole una fiducia totale di ricapitolazione e di comunicazione dei grandi interrogativi che avevano attraversato il suo
ermetismo, la lirica di Luzi ne risultava, così, caratterizzata da un‟indubbia tensione
metafisica, erede e insieme critica del simbolismo e della poesia pura nella ricerca
dell‟assolutezza del contatto col Verbo primigenio e intemporale e, insieme, determinata a perseguire un contatto intermittente con la storia dell‟uomo, poiché è in essa
che il Vero si rivela e il poeta sente il dovere morale di non far mancare la sua voce
testimoniale. In altri termini, quell‟attesa atematica che aveva rappresentato la chiave
del superamento dei limiti dell‟orfismo decadente e dello sconsolato nichilismo montaliano, garantendo un desiderio infinitamente protratto e dinamico, diviene, dalla seconda guerra mondiale in poi, provvisoriamente tematizzabile, in rapporto proprio alla
determinazione storica dell‟assenza da cui essa scaturiva; pertanto l‟accettazione di
un‟idea più complessa di crisi – insieme ontologica e politica – consente anche alla speranza, per un verso, di connotarsi duplicemente, come attesa filosofica e come sete di
giustizia, e alla lirica, per l‟altro, di riempirsi di tensioni storiche e civili sempre più frequenti, come si è visto.
Il successo con cui, alla fine degli anni Settanta, viene accolto il vero esordio teatrale
di Luzi, col Libro di Ipazia (1978), porta l‟autore ad affidare al dramma la scrittura della
„controversia‟: le diverse pièce degli anni Ottanta (Rosales, Hystrio, Corale della città di Palermo per Santa Rosalia) rivelano la capacità di elaborare la metafora (proprio mentre il
poeta ne avvertiva il limite lirico) in allegoria ideologica e mitica, attraverso la quale egli può dare corpo visibile ai grandi temi della sua investigazione teorica. È così, ad
esempio, che Rosales, entro una complessiva cornice memoriale, dialettizza quel conflitto fra amore e politica che già si era visto in Un brindisi e mette a confronto due diversi ed opposti sognatori: il grande seduttore (maschera dell‟irresponsabilità e
dell‟astrattezza) e il grande rivoluzionario (figura riassuntiva di tutte le utopie internazionaliste del Novecento), l‟uno e l‟altro produttori inconsapevoli di rovine private e
collettive31. Hystrio, poi, affronta il problema della necessità di difendere l‟autonomia
Uniche esperienze significative al di fuori del terreno lirico, in questo lasso di tempo sono, sul piano
della prosa d‟arte, Biografia a Ebe (1942) e, sul piano del teatro, Pietra oscura (1947, ma accantonato e pubblicato solo nel ‟94): l‟una e l‟altra, invero, precoci testimonianze di una scrittura che cercava vie diverse
di partecipazione intellettuale, nella specifica forma del dialogo e dell‟interrogazione ideologica.
31 Nel protagonista, Juan Rosales, s‟incarna, attualizzandosi in un contesto riconoscibilmente novecen30
38
dell‟artista dal potere politico, ma, insieme, il pericolo della falsità di un‟arte che non si
misuri col sangue e col dolore: il dramma è la confessione struggente dell‟intellettuale
che, dopo aver rivendicato la propria irriducibilità alla macchina del potere e la sostanziale immortalità della propria arte, vede rimanere sul campo un‟umanità prostrata e
innocente32. Così, ancora, la „favola‟ seicentesca del ritrovamento delle ossa di Santa
Rosalia, che liberano Palermo dalla peste, diviene l‟allegoria di un‟aspirazione che sale
potente alla fine degli anni Ottanta, il desiderio della guarigione dalla pestilenza mafiosa che insanguina la terra di Sicilia.
Riservato al teatro, dunque, lo spazio per un‟espressione più distesa delle tensioni
civili e dei temi di poetica (dovremmo aggiungere, infatti, le investigazioni sui flussi
della memoria e della metamorfosi nelle pièce successive, Il Purgatorio, Io, Paola, la commediante, Felicità turbate, Ceneri e ardori, La Passione e Opus florentinum), la scrittura lirica
può tornare alla leggerezza cercata alle origini (al tempo della Barca e di Avvento notturno), ma con una ben diversa maturità d‟immagine e con una più sofisticata organizzazione testuale, nella quale si riversano tutte le esperienze stilistiche sperimentate nei
decenni precedenti, dall‟enigmaticità di certe espressioni di Quaderno gotico alla discorsività di Onore del vero, dal realismo aspro del Magma all‟ariosità poematica adombrata nel
Battesimo. Parallelamente Luzi trova proprio alla fine degli anni Ottanta quel meritato
(e tardivo) apprezzamento critico e storiografico nazionale e internazionale, che lo
pone gradualmente all‟attenzione di un mondo non strettamente letterario: nasce qui il
Luzi „pubblico‟, l‟interlocutore di filosofi e teologi, di politici e giornalisti, l‟oratore ufficiale che tiene misurati e pur pungenti discorsi dinanzi alle autorità religiose, amministrative e politiche.
Del 1986 è, infatti, il Saluto al pontefice33, pronunciato il 18 ottobre a Palazzo Vecchio
a nome dell‟Amministrazione e della comunità letteraria di Firenze, in occasione della
visita pastorale di Giovanni Paolo II: il messaggio, prese le mosse dal ricordo della
grande tradizione umanistica della città, alla quale si attribuisce il ruolo storico di incunabolo della civiltà moderna europea fondata sull‟indistinguibilità di utopia religiosa e
rigore laico, paventa che, tramontato il mito di un progresso morale e civile inarrestabile, la collettività possa rassegnarsi alla riduzione dell‟uomo a «un apparato vivente
[…] così bieco e ferino» nell‟egoistica ricerca della propria soddisfazione materiale da
non tirarsi indietro dinanzi all‟ipotesi della distruzione del mondo che lo circonda. In
particolare Luzi richiama con molta nettezza le aspettative che i cittadini e gli intellettuali rivolgono alla Chiesa affinché rilanci il proprio magistero critico nei confronti del
«sistema della produzione e dell‟economia del nostro tempo» e contrasti la «disappropriazione che incombe sul lavoro dell‟uomo e riguarda tutte le sue forme, inclusa dunque anche la cultura»: se la condanna luziana del socialismo reale (ma anche
dell‟angusta politica culturale del Pci) è sempre stata esplicita e frontale, il lessico
tutt‟altro che liberista di questo passaggio rivela inequivocabilmente la sua matrice
ideale nella critica al capitale, tanto per la nozione di alienazione operaia quanto per
tesco, il personaggio classico di Don Giovanni, mentre dietro la figura di Markoff si nasconde il ricordo
dell‟eroe bolscevico Lev Trockij, vittima del nuovo corso stalinista.
32 Sia pur lasciando nel vago le connotazioni crono-geografiche, la storia di Hystrio (1987) appare ispirata ai contesti dittatoriali dell‟Europa dell‟Est e probabilmente alla Bulgaria di Todor Zhivkov che governò dal 1954 al 1989, la cui figlia, forse colpevole di non riconoscersi nella linea politica paterna,
scomparve misteriosamente.
33 Edito in M. LUZI, Naturalezza del poeta, a cura di Giancarlo Quiriconi, Garzanti, Milano 1995, pp.
281-283.
39
l‟equiparazione morale e sociale del lavoro culturale ad ogni altra forma di produzione.
Se dovessi indicare un atto di nascita del Luzi intellettuale (dunque non solo lirico)
civile sceglierei senza dubbio questo discorso fiorentino, nel cui solco si inseriscono
tutti gli interventi pubblici e giornalistici successivi e alla cui luce possono essere spiegati. Tuttavia, sia pure in una forma quantitativamente minoritaria, non scompare la
necessità creativa del poeta di trasformare in versi un‟urgenza testimoniale o una suggestione storica, come rivelano, ad esempio, le sole due liriche di Frasi e incisi che ancora conservano riferimenti alla contemporaneità, sfuggendo, dunque, alla sostanziale
tensione metafisica ed embrionalmente poematica del volume. (La lite), infatti, il testo
probabilmente più antico della raccolta (essendo stato composto certamente entro il
1984) e, dunque, ancora nel „clima‟ risentitamente civile del Battesimo, è un oratorio per
voce recitante, ma destinato all‟accompagnamento musicale, sulla necessaria controversia, ora lite, appunto, della storia, cioè sulla ineliminabilità delle forze contrapposte, che
costringono l‟uomo a vivere in una permanente condizione di orrore: eppure questa
medesima condizione è probabilmente la sola nella quale l‟umanità possa educarsi
all‟ascolto del diverso e ritrovare la radicalità della passione per la vita. Ebbene, con un
tocco rapido e cifrato che ricorda i timorosi accenni alla politica contemporanea della
stagione giovanile, ma che invece è frutto di quell‟istanza ormai sempre più nettamente speculativa di cui ho appena detto, la tragedia storica è esemplificata dalle orrifiche immagini dello sterminio avvenuto in Cambogia fra il 1976 e il 1979, ai danni
dell‟opposizione al dittatore Pol Pot: i «[…] bramiti / alle falde / d‟un ossificato
monte, / schianti, / rantoli d‟una seppellita rissa / ridesti in quella calvana» (vv. 27-32)
non sono che i giganteschi cumuli di ossa umane scoperti e svelati all‟Occidente solo
nei primi anni Ottanta34.
Più esplicito è, nella Belfastina, il riferimento alla guerriglia fra unionisti anglicani e
scissionisti cattolici in corso in Irlanda sin dal 1969, particolarmente cruenta nel decennio a cavallo del soggiorno luziano nel capoluogo dell‟Ulster, dove insegnò alcuni
mesi, verso la fine del 1985, presso la Queen‟s University, su invito di G. Singh. Accanto a questa lirica vanno collocati i versi di Belfast 21 novembre, composti nello stesso
periodo, a corredo di un reportage dall‟Irlanda del Nord, destinato al «Giornale» di Indro Montanelli.
Questi versi apparvero in volume solo nel 1988, nell‟Appendice di extravaganti (dal
titolo Semiserie ovvero versi per posta, 1970-1987), che chiude il volume garzantiano di
Tutte le poesie35. Essi descrivono l‟apparente torpore della grigia Belfast, avvolta in un
autunno rigido e scuro, reso più grave da un precoce svuotamento delle strade sin dal
tardo pomeriggio, cui contrasta il «fitto […] confabulare» degli avventori stretti
all‟inverosimile nei pub, intorno a un boccale di birra o a un «irish coffee». Eppure non
è un giorno come gli altri, questo mercoledì 21 novembre 1985, poiché al mattino un giovane cattolico è stato la «prima vittima» di una nuova striscia di sangue che bloccherà
34 Una riflessione su quei documenti fotografici è contenuta nelle conversazioni sul Cristianesimo con Stefano Verdino, raccolte sotto il titolo La porta del cielo, Piemme, Casale Monferrato 1997, p. 56.
35 Si tratta del volume che raccoglieva tutti i volumi poetici di Luzi da La barca a Per il battesimo dei nostri
frammenti e si chiudeva con l‟Appendice delle sette Semiserie e con un‟Antologia di interventi critici di C.
Bo, G. De Robertis, A. Zanzotto, G. Contini, G. Debenedetti, S. Agosti e G. Zagarrio. Nell‟edizione
critica del 1998 („Meridiani‟ Mondadori) si aggiunsero Frasi e incisi di un canto salutare, Viaggio terrestre e celeste
di Simone Martini, Un mazzo di rose (anticipazione parziale di Sotto specie umana, pubblicato da Garzanti
l‟anno seguente) e, nell‟Appendice, Perse e brade, Semiserie (arricchite di una lirica del 1967), Sia detto e Torre
delle ore. Chiudono il volume i colloqui con Stefano Verdino A Bellariva e il ricchissimo Apparato critico.
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gli accordi bilaterali tentati dal governo Thatcher e ritenuti dagli anglicani – che «preparano il loro grande sabato…», un‟imponente contestazione per il giorno 24 – eccessivamente accondiscendenti nei confronti degli scissionisti.
Segue immediatamente, fra le Semiserie, la poesia Palermo, aprile ‟86, ancora una volta
un titolo che esprime in maniera diretta l‟occasione e la contingenza della suggestione,
senza più alcuna necessità di salvaguardare una lettura allegorica del testo, proprio in
virtù della collocazione marginale e, dunque, autonoma, rispetto al macrotesto. Un
nesso, semmai, questi versi lo intrattengono proprio con quelli di Belfast 21 novembre,
come suggerisce sottilmente una nota inclusa a fine sezione a proposito di Palermo,
aprile ‟86: «È un altro reportage sullo stato di un‟altra città, capitale di un‟altra isola». In
effetti anche i versi palermitani, originati da un soggiorno per motivi congressuali, iniziano con una rappresentazione ovattata e persino sonnolenta della città. Essa è colta
in un momento di sospensione temporale, giacché neanche «il rombo / ed il marasma» consueti nelle strade raggiungono il poeta, né le sirene dei mezzi di soccorso o di
polizia. Eppure si avverte sotto la superficie delle cose un‟inquietudine dettata dalla
consapevolezza che il morbo che affligge da circa un secolo la città, la mafia, non è
che pazientemente nascosto, pronto a fare strage nello «splendido torpore» di Palermo, con una violenza ch‟è tanto più cruda quanto più ha saputo studiare le sue mosse
nel subdolo «ventre» della città. Bisognerà considerare questa bella lirica come il preludio „nascosto‟ di quel Corale della città di Palermo cui ho accennato più su e che fu suggerito all‟autore dall‟allora sindaco Leoluca Orlando, in occasione di un nuovo soggiorno palermitano all‟inizio del 198836.
Con ancora maggiore evidenza intenzionale rispetto all‟organizzazione delle Semiserie, esattamente negli stessi anni in cui attende alla stesura del più metastorico e fantastico dei suoi libri – il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (il pittore alle prese con
una ridefinizione e una risignificazione della propria vita e della propria arte, nel quale
il poeta ormai trasfigura se stesso) – Luzi riserva alla poesia di occasione sociale e civile uno spazio editoriale autonomo che prende il titolo di Sia detto, allusivo di una necessità morale di denuncia e di fissazione letteraria dei momenti più tragici della nostra
storia che nessuna tensione contemplativa può mai spegnere. La suite raccoglie, in un
numero speciale dell‟Annuario della Fondazione Schlesinger del 1995, dieci testi apparsi fra
il ‟90 e il ‟93 su testate quali «Forum Italicum», «Il Messaggero», il «Corriere della Sera», «Il gallo silvestre», l‟Annuario di poesia 1991-92 edito da Crocetti, «la Repubblica» e
«Nuova Antologia» (con l‟aggiunta, per l‟edizione critica di Verdino di una lirica pubblicata nel ‟97 da «La Nazione»). Fra questi mi paiono degni di essere riletti all‟interno
del percorso che si è delineato in queste pagine alcuni testi non solo di sincera partecipazione etico-civile, ma anche di notevole tenuta stilistica, doti che li fanno apprezzare
per la coerenza con cui si inseriscono esattamente a metà strada fra la sempre più evidente scelta di uno schieramento politico nella nuova stagione del centro-sinistra e la
scrittura musicale e rarefatta delle ultime e maggiori prove.
Si tratta innanzitutto di Piazza pulita, composta nel 1990, in ricordo della strage di
piazza Tien An Men a Pechino, ad opera dell‟esercito regolare contro migliaia di studenti che per una ventina di giorni, nella primavera del 1989, avevano occupato il cenSu questo dramma per Santa Rosalia e, in genere, per un acuto profilo della poetica drammaturgica
luziana è d‟obbligo il rinvio a M.A. ABENANTE, L‟opera teatrale di Mario Luzi, in D.M. PEGORARI (a cura
di), Mario Luzi da Ebe a Constant. Studi e testi, Stamperia dell‟Arancio, Grottammare (AP) 2002, pp. 47-77;
e cfr. della stessa autrice gli ancora validi Il “tempo turbato” del teatro di Mario Luzi, in «Hortus», 21, 1998,
pp. 39-60, e Finzione e realtà nel teatro di Mario Luzi, in «Linee», I, 1, marzo-maggio 1999, pp. 17-19.
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tro della capitale chiedendo, sotto la gigantografia del padre della patria, Mao, una riforma democratica e pluralista del socialismo reale, inaugurando quella domanda di
partecipazione alla politica e di liberalizzazione dei regimi che attraverserà, ma con più
felici risultati, l‟Europa centrale e orientale; seguono Le donne di Bagdad e Soldatesca,
composte fra l‟autunno del 1990 e l‟inverno del ‟91, nell‟imminenza e per l‟esplosione
della prima guerra del Golfo persico, sferrata dalla più ampia coalizione internazionale
di tutti i tempi (Italia compresa) contro l‟Iraq di Saddam Hussein per l‟invasione del
Kuwait avvenuta nell‟agosto del 1990. In quell‟occasione il poeta, accogliendo
l‟appello pacifista di Papa Wojtyla, si era apertamente schierato contro la logica della
rappresaglia militare come soluzione dei conflitti politici internazionali. Nefas (lat. „sacrilegio‟), invece, abbandona lo scenario militare mondiale, per rivolgere una preghiera
di soccorso (la seconda strofa inizia con «Aiuta, se puoi, quelli che li aiutano», verso
ripetuto e variato nel finale, proprio secondo un andamento litanico) in favore di
«adolescenti» persi nella tragedia della tossicodipendenza, descritta coi tratti di una antiliturgia demoniaca («i riti della perdizione», v. 9).
Infine, Sia detto, pubblicata inizialmente col titolo Firenze, 27 maggio 1993, è forse la lirica più classicamente civile di Luzi, per il tono moderatamente retorico, ma mai enfatico, con cui ricorda un preciso episodio di violenza che dal cuore di Firenze sferrava
l‟attacco della mafia ai gangli stessi del potere e della società civile italiana: un potente
ordigno aveva sventrato la Biblioteca dell‟Accademia dei Georgofili, fra la Galleria
degli Uffizi e Ponte Vecchio, uccidendo un‟intera famiglia e arrecando dei notevoli
danni alle opere d‟arte ivi custodite, dando così un seguito anche simbolico alla nuova
stagione di lotta criminale inaugurata un anno prima con l‟omicidio dei giudici siciliani
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, e abbattendo una classe dirigente già duramente
provata dalla prolungata stagnazione economica (cui si provò a dare una risposta con
l‟avvio delle privatizzazioni delle aziende pubbliche o a partecipazione statale e, contestualmente, con un inasprimento del prelievo fiscale, nell‟ultima fase del cosiddetto
„pentapartito‟) e, soprattutto, dal ciclone investigativo dell‟inchiesta di „Mani pulite‟,
partita a Milano (ribattezzata per questo dai giornali „Tangentopoli‟), ma poi capillarmente irradiatasi in gran parte del territorio nazionale.
Dal maremoto che ne conseguì, e soprattutto in conseguenza della riforma elettorale
in senso maggioritario che mise fine in maniera accelerata e forzata al blocco politico
che si era determinato negli ultimi decenni di storia italiana, inducendo agli accorpamenti pre-elettorali dei movimenti politici secondo uno schema bipolare, scaturì, in
occasione delle elezioni politiche anticipate del 1994, un assetto governativo completamente inusitato, con la vittoria di una destra liberista e reazionaria, stretta intorno a
un leader di tipo nuovo, estraneo alla cultura politica dell‟antico arco costituzionale: Silvio Berlusconi, magnate delle telecomunicazioni e dell‟editoria. Luzi avverte immediatamente il pericolo di un peculiarissimo neofascismo strisciante, ugualmente capace di
esprimersi con l‟arroganza muscolare e con l‟eleganza in doppiopetto, col disprezzo
per l‟avversario politico e col sorriso rassicurante e paternalistico nei confronti di un
cittadino interpretato e gestito sistematicamente in quanto „consumatore‟: la novità
della politica italiana di metà anni Novanta sembra essere, infatti, che la vita associata
non viene più regolata da un sistema di contrappesi fra diritti e doveri, poiché viene
fagocitata interamente entro il modello del rapporto fra produttore e cliente. Non è
solo una questione di stile politico, bensì una rivoluzione che diviene rapidamente capace di presentare ciascun aspetto fondamentale della cittadinanza (dall‟informazione
alla giustizia, dall‟istruzione al sistema fiscale, dalle questioni etiche alla sanità) come
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„prodotto‟ finito, sottratto alla coscientizzazione popolare e „confezionato‟ per un consumo veloce e a-problematico. Perché questo processo riesca, è necessario che
l‟immagine del „prodotto‟ sia semplificata e vincente più che persuasiva, secondo le regole tipiche della pubblicità. Ed è qui che s‟innesta il punto nodale del cosiddetto berlusconismo, ovvero la manipolazione della comunicazione mediatica come immensa
macchina pubblicitaria di costruzione e conservazione del consenso, con una meticolosità di progettazione che ricorda, sia pur in forme metodologicamente diverse e in
un contesto storico-sociale radicalmente mutato, l‟organizzazione della propaganda e il
controllo del giornalismo e della cultura durante il ventennio fascista.
La preoccupazione, d‟altra parte, è avvertita immediatamente anche all‟estero, come
documenta Essere è non dimenticare, l‟articolo apparso su «Micromega»37, nel quale Luzi
informa di un incontro avuto al Pen Club di Varsavia nella stessa primavera del 1994:
il dibattito letterario si sposta immediatamente sui recenti avvenimenti italiani, letti
come rischio di compressione degli spazi democratici nel nostro Paese (utilizza termini
di inconsueta durezza: «volontà di abbrutimento», «nuova barbarie»), rispetto al quale
l‟antidoto più efficace è, secondo le sue parole, «la memoria». Essa «arriva dove le altre
doti dell‟uomo forse non arrivano. Non è limitata come la nostra ragione, o come il
nostro egoismo, o come i nostri interessi di parte, la memoria è sacrale – se la parola
non fosse usata in troppi sensi – è qualcosa che trascende oscuramente la vita individuale e la vita delle generazioni». La riflessione tocca subito il tema del mantenimento
dell‟unità nazionale, in un momento in cui essa viene messa in discussione dalla rapida
escalation del movimento leghista che, scambiato per un passeggero fenomeno protestatario al momento dei suoi primi successi elettorali (soprattutto a partire dalle elezioni
per il parlamento europeo del 1989), era divenuto un indispensabile partito di governo
con un consenso altissimo, ancorché limitato alle sole regioni padane.
L‟occasione per tornare sull‟argomento sarà l‟orazione Per il bicentenario del Tricolore,
che Luzi ha l‟onore di pronunciare nel comune di Reggio Emilia il 7 gennaio 1997,
rinnovando, così, nella città che lo vide nascere, la celebrazione del nostro simbolo
nazionale, a cento anni di distanza dall‟analogo discorso di Giosuè Carducci38: è il
momento della consacrazione pubblica che coincide con numerosi e prestigiosi riconoscimenti anche internazionali (per tutti ricordiamo la Legion d‟Onore ricevuta dal
Presidente della Repubblica francese all‟inizio di quello stesso anno; ma avrà lo stesso
significato la commissione dei testi di meditazione per la Via Crucis del Papa al Colosseo del Venerdì Santo 1999, che per la prima volta nella storia tocca, così, a un poeta
laico) e con una stagione di rinnovata fiducia politica, dopo il successo della coalizione
democratica del centro-sinistra nell‟aprile del 1996, dal poeta apertamente appoggiata
lungo tutta la campagna elettorale con articoli e interviste. Ma è anche l‟anno di una
singolare sovrapposizione di Luzi all‟immagine di uno dei grandi autori francesi studiati in gioventù, Benjamin Constant (1767-1830), sul quale aveva scritto due saggi,
rispettivamente sul Diario e sul Cécile (inclusi in Aspetti della generazione napoleonica e altri
saggi di letteratura francese, Guanda, Parma 1956), e un libro, Lo stile di Constant (Il Saggiatore, Milano 1962): ora torna su questo straordinario protagonista della letteratura e
del dibattito civile della Francia rivoluzionaria, napoleonica, borbonica e liberale con
un dramma, Ceneri e ardori, che ne immagina i giorni conclusivi, passati a scrivere un
discorso per la nuova Costituzione borghese, dopo il definitivo rovesciamento della
Nel fascicolo 3 del 1994, alle pp. 111-115.
I due Discorsi per il tricolore vengono pubblicati in un unico volumetto, a cura di Roberto Barzanti,
Carlo Fini e Luigi Oliveto, dall‟editore Zanetto, Brescia 1999; l‟orazione di Luzi è alle pp. 15-22.
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38
43
Restaurazione e l‟ascesa al trono di Luigi Filippo d‟Orléans.
Constant è ritenuto uno dei padri del costituzionalismo moderno e uno dei fondatori del pensiero politico liberaldemocratico ottocentesco, teorico dalla penetrante argomentazione trattatistica (si pensi ai quattro volumi del Corso di politica costituzionale,
stesi prima del 1820) e attore in prima linea dell‟opposizione liberale, ai tempi
dell‟inasprimento giacobino della Rivoluzione francese e, successivamente, dopo
l‟accentuazione tirannica del progetto bonapartista: una posizione che gli costò, dal
1803 al 1814, l‟esilio da parte di Napoleone, il quale lo richiamò al suo fianco nella
disperata riscossa degli ultimi Cento giorni, durante i quali tentò di accreditarsi come
restauratore degli equilibri liberali, affidando allo scrittore la redazione dell‟Atto addizionale alle costituzioni dell‟impero39. Rovesciato, infine, l‟ultimo re di Borbone, Carlo X
(1830), per la Francia si aprì definitivamente la strada del parlamentarismo contemporaneo e, ancora una volta, tocca a Benjamin Constant, nominato presidente del Consiglio di Stato (una sorta di Senato), essere presentato come interprete della cultura e
della politica liberale. Uomo dalle travolgenti passioni sentimentali, narratore dalla
precoce sensibilità romantica e acuto indagatore delle pieghe psicologiche dei suoi
personaggi, Constant è colto dalla penna di Luzi proprio in questi intricatissimi giorni
nei quali, da un lato, sente di dover soddisfare le aspettative di chi gli ha affidato il
compito di garantire la correttezza ideologica e la sanità morale della nuova Costituzione, dall‟altro avverte ormai la stanchezza di una vita spesa a muoversi fra le vorticanti fasi della storia contemporanea, tradito da chi può aver strumentalizzato la sua
fedeltà alla ricerca della verità e della giustizia, e sottratto a quella dimensione privata e
affettiva alla quale, probabilmente, avrebbe voluto donare tutto se stesso.
La cura con cui Beniamino viene ritratto nella pièce luziana, unita alla considerazione
non secondaria che essa sia l‟unica, nell‟intero percorso drammaturgico del nostro autore a non essere suggerita da occasioni o vere e proprie commissioni, ci dice che Luzi
sente molto il personaggio, nella sua dimensione storica e nella sua rivisitazione fantastica, s‟immedesima forse non del tutto consapevolmente in quest‟uomo di lettere, di
passioni e d‟impegno civile (il quale, guarda caso, aveva tenuto nel 1821 un‟orazione
sul suo Tricolore bianco-rosso-blu) e prova a lasciarci un testamento morale per sua
interposizione. Il monologo di Beniamino nel suo studio è un magnifico esempio di
elaborazione memoriale ermetica, in cui privato e pubblico, sentimento e razionalismo, sono strettamente coimplicati e collaborano a un‟unica determinazione della volontà: così l‟amore per la democrazia, i sospetti per gli umori del nuovo parlamento, le
preoccupazioni per il futuro della Francia si saldano strettamente a un bilancio esistenziale, dominato dal ricordo della fascinosissima Germaine, la celebre Madame de
Staël, turbinosamente amata per tutta la vita, e ai sensi di colpa per le sofferenze inflitte alla moglie Charlotte.
L‟ormai dichiarata simpatia per la sinistra democratica ora al governo non impedisce
a Luzi di proseguire coerentemente la sua lotta contro i fantasmi di un passato di illiberalità, di barbarie e di guerra che vede risorgere ad ogni passo in Italia e in Europa;
nella circostanza dell‟attacco Nato contro Belgrado, nel 1999 – che peraltro divise lo
stesso mondo cattolico e progressista, tradizionalmente pacifista, largamente persuaso
dell‟odiosa necessità di intervenire in Kossovo per bloccare uno sterminio etnico in
corso –, Luzi firma con Rafael Alberti, Carlo Bo, Fernanda Pivano, Giovanni Raboni
e Harold Pinter (poi sostenuti da centinaia di altri intellettuali in tutto il continente) un
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Redatto entro il 23 aprile 1815 e promulgata in Campo di Marte il 1° giugno dello stesso anno.
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appello (Svegliati, Europa umiliata. Esci dalla follia sanguinaria40) contro quello che viene
definito «un feroce anacronismo e una regressione indecente nella scala
dell‟evoluzione civile». Il 2001, poi, è un anno cruciale tanto sul fronte interno, con il
ritorno al governo della coalizione delle destre (sempre capeggiata da Berlusconi),
quanto su quello internazionale, con l‟inizio della prima presidenza di George W. Bush
negli Stati Uniti d‟America, una recrudescenza della strategia della tensione (con tanto
di riavvio degli esperimenti militari nucleari) e il terribile evento degli attacchi kamikaze alle Twin Towers e al Pentagono. Esattamente al centro fra i due eventi, le elezioni italiane del 13 maggio e l‟attentato dell‟11 settembre, si colloca un avvenimento,
ad un tempo internazionale e nazionale, destinato ad essere ricordato come una delle
pagine più nere della cronaca degli ultimi decenni: durante il G8 di Genova le manifestazioni di contestazione anticapitalistica e no global sfociarono in sanguinosissimi scontri con le forze dell‟ordine, le cui responsabilità sono ancora da accertare pienamente.
Alla vigilia di questa penosa vicenda Luzi rilascia al più assiduo dei suoi intervistatori, Renzo Cassigoli, una lunga conversazione che viene pubblicata a tutta pagina su
«l‟Unità»41, nella quale tocca lo spinoso problema del cosiddetto «conflitto d‟interessi»,
prefigurando un concreto rischio per la «formazione dell‟opinione pubblica, fino a distorcere la struttura stessa della democrazia», a causa della trasformazione delle normali
procedure governative in un sistema di relazioni aziendali di tipo padronale; inoltre
l‟imminente incontro fra i rappresentanti delle otto superpotenze economiche del
mondo viene definita una «messa in scena», una farsa nella quale nessun peso hanno le
reali volontà popolari e neanche le politiche nazionali, bensì gli interessi dei grandi potentati finanziari concentrati negli Stati Uniti. Com‟è evidente anche solo da questi pochi esempi di intervento civile, Luzi sente su di sé tutta la responsabilità
dell‟intellettuale che deve difendere un uso veritiero della parola, che può essere garantito solo all‟interno della democratica circolazione e della libera espressione delle idee;
con l‟impazienza di colui che, incredulo dinanzi alle nuove paure42 che affliggono la collettività, facendo rivivere antichi incubi che sembravano sepolti per sempre, teme di
non fare in tempo a lanciare il suo grido d‟allarme ai contemporanei, Luzi affianca ai
suoi ultimi due libri, Sotto specie umana (1999) e Dottrina dell‟estremo principiante (2004) –
ormai avviati sulla strada della ricerca religiosa –, gli interventi pubblici e qualche rara
lirica di tono civile, sul tipo di quelle occasionali che aveva raccolto in Sia detto. Si collocano su questa linea il frammento lirico in prosa pubblicato nello speciale dedicato
all‟orrore di New York su «Poesia» (XIV, 155, novembre 2001, pp. 2-23: 7), nel quale
appaiono, tra gli altri, anche testi di Moore, Enzensberger, Spaziani, Giudici, Magrelli,
Loi, Ramat, Merini, Parronchi, D‟Elia, Conte, Gardini, Viviani, Harrison e Del Serra; e
la breve poesia La giovane ebrea al suo amato musulmano, pubblicata dapprima sul quotidiano cattolico «Avvenire», il 18 ottobre 2003 e poi ripresa su «Tuttolibri-La stampa»,
sabato 5 marzo 2005, in occasione della morte del poeta.
Quando, nel 2002, intitolavo un mio precedente volume Mario Luzi da Ebe a Constant, alludevo proprio alla possibilità di leggere fra quei due nomi estremi – del mito e
40 Il testo dell‟appello, rifiutato da tutti i principali organi di stampa italiani, fu pubblicato solo dal quotidiano comunista «Il Manifesto» il 23 aprile 1999, p. 12.
41 Luzi: la democrazia in Italia è a rischio, martedì 3 luglio 2001, p. 2.
42 Le nuove paure è il titolo di un libro-conversazione raccolto proprio dal summenzionato Renzo Cassigoli ed edito da Passigli di Firenze subito dopo i fatti di New York e Washington e poi, in edizione ampliata, nel 2005, proprio nei giorni della sua morte, con un capitolo aggiuntivo scritto dopo la sua nomina
senatoriale.
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della storia – tutto l‟arco dell‟itinerario luziano, dalla gioventù proto-ermetica, impegnata in un difficile, ma vincente, corpo a corpo con l‟orfismo fin de siècle (il cui punto di
snodo mi pare poter essere rappresentato, appunto, dalla prosa Biografia a Ebe), alla senile meditazione memoriale e civile adombrata, come ho ricordato prima, in Ceneri e
ardori; eppure non potevo certo immaginare che il cammino parallelo di Luzi e del suo
maestro romantico avrebbe nel giro di un paio d‟anni conosciuto il punto di maggior
simiglianza, con la nomina a senatore a vita per altissimi meriti letterari. Siamo ormai
arrivati agli ultimi quattro mesi di vita dello scrittore, ma questi non si risparmia frequenti esternazioni che susciteranno anche qualche clamore, come quando accuserà la
destra di governo di avere le idee confuse, soprattutto in merito al disegno di riforma
costituzionale, o lo stesso presidente del Consiglio di tenere troppo alto il livello dello
scontro politico, di fatto rischiando di incentivare manifestazioni anche violente di
disagio sociale.
Ma è proprio intorno al complesso problema della riscrittura della carta costituzionale, che si presenta vieppiù come una vera e propria demolizione dei principi risorgimentali e resistenziali sui quali essa si fonda, che Luzi promette di esercitare il proprio nuovo ruolo parlamentare e decide di dedicare i suoi ultimi interventi: lo fa soprattutto nell‟ambito di una lunga conversazione col prof. Francesco Pardi, leader fiorentino, insieme con lo storico Paul Ginsborg, di un movimento democratico di sensibilizzazione popolare (quello indicato dai giornali, con un filo d‟ironia, come il popolo dei „girotondi‟) e la registrazione del dialogo viene pubblicata, ancora una volta, dalla rivista di dibattito politico-culturale «Micromega»43, nella quale si può cogliere a quali risultati di consapevolezza storica sia giunta la riflessione sul dovere della memoria,
consegnata dieci anni prima alle pagine di Essere è non dimenticare. Questo Girotondo per la
Costituzione è, nelle parole di Luzi, una strenua difesa del valore popolare della Carta
del 1948, consacrata dal sangue dei partigiani e indisponibile a essere manomessa da
«un processo di demolizione dello Stato come società di eguali» messo in atto dalla destra di governo. Mi pare altresì significativo che Luzi introduca, a un certo punto, la
preoccupazione che ad essere messa a repentaglio sia persino la laicità dello Stato, in
virtù di una pretesa tutela della Chiesa cattolica sull‟unità nazionale (la medesima forza
– Luzi lo rammenta – che sin dal Medioevo aveva ostacolato il sogno di una nazione
italiana), resa possibile, a un tempo, dal «vuoto di volontà» manifestato dalla classe dirigente italiana e dalla necessità di equilibrare l‟opposto fondamentalismo islamico che
arma il terrorismo in tutto il mondo: e su queste questioni vertono più diffusamente i
capitoli delle Nuove paure, nelle cui ultime pagine si trova anche il richiamo a un cristianesimo più autentico e radicale, correttivo rispetto alle tentazioni integralistiche del
cattolicesimo.
L‟itinerario civile di Luzi si chiude qui, insieme con gli ultimi battiti del suo cuore e
con gli ultimi versi dettati alla segretaria la sera prima di spegnersi: ma il giorno dopo il
presidente del Senato annuncia e rende noto il testo che Luzi aveva preparato come
saluto ufficiale al consesso che lo aveva accolto e che lo avrebbe ascoltato in una delle
sedute successive. Se non può essere considerato compiutamente un testamento, tale è
la sua brevità, esso vale però come pacata dichiarazione di fedeltà ai valori della pace e
dell‟onestà, quest‟ultima, com‟è evidente, strettamente connessa con l‟aspirazione a
una rifondazione del linguaggio e del pensiero, secondo un principio di verità, condotta per oltre settant‟anni di scrittura letteraria.
43
F. PARDI, M. LUZI, Girotondo per la Costituzione, in «Micromega», 2004, 5, pp. 37-49.
46
Pensando alla morte di Benjamin Constant, Luzi amò immaginarla proprio durante
la lettura di quel suo famoso discorso nel Parlamento francese, sigillando così l‟icona
di un uomo che per le lettere e la democrazia aveva speso tutta la sua vita, sia pur tra
numerose incertezze e ripensamenti; per questo oggi la suggestione che deriva dalla
lettura del discorso giunto nelle mani del Parlamento italiano, proprio mentre Luzi si
spegneva, mi induce a un azzardo critico, nella convinzione ch‟esso non sia inopportuno, dato lo spiccato autobiografismo di Ceneri e ardori. In chiusura di questo percorso, infatti, vorrei riportare alla mente di tutti la pagina conclusiva della pièce dedicata a
Constant, nella quale le didascalie descrivono una scena occultata allo spettatore, ma
ben udibile grazie alle voci e ai rumori fuori campo: «M. le Baron de Constant» entra
nell‟aula dell‟Assemblea, tiene il suo applaudito discorso fino al malore fatale e al suo
inutile soccorso, ma una voce ricorda al pubblico (e al lettore) che un raggio di luce
premierà l‟azione dell‟uomo, a patto che questi abbia percorso la storia nel segno della
verità e del coraggio delle idee.
L‟ERMETISMO ITALIANO SUB SPECIE DANTIS
Dedico queste pagine al mio maestro, Domenico Cofano, che
circa vent‟anni fa mi avviava alla dantologia e all‟intertestualità,
insegnandomi un rigore antico e una curiosità nuova
P
dare inizio a questo mio intervento con l‟affermazione preliminare che
un dantismo „ermetico‟ non sia propriamente mai esistito, se non avessi timore
di apparire provocatorio, in rapporto al mio dovere di corrispondere al gradito
compito che mi è stato affidato in questa sede, oppure di essere ascritto alla copiosissima schiera degli studiosi utilizzatori del brand „petrarchismo ermetico‟ che da Pozzi e
Ramat, da Guglielminetti e Petrucciani, da Bàrberi Squarotti e Barański (ma significativamente non da Fortini, mi sembra),1 viene rilanciato con inerzia dalla fine degli anni
Sessanta ad oggi. E questo a dispetto delle risultanze di due diversi ma complementari
livelli di ricerca che hanno riguardato i maggiori autori nati nella prima metà degli anni
Dieci: quello più latamente storico-critico che ha illuminato la ricchezza delle soluzioni
stilistiche da essi trovate, pur nella coerenza di una poetica senza svolte e „conversioni‟, e quello più strettamente riguardante la ricognizione delle fonti e lo sviluppo di
quell‟attenta ricerca intertestuale che il compianto Cesare Segre definiva semiotica filologica, capace di valorizzare la citazione quando essa si ponga come vera e propria figura
retorica, „vischiosa‟ al punto da trasferire dal modello al testo persino «il non detto», e
– ancor più – quando essa divenga „segnale‟ di un più ampio paradigma poetologico.2
In verità proprio la dismissione di un approccio stilistico, in favore di un‟analisi semiofilologica, mi consente di non applicare in maniera automatica il gioco delle contrapposizioni fra il modello dantesco e quello petrarchesco, poiché essi non sempre si escludono del tutto vicendevolmente e non è affatto detto che all‟assenza dell‟uno corrisponda di necessità la presenza dell‟altro. E allora, se desidero circondare di un alone
ipotetico il titolo di questa mia relazione, non è perché ritenga inevitabile far anche
mia la formula del „petrarchismo ermetico‟, ma perché, proprio mentre mi pare che il
secolo trascorso dalla nascita di quei poeti ci offra l‟occasione per ricostruire le loro
fisionomie letterarie ormai compiute e largamente autonome, ho il dubbio che
OTREI
La perimetrazione dell‟ermetismo come „circolo‟ petrarchista risale a GIANNI POZZI, I „petrarchisti‟ ermetici (1965), in GIANNI GRANA (a cura di), Novecento. Gli scrittori e la cultura letteraria nella società italiana, Milano, Marzorati, 1979, vol. VI, pp. 5724-5732; e a SILVIO RAMAT, Il fluido petrarchesco: l‟assenza, l‟assente, in
IDEM, Storia della poesia italiana del Novecento, Milano, Mursia, 1976, pp. 430-432, 457. Questa valutazione si
riverbera sui primi sei panorami della poesia contemporanea in chiave dantesca: CARLO BO, Dante e la
poesia italiana contemporanea, in «Terzo programma», 4, 1965, pp. 192-199; MARZIANO GUGLIELMINETTI,
Con Dante attraverso il Novecento, in IDEM, Petrarca fra Abelardo ed Eloisa, Bari, Adriatica, 1969, pp. 291-328;
SILVIO RAMAT, Una traccia dantesca (1969), in IDEM, La pianta della poesia, Firenze, Vallecchi, 1972, pp.
171-191; MARIO PETRUCCIANI, Due paragrafi per Dante e il Novecento, in «Dante nella letteratura italiana del
Novecento», Atti del convegno di Roma, 6-7 maggio 1977, a cura di Silvio Zennaro, Roma, Bonacci,
1979, pp. 163-202; GIORGIO BÀRBERI SQUAROTTI, L‟ultimo trentennio, ivi, pp. 245-277; ZYGMUNT G.
BARAŃSKI, The Power of Influence: Aspects of Dante‟s Presence in Twentieth-Century Italian Culture, in «Strumenti
critici», n.s. I, 3, 1986, pp. 343-376. Ne è immune uno storico molto coinvolto nella cultura fiorentina
degli anni Trenta-Quaranta, FRANCO FORTINI: si veda il suo I poeti del Novecento, Roma-Bari, Editori Laterza, 1977.
2 CESARE SEGRE, Semiotica filologica, Torino, Einaudi, 1979.
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l‟ascolto della lezione di Dante non sia esattamente il tratto che accomuna tutti e tre i
fiorentini del ‟14 – Bigongiari, Luzi e Parronchi –, mentre semmai esso potrà ritrovarsi
come fondante una nozione più allargata ed elastica di ermetismo, inglobante tutti i
poeti metafisici, o „di pensiero‟, esordienti negli anni Trenta, con necessario riferimento almeno a Sereni e Caproni.3
Promettendo, in questa sede, di far ricorso il meno possibile agli intertesti – cosa che
riuscirebbe disagevole e inopportuna in un ragionamento che dev‟essere complessivo
e comparativo –, dovrò, piuttosto, tirar le somme della più esatta consapevolezza che
proviene da quei sondaggi monografici e farmene illuminare, mentre riconsidero lo
stato dell‟arte e le sue questioni eminenti. Prima di tutto sarà il caso di leggere
nell‟invariabile vocazione neostilnovistica della gioventù ermetica, frutto di prolungate
letture extrascolastiche delle Rime di Cavalcanti e di Dante e della Vita nova, come testimonieranno più tardi sia Fortini4 che Luzi,5 non un‟attitudine provvisoria, quasi variante fiorentina di un petrarchismo protratto nel Novecento da Ungaretti, poi superato attraverso un «ritorno» alla Commedia, magari per l‟influenza di Eliot, nel caso di Luzi,6 o per non apparire „fuori moda‟, nel caso di Bigongiari. L‟idea di una tardiva „conversione‟ a Dante si accompagna nella storia della critica a un altro schema che occorrerebbe superare: quello per cui l‟ermetismo „vero e proprio‟ si sia rapidamente esaurito nel corso del secondo dopoguerra, come starebbe a dimostrare la metamorfosi stiliGUGLIELMINA ROGANTE (Il primo Luzi, in Dai solariani agli ermetici. Studi sulla letteratura italiana degli anni ‟20 e ‟30, a cura di Francesco Mattesini, Milano, Vita e pensiero, 1989, pp. 91-114) coglie nei dibattiti
delle riviste dei tardi anni Trenta, il fiorentino «Frontespizio» e la milanese «Corrente», l‟esigenza del superamento di quel monismo soggettivo che trovava nel „frammento‟ la forma letteraria più consentanea;
fra queste riflessioni spicca quella di un „fratello maggiore‟ degli ermetici, CARLO BETOCCHI, che (in Premesse e limiti di un ritorno al canto, in «Il Frontespizio», maggio 1937, pp. 327-330) invitava a un «canto di
natura dantesca», che non si ponesse solo l‟obiettivo di una «consolazione» individuale.
4 In un ciclo di conversazioni radiofoniche che riguardarono anche Tasso, Leopardi, Manzoni e Pascoli (pubblicate postume a cura di D. Santarone col titolo Le rose dell‟abisso. Dialoghi sui classici italiani, Torino, Bollati Boringhieri, 2000), Franco Fortini afferma: «Dante negli anni Trenta non è particolarmente
letto come l‟autore dell‟Inferno […]. In un certo senso il Dante delle „Giubbe rosse‟ […] è il Dante stilnovista, il Dante della Vita nova, il Dante delle Rime, appunto, edite da Contini nel ‟39, e che hanno avuto
tanta importanza non solo per Montale, ma anche per poeti come Luzi, per esempio. Prima che si abbia
[…] una sorta di acquisizione di Dante, soprattutto del Dante del Purgatorio, è il Dante delle Rime, appunto, quello che è più importante. Di modo che quando poi si scavalca, per dir così, l‟inferno della guerra,
viene fatto di domandarsi – per esempio è cosa che io mi chiesi allora – se veramente quel Dante era il
solo che avevamo di fronte». La conversazione dantesca, col titolo L‟Ulisse naufrago di Dante, fu pubblicata
anche in «Il Sole-24 ore», 12 marzo 2000, p. 29.
5 MARIO LUZI, Dante, da mito a presenza (1991), in «Letture classensi», 20-21, 1992; anche in IDEM, Dante e Leopardi o della modernità, Roma, Editori Riuniti, 1992, pp. 47-57, edizione da cui riporto questo passaggio: «Dante è presente al livello popolare in Toscana, e come mito popolare viene primamente ricevuto dai ragazzi di Firenze. […] Ho fatto il mio liceo con eccellenti maestri tra cui Francesco Maggini, eccezionale conoscitore del Due e del Trecento. Non potevo avere guida più autorevole e persuasiva alla
lettura della Commedia e delle altre opere dantesche. Tra queste fu piuttosto la Vita nuova a prendermi con
la sua alchimia e sublimazione dell‟esperienza giovanile, con i suoi trasalimenti e le sue intese profonde,
con i suoi sgomenti e le sue estasi. […] Vidi dunque in principio Dante come Cavalcanti, un Cavalcanti
più luminoso che avesse varcato la siepe della malinconia» (pp. 49-50).
6 Cfr. BARBARA NUGNES, T.S. Eliot e Mario Luzi: un caso di affinità, in «Rivista di Letterature moderne e
comparate», XXXIII, 2, giugno 1980, pp. 129-155; LORENZA GATTAMORTA, Luzi ed Eliot: impersonalità e
intersoggettività della lingua naturale, in «the Italianist», XX, 2000, pp. 193-228; poi, col titolo Luzi, Eliot e Dante: uno studio comparativo di poetiche, in EADEM, La memoria delle parole. Luzi tra Eliot e Dante, Bologna, Il Mulino, 2002, pp. 241-279.
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stica apprezzabile fra il Diario d‟Algeria e Gli strumenti umani, fra Il passaggio d‟Enea e Il
seme del piangere, fra Stato di cose e Antimateria, fra Quaderno gotico e Primizie del deserto e fra
Un‟attesa e L‟incertezza amorosa. Ma se accolgo la „lezione privata‟ offertami esattamente
vent‟anni fa da una lettera di Oreste Macrì, comprendo che, se definiva «protoermetico» il Luzi degli anni Trenta-Quaranta da me a quel tempo studiato, era per suggerirmi
che l‟ermetismo non si era affatto esaurito in quel torno di anni, ma era proseguito
con coerenza teorica senza soluzioni di continuità, sviluppando fino in fondo le nozioni di attesa, di memoria, di metamorfosi e di fede nella poesia.
E allora anche quello stilnovismo giovanile non fu altra cosa dal dantismo maturo e
quasi sua contraddizione, ma, anzi, ne fu la premessa, la maniera più consentanea per
declinare la nozione di assenza – fissata nitidamente dalla poesia pura di Ungaretti e
Montale – nella forma più passibile di sviluppi positivi, di apparizioni dapprima fantasmatiche, poi via via più plausibili ed effettuali.7 I tremori d‟amore dei neoteroi di fine
Duecento, il topos dell‟amata assente, perduta e ritrovata, sia pure per la via sublime di
«una mirabile visione», sono la scoperta più sorprendente con cui i loro epigoni novecenteschi possono rispondere al mito tragico di Euridice, riportato in auge
dall‟orfismo. E se pure non si vorrà negare la persistenza di tonalità orfiche e cavalcantiane in Bigongiari, più che in ogni altro, non si potrà davvero liquidare
l‟immaginario infero largamente presente sin da La figlia di Babilonia come l‟ossequio a
un certo classicismo parnassiano, escludendo che esso sia già il biglietto d‟imbarco per
un «viaggio dantesco attraverso i tre mondi»,8 come ci autorizza a credere, al di là di
ogni ragionevole scetticismo, l‟ormai famosa relazione su Dante e l‟ermetismo letta da Bigongiari al convegno romano del 1977 che ha consentito una prima provvisoria ricognizione intorno al dantismo italiano del Novecento: l‟Euridice che in Bigongiari non
ha bisogno del soccorso di Orfeo, ma anzi si fa inseguire nell‟Ade, scegliendo di «addentrarsi nella dimora dell‟Eterno», indica al poeta che la strada da percorrere per attingere l‟autenticità è quella che comporta la sua liberazione dalla lingua babelica «della
vita quotidiana, dove la parola – secondo l‟ottima lettura di Giuseppe Langella –, dopo
essersi inarcata verso il cielo fino a un estremo punto di rottura», ovvero fino
all‟azzardo simbolista, «ricade disperatamente sul suo grado zero».9
7 Luzi ha apertis verbis negato che l‟ermetismo si possa identificare «con una poetica dell‟assenza» e che
in questa categoria sia «legittimo far rientrare le sue due prime raccolte», suggerendo che, per quanto riguarda Avvento notturno, «l‟assenza è denunciata, è vero, ma […] non ci si compiace di questa mancanza.
L‟illusione platonica invece si compiace dell‟assenza»: Le vie del ritorno a Dante, colloquio con Mario Luzi a
cura di Lorenza Gattamorta, in «Resine», XXI, 80, aprile-giugno 1999, pp. 9-20: 16. Tuttavia questo rimane il paradigma storiografico della Gattamorta, se è vero che ha continuato a definire la «poetica
dell‟assenza tipica dell‟ermetismo» e Ungaretti «uno dei padri dell‟ermetismo» nel saggio Il platonismo del
primo Luzi, in «Strumenti critici», XVII, 2002, pp. 239-259; poi, col titolo La grammatica platonica del primo
Luzi, in L. GATTAMORTA, La memoria delle parole cit., pp. 69-94. Corretta è, però, l‟attenzione ch‟ella pone
al diffuso platonismo dell‟ermetismo, con due indirizzi destinati a divergere parecchio: quello di Oreste
Macrì, seguito da Luzi, «che non disdegna l‟empiria e la proprietà storica» e «reso più concreto dalla corposità propria della tradizione dell‟Italia meridionale», e quello di Carlo Bo, che si pone sulla scia del «platonismo idealistico di Croce» e «svaluta risolutamente il tempo storico come “tempo minore” proclamando l‟assoluto primato del “tempo maggiore”».
8 Ipotesi, invece, esclusa da L. GATTAMORTA, in Stilnovismo e dantismo di Bigongiari in «Stato di cose», in
«Rassegna Europea di Letteratura Italiana», 18, 2001, pp. 119-145; poi, col titolo Bigongiari e Dante: oltre il
fatalismo orfico e cavalcantiano, in EADEM, La memoria delle parole cit., pp. 34-56.
9 GIUSEPPE LANGELLA, Poesia come anabasi. Bigongiari, l‟ermetismo, l‟alto paradiso, in A.L. GIANNONE, M.
CANTELMO (a cura di), In un concerto di voci amiche. Studi di letteratura italiana dell‟Otto e Novecento in onore di
Donato Valli, Galatina, Congedo, 2008, vol. II, pp. 611-634: 628.
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Diventa, allora, essenziale per gli ermetici compensare il fascino, inizialmente subito,
del Coup de dés mallarméano e dell‟Enfer rimbaudiano con un descensus ad inferos che sia
garantito dalla certezza di un approdo ai mondi celesti e alla visione di Dio, il che può
darsi solo intestandosi l‟eredità dantesca come archetipo meta-letterario, cioè come viaggio della lingua dentro se stessa e, per usare le parole di un memorabile Luzi, dal
«nadir» dell‟esperienza fisica allo «zenith» dell‟assoluto. Ha certo ragione Ramat, quando scrive che nelle opere esordiali di Bigongiari, Luzi e Parronchi «ogni apparizione o
segno andrà riportato alla norma della labilità, a quel vero che prima di brillare nella
sua chiarezza irreversibile è nella tortura immanente delle cose» e «non resistono angeliche energie: non è lecito il traghetto ad alcuna zona divina»,10 ma non si potranno
misconoscere i tratti beatriciani della «donna» idoleggiata da Parronchi in Distanza, «un
tempo smarrita» e infine ammirata mentre percorre «il suo celeste», come in un paradigma ascensionale.11 E persino fuori dal „granducato di Toscana‟, in quella regione
lacustre che Enzo Siciliano riteneva immune dallo «stilnovo ermetico»,12 dovremo agevolmente rammentare quell‟«infinita / navigazione» e quel tormento del riaffacciarsi
dei «morti» sulla «spiaggia abbandonata» della Strada di Zenna, che riconducono anche
il primo Sereni (magari per la mediazione montaliana di Marezzo e dei Morti)13 nel medesimo recinto dell‟influenza dantesca, la cui origine ermetica, però, è assicurata da
stigmi inconfondibili come il «labile passo», i «cinerei prati» e «l‟Eliso», così prossimi ai
«passi dispersi» e alle «livide pietre» della Barca (cfr. Giovinetta, giovinetta) e al «cimitero
delle fanciulle», all‟«allure» e ai «neri fiori dell‟Ade» evocati nelle liriche eponime di Avvento notturno, giusto per fermarsi a una campionatura dell‟opera poetica di Luzi; nel
quale, poi, si osserva il cammino di attraversamento dantesco più graduale e di maggior respiro, partendo dalle modalità prettamente stilnovistiche della raccolta
d‟esordio, in cui, forse a ridare smalto ai temi lirici più consueti e consunti – l‟amore,
la morte, la fede – si tenta una loro rielaborazione metasoggettiva, con prevalenza di
una dimensione „corale‟ che poté trovare il proprio archetipo nella donna-angelo che
attraversa Firenze elargendo la grazia e la «salute», non solo al proprio amante ma a
un‟intera comunità che può sublimarsi attraverso di lei.
E se nel Luzi ventunenne non può trovarsi la stessa pienezza di risultati di un Montale peraltro successivo, quello della Primavera hitleriana, con Clizia «che il non mutato
amor mutata serba, / fino a che il cieco sole» della sua passione «si abbacini nell‟Altro
e si distrugga / in Lui, per tutti», si dovrà almeno riconoscere il sostrato stilnovistico
proprio di quella barca che fa da titolo e da allegoria complessiva al libro del 1935, in
cui al posto di Guido e Lapo si potrebbero intravedere proprio Piero e Alessandro e
altri ancora, ugualmente impegnati in una miracolosa estraniazione dal mondo, per
S. RAMAT, L‟ipotesi stilnovistica, in IDEM, L‟ermetismo, Firenze, La Nuova Italia, 1969, pp. 51-57.
ALESSANDRO PARRONCHI, Distanza, in IDEM, I giorni sensibili, Firenze, Vallecchi, 1941. Ramat esclude, invece, che vi si possa riconoscere un‟«aria stilnovistica […]; né il personaggio femminile compie alcuna mediazione per l‟amante a lei devoto» (S. RAMAT, La fuga e l‟imitazione ritmica [Parronchi], in IDEM,
Storia della poesia cit., pp. 485-494: 488. Il corsivo è nel testo). Ramat viene seguito da L. GATTAMORTA
(Parronchi e il visibile dantesco, in EADEM, La memoria delle parole cit., pp. 57-67: 59), la quale ribadisce il tratto
petrarchista del giovane Parronchi, «per registro e lessico».
12 ENZO SICILIANO, Verso Purgatorio, ossia la poesia di Vittorio Sereni, in «Nuovi Argomenti», aprilegiugno 1968, pp. 229-241.
13 Sulla «traccia dantesca» che accomuna le «catabasi» montaliane e quelle sereniane cfr. GILDA POLICASTRO, Modalità poetiche del contatto-colloquio oltremondano: primi sondaggi, da Montale a Sereni, in «Allegoria»,
XV, 45, settembre-dicembre 2003, pp. 75-83.
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coglierne la sua universale legge d‟amore.14 I tre libri successivi (Avvento notturno, Biografia a Ebe e Un brindisi) saranno piuttosto segnati da una maggiore increspatura orfica in
cui sarà più facile trovare connotazioni di una infernalità stravolta – gelide mura, ombre, «erebi d‟ansia» (in Annunciazione) –, ancorché nel libello in prosa si celi «un‟oscura
reminiscenza e trasmutazione» della Vita nova, «tanto più che il tema della conoscenza
e della rivelazione collocato nel cuore della giovinezza certamente vi si richiama»,15 fino a che proprio quella radice stilnovistica così ben coltivata e messa a frutto negli anni giovanili non tornerà nel Quaderno gotico – e in maniera saltuaria anche nelle raccolte
successive16 – a compensare le inquietudini prodotte dalla guerra e a riportare
l‟onnipresente «segno di morte» nel ben noto topos del presagio dello smarrimento
della donna amata e del suo finale, felice ritrovamento, sia pure in un‟accezione metafisica e trascendentale. La storia editoriale del Quaderno gotico è perfettamente parallela a
quella della celebre riflessione condotta nel saggio L‟inferno e il limbo, essendo entrambi
composti nel 1945, anticipati su rivista nel 1946 e infine consegnati a un volume (rispettivamente nel 1947 e nel 1949): questo impone di guardare a quel saggio che, come si sa, dà fondamento a un paradigma interpretativo della storia poetica italiana di
tipo binario, cinque anni prima che lo proponesse Contini, non come a un prodotto
estraneo alla temperie (proto)ermetica e significativo di una conversione dal petrarchismo al dantismo, bensì come a una posizione maturata già nel pieno di quella stagione,17 di cui evidentemente fa parte la sensazione di non voler più concedere nulla a
quella lezione che faceva dell‟arte un «limbo» conchiuso, «dove il dolore s‟aggira lusingato dalle sue illusioni», «cerchio» in cui «la realtà» appare «attenuata nel rilievo, stampata, appiattita», apparentemente «aumentando il dominio e la purezza dello spirito» e
invece condannando quest‟ultimo a essere «conchiuso e concentrico, isolato, appunto,
nel suo limbo»,18 laddove la poesia si autoproduce come per partenogenesi.
Quella caratura purgatoriale che conferisce il tono di fondo al dantismo di tutto
l‟ambiente ermetico, dagli anni Cinquanta in poi, trova dunque già qui la sua radice,
14 Facevo leva sul Neostilnovismo del giovane Luzi in un saggio apparso in «Studi medievali e moderni» (2,
2000, pp. 151-173), poi ampiamente riveduto e accresciuto di un capitolo sulla «Dottrina» purgatoriale, da
Primizie del deserto in poi, in DANIELE MARIA PEGORARI, Il codice Dante. Cruces della «Commedia» e intertestualità novecentesche, Bari, Stilo, 2012, pp. 173-246. L‟argomento è ripreso da L. GATTAMORTA, Stilnovismo e
dantismo di Luzi da «La barca» a «Quaderno gotico», in «L‟Alighieri», XLIII, n.s. 19, gennaio-giugno 2002, pp.
25-51; poi, col titolo Stilnovismo e dantismo del primo Luzi, in EADEM, La memoria delle parole cit., pp. 95-136.
15 M. LUZI, Dante, da mito a presenza cit., p. 49.
16 Opportunamente nota L. GATTAMORTA (Luzi e Dante: figure e trame di una intertestualità, in «Strumenti
critici», n.s. XV, 93, maggio 2000, pp. 193-217: 197) che ancora in Primizie del deserto il nodo teorico
dell‟«attesa» è reso attraverso un‟allegoria femminile «che ricorda il modo in cui Dante descriveva lo stupore di fronte alla manifestazione dell‟essere di Beatrice» e «il lessico onirico usato nella Vita nuova per
descrivere l‟apparizione di Amore»; questo perché l‟epifania «rappresenta il manifestarsi di un senso nascosto dentro lo stesso mondo terreno» (cito dalla redazione modificata apparsa col titolo Il limbo, l‟inferno
e il purgatorio di «Primizie del deserto» e «Onore del vero», in EADEM, La memoria delle parole cit., pp. 142-163:
145).
17 Preferisce parlare di un processo molto più graduale, in cui gli anni fra Quaderno gotico e Primizie del deserto recherebbero «una sigla petrarchesca», STEFANO VERDINO (Via da Petrarca. Una questione di poetica, in
IDEM, La poesia di Mario Luzi. Studi e materiali [1981-2005], Padova, Esedra, 2006, pp. 71-93). Ma non mi
pare privo di significato che di quegli «anni difficili» Luzi quasi non abbia lasciato esemplari poetici, forse
con l‟intenzione di „autocensurare‟ le tentazioni di «rispecchiamento esistenziale».
18 M. LUZI, L‟inferno e il limbo, in «Società», II, 5, 1946, pp. 25-32; poi nel volume eponimo edito a Firenze (Marzocco 1949); e successivamente in Dante e Leopardi cit.; e in Naturalezza del poeta, Milano, Garzanti, 1995, pp. 56-65.
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quale paradigma di una condizione esistenziale che intende riconquistare un „movimento‟ morale – per dir così –, una dynamis dall‟angoscia alla salvezza, dalla «stasi»
all‟«estasi». Si comprenderà, allora, come abbia troppo a lungo ostacolato un‟adeguata
intelligenza del rapporto fra l‟ermetismo e Dante il principio strettamente stilistico di
Contini, elevato a disegno storiografico, dal momento che produsse una distribuzione
„manichea‟ – mi si passi l‟aggettivo – degli autori sul fronte del monostilismo petrarchesco o su quello del plurilistilismo dantesco, misurandone per i primi
l‟«unilinguismo», almeno all‟interno della stessa opera (va da sé che nel macrotesto il
prototipo dovesse misurarsi col bilinguismo medievale), «l‟unità di tono e di lessico»
(la condizione più importante, osservabile, però, soprattutto nella lirica), l‟assenza di
«riflessione» sul linguaggio (qualificazione raramente ricordata dai discepoli continiani), astensione da esperimenti artistici (semmai confinati a lavori eccentrici rispetto ai
«testi fondamentali»), infine un‟idea di «Dio che interviene a sedare il tedio e consolare
la stanchezza»; di contro, ai danteschi perterrebbero «poliglottia degli stili e […] dei
generi letterari», «pluralità di toni e pluralità di strati lessicali», «interesse teoretico» verso la giustificazione di una propria «filosofia linguistica», «sperimentalità incessante»
(quella che indusse il prototipo a non concepire un canzoniere «organico» e a lasciar
interrotta «qualche opera teorica»), infine un‟«enciclopedia e dottrinale e stilistica» senza «centro», se non «all‟infinito, fuori» di sé.19 Come si vede, dunque, la lezione di
Contini è tutt‟affatto indifferente alle questioni della cosiddetta memoria culturale (fra
le quali, oltretutto, va sempre considerata la possibilità della convivenza di più modelli,
sia pur con diverse proporzioni e funzionalità) e si muove distante da quello «studio
delle fonti» che, come ben vide Fubini in una prudente contestazione di Croce del
1956, «quando non si esaurisce in un‟aneddotica spicciola e mira piuttosto che ad analogie generiche di situazioni, a particolari concreti del linguaggio di un artista, rilevando incontri o riprese di immagini, di voci e di […] metri», conduce il critico a «giustificare la propria impressione», ovvero a evitare quell‟impressionismo che è sempre alle
viste quando si cerca il «soffio di possente attuale poesia», come volevano i critici idealisti, o si dà centralità alla nozione sfuggente di «tono», come facevano i critici stilistici.20
Certo una scossa sarà data dall‟altissima temperatura teorica delle riflessioni di Adelia Noferi, nel 1971, e dello stesso Bigongiari, come ricordavo all‟inizio, nel 1977: alla
prima si deve l‟aver indicato come «nostro» non solo il Dante «continiano», generativo
della «linea del plurilinguismo, dell‟espressività, della sperimentazione», ma quel Dante
che costruisce la sua immensa opera come esperienza razionale dei «rapporti tra mente, linguaggio e realtà» e del principio della «responsabilità umana nella utilitas delle cose e dei suoi atti», che ha visto convergere intorno alla Commedia diverse «zone della
cultura novecentesca», ma soprattutto la «poesia „metafisica‟ indicata da Montale, e che
oltre Montale si prolunga, […] e che può identificarsi con l‟area operativa
dell‟esperienza poetica e critica o poetico-critica del così detto Ermetismo».21 Bigon19 GIANFRANCO CONTINI, Preliminari sulla lingua del Petrarca, in «Paragone», aprile 1951; poi col titolo
La lingua del Petrarca, in AA.VV., Il Trecento, Firenze, Sansoni, 1953; infine, nuovamente col titolo originario, in G. CONTINI, Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970: si cita dalla ristampa del 1979, pp.
169-192.
20 MARIO FUBINI, A proposito di una vecchia questione: lo studio delle «fonti» (1956), in IDEM, Critica e poesia,
Roma, Bonacci, 1973, pp. 46-55.
21 ADELIA NOFERI, Dante e il Novecento, in «Studi danteschi», XLVIII, 1971, pp. 185-209. Nella sua ultima conferenza dantesca Luzi, pur ricordando «il convincimento diffuso che il senso di un‟opera così
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giari, dal canto suo, pur rimanendo, sul piano terminologico, all‟interno della codificazione continiana, protestò la discendenza del «particolare monolinguismo ermetico»
non già da quello petrarchesco, nel quale il linguaggio «si scorpora», cioè perde la fisicità della materia per svolgersi «nei suoi valori emblematici», bensì dal «discorso dantesco, come discorrere implicante dal volgare basso dell‟Inferno al volgare visivo e illuminato del Purgatorio, fino al volgare puramente mentalizzato del Paradiso», secondo
uno sviluppo, dunque, diacronico e, per questo, pluringuistico, in quanto caratterizzante in maniera differente le tre parti del Poema. «L‟ermetismo», invece, proseguiva
Bigongiari, «ha voluto trovarsi una lingua poetica che dicesse tutto, […] un discorso
che non rifiuta nulla della propria provocazione storica», ma ha sviluppato la lezione
dantesca «in maniera prevalentemente sincronica»,22 cioè concentrando nella materia
ad altissima densità gravitazionale delle parole, «buchi neri dello spazio», «pigne / di
materia e di tempo» secondo un Luzi teatrale,23 «ciò che per l‟universo si squaderna»
(Par. XXXIII, 87), dunque mirando direttamente all‟alterità irriducibile del Paradiso, laddove la metafora ha dovuto liberarsi della sua originaria parentela con la similitudine
per attingere quella profondità che si può raggiungere solo per via analogica.
D‟altra parte, che la questione di una poesia pluristilistica fosse mal posta lo vedeva
molto acutamente proprio Cesare Segre, il quale coglieva nella monovocità o monodia
lo statuto proprio di qualunque lirica, foss‟anche quella d‟avanguardia, poiché, salvo
rare eccezioni, il poeta, a differenza del narratore e del drammaturgo, non deve partitamente parlare le diverse lingue (cioè le differenti «intenzioni» e opinioni) dei personaggi, ma assume preliminarmente una „maschera‟ stilistica, non importa quanto distante dalla lingua della realtà.24 Come dire, insomma, che anche Sanguineti dev‟essere
considerato propriamente monovoco (o monodico), perché è sempre coerente col
proprio sistema stilistico. Per questo, se vogliamo rationabilius investigare quel Dante altrimenti redolentem ubique et necŭbi apparentem, proprio come la panthera in cui egli allegorizzava il volgare illustre (DVE I XVI 1), mi pare del tutto necessario che si attribuisca
il giusto rilievo euristico al cospicuo filone di ricerca intertestuale che si è imposto solo
a partire dagli anni Novanta, grazie ai numerosi studi di Scorrano25 e di qualche autore
più giovane, giusta gli auspici di Guglielminetti, che, pur confermando fino all‟ultimo
un certo disinteresse a compulsare le pagine dei poeti italiani degli anni Dieci, suggeriva nel 1999 «di lavorare sul concreto», utilizzando i lessici a disposizione.26 Per questa
alta dovesse essere seminascosto e accessibile solo per gradi e per rivelazioni successive agli eletti», insiste
sul carattere primariamente salvifico della Commedia: «e questa opera missionaria è da condividere umanamente, attraverso la lingua e nella sanzione formale della poesia, con tutta l‟umanità smarrita» (Per la
salvezza, in «“Per correr miglior acque...”. Bilanci e prospettive degli studi danteschi alle soglie del nuovo
millennio», Atti del convegno di Verona-Ravenna, 25-29 ottobre 1999, Roma, Salerno ed., 2001, vol. I,
pp. 727-734: 729).
22 PIERO BIGONGIARI, L‟ermetismo e Dante, in «Dante nella letteratura italiana del Novecento» cit., pp.
203-216: 204.
23 M. LUZI, Libro di Ipazia, intr. di Geno Pampaloni, nota di Giancarlo Quiriconi, Milano, Rizzoli,
1978; ora in M. LUZI, Teatro, postfaz. di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1993, pp. 5-101: 7.
24 Cfr. C. SEGRE, Intertestuale-interdiscorsivo. Appunti per una fenomenologia delle fonti, in COSTANZO DI GIROLAMO, IVANO PACCAGNELLA (a cura di), La parola ritrovata. Fonti e analisi letteraria, Palermo, Sellerio,
1982, pp. 15-28.
25 LUIGI SCORRANO, Modi ed esempi di dantismo novecentesco, Lecce, Adriatica editrice salentina, 1976; IDEM, Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento, Ravenna, Longo, 1994; IDEM, Il Dante
„fascista‟. Saggi, letture, note dantesche, Ravenna, Longo, 2001, pp. 129-130.
26 M. GUGLIELMINETTI, Dante e il Novecento italiano, in «“Per correr miglior acque…”», cit., vol. I, pp.
515-531: 516. Lo studioso non poteva saperlo quando stendeva questa relazione, ma fra il 1995 e il 1998
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via la ricerca delle fonti – tenuta da Croce come inutile erudizione27 – transita dal
campo della critica testuale a quello della semiotica filologica, giacché le citazioni lessicali e sintagmatiche che abbiano un carattere di consenso tanto quanto di contrapposizione, come suggerisce Anna Dolfi,28 si costituiscono come „sistema‟ di figure retoriche, la cui decodifica è essenziale al commento del microtesto e spesso anche
all‟interpretazione di una poetica generale.
Il terreno del dantismo novecentesco è, sotto questo rispetto, ricchissimo di casi
davvero esemplari, come quello di Caproni, che si colloca, in un‟ideale parabola della
fenomenologia ermetica, in prossimità del capo opposto a quello della teofania, ovvero quello di un vuoto disincantato. Significativo che, dopo aver consegnato alle Stanze
della funicolare (1952), un‟immagine di attesa dell‟amata, destinata a culminare non solo
nella delusione, ma persino in un presagio di morte (pensiamo ad Alba, poi collocata
programmaticamente in apertura dell‟editio ne varietur del Passaggio d‟Enea), Caproni salderà, sì, questa topica stilnovistica con un macroscopico immaginario purgatoriale –
fissando così la nostra impressione di poeta che elabora delle sue proprie „convergenze
parallele‟ rispetto all‟ermetismo fiorentino –, ma nel libro che meglio certifica questo
paradigma, Il seme del piangere, quella tentata proiezione salvifica pare invariabilmente
tradita ed esposta all‟immedicabilità dell‟assenza. Il libro si apre, dopo l‟esergo che
precisa il titolo, con una lirica dall‟attacco palesemente cavalcantiano («…perch‟io, che
nella notte abito solo», memore della celebre ballata dell‟esilio: «Perch‟i‟ no spero di
tornar giammai, / ballatetta, in Toscana, / va‟ tu, leggera e piana, / dritt‟a la donna
mia», e più avanti: «se tu mi vuoi servire / mena l‟anima teco»), un‟allusione inizialmente assente (la prima redazione iniziava con «…e anch‟io») e poi inserita al momento di scegliere il frammento come proemio alla sezione dei “Versi livornesi”, dando
un‟intonazione musicale da cui il lettore non potrà prescindere quando leggerà
l‟attacco di Preghiera: «Anima mia, leggera / va‟ a Livorno, ti prego», poi variato in questi versi di La gente se l‟additava: «come vorrei che intorno / andassi tu, canzonetta», e in
questi altri dell‟Ultima preghiera: «Anima mia, fa‟ in fretta. / Ti presto la bicicletta, / ma
corri». Com‟è noto, si tratta dell‟omaggio all‟amatissima madre, Anna Picchi, da poco
scomparsa, per la quale il poeta inventa il più squisito e insieme straniato canzoniere
stilnovistico del Novecento, facendo leva proprio sul topos della ballata d‟omaggio indirizzata alla donna, ben canonizzata anche da Dante nel cap. V della Vita nova («Ballata, i‟ vo‟ che tu ritrovi Amore, / e con lui vadi a madonna davante»), ma ricca della
avevo intrapreso proprio questa strada, tentando una catalogazione sistematica dei dantismi del Novecento, affiancando alle concordanze dantesche il Vocabolario della poesia italiana del Novecento di GIUSEPPE
SAVOCA (Bologna, Zanichelli, 1995), giustamente definito da Guglielminetti «prezioso». Quel mio lavoro
era nel 1999 affidato alle cure delle edizioni Palomar di Bari e uscì nel 2000 con un titolo (Vocabolario dantesco della lirica italiana del Novecento) che voleva proprio alludere all‟opera di Savoca.
27 BENEDETTO CROCE, La ricerca delle fonti. Prefazione a una miscellanea di «fonti» letterarie e Noterella polemica, in Problemi di estetica, Bari, Laterza, 1910, pp. 488-504; IDEM, Poesia poetica e poesia letteraria, in Letture di
poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della poesia, Bari, Laterza, 1950, pp. 307-308.
28 «Non sarà il caso di chiederci […] se quella del rovesciamento non sia anche per noi la vera forma,
quella più probante del dantismo novecentesco? E non è poi forse, quella del rovesciamento, la forma di
ogni rapporto possibile, di ogni -ismo rilevato o tentato?»: ANNA DOLFI, Dante e i poeti del Novecento, in
«Studi danteschi», LVIII, 1986, pp. 307-342; con poche variazioni e col titolo Dante e la poesia italiana del
Novecento tra III e IV generazione, il saggio è apparso in «Dantismo russo e cornice europea», Atti dei convegni di Alghero-Gressoney, 1987, a cura di Egidio Guidubaldi, Firenze, Olschki, 1989, vol. II, pp. 137154; infine, nella primitiva redazione, in EADEM, Le parole dell‟assenza. Diacronie sul Novecento, Roma, Bulzoni, 1996, pp. 5-53 (il passo citato è qui a p. 13).
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sfumatura cavalcantiana dello sradicamento, della distanza non sai se per la scomparsa
dell‟amata o per la perdita della patria da parte dell‟amante, tema che è sempre presente in Caproni.29
Il libro del 1959 è in effetti il canto elegiaco di un discidium amoroso e geografico che
si allarga a includere un sentimento di desolazione e melanconia per lo stato di «irrazionalità» in cui versa l‟Europa postbellica.30 E nel punto di maggior contatto col Luzi
del Quaderno gotico e poi di Dal fondo delle campagne (pur esso canzoniere per il lutto materno) si coglie, tuttavia, la differenza più decisiva, affidata proprio al „segno‟ dantesco
del titolo: come avvenne, ad esempio, per le Myricae pascoliane che nella loro orgogliosa affermazione titolare rovesciano la negazione della fonte virgiliana («[…] paulo maiora canamus. / Non omnes arbusta iuvant humilesque myricae»), così nell‟intestazione di Caproni scompare l‟invito di Beatrice a non alimentare più il proprio dolore («pon giù il
seme del piangere ed ascolta», Purg. XXXI, 46) e permane il tono perentorio di quel
pianto, dilatato in un oltretempo privo di consolazione e salvezza. Di qui a considerare
l‟intera esistenza come prigionia entro il muro della terra31 non è che un passo, facilitato
anche dalla mediazione di alcuni versi montaliani, ben amati da Caproni, che dal 1925
hanno fissato l‟allegoria di una Città di Dite novecentesca: «com‟è tutta la vita e il suo
travaglio / in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia».
Ma il Dante di Caproni non è solo quello delle due maggiori esibizioni paratestuali, è
anche quello che, con più originalità, si occulta sotto il pretesto fine-settecentesco del
Conte di Kevenhüller (1986), laddove la caccia alla «Bestia» si configura, oltre che come
impossibile estroflessione del Male ontologico, anche come ricerca della Parola perfetta, e in ciò è ispirata alla profumata «pantera» del De vulgari eloquentia, come induce a
ritenere un discorso tenuto da Caproni a Genova nel 1985 e come hanno ipotizzato
Agamben e Surdich.32 Ed è ancora quello che nelle postreme poesie suggeriva al poeta
livornese l‟immagine risentita del mondo come «paese guasto» o «terra guasta»33 (con
traduzione etimologica della Waste land di Eliot), nonché una sofisticata rielaborazione
irrazionalistica del «legame musaico», che nel I libro del Convivio costituisce il fondaRicostruisce la sottile tramatura stilnovistica dei Versi livornesi, persino in ordine alle scelte metriche
LORENZO SOMELLI, Un «esperimento cavalcantiano» (e dantesco): i «Versi livornesi» di Giorgio Caproni, in «Filologia & Critica», XXVIII, 3, settembre-dicembre 2003, pp. 443-457.
30 Cfr. FLORA DI LEGAMI, «Il seme del piangere» e il desiderio di un oltre. Parole di essenza e di assenza in Dante,
Caproni, Giudici, in «“Per correr miglior acque…”» cit., vol. II, pp. 875-897; e anche, nonostante qualche
eccesso nelle ipotesi intertestuali, RONALD DE ROOY, Controcanti danteschi nella poesia di Giorgio Caproni, in
IDEM,«Il poeta che parla ai poeti». Elementi danteschi nella poesia italiana ed anglosassone del secondo Novecento, Firenze, Cesati, 2003, pp. 65-84.
31 È tanto „necessaria‟ per il libro del 1975 la chiave infernale che Caproni rimane a lungo indeciso fra i
titoli Orgoglio e dismisura (da Inf. XVI, 74), Tristissima copia (da Inf. XXIV, 91) e, appunto, Il muro della terra (da
Inf. X, 2). Sul versante di questi echi infernali si concentra ANNA MARIA COTUGNO, Nell‟inferno del presente:
Giorgio Caproni e Dante, in EADEM, Icone dantesche. Il neo-stilnovismo di Giosuè Borsi e Giorgio Caproni, Fasano,
Schena, s. d. (ma 2003), pp. 115-165.
32 Cfr. GIORGIO AGAMBEN, La caccia della lingua, in «il Manifesto», 23 gennaio 1990, p. 12; LUIGI SURDICH, Dante, Caproni, il dialogo con le ombre, in DOMENICO COFANO et alii (a cura di), Dante nei secoli. Momenti
ed esempi di ricezione, Foggia, Edizioni del Rosone, 2006, pp. 185-218: 203; qui si riferisce dell‟inedito discorso tenuto al Politeama di Genova il 13 marzo 1985.
33 GIORGIO CAPRONI, Versicoli quasi ecologici (da Res amissa): «sospira nel sempre più vasto / paese guasto»; Dinanzi al Bambin Gesù, pensando ai troppi innocenti che nascono, derelitti, nel mondo (da Poesie disperse): «[…]
quanti / suoi simili, in tremore, / nascono ogni giorno in questa / Terra guasta!…»: entrambe in IDEM,
L‟opera in versi, a cura di Luca Zuliani, contributi di Pier Vincenzo Mengaldo e Adele Dei, Milano, A.
Mondadori, 1998, pp. 788 e 961-962 (il corsivo è nel testo).
29
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mento della poesia,34 e che in Res amissa (1991) e nelle interviste del suo ultimo anno
sostiene ripetutamente un ragionamento sull‟irriducibilità della letteratura alla logica
grammaticale.35
Parimenti contrastivo, ma con più segreto procedimento allusivo, è il titolo purgatoriale del capolavoro di Sereni, Gli strumenti umani (1965), che non è che la parafrasi
prosaica degli «argomenti umani» sdegnati dall‟«angel di Dio» in Purg. II, 29-43, un episodio che a sua volta cela, come si sa, la confutazione della superbia intellettuale di Ulisse: mentre costui aveva preteso di usare i «remi» come «ali al folle volo», finendo
con «la poppa in suso» (Inf. XXVI, 124-142), il nocchiero celeste «remo non vuol, né
altro velo / che l‟ali sue», per doppiare le Colonne d‟Ercole e raggiungere la montagna
santa, senza toccare «l‟acqua». La plausibilità di questo intertesto emergerebbe se ci
dedicassimo alla rilevazione delle altre numerose e più „vischiose‟ allusioni al canto di
Ulisse che Sereni dissemina nella sua opera e particolarmente negli Strumenti umani: ma
qui, fedele all‟intento espresso inizialmente di non lasciarmi catturare dal demone delle
fonti, me ne asterrò, limitandomi a osservare che anche il poeta lombardo, muovendo
da premesse stilnovistiche che talora punteggiano Frontiera (con l‟«ondulato passare»
della defunta Diana fra le strade della città, mentre l‟«aria […] ne sobbalza» e qualcuno
ne «mormora» il «fiero nome»), sceglie poi di percorrere il tempo storico come risalita
di una montagna che impone assunzioni di responsabilità e conseguimento di una
chiarezza gnoseologica, proprio come nel Luzi degli anni Cinquanta-Sessanta, incardinati su quella eloquente «fila d‟anime lungo la cornice, / chi pronto al balzo, chi quasi
in catene» di Onore del vero.36
Ma «non c‟è, in Sereni, una verità assoluta alla quale si è certi di pervenire alla fine
del viaggio […]. Non c‟è discesa agli inferi e salita all‟empireo»;37 d‟altra parte, persino
l‟esperienza bellica ha avuto per lui il carattere dell‟isolamento e della sospensione
purgatoriale, al punto che il Diario d‟Algeria è privo di quelle tonalità orfiche che sono
visibili in opere di analoga tematica a metà Novecento.38 E dove non c‟è propriamente
34 Convivio, I VII 14: «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può
della sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia»; in DANTE ALIGHIERI, Opere, ed. diretta da Marco Santagata, Milano, A. Mondadori, 2014, vol. II, pp. 3-805: 146.
35 G. CAPRONI, Ahi mia voce… (da Res amissa): «Anche se per legame / musaico armonizzata»; In lode del
«Singolo» (ivi): «anche se puramente / musaico […]» (entrambe in IDEM, L‟opera in versi cit., pp. 826 e 870872); Una straziata allegria, intervista di DOMENICO ASTENGO, in «Corriere del Ticino», 11 febbraio 1989:
«Non ho mai creduto che la poesia la si possa ridurre in termini logici: […] perfettamente d‟accordo, su
tale tasto, con Dante, quando testualmente scrive: “E però sappia […]”. È una frase che ho imparato a
memoria»; Su e giù come un minatore, intervista di EUGENIO MANCA, in I ferri del mestiere, suppl. a «l‟Unità»,
15 dicembre 1989: «Lo stesso Dante, del resto, e sempre a proposito dell‟assoluta intraducibilità della
poesia, è esplicito quanto testualmente scrive nel Convivio: “E però sappia […]”».
36 La notte lava la mente (lirica conclusiva di Onore del vero di Luzi, nel 1990 utilizzata per la riduzione teatrale del Purgatorio, allestita per la regia di Federico Tiezzi) è posta a confronto con una lirica degli Strumenti umani (La spiaggia) in un saggio di S. RAMAT, Purgatorio e inesistenza in due testi poetici medionovecenteschi
(1977-1979), in «Paradigma», 3, 1980, pp. 383-403. Stupisce che non abbia colto il valore «ideologico» di
questa lirica un successivo saggio di LAURA TOPPAN, Da «Primizie del deserto» a «Su fondamenti invisibili»: il
dantismo „ideologico‟ di Luzi, in «Studi novecenteschi», 53, 1997, pp. 147-174; consideriamolo un refuso,
come quello per cui, a p. 158, «il celestial nocchiero» di Purg. II, 43 viene scambiato per «Catone, il traghettatore del Purgatorio».
37 L. SCORRANO, Dantismo „trasversale‟ di Sereni, in «L‟Alighieri», XL, n.s. 14, luglio-dicembre 1999, pp.
41-76: 75.
38 PAOLO BALDAN (Tra storia e memoria [«Diario d‟Algeria» di Vittorio Sereni], in «La rassegna della letteratura italiana», LXXVII, 3, settembre-dicembre 1973, pp. 599-618: 608) scrive: «Il prigioniero Sereni […]
57
inferno, ma nemmeno è attesa una resurrezione, rimane la possibilità di una navigazione nella Storia con gli «argomenti umani», quelli che il poeta aveva ricevuto dalla
tradizione illuministica e poi positivistica milanese e che utilizza per sollecitare il suo
colloquio con i morti, attraverso il quale certifica a se stesso una coscienza provvisoria
ma dignitosa.39 Va accolto, dunque, il suggerimento di Beatrice Carletti circa la criptoallusione dantesca contenuta anche nell‟ultimo titolo sereniano, Stella variabile,40 ma a
patto di rivedervi una metafora conviviale della «scrittura» dimostrativa di una «scienza» umana, senza alcun rapporto, se non di tipo oppositivo, con la «stella» del successo
additata da Brunetto, né tanto meno con le «stelle» che chiudono teleologicamente le
tre cantiche; il poeta lombardo, piuttosto, declina così il suo ermetismo laico, ignaro di
«stelle fisse» e di corrispondenze esatte fra il «Cielo stellato» e le due scienze supreme,
la fisica e la metafisica,41 e rivolto semmai alla dottrina minimalista di una poesia della
mutevolezza, della ricerca incessante e della memoria.
Forse il filo del ragionamento che ho cercato di tenere sin qui mi avrà consentito di
„falsificare‟ popperianamente l‟ipotesi che ho collocato in testa a questo mio intervento, non solo confermando l‟utilità storiografica della categoria di ermetismo, qualora
vengano fatte salve le autonomie dei percorsi e vengano cancellate le ipoteche ora stilistiche ora ideologiche che ne hanno condizionato la lettura per troppo tempo, ma
anche rintracciando nel culto, nell‟assimilazione e nella „riscrittura‟ di Dante uno dei
tratti fondanti dell‟area metafisica della poesia italiana del secondo Novecento, non
meno di quanto sia avvenuto fra le fila dello sperimentalismo o del realismo.42 Potrà
si inoltra in situazioni di tipo purgatoriale ossia la sua impoverita realtà biografica di recluso viene invasa
dalla contigua sfera extra-sensoriale che la trasfigura offrendole appunto tinte da purgatorio».
39 «L‟interrogazione sul tempo (della vita) e sull‟oltretempo» e «il gruppo dei testi, “Apparizioni e incontri”, dedicati al „ritorno dei morti‟» costituiscono l‟approdo di un saggio di CLAUDIO SCARPATI, Immagini dell‟oltretempo nella poesia di Vittorio Sereni, in GIOVANNA BARLUSCONI (a cura di), «Letteratura e religione in Europa III», Atti del convegno di Milano, 27-30 settembre 1995, num. speciale di «Testo»,
XVIII, 33, gennaio-giugno 1997, pp. 64-75; il testo capitale di questa serie del poeta di Luino è Intervista a
un suicida, su cui si concentra PETER ROBINSON («Una fitta di rimorso»: Dante in Sereni, in N. HAVELY [ed.],
Dante‟s Modern Afterlife. Reception and Response from Blake to Heaney, Houndmills-Basingstoke [UK], Palgrave,
1998, pp. 185-208: 191), per il quale «His lifelong sense of intimate contact between the living and the
dead is sustained by the everpresent example of Dante». Noto con piacere che Sereni, Caproni e Luzi, in
particolare per le rispettive raccolte di metà anni Sessanta, vengono allineati per la matrice dantesca degli
«incontri con le ombre», dell‟«andamento teatrale» e dei «paesaggi spogli e diroccati» in un articolo di FABIO MOLITERNI, Visioni dantesche nella poesia italiana del secondo Novecento, in «Nuove Lettere», 13, 2008, pp.
97-104; poi in IDEM, Il vero che è passato. Scrittori e storia nel Novecento italiano, Lecce, Milella, 2011, pp. 226236.
40 Cfr. BEATRICE CARLETTI, Presenze di Dante nella poesia di Vittorio Sereni, in «Studi e problemi di critica
testuale», 67, 2º semestre 2003, pp. 169-195.
41 Nel Convivio (in D. ALIGHIERI, op. cit., p. 338), descrivendo la struttura del cosmo, Dante afferma che
«All‟ottava spera, cioè alla stellata, risponde la scienza naturale, che Fisica si chiama, e la prima scienza,
che si chiama Metafisica» (Cv II XIII 8; ragionamento poi articolato in XIV 1-13); subito dopo, sviluppando in chiave metaforica il rapporto fra stelle e scienza, scrive che «in ciascuna scienza la scrittura è stella
piena di luce» (Cv II XV 1). Cfr. MARCELLO AURIGEMMA, Stellato, Cielo (o Cielo delle Stelle fisse), in Enciclopedia dantesca, diretta da Umberto Bosco, Roma, Istituto dell‟Enciclopedia Italiana, 1976, vol. V, pp. 429431.
42 Le opposte «categorie di „realismo‟ e „metafisica‟», fra le quali si apre il ventaglio del «recupero di
Dante nel secondo Novecento», sono colte con molta intelligenza da MARIANNA COMITANGELO in uno
dei contributi più completi sul tema: Oltre Contini: il dantismo nella storia della critica e delle poetiche da Montale a
Majorino, in «Dante», IX, 2012, pp. 69-86. Il saggio compare in una sezione che dal 2007 questa rivista
internazionale dedica al “Dante contemporaneo”.
58
trattarsi, allora, di un «meta-Dante»,43 cioè di un classico reinterpretato e riscritto per
frammenti minimi o larghe campiture, non tanto a maggior gloria linguistica del poeta
novecentesco, quanto al fine di far intravedere, sia pur quali «postille / debili sì, che
perla in bianca fronte / non vien men forte a le nostre pupille» (Par. III, 13-15), linee
ideologiche ancora in grado di raccontare il mondo, il nostro e forse anche l‟altro, di
renderlo riconoscibile e accettabile anche all‟uomo perennemente smarrito nella selva
oscura della contemporaneità.
43 MARIO MUSTI, Rinnovato dantismo nella lirica di Mario Luzi, in «Il Veltro», ottobre-dicembre 1971, pp.
642-647: 643.
ATTESA ED EPOCHÉ: IL “LIBRO DI IPAZIA”
COME AUTOBIOGRAFIA DELL‟ERMETISMO
Composto in un arco di tempo piuttosto lungo,
dal 1969 al 1977, il Libro di Ipazia è la prima pièce di
Mario Luzi (escludendo il caso isolato di Pietra
oscura, risalente al 1947, ma perduta e ritrovata solo nel 1994). Vi si mette in scena la storia di Ipazia,
ultima rappresentante della filosofia neoplatonica
all‟inizio del sec. IV a. C., assassinata dai monaci
parabalani, milizia fanatica al servizio del vescovo
Cirillo. Luzi le affida il ruolo di icona della fibrillazione in cui versava Alessandria d‟Egitto al momento della propagazione della nuova fede. Forzando la filologia con gli strumenti della poesia, il
dramma mette al centro Sinesio, allievo di Ipazia,
ma anche uomo animato dalla necessità di aprirsi
alle nuove sensibilità. Sinesio è l‟allegoria
dell‟uomo ermetico, che avverte il tempo presente
quale spazio di frizione e soluzione dialettica fra
passato e futuro, e per questo solo alla sua sensibilità di uomo che si è aperto alla nuova fede, senza
dimenticare la sua amata maestra, è consentito di
guardare con fiducia in avanti, verso quell‟ignoto e
atteso « messaggero » che altri vorrebbe ostacolare
e che Sinesio, al contrario, anela di incontrare.
Composed during a considerably long period of time, from
1969 to 1977, the Libro di Ipazia is the first piéce by
Mario Luzi (apart from the isolated case of Pietra oscura, dating back to 1947, but lost and found again only in
1994). On stage is the story of Ipazia, last representative of
the Neoplatonic philosophy at the beginning of IV cent.
B.C., assassinated by Parabalani monks, a fanatic militia
at the service of bishop Cirillo. Luzi gives her the role of the
icon of the agitation characterizing Alexandria at the moment of the propagation of the new faith. Forcing the philologist with the instrument of poetry, the drama puts at its
centre Sinesio, pupil of Ipazia, but also man animated by
the necessity to open to new sensibilities. Sinesio is the allegory of the hermetic man, living time present as a space of
friction and dialectical solution between past and future, and
for this reason, only to his sensibility of man who opened to
a new faith, without forgetting his beloved teacher, he can
look ahead with confidence, towards that unknown and
expected „messenger‟ that others would like to hamper and
that Sinesio, on the contrary, longs to meet.
Q
nel 1969 Luzi mette mano al primo nucleo del Libro di Ipazia127 – il dialogo fra Sinesio e Jone che occupa la sc. II dell‟atto I –, quello che verrà ricordato come l‟esordio teatrale del poeta fiorentino è, in verità, il punto culminante di un percorso di scrittura che palesa l‟esigenza di accompagnare al momento
„contemplativo‟, prevalente nella lirica, quello „dialogico‟, che nella drammaturgia non
può che trovare l‟espressione più compiuta. Non è certo un caso se proprio nell‟anno
in cui Luzi aveva dato alle stampe Quaderno gotico, il 1947, prendendo congedo dalle
tonalità del proto-ermetismo e lasciando emergere le prime tracce di un‟attenzione alla
storia contemporanea per via allegorica128, egli componeva la sua prima vera opera
teatrale, Pietra oscura, destinata a una recita radiofonica, poi annullata dalla censura che
ne impedì anche la stampa129: già in questo originario tentativo, infatti, trova evidenza
la necessità di dar voce a un conflitto di coscienza, l‟«ininterrotta disputa», come si
leggerà nell‟Epilogo del Libro di Ipazia, fra la disperazione vissuta nell‟intimo e il doUANDO
127 La pièce nasce dapprima con l‟atto unico Ipazia, Milano, All‟Insegna del Pesce d‟Oro, 1972, a cui si
aggiunse Il messaggero, in «l‟Approdo letterario», 77-78, 1977; poi uniti nel Libro di Ipazia, introduzione di
Geno Pampaloni, nota di Giancarlo Quiriconi, Milano, Rizzoli, 1978; ora in MARIO LUZI, Teatro, postfazione di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1993, pp. 5-101. Si citerà la produzione teatrale sempre
da questa edizione.
128 MARIO LUZI, Quaderno gotico, Firenze, Vallecchi, 1947; ora in IDEM, L‟opera poetica, a cura e con un
saggio introduttivo di Stefano Verdino, Milano, A. Mondadori, 1998, pp. 131-154, apparato alle pp.
1410-1420. Si citerà la produzione lirica sempre da questa edizione.
129 Poi pubblicato a cura di Stefano Verdino, Porretta Terme, I Quaderni del Battello Ebbro, 1994.
60
vere di una responsabilità pubblica. È, invece, una coincidenza, ma forse non meno
foriera di conseguenze, che il 1947 sia molto probabilmente anche l‟anno dell‟incontro
con Cristina Campo, allora fidanzata del germanista e grecista Leone Traverso, alla
quale il poeta fece subito dono di un libro apparso postumo in Francia proprio
quell‟anno, La pesanteur et la grâce, in cui Simone Weil cercava una complessa sintesi di
platonismo, cristianesimo e marxismo, prefigurando quell‟idea di ricerca della verità
come sacrificio, che animerà il suo pensiero130.
Allorché proverà l‟impulso, oltre vent‟anni più tardi, di ritentare la via del teatro, Luzi accoglierà la suggestione di un ricordo che lo legava proprio a Traverso, scomparso
nell‟agosto del 1968, elaborando quello che inizialmente avrebbe dovuto essere un atto unico sul martirio della filosofa neoplatonica Ipazia e sull‟eredità intellettuale da lei
lasciata al vescovo Sinesio, di cui Luzi aveva letto in un libro prestatogli dall‟amico padovano forse nei tardi anni Cinquanta. L‟Ipazia di Luzi riceverà proprio i caratteri weiliani (e, in fondo, campiani)131 della donna che fa della ricerca della verità la misura
della sola fede possibile, rinunciando al riparo di qualunque religione o convenzione o
istituzione, anche a costo di un martirio vissuto consapevolmente. Nel frattempo,
però, molto è cambiato nello stile del poeta: le traduzioni, nel 1958, dell‟Andromaque di
Racine132 e, nel 1965, del Riccardo II di Shakespeare133, entrambe di elevato carattere
letterario, eppure felicemente utilizzate nelle rispettive messe in scena (per la televisione italiana la prima; per il Teatro Stabile di Torino la seconda) hanno accompagnato Luzi verso il dialogo come necessità stilistica della scoperta del „differente‟, come
sperimentazione di una contaminazione linguistica che consentisse, finalmente, al soggetto lirico di non fagocitare l‟altro-da-sé, restituendogli autonomia e dignità contestativa.
L‟attuale ricerca investe dapprima la stessa produzione lirica, come dimostra quel
capolavoro che è Nel magma, nell‟editio princeps del 1963 e nella ne varietur del 1966, in
cui l‟io accetta di esser messo „tra parentesi‟, di essere, cioè, relativizzato nel confronto
con altre „verità‟ e altre „testimonianze‟134. Restio ad accogliere l‟invito a scrivere un libretto d‟opera per Antonio Veretti o, meglio, «un‟azione poetica capace di eccitare
130 Per la circostanza e la cronologia rinvio alla testimonianza contenuta nell‟articolo di MARIO LUZI,
Quella volta che in giardino le regalai un libro di Simone Weil, in «la Repubblica», 20 aprile 1998. GINA CAFARO
(Cristina Campo, perdita e sacrificio, in «incroci», XIV, 28, luglio-dicembre 2013, pp. 107-117: 111) affianca
quest‟informazione a un‟altra, contrastante, secondo la quale sarebbe stato «Gianfranco Draghi a portare
quel libro in dono alla Campo da Parigi».
131 STEFANO VERDINO (curatore delle Conversazioni sul cristianesimo contenute in MARIO LUZI, La porta
del cielo, Casale Monferrato [AL], Piemme, 1997, p. 122) vede nel destino che Luzi attribuisce a Ipazia
«anche la dolorosa uscita dalla sua forma mentis» idealistica, ontologica ed elitaria per accettare la «prova» di
un martirio di tipo cristiano. Alla sua domanda «Ipazia è un po‟ la Cristina Campo?» il drammaturgo risponde: «Potrebbe essere. Cristina e Franca B[acchiega], altra donna di valore, a me carissima» (ibid.).
132 La versione fu pubblicata nel volume collettaneo Il teatro francese del gran siècle, Roma, ERI, 1960; poi
autonomamente in JEAN RACINE, Andromaca, Milano, Rizzoli, 1980. Secondo GIANCARLO QUIRICONI
(Scene dal grande patema. Elementi per il teatro di Mario Luzi, in MARIO LUZI, Teatro, Garzanti, Milano 1993,
pp. 497-520: 502), è in particolare «Racine, quasi di confine tra i canoni della tragicità classica e il senso
moderno della drammaturgia [che] consente a Luzi di interrogarsi sulla sopravvivenza della nozione di
tragico nella contemporaneità, […] in un mondo ormai disertato dalla presenza del sacro e svincolato
dalla certezza di leggi inoppugnabili».
133 WILLIAM SHAKESPEARE, Riccardo II, Torino, Einaudi, 1966.
134 MARIO LUZI, Nel magma, Milano, All‟Insegna del Pesce d‟Oro, 1963; ed. accresciuta Milano, Garzanti, 1966; ora in IDEM, L‟opera poetica, cit., pp. 311-352; apparato alle pp. 1526-1559.
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un‟azione analoga nel musicista»135, Luzi è però ormai nuovamente affascinato dalla
possibilità di tornare al teatro, confortato dalle prove traduttive di solo pochi anni
prima, e la circostanza dello smarrimento del libro di Sinesio, cercato invano nella biblioteca di Traverso136, non fa che acuire il fascino di un episodio accaduto all‟inizio del
sec. V d.C., i cui contorni reali, però, parevano evanescenti, minimi, irrimediabilmente
feriti dall‟oblio e perciò bisognosi di un „restauro‟ per via fantastica. Tutta la migliore
critica che si è cimentata col Libro di Ipazia (soprattutto Uberto Motta e, più recentemente, Laura Piazza) ha dedicato particolare attenzione alla decifrazione del suo Prologo, una lirica che, se fosse stata «una poesia autonoma», avrebbe avuto il titolo di
Rovello137: di questi trentadue versi importa, evidentemente, spiegare il senso della
doppia negazione iniziale: «La molto allusiva equivalenza dei tempi… No, / e nemmeno il parlottare per interposte larve / di un male nostro confessabile in altri»138.
Dal che si ricava di solito, quale principio di poetica che avrebbe retto l‟operazione,
la presa di distanze da ogni forma di attualizzazione e la collocazione del dramma su
un fondale di riflessione metastorica priva di riferimenti alla contemporaneità139, salvo
poi dover ammettere di necessità che qua e là nel testo affiorino suggestioni di avvenimenti o atmosfere proprie degli anni di piombo, mentre, più in generale, lo stesso
cronotopo di Alessandria d‟Egitto appare ai più una trasposizione della moderna inquietudine metropolitana140. Probabilmente, a mio modo di vedere, la prima negazione intendeva mettere il drammaturgo al riparo dagli «storici» e dagli «storicisti»,
adombrati nella postfazione apparsa nell‟edizione in volume del 1978141, già scontentati per la rielaborazione molto libera dei contenuti filologici (basti pensare al falso dato
del matrimonio di Ipazia con un certo Isidoro o alla scelta di far sopravvivere Sinesio
alla filosofa o al suo essere indicato come vescovo di Cirene, anziché di Tolemaide),
ma forse rassicurabili con la netta distinzione fra antichità cristiana e attualità novecentesca. La seconda negazione, come ha ben visto Pierpaolo Fornaro142, diventa, invece,
più perspicua se spiegata in antitesi alle coeve esperienze di riscrittura dell‟antico operIDEM, Fu così che, postfazione datata «novembre 1977» apposta al Libro di Ipazia, pp. 97-101: 98.
Il poeta (ivi, p. 97) afferma trattarsi di «una edizione italiana delle poesie greche e latine di Sinesio di
Cirene pubblicata […] nei medi o tardi anni Cinquanta»: il mancato ritrovamento del libro potrebbe essere dipeso da un ricordo davvero molto impreciso, poiché mi risulta che gli Inni di Sinesio siano stati
tradotti in italiano solo in quell‟anno 1968 (a cura di A. Dell‟Era), preceduti dalle versioni del De Providentia (a cura di S. Nicolosi, Padova, 1959) e di A Peonio sul dono (a cura di Giuseppina Stramondo, Catania,
1964). Forse Luzi ricordava l‟edizione non tradotta degli Hymni a cura di N. Terzaghi (Roma, 1939) o gli
Hymnes de Synésius de Cyrène, tradotti in francese da Mario Meunier (Parigi, Éditions du Bateau Ivre, 1947).
Il mistero della genesi di Ipazia rimane per ora irrisolto.
137 Così testimonia lo stesso MARIO LUZI, nella postfazione al Libro di Ipazia, cit., p. 100.
138 Ivi, p. 7.
139 È l‟interpretazione fissata, ad esempio, da LAURA PIAZZA (Il gesto, la parola, il rito. Il teatro di Mario
Luzi, pref. di Federico Tiezzi, Genova, il Melangolo, 2012, pp. 31-70: 34): «In maniera programmatica
Luzi si discosta dai due atteggiamenti opposti che possono caratterizzare la drammatizzazione di eventi
storici e di personaggi realmente esistiti. Il suo obiettivo non è porre in evidenza l‟„equivalenza‟ della crisi
di un‟epoca passata con quella dell‟epoca a noi contemporanea. Risulterebbe una forzatura ricercare una
troppo ostentata analogia tra i due periodi storici».
140 Ivi, p. 56: «è tuttavia naturale cogliere la continuità tra il carattere, configurato dalle notazioni topografico-spaziali, di un‟Alessandria dall‟atmosfera „malsana‟ […] e quello del paesaggio contemporaneo
carico di sinistri presagi di Presso il Bisenzio».
141 MARIO LUZI, Libro di Ipazia, cit., p. 100.
142 PIERPAOLO FORNARO, La scrittura dal moderno all‟antico: Caligola, Pilade e Ipazia, in AA.VV., Scritture e
riscritture teatrali, pref. di Giorgio Bàrberi Squarotti, Torino, Tirrenia, 1998, pp. 153-159.
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ate da Pasolini: mentre questi ricorre alle figure classiche come «pretesto», come «interposte persone» (e tanto le luziane larvae quanto le pasoliniane personae mantengono
una chiara filigrana metateatrale, nel significato latino di „maschere‟), attirando l‟antico
(non a caso mitologico e non storico) verso il centro vieppiù sociologico e autobiografico intorno a cui ruota la sua scrittura negli anni Sessanta e Settanta – sicché si può
dire che Pasolini „mitizzi‟ il presente storico –, Luzi, all‟opposto, è attratto dalla significazione perenne di certi eventi storici (remoti e recenti), conservati nella propria datità
eppure indagati per ciò che rivelano di dinamiche metastoriche, ripetibili in varie
epoche e, pertanto, utili ad alimentare una funzione etica della conoscenza: e in questo
senso si può dire che Luzi „attualizzi‟ il passato storico.
Primo paradigma di questa „ripetibilità‟ non degli accadimenti in sé, ma della lezione
ricavabile dalla Storia e, dunque, implicita ammissione in verbis della possibile «equivalenza dei tempi» è proprio la struttura del dramma, con quella sua costruzione così
scrupolosamente simmetrica nello sviluppo e nella misura dei due atti, il secondo dei
quali, dal titolo Il messaggero, fu scritto solo nel luglio del 1976 (e pubblicato a sé stante
su rivista nel 1977) a ben cinque anni di distanza dalla recita radiofonica di Ipazia (25
dicembre 1971), inizialmente concepito come atto unico e concluso dall‟arrivo della
notizia dell‟assassinio di Ipazia143: «[…] irruppe un‟orda fanatica, / mani e mani le
s‟avventarono contro, / le stracciarono le vesti e le carni, / la spinsero nella chiesa di
Cristo, / e lì la finirono. Lì agonizzò sul pavimento del tempio. / E poi fecero a brani
quelle membra»144. La mera rievocazione storica avrebbe dovuto chiudersi qui, ma,
«quasi a conferma che la focalità non è in un episodio, sia pure molto forte, ma, come
dire?, in una sorgente che sintonizzata continua a emettere pulsazioni, nel luglio del
1976»145 lo scrittore, allora immerso nella stesura della sua raccolta più accesa dai risentimenti civili e dal tema del „contrasto‟, Al fuoco della controversia (1978)146, sente il bisogno di dar fondamento a un paradigma dell‟uomo „ermetico‟, un soggetto attratto da
una dinamica dell‟attesa come motore della conoscenza storica sin dagli anni Trenta,
immaginando un Sinesio che, divenuto ormai anziano, è incoercibilmente aperto verso
il futuro, proprio perché ha fatto sua la lezione di Ipazia147. Se questo può essere il LiLa prima recita radiofonica di Ipazia negli studi RAI di Torino impegnò la regia di Marco Visconti e
la seguente compagnia: Franca Nuti (Ipazia), Massimo De Francovich (Sinesio), Corrado Gaipa (Gregorio), Mario Brusa (Teodoro), Gino Mavana (Prefetto), Lucìa Catullo (Jone), Mico Cundari (la Voce); Mirella Marlesi (donna). In MARIO LUZI, MARIO SPECCHIO, Luzi. Leggere e scrivere, Firenze, Nardi, 1993, p.
149, il poeta riferisce cursoriamente che ci fu un‟anteprima dell‟atto unico a Poggio Imperiale (FG), la
quale rappresentava, ancora dopo un ventennio, «un bel ricordo». La prima messinscena del Libro di Ipazia completo avvenne, invece, a San Miniato per la regia di Orazio Costa Giovangigli: accanto a De
Francovich e Cundari c‟erano stavolta Gianrico Tedeschi, Ilaria Occhini, Ettore Toscano, Sandro Rossi,
Paola Bacci, Sergio Salvi e Barbara Salvati.
144 MARIO LUZI, Libro di Ipazia, cit., pp. 43-49: 48.
145 Ivi, p. 101.
146 IDEM, Al fuoco della controversia, Milano, Garzanti, 1978; ora in L‟opera poetica, cit., pp. 405-499, apparato alle pp. 1592-1618.
147 Il nesso fra questa prima pièce e la poetica dell‟ermetismo non sfuggiva a MARIA ANTONIETTA ABENANTE (L‟opera teatrale di Mario Luzi, in Mario Luzi da Ebe a Constant. Studi e testi, a cura di Daniele Maria
Pegorari, Stamperia dell‟Arancio, Grottammare [AP] 2002, pp. 47-77: 49) che in questo passaggio riassumeva gran parte dei termini della questione: «Nel testo luziano, dunque, la parola rappresenta il senso
del dramma, la scena rappresenta il luogo dove si intreccia la storia del linguaggio, linguaggio che raggiunge una verità tramite la parola stessa, in quanto è attraverso la contemplazione poetica che la memoria ha la capacità di cogliere e unificare universi così distanti tra di loro e vedere nella loro apparente staticità un progressivo divenire».
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bro di Ipazia e non „di Sinesio‟, nonostante che ella non appaia che in una sola scena, è
proprio perché il tempo di lei si „attualizza‟ primariamente nel tempo futuro di un nuovo avvento – quello dei berberi che premono ai confini dell‟Impero –, primo di un
indefinito numero di salti attraverso le epoche, quello fra la classicità e il medioevo,
come quello odierno fra la modernità e la postmodernità.
A rilevare tali «equivalenze» giovano, dunque, alcune delle osservazioni di Motta148
sulle corrispondenze strutturali fra i due atti, ancorché esse vadano esaltate, a mio parere, solo per quel che ne evidenzia la struttura parabolica (a U), che può saldarsi infine circolarmente se riconosciamo nel Prologo e nell‟Epilogo la medesima metafora
poetologica nelle «concrezioni / infinitesime di vita e senso […] cariche di vibrazione
latente» del Prologo149 e nel «seme irraggiungibile» da una mente che confidi in una
Verità univoca, antidialettica e auto-fàtica, ma pur portatore di un «fuoco» inestinguibile, di «un tonfo sommesso di tamburo sotterraneo» nell‟Epilogo150. Se collochiamo
questi due brani lirici oltre gli estremi della parabola strutturale del Libro di Ipazia, ecco
che i quadri rappresentati dalle scene dell‟atto I sono quasi la catabasi verso il momento topicamente tragico rappresentato dall‟assassinio della filosofa (non esibito, ma
classicamente151 raccontato da Jone a Sinesio e Gregorio), che è insieme conclusione
della prima parte e introduzione della seconda, se si dà il giusto peso alla scelta di affidare a Gregorio non solo la prima e l‟ultima battuta di Ipazia, ma anche l‟ultima del
Messaggero, dove il personaggio, ormai anziano, ricompare solo nell‟ultima scena a ribadire, dinanzi all‟imminente martirio di Sinesio, la necessità di una sapienza fondata
sull‟attesa152. Proprio a Gregorio, nella scena I sono affidate le parole più illuminanti
per l‟affresco del suo tempo come crisi epocale: la «caligine» che si stende su Alessandria, «dal faro allo stagno», il suo onnipresente grigiore non è già una notazione meramente scenografica, ma allude alla transizione da un‟epoca florida di scambi commerciali, culturali e religiosi, in cui «la differenza […] perdeva le unghie», cioè non dava luogo a contrasti violenti perché la mediazione era salvaguardata dall‟«alta scher148 UBERTO MOTTA, Ipazia, Clizia e la bufera: Luzi fra Montale e Teilhard de Chardin, in Studi di letteratura
italiana in onore di Francesco Mattesini, a cura di Enrico Elli, Giuseppe Langella, Milano, Vita e pensiero,
2000, pp. 565-619.
149 MARIO LUZI, Libro di Ipazia, cit., p. 7. Il Prologo, con funzione di «introito lirico-meditativo», fu aggiunto solo in occasione del completamento del Libro, come conferma la «conversazione con Mario Luzi» Il «ritorno» della poesia, a cura di Saverio Orlando, in «Italianistica», 8, 1979, pp. 385-388: 385.
150 MARIO LUZI, Libro di Ipazia, cit., p. 96.
151 Un suggerimento per una lettura in chiave classica della struttura del Libro di Ipazia viene
dall‟introduzione di GENO PAMPALONI (La poesia religiosa del mutamento, ivi, pp. 5-14: 8) dove il critico nota che «prologo ed epilogo hanno la funzione del coro nella tragedia greca», mentre «i monologhi di Sinesio aggiungono una nota d‟interiorità, che ci riconduce ai valori lirici della poesia moderna».
152 Il drammaturgo non propone un‟esplicita scansione delle scene di Ipazia e del Messaggero, anche se
esse sono arguibili dal cambio delle ambientazioni. Per il ragionamento che sto seguendo sarà utile considerare come un‟unica scena anche alcuni quadri consecutivi molto brevi che si svolgono in luoghi diversi ma simbolicamente contigui; in tal modo, a mio avviso, può emergere più facilmente la costruzione
speculare dei due atti. A vantaggio del lettore propongo qui di seguito la mia ipotesi di sequenza scenica,
indicando come punto 0 quello iniziale/finale e come punto -1 quello della scena finale di Ipazia che
costituisce anche l‟introduzione ideale al Messaggero: 0, Prologo; a. I sc. I, palazzo del prefetto (Gregorio,
Teodoro e Oreste); a. I sc. II, casa di Sinesio (Jone e Sinesio); a. I sc. III, casa di Sinesio (Sinesio e Gregorio); a. I sc. IV, casa di Ipazia (Ipazia, la Voce e Sinesio); -1, casa di Sinesio (Gregorio, Sinesio e Jone); a. II
sc. I, episcopio di Cirene (Sinesio); a. II sc. II, episcopio di Cirene e palazzo del prefetto (Sinesio, Dionigi,
Demetrio e Porfirio); a. II sc. III, stanza di Sinesio (Sinesio e Irene); a. II sc. IV, episcopio di Cirene (Dionigi, Demetrio, Irene, Sinesio e Gregorio); 0, Epilogo.
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maglia dei filosofi», all‟età attuale, in cui, al contrario, la disciplina suprema della „differenza‟ (quella che Mario Perniola identifica, in particolare, nella filosofia estetica come
antidoto contro la conflittualità della comunicazione)153 è spazzata via dalla «parola
ventosa dei profeti»154, cioè coloro che ripetono una Verità autonoma e indeclinabile.
La sostituzione della dialettica con la dogmatica è propria, come lo stesso Perniola
ha spiegato, di un‟epoca di ribollimento sociale, in cui la difficoltà di rintracciare valori
e narrazioni stabili provoca un tale senso di smarrimento da suggerire ripiegamenti
identitari settari e non negoziabili. Allora, ammesso pure che Luzi non volesse travestire l‟Italia contemporanea, quella «repubblica» che egli descriveva in agonia in una celeberrima lirica coeva155, con i panni dell‟Egitto del V secolo, il ritratto di Alessandria
come «corpo in letargo percorso da oscuri fremiti», in cui basta molto poco per esporre ognuno «alla collera: / se curi le vesti o l‟intelletto, / se frequenti la palestra, / se
leggi i poeti o i filosofi», anch‟essi oggetto d‟odio dei «nuovi barbari» cristiani156, ricorda inequivocabilmente alcuni versi sul terrorismo di Per il battesimo dei nostri frammenti:
«Si può perdere la vita per un caffè non caldo, / per un colpo di tosse / sospettato
d‟ironia»157. L‟urgenza dell‟ora impone una soluzione improntata al realismo politico,
ovvero il tentativo di persuadere Ipazia al silenzio, prima che il fanatismo dei parabalani, i monaci armati al servizio del vescovo Cirillo, divenisse per lei fatale.
La scena II squaderna immediatamente il dualismo politico/privato che anima tutta
la ricerca teatrale di Luzi (dalla „preistoria‟ di Pietra oscura a Ceneri e ardori, la pièce del
1997 su Benjamin Constant sottilmente tramata di allusioni autobiografiche158), facendo di Jone, innamorata di Sinesio, un carattere antipodo rispetto a Ipazia: ella rappresenta l‟eros («Sono qui perché ti amo»), la dimensione pre-culturale («Non ero dotta,
non avevo seguito le scuole famose d‟Alessandria»), l‟istinto vitalistico («ti piaceva la
mia solidità di donna»), l‟oblazione di sé («Io che non ho avuto misura e ti ho dato tutto»)159, doni tutti ai quali l‟allievo di Ipazia ha rinunciato, pur di consacrarsi alla ricerca.
È, dunque, a lui, nel seguito di questo quadro, che per comodità indichiamo come
scena III, che Gregorio chiede di intervenire presso la filosofa, interrompendo l‟otium
dello studio e della contemplazione per prendersi cura del bene comune: qui si annida
un passaggio cruciale della definizione di Sinesio come paradigma del poeta ermetico,
il quale, pur assegnando alla scrittura un fine speculativo, sa bene che il pianto
dell‟uomo richiede l‟adesione alla realtà, la discesa nel magma della politica160, perché è
MARIO PERNIOLA, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi, 2004, pp. 39-46.
MARIO LUZI, Libro di Ipazia, cit., pp. 11-12.
155 IDEM, Muore ignominiosamente la repubblica, in Al fuoco della controversia, cit., p. 477.
156 IDEM, Libro di Ipazia, cit., pp. 11-22: 13.
157 IDEM, Appeso come una lanterna, in Per il battesimo dei nostri frammenti, Milano, Garzanti, 1985; ora in
L‟opera poetica, cit., pp. 503-706: 529; apparato alle pp. 1620-1678: 1631.
158 IDEM, Ceneri e ardori, Milano, Garzanti 1997. A Benjamin Constant, scrittore, giurista e statista, Luzi
ha dedicato la più prolungata opera di francesista, occupandosene sia in alcune pagine di Aspetti della generazione napoleonica e altri saggi di letteratura francese, Parma, Guanda, 1956, sia nella monografia Lo stile di Constant, Milano, Il Saggiatore, 1962.
159 IDEM, Libro di Ipazia, cit., pp. 24-27.
160 La forma teatrale, d‟altra parte, si offre al poeta come il linguaggio più adatto a esprimere la sua vocazione civile, come ha notato anche STEFANO VERDINO (La poesia di Mario Luzi. Studi e materiali [19812005], Padova, Esedra, 2006, pp. 43-67: 65): «Il teatro di Mario Luzi ha messo in scena epoche di intolleranza ideologica (Ipazia, Rosales, 1983), di totalitarismi (Hystrio, 1987), dove “il potere è sommo e sconfina
con la sua assenza”, ma ultimamente ha scelto l‟età della fondazione democratica moderna: il 1830 francese con l‟epilogo della vita di Benjamin Constant, mentre voci di un intermittente „coro di morti‟ fanno
da contrappunto all‟azione. Ciò si dice in Ceneri e ardori (1997), scritto negli anni Novanta in un mutato
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solo al fuoco della controversia che si può misurare la tenuta della sapienza.
Segue l‟unica memorabile scena che vede come protagonista Ipazia in un doppio dialogo, dapprima con una «Voce» e poi con Sinesio che l‟ha raggiunta nella sua casa: la
Voce non viene mai determinata in maniera univoca, poiché essa è, insieme, la Verità,
la Filosofia e la Poesia, una voce triplice che invita Ipazia, pur «stanca e colma», dunque convinta di essere «compiuta» come sapiente, a muovere il passo estremo, quello
della ricerca della verità «in ogni parte» del reale, anche nell‟«enorme distesa del diverso, / del brutale, del violento, / contrario alla geometria» di ogni dottrina161. Parimenti
distante dalla „mente profetica‟ che predica un senso univoco e dalla „mente politica‟
che ordisce la tela delle soluzioni pragmatiche, si distende in questo dialogo la „mente
filosofica‟ che anela al «punto estremo di chiarezza», cioè al riconoscimento che una
porzione di senso è «dovunque», «anche in ciò che lo nega e lo offende», «anche in ciò
che [ne] ostacola il […] pieno risplendere»: «anche là»162. «In ogni nostro simile», possiamo dire con le parole di una lirica del 1981-‟82, grazie alla quale possiamo riconoscere
in quella Voce una filigrana cristologica, se è vero che quella lirica, poi confluita in Per
il battesimo dei nostri frammenti, postula la presenza del figlio di Dio anche in quelle zone
della realtà in cui all‟uomo ripugna il pensiero che possa trovarsi un seme di Verità:
«[…] anche lì / nel malseme che ora germina, / nella schiatta omicida che ora prolifera / lui è e dobbiamo avvistarlo…»163. Qui la violenza dinanzi alla quale l‟uomo non
deve chiudere gli occhi è quella del terrorismo, così come nel Libro di Ipazia la violenza
è quella degli integralisti religiosi, sollevati proprio da quella «parola ventosa» che si autoproclama vera e incontrovertibile, persino ostile a una verifica in rebus.
Ma quel «vento» è esso stesso la forza che spinge la Storia, che muove i destini individuali e collettivi, al punto che nel seguito della scena, ambientata nella casa di Ipazia,
ella saluta così il suo migliore allievo: «Il grande Sinesio… Che vento fortunato ti
spinge a questi lidi?»164; e più avanti, sottraendosi alle proposte di protezione offerte
dal prefetto augustale e proclamando la propria disposizione al martirio, pronuncia le
parole cruciali di questo dramma: «Il frutto scoppiato dissemina i suoi grani. / Il vento
della tempesta di fanatismo e di barbarie / si accanisce sul vecchio mondo, sferza i
rami, / svelle le radici, sommuove i fondamenti di tutto. / Con il marciume porta via e
disperde anche il sano. / Ma dopo? Che sappiamo del poi? / Gettiamo questo seme
nella bufera»165. È questa l‟estrema lezione di Ipazia, incarnata tragicamente nel finale
scenario italiano, non più di controversia ideologica, ma di rischiosa manomissione affaristica dei principi
democratici». Contemporaneamente sul Luzi civile usciva anche Non disertando la lotta. Versi e prose civili di
Mario Luzi con l‟omaggio di 41 poeti, a cura di Daniele Maria Pegorari, Bari, Palomar, 2006, culminante proprio con una pagina di Ceneri e ardori.
161 «Luzi è nella convinzione che ogni tipo di dottrina si sia mutato in ipotesi perché tutto è in cerca di
certezze; i conflitti e il molteplice drammatico del teatro mirano alla ricomposizione unitaria e la “voce”
che si è scissa in tante “voci” aspira a pronunciarsi in una “parola finale” che deve scaturire da un contatto significante col mondo e addirittura da una compromissione con esso»: LISA RIZZOLI, GIORGIO C.
MORELLI, Mario Luzi, Milano, Mursia, 1992, pp. 116-128: 120.
162 Ivi, pp. 34-37.
163 IDEM, In ogni nostro simile, in Per il battesimo dei nostri frammenti, cit., p. 587; apparato a p. 1649. Sulla
contaminazione, nella scena incentrata su Ipazia, fra il destino dell‟«eroe antico, in lotta con un fato che
gli si rappresenta alieno e ostile» e l‟«evento cristico», che impone «una interiorizzazione del destino e
della motivazione della scelta», insiste opportunamente MARA FABBRI, Stare a Sinesio come Sinesio sta a Ipazia, in «Critica letteraria», XXIV, 91-92, 1996, pp. 569-585: 569.
164 IDEM, Libro di Ipazia, cit., pp. 34-42: 38.
165 Ivi, p. 41.
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martirio e fatta propria da Sinesio che nella scena V – che, come detto, costituisce il
giro di boa del dramma – coglie nel contrasto fra le verità urlate il carattere fondamentale di un tempo di crisi. È l‟amico Gregorio che scandisce perfettamente il carattere
dell‟epoca, attraverso la contrapposizione fra l‟antica «persuasione» e l‟attuale «intimazione della verità»166, proponendo così il dualismo fra conoscenza e comunicazione167
o, ancora, in termini michelstaedteriani, fra persuasione e rettorica168.
Le parole finali dello stesso Gregorio, «un‟aria afosa ristagna»169, chiudono circolarmente il primo atto e introducono al meglio il secondo che sembra ripercorrere
all‟inverso il cammino dalla meditazione filosofica (il monologo di Sinesio nel suo episcopio, nella prima scena, in luogo del dialogo ormai impossibile con Ipazia)
all‟impatto con la durezza della realtà politica (la rapida sequenza dei tre dialoghi di
Dionigi con Sinesio, Demetrio e il prefetto augustale Porfirio, con cui si annuncia
l‟arrivo del messaggero berbero e si trama una strategia affinché egli non arrivi in alcuno dei due luoghi del potere: l‟episcopio e la prefettura). E poi ancora, laddove
nell‟atto I c‟era stato il dialogo con Jone nella propria casa, Sinesio è messo alla prova
del cuore da un appassionato intervento della giovane Irene, stretta fra la «paura del
nuovo» tipica del fratello Dionigi, in cui si incarna la ragion di Stato, e l‟«attesa», la «finestra / aperta sul futuro»170 che anima Sinesio e lo lega alla memoria di Ipazia, nonostante egli abbia poi abbracciato la fede degli aguzzini di lei; infine la lunga sequenza
del sequestro del vescovo nel suo palazzo (il vero luogo del potere negli anni della
cristianizzazione dell‟Impero d‟Oriente, tanto quanto la prefettura aveva rappresentato
il luogo del governo nella scena iniziale dell‟atto I)171, affinché non accetti l‟ambasceria
dell‟inviato berbero e non ostacoli la soluzione militare ordita da Dionigi e Demetrio,
fino a che la situazione non sfugge di mano e i berberi si muovono in armi contro Cirene. E qui, con un richiamo, invece, alla scena finale di Ipazia, è ancora una volta la
donna innamorata (qui Irene, lì Jone) a portare a Sinesio notizie luttuose, lasciando poi
a Gregorio, come si è accennato, le parole finali che portano a maturazione la descrizione iniziale di Alessandria e l‟apertura conoscitiva causata dalla morte stessa di Ipazia alla fine dell‟atto I, fra «tramonto» di una civiltà e «aurora» di un‟età nuova172: «E
Ivi, pp. 43-49: 45.
Cfr. MARIO PERNIOLA, Miracoli e traumi della comunicazione, Torino, Einaudi, 2009, pp. 18-20: «La
comunicazione crea un prodotto che occupa uno spazio intermedio tra il vero e il falso […]. In altri termini, la comunicazione è qualcosa di finto che per essere creduto ha bisogno di un eccesso di realtà. […]
è insieme vera, perché pone dinanzi a un fatto; falsa, perché adotta tecniche di esagerazione, manipolazione e mistificazione; finta, perché l‟aspetto fantastico e immaginativo vi gioca un ruolo essenziale» (il
corsivo è nel testo). Seguendo questa traccia, l‟assassinio di Ipazia si spiega come „gesto comunicativo‟,
atto a dare credibilità e consistenza di „fatto‟ agli assunti degli integralisti che, invece, si pongono sul piano della Verità, piuttosto che su quello della Realtà.
168 Cfr. CARLO MICHELSTAEDTER, La persuasione e la rettorica, Genova, Formiggini, 1913; poi Milano,
Adelphi, 1982.
169 MARIO LUZI, Libro di Ipazia, cit., p. 49.
170 Ivi, pp. 71-78: 77.
171 GIANCARLO QUIRICONI, che nella Notizia storico-critica su Ipazia e Sinesio inclusa nel Libro di Ipazia
(cit., pp. 15-20) ricostruisce con un‟ottima sintesi il contesto entro cui si colloca la pièce di Luzi, sottolinea
nel secondo atto «la differente posizione della Chiesa – in Occidente e in Oriente – davanti al problema
barbarico. Mentre l‟atteggiamento della Chiesa in Occidente, infatti, tende alla mediazione, alla ricucitura
delle lacerazioni anche a causa della completa assenza di un potere statale, in Oriente essa sposa decisamente la causa del partito imperiale, negando ogni possibilità di contatto o di mediazione con l‟elemento
straniero» (p. 17).
172 Ivi, p. 49.
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adesso attendere. Ancora una volta attendere» (Il messaggero, finale)173.
Non v‟è dubbio che, soprattutto dall‟età della Riforma in poi, la vicenda storica di
Ipazia, anche a causa dello smarrimento delle sue opere, compensate, però, da una certa ricchezza di informazioni riportate da fonti pur ideologicamente contrapposte
(quelle elleniche, quelle copte e quelle bizantine), si sia trasformata in una leggenda ispiratrice di poemi, romanzi e drammi che hanno riproposto il „gotico‟ intreccio di oscurantismo, ossessione identitaria, fondamentalismo e misoginia che vide per protagonisti Cirillo, Ipazia, il prefetto augustale Oreste e lo stesso Sinesio, colui che fu ordinato vescovo di Tolemaide a furor di popolo, senza assoggettarsi ad alcuni fra i più
elementari dogmi del cristianesimo. L‟episodio è lungamente apparso adatto alle rielaborazioni più diverse, soprattutto in ragione dei contrasti ideologici di volta in volta
caratterizzanti le varie epoche: Ipazia è divenuta, così, la prima icona di una libertà di
pensiero da attuare attraverso l‟eclettica combinazione di tradizioni diverse contro ogni forma di pensiero dogmatico (Diderot), il prototipo dell‟uomo di scienza, che per
definizione dev‟essere libero e moderato e finisce vittima dell‟irruenza delle folle (Chateaubriand), la martire di quel fondamentalismo che trasforma sempre il dominio delle
coscienze in potere politico (Voltaire, Monti), l‟emblema del liberalismo contro il conservatorismo (Toland) o dell‟anglicanesimo contro il cattolicesimo (Kingsley) nelle
schermaglie politiche e religiose inglesi dell‟Ottocento, l‟icona del laicismo massonico
contro il papismo retrivo in quelle italiane del Risorgimento (Caetani) o, al contrario,
la sua riscrittura in chiave cattolica sul modello di santa Caterina d‟Alessandria (Saluzzo Roero) e, ancora, la languida testimone della bellezza, distrutta dall‟inevitabile decadenza delle epoche (Barrès, Leconte de Lisle), l‟eroina di un femminismo avant la lettre (Jameson, Moneti Codignola), ispirando persino alcune pagine romanzesche di
Umberto Eco, una fiaba per bambini e un ottimo film174. L‟arbitrio di queste riscrit173 Ivi, pp. 79-95: 95. Radicata nei versi giovanili di Alla vita («Le ragazze alla finestra annerita / con lo
sguardo verso i monti / non sanno finire d‟aspettare l‟avvenire», in MARIO LUZI, L‟opera poetica, cit., p. 29;
apparato alle pp. 1331-1334) l‟attesa costituisce il nodo focale indelebile di tutto il cammino ermetico del
poeta, consegnato anche ad alcuni passaggi di numerose interviste rilasciate nei suoi ultimi fortunati anni,
come in questo: «Nel regime dell‟umano non vedo mai nulla di definitivo. E per fortuna, perché altrimenti finirebbero anche le pulsioni vitali. Posso dirle, però, che non vedo al mondo nulla di disperante.
La disperazione non mi appartiene. So che ognuno di noi deve compiere la propria esperienza e vivere il
proprio tempo col desiderio di mutarlo in meglio, e lavorando per questo. La creazione del mondo non
è mai finita e noi siamo qui, a collaborare, per quel che ci è dato, alla sua prosecuzione» (IDEM, Le nuove
paure. Conversazione con Renzo Cassigoli, Firenze, Passigli 20052, p. 110).
174 Questi mi paiono i „capitoli‟ più interessanti della tradizione letteraria europea di Ipazia: DENIS DIDEROT, Écletisme, in Enciclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, par une Société de gens de
lettres, Paris, Briassons-David-Le Breton-Durand, 1755, V, p. 282; ristampa anastatica Milano, Franco
Maria Ricci, 1977, XIV, pp. 3-19; FRANÇOIS-RENÉ DE CHATEAUBRIAND, Troisième discours sur la chûte de
l‟Empire Romain, in Études ou discours historiques sur la chûte de l‟Empire Romain (1831), in Oeuvres complètes, V,
II, Paris, Pourrat Frères, 1832, pp. 51-52; VOLTAIRE, De la paix perpétuelle, Londres, 1769, p. 124; VINCENZO MONTI, Il Fanatismo e La Superstizione, Venezia, Curti, 1797; JOHN TOLAND, Hypatia or the History
of a most Beautiful, most Virtuous, most Learned and in Every Way Accomplished Lady, who was torn to Pieces by the
Clergy of Alexandria to gratify the Pride, Emulation and Cruelty of the Archbishop Commonly but Undeservedly Titled
St Cyril, in IDEM, Tetradymus, London, Brotherton and Meadows, 1720; trad. it. Ipazia. Donna colta e bellissima fatta a pezzi dal clero, a cura di Federica Turriziani Colonna, Firenze, Clinamen, 2009; CHARLES
KINGSLEY, Hypatia, or New Foes with an Old Face, 1853; trad. it. Ipazia. Nuovi nemici dal vecchio volto, a cura di
Chiara Dallemule, Milano, Lupetti, 2010; ROFFREDO CAETANI, Hypatia, Magonza, 1924; DIODATA SALUZZO ROERO, Poema d‟Ipazia ossia delle Filosofie, Torino, 1827; MAURICE BARRÈS, Héroïsme superflus
(1885), in IDEM, Sous l‟oeil des barbares, Paris, Lemerre, 1888; CHARLES MARIE RENÉ LECONTE DE LISLE,
Hypatie (1847, 1874) e Hypatie et Cyrille (1857), in Ouevres de Leconte de Lisle, éd. crit. par Edgar Pich, Paris,
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ture ha irritato pochi anni fa una filologa bizantinista di vaglia come Silvia Ronchey,
troppo preoccupata che «la fortuna storico-letteraria di Ipazia […] porti con sé travisamento o mistificazione, o comunque una confusione delirante, perfino esilarante, in
cui ogni epoca, e ogni ideologia che si sviluppi al suo interno, trasfigura l‟antico omicidio producendo di volta in volta un‟Ipazia travestita alla moda del tempo, trasformata nel simbolo di un‟idea»175.
Certo, bene ha fatto la studiosa a dare la priorità assoluta alla comparazione delle
fonti storiche, dalla quale emerge chiaramente, ad esempio, la convergenza di fondo, al
di là di qualche dettaglio, sulla responsabilità, almeno morale, di Cirillo, spiegando poi
le divergenze alla luce delle contrapposte matrici ideologiche o delle sottili, ma sempre
cogenti, sfumature semantiche dei termini utilizzati dai testimoni. Ne emerge che Ipazia non è che una delle vittime di uno scontro politico esploso al primo insorgere della
tensione fra potere imperiale e potere episcopale. E tuttavia non si può negare che, se
Ipazia continua a interessare a milleseicento anni di distanza, è perché la storia, più che
magistra, diviene allegoria nella quale specchiare i ritornanti traumi della nostra vicissitudine; essa è, pertanto, «una cosa accaduta ma immessa nella eventualità continua del
mondo», infine non conclusa «con il suo essere accaduta», come scrive Luzi nella postfazione al Libro di Ipazia176, con cui la Ronchey chiude il suo poco indulgente excursus
storico-letterario177.
Tanto più che la rilettura luziana del mito di Ipazia, che la Ronchey mette sotto
l‟insegna dell‟«infedeltà della poesia» – mentre il poeta parla piuttosto di un «timore
d‟infedeltà» al «proprio» e all‟«irripetibile» della vita, implicitamente negando che di
questo si tratti e sostenendo che «il presente» trova la sua «profondità» quando si trasforma nel «futuro»178 – è, fra tutte le rielaborazioni letterarie, la meno arbitraria, proprio perché capace di attingere la chiave più profonda di quella lezione neoplatonica,
che ha visto la filosofa quale scomoda sostenitrice di un rinnovato protagonismo della
«vera filosofia» (globale, umanistica, in grado di unire i saperi pratici, quelli scientifici e
quelli contemplativi), proprio in un momento in cui prevaleva lo specialismo da un lato e la teologia come etica della verità dall‟altro, così come ha ben ricostruito il miglior
studio storico-filosofico su Ipazia che è ancora quello più che ventennale di Gemma
Beretta179. Ed è in questo che il sec. V può rinviare ai processi attuali della postmodernità, nel suo tratto di involuzione dalla „filosofia‟ alla „disciplina‟, dall‟interrogazione
Les Belles Lettres, 1977, I, pp. 63-66; ANNA JAMESON, Sacred and Legendary Art, London, Longmans,
1874; CATERINA CONTINI, Ipazia e la notte, Milano, Longanesi, 1999; poi sotto il nome autentico di MARIA MONETI CODIGNOLA, Ipazia muore, Milano, La Tartaruga, 2010; UMBERTO ECO, Baudolino, Milano,
Bompiani, 2000; COSTANZA SAVINI, Ipazia, un diavoletto e molti libri, Pescara, Ianieri, 2010. Il film a cui mi
riferisco è Agorà, diretto da ALEJANDRO AMENÀBAR, Spagna, 2009.
175 SILVIA RONCHEY, Ipazia. La vera storia, Milano, Rizzoli, 2010, pp. 125-126.
176 MARIO LUZI, Libro di Ipazia, p. 100.
177 SILVIA RONCHEY, op. cit., pp. 121-122.
178 MARIO LUZI, Libro di Ipazia, pp. 53-54 (mio il corsivo). Sul teatro, a partire dal Libro di Ipazia, come
riflessione sulle dinamiche temporali, per le quali «le azioni del presente sono date proprio dall‟idea del
futuro, e nel suo approssimarsi si manifesta con “segni neutri e svianti”» ruota tutta la riflessione di uno
dei primi saggi esclusivamente dedicati all‟opera drammatica di Luzi, che si deve a MARIA ANTONIETTA
ABENANTE, Il „tempo turbato‟ del teatro di Mario Luzi, in «Hortus», 21, 1998, pp. 39-60: 51.
179 GEMMA BERETTA, Ipazia d‟Alessandria, Roma, Editori Riuniti, 1993 (edizione da cui si cita; ma una
meritoria seconda edizione è apparsa a gennaio 2014); si tratta dell‟unico e, perciò, indispensabile saggio
monografico dedicato in Italia a Ipazia, posto sotto l‟esergo di nove versi che provengono proprio dal
primo dialogo fra Sinesio e Jone: MARIO LUZI, Libro di Ipazia, p. 26.
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all‟affermazione, dalla tolleranza al divieto: e Luzi, che mostra di individuare nella
Voce dialogante con Ipazia l‟ipostasi di quella Verità che viene invitata, nella celeberrima Invocazione del 1948, a incarnarsi nella «foresta inestricabile» dell‟umanità disperata
per restituirvi il senso180, riconosce certamente nella filosofa un modello autorevole di
quella sospensione del giudizio che almeno da Onore del vero (1957) a Nel magma (1966)
rappresenta il cuore di una filosofia della storia sub specie ermetica. Basterà qui ricordare i
versi finali di Presso il Bisenzio («Non potrai giudicare di questi anni vissuti a cuore duro,
/ mi dico, potranno altri in un tempo diverso. / Prega che la loro anima sia spoglia / e
la loro pietà sia più perfetta»)181 per cogliervi il filo che rimonta a ritroso fino a quella
tradizione efettica che coniugava «scetticismo» e «misticismo su base a grandi linee
neoplatonica» che «contribuì inoltre allo straordinario spirito di tolleranza»182 di tutta
un‟intera tradizione dottrinaria che si spinse fin nel cuore del primo cristianesimo e, in
particolare, in quel Socrate Scolastico che, con la sua Historia Ecclesiastica è una delle
fonti più importanti sulla vicenda di Ipazia, da lui evocata proprio come anello prezioso di questo filone di pensiero183.
Lo stesso atteggiamento dell‟allievo Sinesio che, in vista dell‟accettazione
dell‟ordinazione episcopale, pone la condizione di poter «continuare a seguire la filosofia in privato» e di non essere costretto a credere alla «resurrezione», ritenuta «tutt‟al
più qualcosa di misterioso e ineffabile», una favola pur necessaria da insegnare «a
quanti non abbian la forza di affissare lo sguardo sulla chiarità delle essenze»184, pare il
frutto di un‟educazione all‟epoché, la quale, secondo Socrate Scolastico, consiste nella
sospensione del giudizio «davanti al mistero»185 e suggerisce una condotta di pensiero
graduale e moderata, opportuna soprattutto nelle età di transizione. La magnifica invenzione luziana, che vede l‟anziano Sinesio refrattario alla ragion di Stato e aperto
all‟accoglienza dell‟ignoto berbero, proprio mentre il barbaro di un tempo, il cristiano,
è divenuto tutt‟uno col potere bizantino, se da un lato è liberamente ricalcata sul dato
reale del suo impegno di difensore della città dalle incursioni di genti del deserto (nel
395 aveva organizzato la difesa di Cirene, dieci anni dopo fronteggiava con successo
l‟invasione di tutta la Pentapoli, nel 411 difendeva Tolemaide subito dopo esserne divenuto vescovo), dall‟altro è il segno della sua metamorfosi in un estremo principiante,
per dirla col titolo dell‟opera-testamento di Luzi186, ovvero nel paradigma del poeta
ermetico. Questi, peraltro, aveva anche potuto confrontarsi con una più recente accezione di epoché in seno alla fenomenologia relazionistica di Luciano Anceschi, così significativo nel dibattito estetico e poetologico dagli anni Cinquanta, al tempo del suo
interessamento all‟ermetismo, agli anni Settanta, in seguito al fiancheggiamento della
neoavanguardia187; da Antonio Banfi, che aveva già recuperato la nozione di «sospen180 MARIO LUZI, Invocazione, in IDEM, Primizie del deserto, Milano, Schwarz, 1952; ora in L‟opera poetica,
cit., pp. 177-181; apparato alle pp. 1439-1441.
181 IDEM, Presso il Bisenzio, in Nel magma, cit., pp. 317-319; apparato alle pp. 1532-1536.
182 Così GEMMA BERETTA (op. cit., p. 123) traduce GLENN CHESNUT, The First Christian Histories,
Beauchesne, Paris 1977.
183 SOCRATES SCHOLASTICUS, Ecclesiastical history, ed. William Bright, Oxford, The Clarendon Press,
1893.
184 SINESIO DI CIRENE, Ep. 105, in IDEM, Opere. Epistole Operette Inni, a cura di Antonio Garzya, UTET,
Torino 1989, pp. 270-279: 277.
185 GEMMA BERETTA, op. cit., p. 123.
186 MARIO LUZI, Dottrina dell‟estremo principiante, Milano, Garzanti, 2004.
187 Giustamente osserva BEPPE SEBASTE (La sospensione del giudizio, in «l‟Unità», 1° maggio 2005, p. 25)
che fu proprio la centralità attribuita alla nozione di epoché nel suo (anti)sistema estetico che consentì ad
70
sione del giudizio» come attenzione a cogliere il significato dei «fenomeni» non come
un a priori immutabile, bensì come la conseguenza metamorfica di una combinazione
di situazioni e di vita spirituale188, il suo allievo Anceschi aveva trasferito l‟epoché
all‟interno della riflessione estetica, come impossibilità di stabilire una gerarchia fra le
opzioni estetiche, in quanto ciascuna è determinata da «istanze legate all‟esperienza»
umana189.
In tal modo, come la filosofia torna ad essere animata da «una tensione verso la descrittività del mondo fenomenico», così la critica muove da una demolizione
dell‟idealistica «autonomia» dell‟arte – cioè dell‟arte «come un momento dello svolgersi
dello Spirito […], forma distinta e irriducibile del circolo della vita spirituale»190 – e indaga le maniere in cui la «corrente di vita»191 attraversa la scrittura. È così che la critica
si apparenta alla filosofia, nel suo porsi come «sospensione del giudizio circa i significati che pretendono di presentarsi come assoluti e definitivi» e come «riscatto degli
stessi significati, liberati dalle loro pretese dogmatiche, nel rilievo anzi della loro relatività e parzialità»192.
Luzi, risalendo fino all‟impronta precristiana di questa nozione e contaminandola
proprio con una certa tradizione evangelica (penso alla lettura di Simone Weil, da un
lato, e di Teilhard de Chardin, dall‟altro)193, ne fa il nodo centrale di una riflessione sulla storia recente e sui limiti oscuri del giudizio etico. Ai versi già richiamati di Presso il
Bisenzio vanno, infatti, accostati quelli di un‟altra lirica di Nel magma, ancora uno di quei
dialoghi che costituiscono l‟incunabolo della successiva „opzione‟ teatrale: Nel caffè
propone l‟incontro fra il poeta e un vecchio compagno di scuola, ormai molto malato
(«forato nella gola», scrive Luzi con un dantismo, per dire „tracheotomizzato‟), che, dinanzi alla costernazione del poeta per l‟indifferenza con cui viene accolta la notizia
dell‟esecuzione a Tel Aviv del gerarca Eichmann (1962), lo previene così: «“So quel
che pensi, eppure hai torto” dice / con un sorriso divenuto blando / mentre guarda
fuori, mentre l‟ora si fa tarda, / “non posso non sentire in questo scalpiccio un che di
santo”». Lo «scalpiccio» è quello degli avventori del caffè che continuano a danzare «al
fruscio basso di un disco»194, inconsapevolmente celebrando un rito laico di affermaAnceschi di mantenersi aperto, durante tutta la sua sessantennale carriera di critico letterario e filosofo,
alle più svariate forme che la scrittura contemporanea andava palesando nel corso del secondo Novecento: «Il suo ricorrente, immancabile richiamo alla “sospensione del giudizio”, da atto filosofico si trasformò presto, nel campo dell‟estetica, in pratica dell‟ospitalità, accoglienza sistematica dell‟alterità, ascolto».
188 ANTONIO BANFI, Principi di una teoria della ragione, Torino, Paravia, 1926.
189 TOMMASO LISA, Le Poetiche dell‟oggetto da Luciano Anceschi ai novissimi. Linee evolutive di un‟istituzione della
poesia del Novecento, Firenze, Firenze University Press, 2007, pp. 20-21. Ricordando il magistero di Anceschi a dieci anni dalla morte (avvenuta il 2 maggio 1995 all‟età di ottantaquattro anni), FERNANDO BOLLINO (Attualità di Anceschi [dieci anni dopo: 1995-2005], in «Studi di estetica», XXXIII, 32, 2005), citando a
sua volta Herbert Dieckmann, chiarisce che «“sospendere il giudizio significa rifiutare di sacrificare la
complessità del pensiero” senza con ciò stesso scivolare nello scetticismo».
190 LUCIANO ANCESCHI, Autonomia ed eteronomia dell‟arte. Saggio di fenomenologia delle poetiche, Firenze, Vallecchi, 1959, p. XII.
191 Non a caso una delle due maggiori riviste dell‟ermetismo italiano, quella che faceva capo proprio al
„gruppo milanese‟ ruotante, dal 1938 al 1940, intorno al magistero di Banfi si chiamò, com‟è noto, «Vita
giovanile», poi «Corrente di vita giovanile», poi semplicemente «Corrente».
192 LUCIANO ANCESCHI, Fenomenologia della critica, Bologna, Pàtron, 1974, p. 131.
193 A sondare i rapporti profondi fra Luzi e lo „scomodo‟ gesuita Teilhard de Chardin, con riferimento
soprattutto al Libro di Ipazia, è stato UBERTO MOTTA (op. cit.).
194 MARIO LUZI, Nel caffè, in Nel magma, cit., pp. 322-324; apparato alle pp. 1539-1540; il dantismo pro-
71
zione della vita sulla morte, della giustizia sulla colpa, portando „in pari‟ il giusto della
vita195, che le responsabilità degli individui, invece, scompensano in maniera infame.
Lo stesso tema anima il primo dialogo fra Sinesio e Gregorio, allorché la preoccupazione di quest‟ultimo per le umiliazioni, le persecuzioni, persino le devastazioni cui
sono soggetti i seguaci della «ragione ellenica» trova la quieta risposta dell‟allievo di
Ipazia, primo bersaglio di quegli affronti: «So quel che fanno, e non grido allo scandalo. / C‟è una giustizia elementare in questo, / una prima forma brutale di giustizia / da
parte di chi dal festino non ha avuto niente e spera in un altro. / Questo aspetto di
atroce e assurda riparazione / prende la storia nel suo passare ad altro» (atto I, sc.
III)196. Ed è proprio la meditazione sulla Storia come un «passare ad altro», con i suoi
turbinosi movimenti ora violenti ora caritatevoli, il fine ultimo di questa pièce ed è la
dottrina estrema consegnataci dal pagano, cristiano, ermetico Sinesio: «Il nuovo è la
speranza. E questa vince su tutto»197.
viene da Purg. V, 98, dove si riferiva a Bonconte da Montefeltro, il figlio di Guido, negligente fra i morti
di morte violenta.
195 Com‟è noto, Il giusto della vita è il titolo dato da Luzi al volume (Milano, Garzanti, 1960) che raccolse
tutta la prima produzione, da La barca a Onore del vero, e continua a essere utilizzato come corrispondente
ripartizione interna a L‟opera poetica, cit.
196 MARIO LUZI, Libro di Ipazia, cit., pp. 27-33: 30.
197 Ivi, p. 92.
72
PER UNA STRUTTURA DEI «NOSTRI FRAMMENTI»:
STORIA, INTERTESTI E STILE
Apparente espressione di una poetica „spezzata‟ e
anti-poematica, Per il battesimo dei nostri frammenti e
la raccolta di Luzi in cui culmina tutta la precedente tensione realistica e civile, propria degli anni
Cinquanta-Settanta, e si apre alla ricerca metafisica
della stagione finale. Il presente contributo ricostruisce l‟intima struttura che porta i singoli frammenti lirici a farsi „libro‟, secondo un discorso teoricamente avvertito e una ricca tramatura intra e
intertestuale.
Q
Although appearing as the expression of a „scattered‟ and
anti-poetical poetics, Per il battesimo dei nostri frammenti is Luzi‟s collection where all the preceding realistic
and civil tension, typical of the Fifties and Seventies, culminates, and it opens with a metaphysical search for the final
season. The present essay recreates the intimate structure
making the single lyrical fragments into a „book‟, according
to a theoretically informed discourse and to a rich intra and
intertextual thread.
il 20 marzo 1985 viene chiuso in tipografia Per il battesimo dei nostri frammenti, la raccolta, con le sue 121 liriche, inaugura per Luzi una nuova modalità
di concezione del „libro‟, ora finalmente proiettato verso amplissime campiture
in cui trovano posto testi dalla genesi anche molto varia, piuttosto che selezionati intorno a nuclei ispirativi rigidi. Dodicesimo titolo poetico (contando, come a mio modesto parere si deve, anche il poema in prosa Biografia a Ebe, che nulla ha a che fare con
le altre prosette d‟arte dello scrittore fiorentino), il Battesimo propone, dunque, un percorso di lettura molto più articolato, al limite dell‟azzardo astrattivo, che rimarrà poi
costante nei successivi e ultimi quattro libri, compreso Dottrina dell‟estremo principiante,
l‟unico che sia leggermente meno corposo della raccolta del 19851. Se la pratica stilistica e il peculiare tono metafisico di quest‟opera l‟avvicinano senz‟ombra di dubbio alle
ultime prove liriche (consapevolmente e intelligentemente differenziate dalle coeve
prove teatrali e da alcuni discorsi scritti da Luzi negli anni della sua splendida tarda
maturità), gli accenti fortemente civili concentrati nelle prime sezioni e la nozione stessa di „frammento‟ ne fanno il momento culminante della lunga stagione precedente,
quella realistica e poi persino sperimentale, che aveva accantonato le movenze orfiche
delle raccolte giovanili e che si era inaugurata con Primizie del deserto, passando per il
nodo di Nel magma e approdando a Al fuoco della controversia. Sono queste le raccolte in
UANDO
Affinché il lettore di queste pagine possa avere a portata di sguardo il dettaglio delle opere poetiche e
teatrali di MARIO LUZI (Firenze 1914-2005) mi sia consentita una nota bibliografica forse un po‟ scolastica, ma non disutile. Poesia: La barca, Modena, Guanda, 1935 (Firenze, Parenti, 19422; Avvento notturno,
Firenze, Vallecchi, 1940; Biografia a Ebe (poema in prosa), Firenze, Vallecchi, 1942; Un brindisi, Firenze,
Sansoni, 1946; Quaderno gotico, Firenze, Vallecchi, 1947; Primizie del deserto, Milano, Schwarz, 1952; Onore del
vero, Venezia, Neri Pozza, 1957; Dal fondo delle campagne, Torino, Einaudi, 1965; Nel magma, Milano, Garzanti, 19662; Su fondamenti invisibili, Milano, Rizzoli, 1971; infine sei libri editi tutti a Milano da Garzanti:
Al fuoco della controversia, 1978; Per il battesimo dei nostri frammenti, 1985; Frasi e incisi di un canto salutare, 1990;
Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, 1994; Sotto specie umana, 1999; Dottrina dell‟estremo principiante, 2004; a
queste si aggiungono diverse sillogi di poesie d‟occasione, disperse e postume. Teatro: Libro di Ipazia, Milano, Rizzoli, 1978; Rosales, stesso luogo, 1983; Hystrio, stesso luogo, 1987; Corale della città di Palermo per S.
Rosalia, Genova, S. Marco dei Giustiniani, 1989; Il Purgatorio. La notte lava la mente, Genova, Costa & Nolan, 1990; Io, Paola, la commediante, Milano, Garzanti, 1992; Pietra oscura, Porretta Terme, I Quaderni del
Battello Ebbro, 1994 (ma la stesura risale al ‟47); Felicità turbate, Milano, Garzanti, 1995; Ceneri e ardori,
stesso luogo, 1997; La Passione. Via Crucis al Colosseo, stesso luogo, 1999; infine Opus florentinum, Firenze,
Passigli, 2000 e Il fiore del dolore, Milano, Archivi del ‟900, 2003.
1
74
cui il linguaggio di Luzi prende forma, diviene riconoscibile e capace di interpretare
nella maniera più autentica il secondo Novecento poetico italiano, almeno quello –
s‟intende – che rimane estraneo alle opzioni neoavanguardistiche.
Con le raccolte degli anni Cinquanta-Settanta il frammento si era già liberato dalle
profondità intimistiche della stagione proto-ermetica (lo chiamo così accogliendo un
acuto e impagabile suggerimento che mi forniva quasi vent‟anni fa Oreste Macrì) e dai
rischi conseguenti di enigmaticità perplessa e insolubile1: i libri successivi a Quaderno
gotico – libro „cerniera‟, peraltro, proprio perché dietro l‟oscura scrittura neostilnovistica celava l‟allegoria di un inno d‟amore alla Patria sofferente e rinata – avevano introdotto nel „frammento lirico‟ la „prosa‟ dell‟oggettualità, raccolta attraverso indizi e
tracce disperse, individuate quali primizie del deserto del dopoguerra, primi frutti che rivitalizzano una terra desolata di eliotiana memoria, fiori spuntati dal male del secolo, alfine
„odorate ginestre sparse‟ «su l‟arida schiena» di un‟epoca orrenda. Ma, nonostante gli
slanci purgatoriali di Onore del vero e Dal fondo delle campagne, in cui nel tempo collettivo
si sogna di purificare le colpe dell‟umanità e le responsabilità individuali, lo «sterminator Vesevo» della Storia continua a mietere vittime, a «scerpare esistenze», per usare
parole del primo Montale, dopo quelle di Leopardi: e diviene obbligatorio, allora,
scendere nel magma della realtà, senza rifiutarsi al fuoco della controversia, cioè delle lacerazioni e delle contraddizioni sociali poste in essere dall‟accelerazione neocapitalistica e
dalla decadenza delle istituzioni scaturite da quella Resistenza di cui celebriamo il 70°
anniversario.
È vero che in un libro del 1971, Su fondamenti invisibili, Luzi aveva tentato un ragionamento sulle vicende contemporanee attraverso la struttura di ampi monologhi poematici, ma l‟ipotesi era stata sostanzialmente rinnegata proprio ad apertura di Al fuoco
della controversia («Non più lunghi poemi», scriveva nella lirica proemiale) e sostituita con
un‟altra esperienza2 forte, che rimettesse al centro la forma stilistica più adatta a es1 Non è inopportuno ricordare che già nel corso del primo Novecento la filosofia austro-tedesca si era
posta il problema di superare i rischi di un pensiero aforismatico come esito della disgregazione dei sistemi idealistici; le due soluzioni più ragguardevoli furono probabilmente quella offerta dal giovane Wittgenstein nel Tractatus (di cui curò un‟edizione anglo-tedesca nel 1922 con l‟introduzione del suo maestro
Bertrand Russell) e da Benjamin nei monumentali «Passages» (scritti fra il 1927 e il 1940, l‟anno del suo
suicidio mentre era in fuga dall‟Europa). Nel primo caso (per cui rinvio all‟edizione italiana LUDWIG
WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, a cura di Amedeo G. Conte, Torino,
Einaudi, 1964) il procedimento speculativo in ordine alla sensatezza del linguaggio procede, sì, per
frammenti, ma essi sono connessi secondo una successione numerica determinante per la loro elevazione a tractatus. Nel secondo caso (per cui suggerisco WALTER BENJAMIN, I «passages» di Parigi, ed. italiana diretta da Enrico Ganni, 2 tomi, Torino, Einaudi, 2002) i materiali scaturiti dall‟esplorazione di Parigi
(dove dal 1933 viveva in esilio), rifuggendo programmaticamente l‟elaborazione teorica e la sistematicità,
tentano il metodo di «conoscenza per composizione» o «ricomposizione»; quello benjaminiano è il discorso più consentaneo a Luzi, non solo perché la sua indagine è interessata alla critica letteraria, alla sociologia dell‟arte, alla mistica e al linguaggio (più che alla logica e alla filosofia in senso stretto), ma anche
perché per il pensatore berlinese tale teoria delle «approssimazioni» è l‟unica che può far sperare nel ripristino del «discorso divino», perduto progressivamente con la modernità scientifica.
2 Così sintetizza tutta l‟ultima stagione luziana MARCO MARCHI (Invito alla lettura di Mario Luzi, Milano,
Mursia, 1998, p. 108): «Nei libri dagli anni Settanta a oggi […] e nella vasta produzione per il teatro, gli
incontri dell‟autore con la realtà si intensificano, si fanno più esigenti e inclusivi. La sua poesia attinge
adesso all‟inespresso promuovendo nuovi battesimi di amore e di dolore, fiduciosa nella propria investitura sancita con l‟acqua (l‟elemento sorgivo della Barca, l‟acqua come elemento altamente esponenziale
della humilitas luziana) e con il fuoco (il fuoco della controversia, l‟ardore di conoscenza e la “conoscenza
per ardore”)».
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primere la „contesa‟: mi riferisco, naturalmente, al teatro, inaugurato col Libro di Ipazia,
Rosales e Hystrio. L‟esito di questa ricerca è una perfetta sintesi dei due „momenti‟ che si
erano fronteggiati, la speranza di una felicità collettiva e l‟angoscia per una morte ignominiosa della Repubblica: i frammenti (insieme espressione di una storia ridotta a
brandelli, di una coscienza inevitabilmente parziale e di una scrittura postmodernamente disorganica) vengono preparati per un battesimo1, cioè per una rinascita che ripete la proiezione augurale delle primizie che crescono nel deserto, ma alla certezza della
„messe‟ subentra ora una semplice intenzione progettuale, magnificamente segnata da
quel Per collocato in posizione forte, quinto e ultimo ricorso consecutivo di Luzi a un
inizio preposizionale nei titoli, dopo Dal fondo delle campagne, Nel magma, Su fondamenti
invisibili e Al fuoco della controversia.
In tutti questi casi i titoli, pur non contenendo verbi, proprio in virtù di quelle preposizioni lasciano intravedere le azioni implicite che ridefiniscono il ruolo dinamico
del soggetto poetante, non più maestro cantore di un cosmo eterno e imperturbabile,
ma principiante che impara ininterrottamente la sua dottrina dalla natura e dai dolori del
mondo. Le vicissitudini ordinarie e straordinarie costituiscono occasioni di esperienza
del reale, che è opportuno non dissipare più come disiecta membra, nonostante non si
disponga di una solidità strutturale e di una fiducia ideologica, come quelle che avevano consentito a Petrarca di salvaguardare in una misura esatta i suoi rerum vulgarium
fragmenta. Anziché collocare i frammenti nello spazio sovraordinato dell‟arte, ormai inattingibile, Luzi può solo compiere l‟atto pietoso di radunare le «fronde sparte», come
Dante nel finale dell‟episodio dei suicidi e degli scialacquatori, tentando non di obliterare la frammentarietà costitutiva della coscienza, ma di ricavare da quegli stessi elementi esplosi una ragione plausibile e una possibile riorganizzazione2. Per questo la
varietà degli argomenti e delle ispirazioni non è evitata in quest‟opera che non esiterei
a definire la satura luziana, anzi è esibita dalla numerosità delle sezioni e dalla loro varia
misura, non di rado coincidente con una sola lirica.
I 121 testi furono composti in un arco di tempo che va dal 1977 (a cui risale solo
una lirica: Vita? – «Oh come lo era») al 1984, ma la sequenza sostanzialmente cronologica delle sezioni principali è movimentata dalle sezioni brevi e brevissime che vi si intercalano, nelle quali l‟ipotesi del „diario‟ lirico viene spezzata per cercare un diverso
filo logico, evidentemente teorico o simbolico, ma non temporale. Alcune poesie erano apparse prima su rivista o in pubblicazioni rare, ma mai agglutinate in una maniera
che anticipi le sezioni del libro futuro, con la sola eccezione della sequenza di tredici
poesie originata dall‟„occasione‟ biografica più importante di quel periodo, il “Reportage” scritto in occasione del viaggio in Cina dal 10 al 30 ottobre 1980, come membro
di una delegazione letteraria formata anche da Vittorio Sereni, Luigi Malerba, Alberto
Arbasino e Aldo De Jaco: il poemetto (così lo definiva il suo originario sottotitolo) era
ANNA PANICALI (I nostri frammenti, in «Alfabeta», 78, novembre 1985, pp. 5-6), in una delle note più
precoci su questo libro, scrive che «In Per il battesimo dei nostri frammenti […] Luzi esprime l‟inadeguatezza
epocale e storica del linguaggio a cogliere il senso delle cose o i brandelli di vita da cui ricominciare il
cammino: la metafora è ormai superflua, la vita non si cerca in altro, ma “dentro di sé”».
2 Mi pare, invece, che un certo ricorrente vezzo antologico, quando superi le esigenze didattiche di
campionatura e imponga l‟esaltazione del frammento da giustapporre ad altri selezionati per insondabile
e insindacabile giudizio del curatore, faccia compiere un passo indietro rispetto all‟obiettivo di una conoscenza ampia, se non globale. Si tratta, a mio modesto parere, di un „inquinamento postmodernista‟ della filologia, come in un libretto di qualche anno fa: LORENZO GOBBI, Elogio del frammento, San Pietro in
Cariano (VR), Il Segno dei Gabrielli, 1995 (che di Luzi, a p. 39, antologizza, addirittura, i soli vv. 22-28 di
Augurio, da Dal fondo delle campagne).
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dapprima stato pubblicato nell‟undecimo volume dell‟Almanacco dello Specchio, nel 1983,
e poi, seguito da un Taccuino di quello stesso viaggio in Cina (a sua volta anticipato sulle
pagine de «la Nazione» di Firenze nel 1981), era apparso il 31 maggio 1984 (dunque
dieci mesi prima del Battesimo) in una tiratura numerata per le cure di Vanni Scheiwiller
(All‟insegna del pesce d‟oro). La missione dei cinque scrittori italiani (che s‟inseriva in
una lunga consuetudine, ormai smarrita, di scambi internazionali, specie con i Paesi
dell‟Est, nei quali ci si compiaceva di una certa ufficialità) cadeva in una stagione piuttosto oscura e drammatica, quella dell‟inizio del processo alla cosiddetta Banda dei
Quattro (Jiang Quing, vedova di Mao Tze Tung, Zhan Chunqiao, Wang Hongwen,
Yao Wenyuan), intentato dalla nuova dirigenza del partito, capeggiata da Deng Xiaoping. La crudezza delle descrizioni dei versi dedicati allo stato di polizia cinese, come
altri testi del Battesimo inerenti al momento apicale degli „anni di piombo‟ in Italia, se
richiama lo slancio civile del libro precedente (il cui testo giustamente più celebre, va
ricordato, era Muore ignominiosamente la repubblica), parrebbe cozzare con la prevalente
tensione metapoetica dell‟opera, con le sue continue interrogazioni sul rapporto conflittuale fra «parola» e «cosa» e con una ripetuta apparizione femminile dalla sfuggente
valenza allegorica.
Ma la satura luziana, a uno sguardo molto più attento, rivela una struttura volutamente sottile e non ingombrante, ma di sicuro consapevole e sorvegliata. Già Giuseppe Zagarrio1 – al quale gli studiosi di Luzi sono grati almeno da quando gli dedicò
un‟agile ma coraggiosa monografia nel 1968 – in uno studio del 1986 aveva intravisto
tre temi che nella loro successione disegnerebbero l‟architettura complessiva del libro:
il primo consisterebbe nel «tormento» di una visione dubbiosa della vita, il secondo
risulterebbe «tutto vibrante» di una «rinnovata presenza […] parlante» e il terzo si concluderebbe «nella definitiva solenne riaffermazione […] della fisica perfetta», espressione
che Luzi nel 1942 usava per definire lo stile de La barca, caratterizzato dall‟equilibrio
fra l‟oggettività dell‟esperienza naturale e la soggettività delle percezioni, ben al riparo
dalle chimere del simbolismo, ancorché agitate dal terrore di un‟assenza di significato.
Toccherà poi a un giustamente lodato volume di Philippe Renard (1932-1992) cogliere alcuni altri indizi, a partire dalla perfetta centralità di un testo d‟importanza capitale, Vola alta, parola, sessantunesima di 121 liriche, che illumina circa il valore parimenti metapoetico delle poesie di apertura (“Dizione”) e di chiusura, Padri dei padri e
Canto2: per non dire delle riflessioni indotte dalla presenza di due sezioni – una prima,
l‟altra dopo quell‟asse di simmetria – dai titoli evidentemente dialoganti: “Notre-Dame
la pauvre femme” e “Notre-Dame Notre-Dame”, entrambe chiuse da una sottosezione intitolata “Madre e figlio”. Se è vero che forse Renard eccede un po‟ con le ipotesi numerologiche circa la ricorrenza di alcune misure delle sottosezioni, prevalentemente dispari (e quindi allusive al disordine) nella prima parte, e sempre pari (come
per una ritrovata armonia) nella seconda, con prevalenza del modulo da 8 liriche, ce
n‟è abbastanza, a mio avviso, per tentare di ricostruire l‟„intenzione strutturale‟ di
quest‟opera, cioè il disegno segreto seguito dal poeta che, tuttavia, conserva „a vista‟ la
grande frammentarietà da cui si muove – proprio perché il battesimo è atteso, ma
GIUSEPPE ZAGARRIO, La poesia di Luzi: inferno o paradiso?, in «il Ponte», XLII, 4-5, luglio-ottobre
1986, pp. 105-119. La monografia dello stesso Zagarrio più avanti ricordata è intitolata Luzi, Firenze, La
Nuova Italia, 1968, 19732.
2 PHILIPPE RENARD, Mario Luzi frammenti e totalità. Saggio su “Per il battesimo dei nostri frammenti”, trad. di
Anna Dolfi e G. Isotti Rosowsky, Roma, Bulzoni, 1995: le ipotesi strutturali occupano le pp. 17-28 della
monografia.
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tutt‟altro che realizzato – attraverso l‟elevato numero di sezioni disarmoniche che disorienta il lettore nascondendogli l‟architettura.
In un libro che si apre con l‟epigrafe giovannea «In lei [la parola] era la vita; e la vita
era la luce degli uomini» è fondamentale riconoscere che cornice, filo rosso e tema
principale del libro è «la parola», come aspirazione metastorica dell‟uomo e come polo
di una tesa dialettica con «la vita» che si rivela, invece, inscindibilmente legata alla Storia, alle «cose», all‟esperienza. Per questo osservare che la splendida Vola alta, parola
faccia da perno centrale e asse di simmetria, rilevato dal proprio isolamento come
poesia-sezione, nonostante conti solo undici versi, diviene la chiave di comprensione
del „sistema‟ di Per il battesimo dei nostri frammenti, che inizia con la sezioncina proemiale
“Dizione” (per comodità la indichiamo con A) che introduce il tema nodale della sovrabbondanza delle «cose» che chiedono di essere nominate, cioè individuate, comprese e scambiate in una relazione di conoscenza e non solo di consumo1. Segue “Notre-Dame la pauvre femme” (indichiamola con B), 36 poesie legate strettamente ai
temi civili dei precedenti libri, con particolare riferimento al movimento armato di
quegli anni. Lo sguardo storico si allarga in una dimensione internazionale con la successiva sezione “Reportage”, la cui naturale conclusione è la poesia-sezione Perché, luce,
ti ritrai, che completa la straordinaria visione luministica finale del viaggio in Cina, avvolgendola in un‟atmosfera di dubbio conoscitivo e portando la sequenza a un numero di 14 liriche (indichiamo le due sezioni con C). La seguente sezioncina, “Maceria e
fonte” richiama nell‟antitesi del titolo il significato complessivo del libro, quello di una
temporalità che pare percorsa solo dai segni del dolore storico e individuale e che, invece, lascia baluginare qua e là un‟ingiunzione agostiniana, l‟invito a ricongiungere le
parole dell‟uomo col Verbo divino: vertice di questo discorso è la contigua poesiasezione Vola alta, parola, che porta a 8 le liriche di questa parte del libro (che indichiamo complessivamente con D).
Siamo, dunque, al giro di boa, che ci immette nella seconda metà del libro dove gli
accenti civili o polemici scompaiono non per una compressione intimistica
dell‟ispirazione, ma per un suo allargamento all‟universo naturale, cominciando dalla
sezione “Bruciata la materia del ricordo” (che indichiamo con E), costituita da 14 liriche, stesso numero di C, e questo per il gioco delle simmetrie potrebbe non essere
un caso2. Tanto più che se sommiamo le tre sezioncine che seguono, “Nella gloria
delle finestre”, “Dal grande codice” e “Notre-Dame Notre Dame”, con l‟aggiunta
delle tre poesie-sezione che le introducono, raggiungiamo per questa macrosezione
(che indichiamo con F) il numero complessivo di 36 liriche, esattamente quante le
poesie di B, ovvero di “Notre-Dame la pauvre femme”, il cui titolo la oppone e la collega evidentemente alla sezione culminante di questa seconda metà del libro. Nella sequenza speculare B-C-D-E-F che scaturisce, possiamo far nostri e rendere più affidabili quei lontani suggerimenti di Zagarrio, poiché la coppia B-C è dominata dal «negaAggiungo per completezza di dettagli, non inutile mentre vado alla ricerca delle linee strutturali
dell‟opera, che le tre liriche che compongono A furono redatte solo nel 1984, quando il disegno del libro
era divenuto chiaro all‟autore.
2 La sezione B, scandita in tre sottosezioni (“Fuori o dentro lo strampalato albergo”; “Tutto perso, tutto parificato?”; “Madre e figlio”), costituisce il nucleo più antico dell‟opera, risalendo al 1978-1980. La
sequenza C, invece, è ricavata dalla somma delle tredici poesie di “Reportage”, composte nel 1980-1981,
e di Perché, luce, ti ritrai, poesia di diciassette versi, scritta più tardi, nel 1983-1984. La sequenza D, poi, è
data dalla somma di “Maceria e fonte”, composta nel 1981-1982, e di Vola alta, parola, scritta poco dopo,
nel 1983-1984. “Bruciata la materia del ricordo” (E), composta ancora nel 1981-1982, è divisa in due sottogruppi di sette liriche ciascuna.
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tivo», dal «dubbio» e dal «tormento della sconfitta che vi è implicito», D coincide con
la «sezione intitolata “Maceria e fonte”, dove il motivo psicolinguistico è quello del ritorno», e la coppia E-F è quella in cui «l‟itinerarium ad Deum» si incarna «in sede naturale»1.
A questa sequenza „aurea‟, che dispone con dissimulato rigore la gran parte del libro,
fa seguito una breve sezione di 8 liriche, tante quante D, dal titolo “Inseguimenti” (indichiamola con G): essa assolve la medesima funzione che D aveva nei confronti della
prima metà del libro, cioè fa decantare il discorso precedente (in questo caso l‟acceso
naturalismo), accordandolo, attraverso alcune allusioni metaforiche, all‟epilogo occupato da Padri dei padri e da Canto (complessivamente indicabili con H) che chiudono il
discorso iniziato con A, ovvero la riflessione sull‟accidentato destino del linguaggio,
lacerato dal conflitto permanente fra la ricerca della verità e l‟urgenza anche violenta
della realtà2. L‟apparente asimmetria fra il numero di poesie di A (tre) e quello di H
(due) è necessaria, in verità, a totalizzare il numero dispari di 121 liriche, con Vola alta,
parola collocata, come si è detto, perfettamente al centro fra due gruppi da 60: ma, a
ben guardare, una sottile simmetria sussiste pure fra „prologo‟ ed „epilogo‟, giacché le
prime due liriche di “Dizione”, sommate, hanno la misura di 34 versi, esattamente
quanti ne conta Canto, la poesia conclusiva di Per il battesimo dei nostri frammenti.
Così chiarita, la segreta struttura di quest‟opera della maturità rende più agevole non
solo l‟individuazione dei nuclei tematici, ma anche un preciso svolgimento di quello
che appare un discorso naturale o sulla naturalezza del poeta, per riprendere i titoli di due
celebri saggi di Mario Luzi3. Si parte da una considerazione, sul crinale fra sbigottimento e confessione: le «parole», su cui il poeta ha fondato tutto il suo antico prestigio, subiscono nel presente storico uno scacco, sono incapaci sia di conoscere che di
comunicare, cioè sono espunte sia dal terreno dell‟„invenzione‟ dei significati, sia dalla
doverosa ricerca delle relazioni umane4. La «lingua» appare offesa dalla «melma», da
1 Già nel 1951, nel saggio Naturalezza del poeta, raccolto in volume per la prima volta ne L‟inferno e il limbo (Milano, Il Saggiatore, 1964) MARIO LUZI riconduceva ogni «sforzo di rinnovamento di cui periodicamente» si avverte il bisogno nella storia del linguaggio poetico alla restituzione alla «natura» delle parole, all‟adesione del «procedimento tecnico-espressivo» alla «lingua naturale». Tale riemersione di «una
pura e naturale incidenza, mentre l‟apporto personale sembra scomparso», è per il poeta ermetico il significato più profondo del «cammino percorso» dai classici, dalle loro prime opere ai capolavori, come
Dante («dalla Vita nova e dalle Canzoni a quel miracoloso primo verso della Commedia»), Ariosto (in quel
«suo lavoro quindicennale» atto «a conferire profondità ed eleganza naturali al suo eloquio») e Leopardi
(«dalle Canzoni agli Idilli della prima e seconda fioritura»): si cita dall‟edizione MARIO LUZI, Naturalezza del
poeta, a cura di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1995, pp. 76-89: 82.
2 La macrosezione F si ottiene, dunque, dalla sequenza di Gli uomini o la loro maschera (1979-1980),
“Nella gloria delle finestre” (1983), E ora, dopo un calo di forze (1981), “Dal grande codice” (1982-1983),
S‟aprì, acqua di roccia (1984) e “Notre-Dame Notre Dame” (1982-1983, suddivisa in due sottosezioni, la
prima senza titolo, la seconda indicata come l‟omologo ultimo gruppo della prima parte del libro: “Madre e figlio”). La successiva sezione G (1983-1984) è divisa in tre sottosezioni. Infine il doppio epilogo H
è stato composto nel 1984, anno di chiusura del libro.
3 Proprio negli stessi anni in cui scriveva Per il battesimo dei nostri frammenti, MARIO LUZI raccoglieva alcuni suoi saggi critici nel volume Discorso naturale, a cura di Achille Serrao e C. Fini, intr. di Franco Fortini,
Siena, Quaderno di Messapo, 1980 (ed. accresciuta Milano, Garzanti, 1984); il concetto di „natura‟, anche
attraverso una rilettura di Lucrezio, diviene così centrale che la più importante delle sue raccolte saggistiche porterà poi il titolo Naturalezza del poeta (cit.).
4 La preoccupazione di MARIO LUZI per la crisi del linguaggio – e in particolare di quello letterario – si
coglie meglio se si rileggono alcune delle ripetute sue affermazioni circa la primigenia „attrazione fatale‟
che lo attirò alla scrittura negli anni universitari: «Se si pensa a quello che è il primo movimento che incanta lo scrittore, il poeta, che lo eccita e lo entusiasma, è proprio quello della nominazione: denominare
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una non ancora ben identificata «contumelia» (“Dizione”, I), «sopravanzano le cose il
loro nome», «[…] profondano / dentro il loro numero», lasciando indietro «l‟ancora
tramortita / pattuglia delle parole» (“Dizione”, II)1.
Il primo scacco, quello conoscitivo, è determinato dal trauma, tutto tardonovecentesco, di aver scoperto un nuovo orizzonte di ineffabilità: indicibile, ora, non è il Divino che ammutoliva Dante, ma la sovrabbondanza delle «cose», non solo perché la
produzione industriale e il consumismo (parola chiave del dibattito sociale proprio intorno al 1980) obbligano l‟uomo a soccombere sotto il peso degli oggetti che si accampano nel suo spazio prima ancora che sia in grado di riconoscerli e usarli. E da
questo punto di vista dovremmo tener conto delle più recenti riflessioni di un altro
poeta, Guido Oldani, che nel saggio di poetica Il realismo terminale illustra con sgomento il completamento del processo di reificazione dell‟uomo contemporaneo e la conseguente necessità di un rovesciamento delle strutture linguistiche della poesia che abolisca la metafora in favore di un‟oggettualità esasperata e opaca2. Ma accanto a questo
lamento del poeta che sente lo «spirito» sepolto sotto il peso della «materia» (“Dizione”, I), impossibilitato a dare «l‟annuncio» (“Dizione”, II) del quale si sente investito dalla notte dei tempi, vi è l‟ammissione di una colpa, quella di esser stato sedotto
dal fascino di una parola incorporea, al servizio del simbolo più che della realtà,
dell‟armonia più che del disordine e, dunque, incapace di farsi carico della complessità
del reale3.
Chiudendo il secolo che si era aperto con sei personaggi che mettono in discussione la
rappresentabilità delle pieghe più indicibili della Storia, Luzi assiste all‟ingresso sul
proscenio delle «cose» che aspirano a liberarsi del «giogo della metafora», di una
«grammatica» che è solo «schiavitù» (“Dizione”, III), quando invece «la parabola»
(“Dizione”, II) e «la metafora» sono qui, nel «mondo / tutto / da quando è» (“Dizione”, III). È adombrata qui una crisi storica del linguaggio letterario, in difetto di
fronte all‟arduo compito di spiegare gli accadimenti o anche semplicemente di darne
le cose, dare il nome alle cose, trovare questa connessione fra la cosa e il suo nome. Voglio dire non il nome
convenzionale, indifferente, quasi abusivo, no, ma il nome in cui la cosa prende veramente la sua identità
e la sua presenza», così, ad esempio, scrive nella conferenza Il genio discreto della poesia, tenuta a Milano il 26
marzo 1993 e pubblicata dapprima in «Maieutica», 2, 1993, poi in ID., Vero e verso. Scritti sui poeti e sulla letteratura, a cura di Daniele Piccini e Davide Rondoni, Milano, Garzanti, 2002, pp. 199-211: 201 (il corsivo è
dell‟autore). Gli anni Settanta rappresentano, invece, una stagione nella quale quella «grande letizia», quella «ilarità», quell‟«euforia profonda», che costituirebbero lo stato di grazia del poeta, appaiono negate.
1 Tutte le citazioni del Battesimo contenute in questo contributo sono tratte da ID., L‟opera poetica, a cura
di Stefano Verdino, Milano, A. Mondadori, 1998, pp. 503-706 (apparato critico alle pp. 1620-1678).
2 Scrive il poeta milanese: «Ecco dunque profilarsi la percezione propria che è nelle condizioni del realismo terminale. Ora la natura prende a modello gli oggetti e avviene un‟irreversibile mutazione cromosomica, cioè di modalità dell‟estetica e in fondo di giudizio sul mondo, il giro di boa dell‟inversione della
similitudine: non più “un aereo somiglia a un gabbiano”, ma viceversa, per sempre sarà il viceversa»:
GUIDO OLDANI, Il realismo terminale, Milano, Mursia, 2010, p. 16. Il manifesto poetico di Oldani è poi
stato discusso da una serie di ficcanti interventi raccolti in La faraona ripiena, a cura di ELENA SALIBRA,
GIUSEPPE LANGELLA, stesso luogo, 2012.
3 Il «pericolo» della poesia di avvitarsi su una parola «astratta», per reazione a «un mondo reificato,
come si dice, che produce automaticamente cose non richieste dall‟uomo, le quali non corrispondono a
nessuna autentica esigenza, per puro determinismo produttivo» è il nodo su cui ruota tutta la conferenza
tenuta dal poeta a Camaldoli il 29 dicembre 1989, nutrita di citazioni da Per il battesimo dei nostri frammenti
che era, allora, la sua raccolta più recente. Il testo dell‟intervento fu dapprima pubblicato col titolo Le parole agoniche della poesia, a cura di Guido Garufi, Macerata, Alfabetica, 1991, poi in ID., Naturalezza del poeta,
cit., pp. 291-303.
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un‟onesta testimonianza senza introdurre mistificazioni, e tale fallimento è reso tanto
più grave per l‟opposto attentato all‟autenticità del reale operato dalla violenza politica.
“Notre-Dame la pauvre femme” (B) e “Reportage” (C) sono appunto le sezioni del
libro che si ricollegano alla spinta civile prevalente nelle opere precedenti e propongono, la prima, lo scenario inquieto dell‟Italia degli anni di piombo, in cui la profetizzata
„morte della repubblica‟ si è tragicamente concretizzata nell‟abominio dell‟uccisione di
Aldo Moro, «acciambellato [nella] sconcia stiva» di una Renault 4 rossa; la seconda sezione, come si è detto, allarga la visuale alla politica internazionale, registrando, con
alternanza di toni sarcastici e dolenti, la precipitazione tirannica del sogno rivoluzionario cinese.
Parallela, in entrambe le sezioni, è l‟ambigua epifania femminile che in Luzi rimonta
a una topica complessa, giacché essa ha le sue radici nelle giovanili propensioni neostilnovistiche, per le quali la donna amata è prima di tutto il medium di una sublimazione
dell‟uomo, la certificazione della possibilità di un salto verso il trascendente e, ancora,
il punto di connessione fra la parabola „particolare‟ dell‟esperienza individuale e
l‟orbita universale della Creazione. Per questo da sempre il femminile in Luzi ha il
doppio volto dell‟amata e della madre, molto più vicina all‟archetipo di Cerere che a
quello di Venere1. Tenendo conto di questa genesi pluridecennale, la „Nostra Signora‟
del Battesimo sarà finalmente comprensibile solo qualora venga spogliata del suo apparente manto mariano e riconnessa con la donna protagonista di quello speciale canzoniere che fu Quaderno gotico, una madonna desacralizzata, cioè appunto una „povera
donna‟, allegoria dell‟Italia colta nell‟atto di piangere il proprio «pianto esistenziale», le
proprie «lagrime destinate» (I), il proprio «pianto irreparabile», infine ritrovata «in
un‟immobile letizia» (X). Così la lirica che apre “Notre-Dame la pauvre femme” intona
proprio il tema del «pianto» che disturba il «sonno», la «non coscienza», il «non voluto
sapere» del poeta, ovvero il suo tentativo di chiudersi nello spazio eccelso ma separato
dell‟arte e del pensiero.
Quel pianto, invece, richiama l‟uomo al dovere della veglia, è la squilla che accende
la luce su un dolore che è «dovunque / dovunque», ripete il poeta, «nel buio danubiano» dove si trova di passaggio e poi «nel finimondo di colori / di ogni possibile orizzonte». E allora ecco che, strappato alla colpevole separatezza dalla realtà, il poeta si
trova ad affrontare l‟inferno di quel tardo Novecento, in cui le utopie, persino riconosciute nella propria iniziale giustezza – così è forse da intendersi la definizione di
«fiero e offeso amore», addirittura «amore grande» – si presentano in una criminale deriva violenta che per Luzi è precisamente una deriva linguistica: «Alfabeto infernale di
che inarticolato dialetto / questi spari, queste uccisioni a freddo». Il riferimento è certo
anche all‟uso paradossale del linguaggio teorico nei documenti di rivendicazione brigatistica, ma, più in generale, è la violenza stessa che costituisce un «soliloquio», un «cupo dialetto» (A che nere riserve), cioè la deformazione della sola lingua che potrebbe contenere un principio di salvezza, quella del dialogo e della chiarezza2.
1 «Oltre all‟„io‟ lirico ed al „tu‟ di manifesta derivazione montaliana, emerge ora il luziano „lei‟, la terza
persona singolare al femminile che domina incontrastata questa poesia: madre, moglie, compagna,
mente, anima, storia o divinità animistica che sia. […] Fin dai tempi della Barca – in cui la figura femminile emergeva spesso con una certa sublimazione eterea di richiamo stilnovistico – il poeta manifesta una
dilatazione del femminile che raramente si limita ad una donna»: lo nota persuasivamente LAURA BAFFONI LICATA in un saggio dal titolo, ahimè, poco originale: “Per il battesimo dei nostri frammenti”: l‟itinerario
del dicibile nella poesia di Mario Luzi, in «Italica», LXXVII, 1, spring 2000, pp. 105-125: 115.
2 Alle presenze degli eventi storici nella poesia di Luzi e al valore anche civile della sua scrittura (a lun-
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Parallelamente “Reportage” rappresenta lo Stato cinese come un «palazzo», in cui le
lotte più sanguinose e spietate per il potere sono agite attraverso la parola imperscrutabile e falsa dell‟intrigo, della cerimonia e della messinscena giudiziaria: non è un caso
se, riferendosi al «Primo Presidente» che riceve la delegazione degli scrittori italiani,
Luzi, certamente influenzato dalla fantasia teatrale delle sue prime tre piéces, tutte riferibili ai complotti politici, annota: «non dimentica nessuna battuta della recita». E ancora più significativo è che il leader venga definito «principe degli scribi» – e «scriba
tartaro» naufragato «fra le sue carte» era già l‟alto burocrate incontrato nella lirica che
apre la sezione –, così come subito dopo, con un‟impennata autoironica che non deve
sfuggire, sono omologati ai cinesi anche il poeta fiorentino e i suoi colleghi, «gli scribi
ospiti / venuti da Occidente» (Ed ecco, protetto da vecchiaia e incerta valetudine). L‟uso del
termine «scriba» – onusto di tradizione letteraria e dallo stesso Luzi usato per la prima
volta in Su fondamenti invisibili, in rapporto alla sua incapacità di decifrare l‟«enigma» del
mondo1, e poi in Al fuoco della controversia in una riflessione sulla inadeguatezza del poeta quando scopre che è «inenarrabile questo tempo» (Scarso lo scriba?) – qui ha un valore evidentemente degradato, con enfasi negativa portata sull‟azione materiale e quasi
meccanica dello scrivere e in particolare dello scrivere sotto dettatura, con allusione sia
alla parola ipocrita del funzionario di regime, sia alla retorica sublime di chi rivendica
l‟ascendenza nobile del suo „dittare‟ ma si presta, invero, a un simmetrico allontanamento da «ogni possibile sostanza» (Ma ecco dai suoi penetrali una membrana). Fedele al
paradigma dantesco per cui la discesa nel magma infernale del secolo è necessario non
solo per maturare il disprezzo per il male, ma anche per riconoscersi come corresponsabili degli errori, Luzi conduce nella prima metà del libro un bilancio del suo tempo
dal quale ricava una chiave d‟uscita che metta in questione il suo stesso mandato poetico, compito che è affidato proprio al cuore del libro, Vola alta, parola. Solo un lettore
distratto che si fermi al primo verso potrebbe pensare a questa lirica come al manifesto della sublimazione poetica, mentre essa è, al contrario, la definitiva affermazione
della «cosa» sulla «parola», giacché, se è vero che il magistero orfico consente a
quest‟ultima di parlare col divino (il «celestiale appuntamento»), essa non sarebbe nulla, appena una «disabitata trasparenza», se non portasse dentro di sé «il caldo» o il «ricordo» della realtà che attende di essere compiuta, non superata o trapassata.
Di qui scaturisce il significato della sezione che inaugura la seconda metà del libro
(“Bruciata la materia del ricordo”), anche in questo caso forse tradita dal troncamento
della sua titolazione: la poesia eponima, in realtà, dice così: «Bruciata la materia del ricordo ma non il ricordo. / Il ricordo impera ugualmente». La sezione, infatti, dirada
l‟oscurità gettata nel libro dalla simmetrica sezione “Reportage”, assicurando al lettore
che la poesia ha ancora una risorsa vitale, qualora s‟identifichi con la memoria, che
go misconosciuto dalla critica) è dedicato il saggio di STEFANO VERDINO, Poeta civile, in AA.VV., Mario
Luzi cantore della luce, Assisi, Cittadella, 2003, pp. 59-91; poi in STEFANO VERDINO, La poesia di Mario Luzi. Studi e materiali (1981-2005), Padova, Esedra, 2006, pp. 43-67.
1 ALFREDO LUZI (L‟enigma e lo scriba nella poesia dell‟ultimo Luzi. Il nodo ermeneutico di “Su fondamenti invisibili”, in «Italian quarterly», XXIX, 111, winter 1988, pp. 57-67) individua acutamente nella presenza ricorrente del lemma «scriba» la spia di una riflessione sull‟interpretabilità del «mondo» che dalla «certezza giovanile del poeta» (p. 57) passa attraverso la labilità del segno in Avvento notturno e Un brindisi e la «messa
in discussione» della «sua modalità di approccio alla conoscenza» di Nel magma, e giunge al «cumulo di
voci […], il non detto, il taciuto, l‟inespresso» di Su fondamenti invisibili (p. 58), che fanno groppo nell‟io
lirico e finalmente lo piegano a una mera funzione di «trascrittore» e «amanuense» che deve abdicare una
volta per tutte a sistemare la conoscenza in una forma «definitoria e definitiva» (p. 60).
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conserva «la storia», cioè „ciò-che-è-accaduto‟, consentendone la conoscenza, nonostante il mutismo di „ciò-che-accade‟.
E mi pare ben significativo che in questa zona del Battesimo i ricordi evocati dal poeta siano quelli legati alla concretezza della geografia e dell‟autobiografia: non può mancare, ad esempio, una visione del Palio, il «furore policromo / del bruciante mulinello», in quella città, Siena, in cui egli visse per breve tempo, dalla terza alla quinta ginnasiale, ma che rimase sempre per lui il simbolo della scoperta della vita e di una perfetta
compenetrazione fra arte e natura, a partire dalla stessa passionalità dei contradaioli, il
cui orgasmo rispecchia e corregge la sorprendente apparizione pugilistica delle prime
pagine del libro (E adesso sul finire del round)1. Forse proprio per suggerire parallelismi
fra la prima e la seconda metà della raccolta (ferma restando la doppia linea di svolgimento fin qui individuata: dal particolare storico all‟universale naturale e dall‟inferno
della colpa al purgatorio dell‟attesa), una memoria paesaggistica del senese, proprio in
chiusura di “Bruciata la materia del ricordo”, rinforza con i propri connotati più aspri
– e, dunque, più concreti – una più misteriosa e inquieta apparizione di Montepulciano
e Pienza in “Notre-Dame la pauvre femme”. In questo esemplare anteriore la «terra
terrosa» diviene «improvvisamente ultraterrena» e in «quel suo profilo» perdono identità e senso sia il poeta che il paesaggio, «equiparati a zero / da una celestiale algebra»
(Prima una terra terrosa); mentre, nella lirica inserita nella parte più matura del libro, la
Val d‟Orcia spicca per la sua «solarità», «calva, / tosata allora allora del suo vello», «terra soda» che a perdita d‟occhio distende la «gibbosa greggia» delle sue colline (Da dove
era quel ritorno?). Ed è questa la premessa migliore per comprendere il discorso naturale
della sezione multipla che segue (quella che prima ho indicato con F) in cui spicca la
sequenza intitolata “Dal grande codice” con allusione proprio alla superiorità del codice della Natura (il gran libro del mondo o dell‟universo di cui parlavano i prosatori
scientifici del Sei e Settecento, Malpighi, Algarotti e Soldani) sul codice letterario (per
non dire, poi, dell‟illusorietà del codice della comunicazione e della breve durata del
codice giuridico).
Qui ciò che era ancora fonte di sgomento e di dubbio nella prima parte del libro – lo
„scoscendere‟ delle «cose» le une dalle altre (“Dizione”, II) o il cielo notturno di luglio
contemplato come un ingannevole «febbricitare / celeste» (Fonte?) – trova compimento nel topos felicissimo di un dinamismo biofisico inarrestabile, su cui si sperimenta
tutto il virtuosismo sintattico del poeta. Colmate le assenze delle prime sezioni, ora
«Genera azzurro l‟azzurro, / si sfalda e si riforma / […], azzurro / in azzurro sempre», si erge, scende, migra, sale, affonda, in un tripudio di movimento che da questo
cielo sfolgorante si ripercuote su quello che qualcuno ha chiamato il „bestiario‟2 di Per
il battesimo dei nostri frammenti, visto che in questa sezioncina compaiono pernici, rondini, trote e poi fiumi e ancora lottatori, una sorta di condensazione della Creazione, colta nell‟atto di confermare la propria vitalità, di agitarsi in un bíos di per sé significante e
In quella „campionatura‟ di figure chiave che costituisce il paragrafo su Per il battesimo dei nostri frammenti, contenuto in un volumetto di GIORGIO CAVALLINI (La vita nasce alla vita. Saggio sulla poesia di Mario Luzi, Roma, Studium, 2000, pp. 50-52) vengono rilevate proprio «le epifanie […] del continuo mutamento
o tramutamento proprio della vita: […] La forza dell‟amore […] L‟attesa della nascita […] Vitalità degli
animali […] Animazione di altre forme di vita […] parole del flusso di vita […] Altra parola sempre più
frequente nella poesia-pensiero dell‟ultimo Luzi è la parola luce. A partire dall‟epigrafe giovannea».
2 «“Dal grande codice” racchiude un breve „bestiario‟ luziano (e anche qui l‟ombra di Montale appare
in una prestabilita volontà di differenziazione)»: così si esprime SAVERIO ORLANDO (Sui “frammenti” di
Luzi, in «Testo», 13, gennaio-giugno 1987, pp. 59-67: 64), che, però, non convince quando spiega „codice‟ «nel senso di „sistema di comportamento‟» e anche «Bibbia» (ibid.).
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reagente agli oltraggi della cosiddetta civiltà e della parola degradata. In Pernice il volo
turbinoso dell‟animale è l‟esecuzione di una legge naturale, di una „verità‟ (che è, non
lo si trascuri, il tradizionale significato araldico della pernice) fondata sul perfetto equilibrio fra «libertà e necessità», in quanto mossa istintivamente da una ragione non individuale: in lei si riepilogano «sua madre / e sua figlia simultaneamente», l‟intera «sua
genia», anzi: l‟«anima essenziale delle pernici», ricordando all‟uomo che «sotto il cielo
alto sdrucito dai jets» (evidente allusione alle ferite portate dai processi di civilizzazione) vige ancora un «pensiero / diffuso e onnipresente / muto», appena interrotto,
«di tanto in tanto», da «qualche canto / d‟amore».
Si tratta di quell‟amore creaturale che nel pensiero cristiano muove l‟intero universo
(e gli stessi cieli, desiderosi di congiungersi in ogni punto col Divino) e che differisce,
evidentemente, dall‟immobilità infernale della colpa e dell‟assenza, per disegnare un
altro modello di «pace» quello della «irrequietudine» delle rondini che «Sgorgano /
l‟una dall‟altra / […], traboccano fuori dal loro primo caldo gruppo, l‟una / dopo
l‟altra» e si lanciano, poi allungano, «rientrano / planando ad alta quota», si rituffano1.
Anche in questa lirica, Essere rondine, è ribadita la misteriosa legge di natura, giacché
esse sono «libere di muoversi / a un ritmo segnato / […] scritto in ogni parte»
dell‟universo, eppur così difficile per l‟uomo da riconoscere. Gli è che «il messaggio»
di vita e verità, che per Luzi si configura secondo il paradigma evangelico – ancorché
non confessionalmente determinato e anzi piuttosto laicamente contaminato –, non
rifulge in maniera incontrovertibile nella Storia e, se non «tace, gorgoglia / a tratti»,
raggiunge i «mortali» solo a brani, addirittura per «borborigmi» e frasi, comparendo qui
il termine che diverrà la prima parte del titolo del libro successivo, Frasi e incisi di un
canto salutare; in questa lirica si ribadisce, dunque, il tema del canto o poema non come
corpus testuale dato una volta per tutte, ma come intenzione progettuale che si compie
riconoscendo i segni dell‟attesa che sono presenti nei frammenti, negli incisi salvati dal
naufragio della coscienza.
E allora, ritrovata la spinta alla «lotta» (Lottanti), cioè al principio dinamico della vita,
il poeta si mostra meno interessato che in passato alla «verità» come sorgente a priori
dell‟esistenza – come al tempo de La barca2 – in quanto la sua vera fede è ormai riposta nella verità in quanto processo in fieri, retto dalla metamorfosi e dalla compenetrazione fra le diverse forme di vita, «fiume» a rischio di «estinzione» se non venisse confortato da nuove e impreviste «vene», se non confluisse in un flusso radioso in cui si
perde la distinzione fra corso principale e affluente e tutto concorre alla costruzione di
un‟anima più grande: è il tema di Fiume da fiume, dove non deve sfuggire la formula paraliturgica che strizza l‟occhio al Credo cattolico. Ed ecco che, al posto della „povera
donna‟ in cui si allegorizzava la Storia nella prima metà del libro, ora c‟è una “NotreSu questa rappresentazione della «vita» come «movimento» scrive ROSARIO FISICHELLA (L‟ultimo
Luzi, in «Otto/Novecento», XI, 3-4, maggio-agosto 1987, pp. 233-239: 237): «La pernice, la rondine, il
fiume, la trota. La vita non ha altro valore fuori di sé. Questo ci insegna l‟universo col miracolo della sua
esistenza, sempre rinnovantesi. La primavera che, nella lucentezza del mattino, avviva all‟uccello il piumaggio del collo e delle ali, l‟acqua che s‟apre il cammino nella dura scorza terrestre, sotto il sole che
incendia, e poi balza giù in sonanti ruscelli o diroccia gorgogliando, sono momenti, insieme a infiniti altri,
che hanno scandito e continuano a scandire il ritmo della vita universa».
2 Alla vita, la più nota poesia de La barca, si reggeva proprio su un‟allegoria fluviale in cui le «foci» significano l‟esistenza e le «sorgenti» indicano il Verbo. Sia pur nel tono un po‟ ingenuo e fideistico che caratterizza la maggior parte delle liriche del libro d‟esordio, Alla vita già propone una relazione un‟immagine
„fragile‟ del «divino» che non impone la sua presenza e il suo richiamo, bensì viene paragonato a un
«bimbo che […] chiede senza voce».
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Dame Notre-Dame”, cioè una donna non „aggettivabile‟ perché già perfetta, costitutivamente esatta e completa: si tratta certamente della natura, come emerge dalla nominazione diretta di Cerere (la dea delle messi e della legge naturale) nella quarta lirica
della sezione.
Il soggetto poetante ora dichiara il proprio anelito profondo (e mai esaudito) a riconoscersi come figlio della natura e si ricorderà che il libro composto come omaggio
devoto alla memoria della madre scomparsa, Dal fondo delle campagne, già associava chiaramente la madre ai miti della civiltà preindustriale, dando vita a una sorta di bucolica
borghese. L‟universo è ora definitivamente visto come «Il mai perfetto, / il mai giunto
alla fine / del suo vero compimento, / creato ancora creante», e la comprensione di
questa lezione è ciò che segna uno dei punti di maggiore distanza dall‟altro maestro del
Novecento, quel Montale che soffriva di non poter «accordare» la sua poesia alle «voci» del mare, avvertito così distante e perfetto a paragone del suo «balbo parlare»1.
All‟angoscia del poeta genovese Luzi saprà rispondere con la dottrina dell‟estremo principiante, più prossima a una «verità» che «non stava», ma «diveniva / se stessa continuamente» (Dove stava la verità?). E su questa stessa allegoria femminile dell‟universale culmina il libro, con quel Canto programmatico, strutturalmente speculare alla “Dizione”
dell‟incipit, in cui si disegna una delle più azzardate figure del tardo ermetismo luziano,
l‟incontro fra il cumulo di dolore e disperazione del Novecento («la massa / di notte e
di afasia», il «precipizio», il «deserto / di tenebra», «l‟alta voragine») e la Notre-Dame,
ora dai connotati vagamente aquilini, secondo l‟ipotesi dell‟ottimo e sempre affidabile
Stefano Verdino, provocando un circuito permanente (come segnala l‟avverbio «perpetuamente» che chiude la lirica e l‟opera) fra l‟insorgenza del «mondo» infuocato, il
«nido» da cui «lei versa quel fuoco» e il silenzio spaventoso del «tempo», impreparato a
qualsivoglia «messaggio» di salvezza.
L‟allusione ornitologica guida Verdino a riconoscere in questo passaggio un sottile
ipotesto dantesco2, uno di quei luoghi del Paradiso che gli autori del secolo XX possono riusare solo per additare al lettore la meta ideale dei loro sogni, pur tuttavia inattingibile per difetto ideologico o per insufficienza stilistica: «così, rimosso d‟aspettare indugio, / quel mormorar de l‟aguglia salissi / su per lo collo, come fosse bugio. / Fecesi voce quivi, e quindi uscissi / per lo suo becco in forma di parole» (Par. XX, 25-29).
L‟aquila dantesca era allegoria celeste della giustizia divina che deve governare anche le
cose degli uomini, ma, se è vero che agisce come filigrana di questo passo luziano, essa
subisce una decisiva ricontestualizzazione che la allontana dalla fonte; il procedimento
è il medesimo che interessa il verbo „profondare‟, attinto ancora a due luoghi del Paradiso, con riferimento all‟«intelletto» (I, 8) o alla vista (XXVIII, 107), ma traslato, nella seconda lirica di “Dizione”, a significare il movimento degli eventi, divenuti così incombenti e minacciosi da rendere impotenti le «parole» che dovrebbero annunciarli. Il
verbo dantesco è, dunque, adoperato proprio in coincidenza col tema centrale di questo libro, l‟insufficienza o addirittura la malafede dello «scriba» dinanzi all‟urgenza della
1 Si veda l‟incipit del penultimo movimento di “Mediterraneo”: «Potessi almeno costringere / in questo mio ritmo stento / qualche poco del tuo vaneggiamento; / dato mi fosse accordare / alle tue voci il
mio balbo parlare: – / io che sognava rapirti / le salmastre parole / in cui natura ed arte si confondono,
/ per gridar meglio la mia malinconia / di fanciullo invecchiato che non doveva pensare. / Ed invece
non ho che le lettere fruste / dei dizionari, e l‟oscura / voce che amore detta s‟affioca»: EUGENIO MONTALE, Ossi di seppia, a cura di Pietro Cataldi e Floriana d‟Amely, intr. di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano,
A. Mondadori, 2003, pp. 149-152.
2 Cfr. STEFANO VERDINO, commento ad locum in MARIO LUZI, L‟opera poetica, cit., pp. 1677-1678.
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realtà, e lo stesso termine «scriba» rinvia, per patente antitesi, all‟hapax di Par. X, 26-27
(«[…] a sé torce tutta la mia cura / quella materia ond‟io son fatto scriba») in cui
Dante si accredita l‟altissima ispirazione metafisica1. Sembra che al Paradiso Luzi guardi
ogniqualvolta tocchi questioni poetologiche, se è vero che un omaggio al vecchio amico Carlo Betocchi (Abiura io? Chi può dirlo) lo ritrae mentre «avvampa lui d‟un suo /
quasi ribaldo amore», ovvero coi caratteri di un amore persino eroico che in Par. XXV,
82-84 erano attribuiti a san Giacomo: «[…] L‟amore ond‟io avvampo / ancor ver‟ la
virtù che mi seguette / infin la palma e a l‟uscir del campo»2.
Ma per gran parte del libro dominano gli echi infernali, a partire dal più evidente,
collocato non a caso in “Notre-Dame la pauvre femme”: i versi «Appeso come una
lanterna, i più: / altri scolpito dall‟interno – / così / portano il viso» si riferiscono ai
terroristi rossi e neri descritti come il seminatore di discordie Bertran de Born, nella
nona bolgia di Inf. XXVIII, 118-122: «Io vidi certo, e ancora par ch‟io ‟l veggia, / un
busto sanza capo andar sì come / andavan li altri de la trista greggia; / e ‟l capo tronco
tenea per le chiome, / pesol con mano a guisa di lanterna». E il lettore è messo sulla
strada di un facile riconoscimento della fonte dall‟interrogativo sospeso pochi versi
dopo: «Siamo dove? in che vicolo dell‟inferno?», nel quale riconosciamo l‟adattamento
modernizzante del dantesco «vico», utilizzato in riferimento ai cerchi dei dannati (Purg.
XXII, 99)3. L‟umanità degradata è chiamata «malseme» nella più limpida delle liriche
sullo sconcerto di dover riconoscere una latente apparizione di Cristo anche
nell‟abiezione della storia (In ogni nostro simile), richiamando alla mente «il mal seme
d‟Adamo» che si getta nella nave di Caronte in Inf. III, 115.
Ma anche nella seconda parte del libro una nuova allusione al mondo come luogo
dell‟inautenticità utilizza il sintagma «desolata lacca» (Gli uomini o la loro maschera), che, a
seconda dell‟accentazione peccaminosa che si vorrà dare al passo, potrà provenire dalla «quarta lacca» degli avari e dei prodighi (Inf. VII, 16) o dalla «rotta lacca» del settimo
cerchio dei violenti (Inf. XII, 11); e anche in questo caso Luzi chiama esplicitamente
«inferno» e «commedia» questo luogo, ma la posizione avanzata di questo componimento – ormai verso il riconoscimento della salvezza dei frammenti – richiede al poeta
di concedere alla scena una speranza di «semina»: «solo così rigermogliano / e sono
riconquistati al movimento, / al fuoco, all‟eterna metamorfosi»4. Allo stesso modo,
1 Nell‟occorrenza luziana del lemma «scriba» non coglie intenzioni oppositive, né tanto meno antifrastiche rispetto alla fonte dantesca MARIA SABRINA TITONE (Cantiche del Novecento. Dante nell‟opera di Luzi e
Pasolini, Firenze, Olschki, 2001, pp. 137-202: 138) che, invece, preferisce vedere una continuità fra la
«materia» di cui Dante è «fatto scriba» e «le insidie di un mondo opaco», «i criptogrammi di una realtà
complessa», i «lacerti policromi» che Luzi si dispone a sfidare, risolvere, infine «battezzare». La studiosa si
riferisce soprattutto all‟uso di quella voce nell‟articolo del 1972 L‟incanto dello scriba (ora in MARIO LUZI,
Naturalezza del poeta, cit., pp. 126-134), piuttosto che alla sua presenza nei versi del Battesimo.
2 In questa poesia contiene un‟eco dantesca anche il «quid silvestro» che brucia negli occhi del vecchio
poeta (Inf. II¸142; XIII, 100; XXI, 84; Purg. XXX, 118), mentre ORESTE MACRÌ («Epifania» luziana di un
«maestro», in «Michelangelo», XVII, 71-72, gennaio-aprile 1989, pp. 3-6), in una nota analitica da par suo,
ipotizzava ulteriori tracce dantesche, forse un po‟ troppo sottili.
3 Nella medesima prima sottosezione di “Notre-Dame la pauvre femme” compare, peraltro, anche un
termine che evoca chiaramente il paesaggio infernale, «rocchio», che in Inf. XX, 25 e XXVI, 17 indica le
sporgenze rocciose di Malebolge, ma esso subisce in Chi parla la parola… una totale sublimazione, indicando l‟inabissamento della materia nel mistero del suo significato e poi, addirittura, lo scivolamento della lingua verso la sua matrice sacra.
4 All‟inverso, le «tube» di Esplose una galloria (in “Bruciata la materia del ricordo”) degradano il paradisiaco «canto che tanto vince nostre muse, / nostre serene in quelle dolci tube» (Par. XVII, 7-8; ma cfr.
anche Purg. XVII, 15 e Par. VI, 72), in una metafora dell‟arroganza con cui l‟uomo dichiara i propri rinne-
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proprio nella lirica seguente (Gli alberi a cui il frutto cade) un verbo di chiaro blasone
dantesco, „scerpare‟, allude, sì, alla dannazione degli uomini-albero (Inf. XIII, 35-36:
«[…] Perché mi scerpi? / non hai tu spirto di pietade alcuno?»), ma viene ricontestualizzato in una riflessione sulla sofferenza che porta alla rinascita: «e gli altri / a cui
viene scerpato verde / trinciate foglie e rami / e quelli ancora / che frutti non ne danno / […] tutti indistintamente / […] si preparano all‟invaso / della nuova fertilità».
Il culmine di questo percorso di rivisitazione dantesca si ha opportunamente nelle
ultime pagine di “Notre-Dame Notre-Dame” (Colme le valli…), laddove le fattezze della ben nota allegoria femminile sono assunte dalla madre defunta, la quale ascende
come una Madonna dalla «gora / di un infernale esgorgo» (ricalcata sulla «morta gora»
di Inf. VIII, 31) fino a un‟«insondabile sommità», per poi scendere incontro al figlio «da
un azzurro rupestre / di pensieri / incendiati sulle cime», versi che occultano un ipotesto squisito, quello dell‟apparizione della maggiore icona parentale della Commedia, il
trisavolo Cacciaguida; anche in questo caso Luzi consente di rintracciare la fonte, attraverso il ricorso all‟hapax «superinfusa»1, contenuto nel celeberrimo saluto al pronipote: «O sanguis meus, o superinfusa / gratia Dei […]» (Par. XV, 28-29), da intendersi non
come „abbondante‟, ma – come voleva Brugnoli – „infusa dall‟alto‟2.
Se ho osato definire il Battesimo una sorta di satura luziana (con riferimento alla varietà dei temi, ma anche a una certa mescolanza stilistica) è anche perché numerosi sono i debiti qui contratti con Montale, ancorché riguardino meno il suo quarto libro
che i precedenti, quelli che hanno plasmato (per emulazione o per differenziazione)
almeno due generazioni letterarie formatesi nel cuore del secolo. È persino possibile
che qualche dantismo sia pervenuto a Luzi attraverso la mediazione di Montale, come
il verbo „dirocciare‟ (Inattesa gli si fa incontro l‟acqua dirocciando, ottava lirica di “Reportage”), detto dei fiumi infernali in Inf. XIV, 115, ma ripreso negli Ossi di seppia (Fine
dell‟infanzia): anche il «brago» pechinese della lirica finale di quella sezione è memore,
sì, di quello a cui è paragonata la palude stigia (Inf. VIII, 50), ma filtrato dalla sua occorrenza nella terza poesia di Satura, dove si riferisce a un altro totalitarismo, quello fascista; e analoga, in Montale e in Luzi, è la mera occasionalità del riferimento storico,
che serve solo da impulso per un salto metafisico. Ma alcuni loci montaliani hanno
funzionato in maniera più profonda, come L‟anguilla, che deve aver ispirato un po‟
tutte le allegorie naturalistiche di “Dal grande codice”, e soprattutto Pernice (per la «rotta […] / ben addentro al suo dominio»), Fiume da fiume (per il trascinarsi fra la melma e
le «pozzanghere») e Trota in acqua (per il suo risalire nonostante l‟avversità degli elementi).
Si può essere incerti circa la derivazione dell‟accoppiata di «nadir e zenith», su cui
ruota la lirica centrale del Battesimo, da La bufera e altro (L‟ombra della magnolia…), ma di
sicuro vengono da quel libro i sintagmi «zampettio di talpe» e «abbassano la celata»: in
gamenti quotidiani: «[…] “non conobbi mai quell‟uomo / né altri” detto chiaro / da tutte le sue voci, /
intonato da tutte le sue tube».
1 Il primo sistematico studio dei dantismi contenuti in tutta l‟opera Mario Luzi è quello di DANIELE
MARIA PEGORARI, Vocabolario dantesco della lirica italiana del Novecento, Bari, Palomar, 2000, pp. 497-555;
sulla filigrana stilnovistica costituitasi già negli anni Trenta-Quaranta aveva focalizzato l‟attenzione il saggio, dello stesso autore, Neo-stilnovismo del giovane Luzi, in «Studi Medievali e Moderni», 2, 2000, pp. 151173; poi, in una redazione perfezionata e completata da un secondo capitolo sulla presenza della Commedia in tutta la successiva produzione luziana, in ID., Il codice Dante. Cruces della „Commedia‟ e intertestualità novecentesche, Bari, Stilo, 2012, pp. 173-246.
2 Cfr. GIORGIO BRUGNOLI, Superinfusa, in Enciclopedia dantesca, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1970.
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Nella serra Montale collocava lo «zampettio / di talpe» quale primo di una serie di correlativi oggettivi enigmatici che fanno scattare la rimemorazione di un passato „vuoto‟,
finalmente colmato dalla presenza (sia pur sublimata) di Clizia/Iride1; in Alfabeto infernale Luzi ne fa, invece, il segno ctonio, se non proprio demoniaco, di un‟età violenta,
ancorché in essa sia pure da attendersi il «tempo» di un «amore grande». Nell‟altro caso l‟immagine luziana dei „giustizieri proletari‟ che «abbassano la celata» (A che nere riserve) conferisce una precisa valenza storica all‟«avversario» metafisico di Montale (il
suo «male di vivere», si direbbe) che in Nel sonno «chiude / la celata sul viso». Almeno
tre, poi, sono i prelievi degni di nota da Le occasioni: il «nero risucchio» di E adesso sul
finire del round (in Bassa marea Montale scrive «lugubre risucchio»), la vita come «mulinello» di Perché luce ti ritrai (metafora già adoperata da Montale in Sotto la pioggia) e la
pacifica «irrequietudine» della già citata Essere rondine, che ricorda l‟«irrequietudine» di
Dora Markus, paragonata «agli uccelli di passo che urtano ai fari nelle sere tempestose»
e connotata ugualmente in maniera ossimorica, come sintesi di «tempesta» e «dolcezza». Anche il «borborigma» da cui provengono solo frantumi – Frasi – di significato ha
un‟ascendenza da Montale, e proprio da quello poetologico (L‟obbrobrio, in Quaderno di
quattro anni), ma si tratta di un passo poco amabile, in cui il poeta genovese professa
l‟inferiorità della «poesia sociale» alla scrittura dell‟«uno», considerando la prima niente
più che «frantumazione e polvere», peraltro non passibili di battesimo.
Altri echi letterari sono ravvisabili qua e là, come al v. 3 di Perdita della memoria –
«“L‟acqua che tocchi dei fiumi…”» – citazione virgolettata e sospesa da Leonardo da
Vinci (Pensieri, 35) che riprende la celebre metafora eraclitea sullo scorrere del «tempo»; ma più spesso si tratta di memorie vaghe, forse anche inconsapevolmente recuperate. Di questo genere di intertesti basteranno due esempi, uno classico e uno contemporaneo: citazione camuffata e per questo non virgolettata, ma ugualmente interrotta da punti di sospensione, è il primo verso di una poesia di “Notre-Dame la pauvre femme” («Il poema, l‟amore, il fatto d‟armi…»), dedicata al momentaneo appannamento di senso della letteratura, se non addirittura al distacco dalla tradizione moderna, esemplificata evidentemente dall‟Orlando furioso, il cui incipit, si ricorderà, era «Le
donne, i cavallier, l‟arme, gli amori»); ci riporta, invece, alle letture giovanili di Luzi il
«limìo» di Madre, madre mia, un‟elegantia registrata già nell‟Allegria di Ungaretti (Silenzio)2.
In casi come questo gli echi iperletterari arricchiscono il registro colto del libro cui
sono da ricondurre anche aulicismi come «eptacordio» (Il pianto sentito piangere), «aguglia» (Finito cosa?), «fabbriceria» (Non tra i bambini), «gallòria» (Esplose una galloria) e il caso
particolarissimo di «egrégoro» (Appena scisso in alto), aggettivo greco antico che vuol
dire „desto‟ e che probabilmente Luzi aveva recepito dalla tradizione massonica, mutandone però arbitrariamente il senso, che qui è pressappoco quello di „cricca, accolta‟,
forse per influenza paronomastica del latino grex. Ma il repertorio elegante contempla
anche latinismi autentici come «quid» (Abiura io? e Lei esumata da una già completa dimenticanza), «rictus» (A che nere riserve) e «animula» (Fiume da fiume), sintagmi contaminati
come «coram quale populo» (Non sta lei alla sua parte) e francesismi come «morgue», «et
1 Cfr. MARICA ROMOLINI, Commento a «La bufera e altro» di Montale, Firenze, Firenze University Press,
2012, pp. 253-256.
2 D‟altra parte, che la poetica luziana sia il risultato di una complessa mediazione culturale, che contamina il dantismo con la tradizione letteraria primo e medio-novecentesca italiana e angloamericana, con
particolare riferimento a Rossetti, Pound e soprattutto Eliot, lo ha ben dimostrato, con abilità più teoriche che intertestuali, LORENZA GATTAMORTA, La memoria delle parole. Luzi tra Eliot e Dante, Bologna, Il
Mulino, 2002.
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c‟est fait» (Non trattenute le immagini), «maître» (In salvo?), «Mon âme» (Rifulse, si screziò
diaspro), «malgré tout» (Poi malgré tout è fine febbraio o marzo), «O mère» (Pausa, quella, o
interregno?), «O femme» (Colme le valli), «O Reine» (In Italia), oltre a quelli usati nei titoli
delle sezioni più volte ricordate in queste pagine.
Ma, al culmine di un processo di sperimentazione formale ch‟era partito con Nel
magma, il Battesimo prosegue nell‟ibridazione di questo registro alto con forme che precipitano la lingua nel caos della prosa1, cui rinviano direttamente termini come «bancarotta» (Giocano al ribasso sulla vita), «oblò» (Si rivede sola in fuga) e «cricca» (Qui il potere è
sommo); anglicismi di uso mediatico come «round», «out» (E adesso sul finire del round»),
«star» (Non trattenute le immagini), «Wall-Street», «killers» (Giocano al ribasso sulla vita) e
«jets» (Pernice); voci popolari come «batticina» (In salvo?) e «gibigianna» (Acciambellato in
quella sconcia stiva); fino a neologismi di conio luziano come «ultrasuperbia» (Abiura io?),
«snifflando» (Di chi è la lingua), «aquilare» (Rifulse, si screziò il diaspro), «acquilunio» (Non
passò vento), «infrasentita» (Frasi) e «gluisce» (Canto). Questo è, come si diceva, il carattere che fa di Per il battesimo dei nostri frammenti una satura o, se si preferisce, una commedia di fine Novecento, in cui cessano di distinguersi l‟alto e il basso, il colto e il popolare, il sublime e l‟abietto. La varietà delle forme, di cui qui si è dato solo un veloce e
parzialissimo campionario, è coerente con la poetica dei frammenti, dei brandelli di senso e realtà che sopravvivono all‟esplosione della nostra civiltà e che, però, proprio al
fine della loro intenzionale e futura ricomposizione in canto, conoscono anche alcuni
stratagemmi di armonizzazione, ovvero modalità stilistiche che in maniera costante
vengono applicate in ogni zona del libro, conferendovi uniformità e organicità2.
La più evidente è la frequentissima forma interrogativa, solitamente ripetuta anche
all‟interno della stessa lirica, talvolta con omissione del punto di domanda: ne dà
esempio già l‟incipit del libro: «C‟era, sì, c‟era – ma come ritrovarlo / quello spirito
nella lingua / quel fuoco nella materia. / Chi elimina la melma, chi cancella la contumelia?». Ma spesso le domande sono repentine e brevissime, intervenendo a spezzare
la ritmica: «ma quando?», «ma dove?», «fino a quando?», «ma perché», «Io quella?
forse, ma dove e quando?», «Altrove, sì, ma dove?», «A sé sempre più addentro?»,
«Io?» e via così, attribuendo finalmente alla nozione ermetica di „attesa‟ una figura stilistica appropriata, la domanda, appunto, che funziona come continuo motore conoscitivo, spinta al ragionamento, apertura a ogni possibile epifania. Le interrogative qui si
complicano con un secondo espediente, quello delle disgiuntive, delle ipotesi alternative lasciate „a vista‟, sul modello della prima di esse che compare nel finale della se1 Lasciandosi alle spalle l‟equazione continiana – ormai per più aspetti messa in discussione – fra ermetismo e monolinguismo di tradizione petrarchesca, ALFREDO LUZI (Dante nella poesia di Mario Luzi, in
«Innumerevoli contrasti d‟innesti»: la poesia del Novecento [e altro]. Miscellanea in onore di Franco Musarra, a cura di
BART VAN DEN BOSSCHE et alii, Leuven-Firenze, Leuven University Press-Cesati, 2007, vol. II, pp. 223230: 229) vede nella «lingua plurima» del Luzi maturo l‟espressione dell‟«esigenza di una poesia che interpreti la complessità del reale», la quale ha essa stessa radice nel «modello dantesco» di cui ho dato qualche
saggio nelle pagine precedenti.
2 Insiste molto sul carattere «composito anche sotto il profilo lessicale e stilistico» di Per il battesimo dei
nostri frammenti la ricca monografia di LISA RIZZOLI E GIORGIO C. MORELLI (Mario Luzi, Milano, Mursia,
1992, pp. 167-187) che ne individuano poi con ampia casistica gli accorgimenti formali più ricorrenti:
l‟uso intermittente del corsivo per le poesie che fungono da «commento» alla poesia precedente,
«l‟andamento interrogativo» («il più importante dato stilistico di questa raccolta di Luzi, presente già in
precedenza, sebbene non in modo così massiccio»), «le proposizioni antitetiche o alternative che si concludono, quasi sempre, con il punto interrogativo», «l‟uso della disgiuntiva “o”», «gli ossimori [che] tendono a volte a divenire una specie di endiadi».
89
conda poesia: «Infranta la parabola? / o è questa, / negata dal suo rovesciamento, parabola / anch‟essa, oltrepassata la lingua e il testo?». Più spesso si tratta di formule più
lapidarie: «grida, / o le sembra», «O è un inganno, solo, del mutamento della scena?»,
«dopo la fine o in un interminabile interregno – quando? o quando non ha senso?», «a
Montepulciano o a Pienza / o è lei in me».
Parallelamente Luzi rafforza la gamma delle opposizioni col ricorso a svariate forme
di antitesi e ossimori: «coagula e disperde», «mortale e vitale trasalimento», «creato e
increato», «Risposte non ne danno. Neppure le negano», «è sua madre / e sua figlia
simultaneamente», «avversi sempre e concordi», «prossima / e lontana», «di libertà e
d‟obbedienza», «dell‟unicità / e della simiglianza», «Sa il fiume e non sa», «chiara e oscura», «io, lei, altri da lei e da me». Tutto ciò concorre a creare non un clima di indecidibilità e di perplessità scettica, ma le condizioni per un superamento della logica delle
contrapposizioni binarie, su cui si regge la ragione umana (in particolare quella occidentale e matematica), ma che forse non è in grado di spiegare la complessità del
reale1. Ineffabile, dunque, non è tanto il divino, quanto lo stesso dominio umano,
sicché il poeta trova maggiore convenienza a lasciare aperte tutte le ipotesi di significazione, giacché quasi sempre la verità si palesa agli occhi dei mortali ora in una forma
ora in un‟altra, ma in sé contempla coesistenze e non opposizioni.
Non altrimenti funzionali sono i puntini sospensivi (a volte in clausola sostituiti da
un trattino) che alludono a un‟interruzione solo momentanea, alla natura costitutivamente incompiuta di ogni microtesto che non può chiudersi in sé, ma deve cercare il
proprio senso nella lirica attigua o nelle parole „esplose‟ in altri spazi e in altri tempi
dell‟evento creazione/lettura. Questo genere di interpunzione (in aggiunta ai fenomeni
sintattici descritti subito prima) dà evidenza grafica e stilistica al tema della sospensione del giudizio storico, che ha animato tutti i libri luziani degli anni Sessanta e Settanta, culminando – non è stato mai notato, credo – nel primo dramma, il Libro di Ipazia, che, al di là degli accenti posti sul conflitto di civiltà, sulla critica all‟etica della verità e persino sul femminicidio (come si dice oggi), attribuisce alla grande matematica e
filosofa alessandrina soprattutto una forma moderata di epoché, determinata sia dalla
ricerca di un equilibrio interiore impermeabile alle passioni, sia dalla comprensione che
la verità consista in un processo lento che si dispiega anche attraverso i suoi contrari.
Spesso queste figure di stile si concentrano nelle clausole, laddove cioè la varietà delle
occasioni o i disiecti membra poetae2 tendono al proprio acquietamento pietoso (sul piano
morale) e uniforme (sul piano stilistico), non di rado dando spazio a tonalità invocative, più che esclamative: «Oh età…» (Non trattenute le immagini), «Oh storia / oh sangue dilapidato» (Prima o dopo l‟esperienza?), «Oh sperpero, sperpero di sangue» (“Diventa
presto passato…”), «Oh, sarà» (Non la tollera oltre), «Oh vittoria […] / Vittoria, vittoria
impietosamente» (E ora, dopo un calo di forze), «Oh mio fratello» (Io? io, lei, altri da lei e da
me). Altro accorgimento per le chiusure dei testi è quello di una forma grammaticale
1 Sulla sconfitta della «mente» scrive MARA FABBRI (Poesia dell‟essere e lingua naturale: il frammento di Mario
Luzi, in «Critica letteraria», XV, 54, 1987, pp. 103-122: 113): «La conoscenza-identità con l‟essere passa
per l‟umiliazione dell‟uomo, della mente e della parola. L‟uomo deve rinunciare al suo effimero potere, la
mente deve uscire dal logos per aderire al movimento dell‟essere, la parola deve restituire il primato al
silenzio».
2 QUINTO ORAZIO FLACCO, Satire I, 4, 62; l‟espressione forse era ispirata al mito di Orfeo „fatto a brani‟ dalle donne tracie, ma è divenuta proverbiale (soprattutto nella forma semplificata disiecta membra) per
indicare le membra disperse di ciò che un tempo aveva costituito un corpus unico, soprattutto con accezione storico-culturale.
90
molto ricorrente nel Luzi maturo, cioè l‟avverbio in -mente, che credo di non sbagliare
se ipotizzo come riverbero della parola più famosa del libro precedente (se mai può
darsi la memorabilità di una singola parola all‟interno di un‟opera): mi riferisco a
quell‟avverbio «ignominiosamente» che, ripetuto ben sei volte in una lirica di dieci versi di Al fuoco della controversia, impone la propria inedita poeticità giusto in virtù
dell‟iterazione e della petrosità cacofonica. Da quella celebre profezia sulla morte della
«repubblica» (ahi quanto esatta!) l‟avverbio non ha mai cessato di rimbombare nella
mente dei lettori e trova i suoi echi intratestuali nelle numerose apparizioni analoghe
di Per il battesimo dei nostri frammenti, di cui per brevità mi limito a riportare i soli esempi
più importanti, ovvero quelli che interessano la posizione forte finale, a volte anche in
presenza di interrogazioni o sospensioni: «spietatamente» e «subitamente» (rispettivamente in chiusura delle due strofe di E adesso sul finire del round), «irrevocabilmente»
(Alfabeto infernale), «inverosimilmente» (Giocano al ribasso sulla vita), «misericordiosamente?» (A un tratto), «Prossimamente» (Ma ecco dai suoi penetrali), «infinitamente…» (Il
fiume ancora intatto), «incredibilmente», (Poi malgré tout è fine febbraio o marzo), «impietosamente» (E ora, dopo un calo di forze), «prodigiosamente» (Fiume da fiume), «perdutamente»
(Cerere mai avuta per madre), «strenuamente…» (Battito delle stelle o delle sue tempie?), «ottusamente» (Questa immagine gli rimanda di sé il cavo specchio), «compiutissimamente?» (Sei
tanto lontano), fino a quel «perpetuamente…» (Canto) che è poi la parola finale
dell‟intero libro.
Questa dialettica continua fra frammentazione e armonizzazione, che si è osservata
sul piano strutturale, su quello tematico e su quello stilistico, spiega anche la peculiarissima metrica di questo libro, che – anticipata dall‟esempio del Franco cacciatore di Caproni1 – ricorre anche alla valorizzazione grafica della pagina. I versi, infatti, non sono
tutti allineati a sinistra, ma frequentemente si spostano a destra, in corrispondenza col
punto di interruzione del verso precedente: si badi, però, che non si tratta dell‟arcinoto
espediente dello scalino (al quale è ancora da ricondurre il metodo d‟impaginazione
scelto da Caproni), che comporta che il verso rientrato sia inteso come la continuazione metrica del precedente (e infatti non viene numerato), bensì di un accorgimento
nuovo per il quale tutte le stringhe versali (qualunque sia l‟allineamento) costituiscono
unità metriche indipendenti (e vengono perciò numerate)2. La curiosa impaginazione,
allora, crea innanzitutto l‟impressione visiva di una lingua dispersa, di una sonorità che
deve contendere lo spazio al silenzio, il quale non è l‟abisso dell‟insignificanza, bensì la
misura dell‟auscultazione interiore, la sospensione in cui si accampa il significato inesprimibile, secondo una lezione che Luzi mostra di apprendere dal Vangelo (in particolare meditando sulla redazione di Luca).
Mentre il «nostro tempo» ci disabitua al «silenzio», trasformando «la parola» in uno
strumento «per non dire», «per dissimulare un pensiero oppure per simulare un pensiero inesistente», il linguaggio cristico «richiama la parola alla sua fonte, alla sua scaturigine» che sarebbe, appunto, il silenzio che «esalta la parola» e ci ricorda che «c‟è qual1 GIORGIO CAPRONI, Il franco cacciatore (1973-1982), Milano, Garzanti, 1982; ora in ID., L‟opera in versi, a
cura di L. Zuliani, intr. di Pier Vincenzo Mengaldo, Milano, A. Mondadori, 1998, pp. 391-531 (apparato
critico alle pp. 1573-1626).
2 CATHERINE C. O‟BRIEN (A reading of Mario Luzi‟s „Oscillano le fronde‟ and „Vola alta, parola‟, in «The Italianist», 15, 1995, suppl. 1: Italian Poetry since 1956, pp. 156-165: 162) tenta una non peregrina spiegazione
sociologica di questa frantumazione metrica: «Here the lines are far more fragmented and do not conform to any particular metric format, reflecting, perhaps, Luzi‟s views on the splintered nature of society
in the 1980s».
91
cosa» che, pur essendo inesprimibile nell‟«economia delle parole umane», è preservato
nel «tempo interno delle parole che invece si possono dire».; in questo silenzio si prolunga infinitamente la «predicazione», anzi «accumula profondità» e, lungi dall‟interdire
la conoscenza, affianca alle scienze delle «idee» e delle «formule» quella del «mistero»,
che coincide con la memoria inesplicabile di un «superiore universo»1. Ma, al contempo, proprio da quella lezione proviene il concetto per cui il silenzio non divide, ma «è
come una sintassi che lega […] nel linguaggio le varie parti», e ciò sostiene la tramatura
ritmica del Battesimo, in cui i versi, staccati sì, ma allineati in posizione di continuità
ideale, mostrano il proprio anelito all‟unità, in un‟incessante dialettica fra caduta e ritorno, fra atonalità e musicalità.
È questa la lezione altissima di Per il battesimo dei nostri frammenti, alla quale si atterrà tutto l‟ultimo ventennio dell‟itinerario luziano, ritrovando in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini la più pura origine ermetica di questa dialettica: il succedersi di stasi, estasi
e memoria che aveva già dato la struttura a Biografia a Ebe. Ma, a differenza di quella e
delle altre prove giovanili, dominate da un espressionismo di gusto campaniano, le
opere mature non rinunceranno più alla leggerezza musicale e alla naturalezza, che sono fra le maggiori conquiste del Battesimo, l‟opera che mette a tema il superamento definitivo dell‟egolatria petrarchista che sopravviveva anche nel simbolismo e nella poesia pura otto-novecentesca, agiti da uno «scriba» logoteta fiducioso nella rivelazione di
un‟incontrovertibile Verità. Da questa confessione dei limiti della «parola» quando
pecchi di hybris, mostrandosi indifferente alle «cose», scaturisce il rito frammentario,
disarmonico e ibrido che prepara a un battesimo di significato, di cui il poeta, però, non
potrà essere il „celebrante‟ (come un redivivo Mallarmé2), ma solo il „catecumeno‟,
condividendo col lettore la sua instabile e metamorfica posizione di principiante.
1 MARIO LUZI, Vangelo e poesia, in «il Nuovo Leopardi», 46, 1995; ora nella “Parte Seconda” di La porta
del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, a cura di Stefano Verdino, Casale Monferrato (AL), Piemme, 1997,
pp. 146-154.
2 È probabile, peraltro, come osserva anche SARAH BERNASCONI in quella che attualmente è la più
aggiornata monografia sul nostro poeta (Tra cielo e terra. La metamorfosi del sacro nella poesia e nel teatro di Mario
Luzi, Firenze, Cesati, 2005, p. 112n), che «i versi frastagliati, caratterizzati dalla presenza di spazi bianchi»,
siano stati suggeriti anche dall‟esperienza traduttiva, «tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta»
dei Plusieurs sonnets e di due frammenti de L‟après-midi d‟un faune di Mallarmé.
92
«È LA VITA CHE RESTA SUL CAMPO»:
LA CRUDELE AUTONOMIA DEL TEATRO
Concepito e messo in scena nel cuore degli anni
Ottanta, il terzo dramma di Mario Luzi rende evidente il dissidio che si agita all‟interno della scrittura dell‟autore fiorentino: proprio mentre le sue
raccolte liriche tornano a farsi metafisiche e sublimi, il teatro e i discorsi pubblici si implicano ancor di più nelle istanze civili che si erano affacciate
con prepotenza a partire dagli anni Sessanta. La
doppia necessità dell‟autonomia della letteratura e
del suo impegno nella realtà (che è anche il riflesso
della distinzione fra lo statuto dell‟arte e la contingenza dell‟autore) è al cuore di questa „tragedia
inesplosa‟ e del suo ineffabile protagonista.
Conceived and set in the midst of the eighties, Mario Luzi‟s
third play sheds light on the rift that writhes in the Florentine author‟s writing : just as his collections of poems become
metaphysical and sublime again, his plays and public
speeches get even more entangled with the civilian motions
that had overwhelmingly burst out in the Sixties. The
double need for a literature that, though independent, is
committed to real life (which also reflects the distinction between the laws of art and the author‟s contingency) is at the
heart of this „unexploded tragedy‟and its ineffable leading
character.
T
opera teatrale di Mario Luzi, Hystrio, pubblicato e messo in scena per la
prima volta nel 1987239, è il dramma o la tragedia inesplosa che, attraverso
un‟efficace macchina metateatrale che non è potuta sfuggire a nessuno, conduce a una riflessione sull‟orgogliosa professione di autonomia dell‟arte che si traduce,
però, in artificio e astrattezza, di cui la roboante retorica, l‟affettata pronuncia e
l‟artificiosa gestualità del protagonista maschile sono l‟espressione, denunciante, invero, una desolata «privazione di vita»240. Ciò non toglie, tuttavia, che, sotto questo prevalente significato, si agiti anche l‟ossessione luziana per la difesa dell‟arte
dall‟ingerenza del controllo politico e, forse ancor più, da ogni forma di omologazione
e conformismo, trappole sempre pronte a scattare nella società sottoposta al regime
della comunicazione. I due livelli interpretativi non sono in contraddizione o, meglio,
coesistono perché la contraddizione è il tema di questa „post-tragedia‟: sublime è la
„verità‟ dell‟arte rispetto alla menzogna della tirannide, ma la vittima inevitabile è il
„corpo reale‟ delle donne e degli uomini, strumentalizzati dal potere, ma sconosciuti al
teatro.
Nelle parole pronunciate nella sc. I dell‟atto I dal Secondo Emissario a proposito
dell‟operazione chiamata in gergo «mummificazione del Capo»241, si nasconde, peraltro, l‟allusione all‟intero Novecento come età di una lenta agonia e, addirittura e più in
generale, alla stessa postmodernità come tempo anti-romantico, come consunzione
ERZA
Hystrio (Milano, Rizzoli, 1987) fu rappresentato per la prima volta l‟8 settembre 1987 al Teatro
dell‟Ara di Ierone di Siracusa per la regia di Salvo Bitonti e l‟interpretazione di Paola Borboni, Sebastiano
Lo Monaco, Andrea Bosic e Cristina Borgogni.
240 In ciò si risolve negativamente la confusione fra «finzione scenica» ed «esistenza» secondo Giancarlo Quiriconi, uno dei più costanti lettori di Luzi, nella Nota di postfazione alla prima edizione di Hystrio,
cit., pp. 141-146: 144.
241 MARIO LUZI, Hystrio, Primo Tempo, sc. I, in IDEM, Teatro, postfazione di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1993, pp. 201-310: 212. Da questo momento in poi i loci di questo dramma saranno segnalati in nota tramite l‟indicazione del Tempo (come qui Luzi indica ciascun atto), della scena e dei numeri di pagina, che si dovranno intendere riferiti sempre all‟edizione ora citata, che raccoglie tutte le pièce
da Libro di Ipazia a Io, Paola, la commediante.
239
94
„molecolare‟ (per usare il termine in accezione gramsciana) ai limiti dell‟invisibilità242.
Al capo opposto della pièce, nella sc. II dell‟atto IV, si annida un‟interessante riflessione
sulla natura della tragedia che, in una certa misura, corregge la teoria steineriana della
sua morte nell‟età tardo-borghese243: all‟idea che la tragedia sarebbe resa «impossibile»
dalla «filosofia dialettica» moderna (nelle diverse varianti del cristianesimo,
dell‟idealismo e del marxismo) che «elimina l‟oscurità», si contrappone l‟intuizione che
«la più tetra tragedia è quella che non ha forza di esplodere, / ed è troppo misera per
manifestarsi come tale / e si lascia corrodere e soppiantare da banale corruzione»244.
Sembra di trovarsi, qui, dinanzi alla teoria di un tragico postmoderno e insieme alla
metafora della crisi della nostra repubblica, sulla quale Luzi andava riflettendo almeno
da certi notissimi accenti di Al fuoco della controversia (1978)245. In verità, ancorché i vaghi accenni storici facciano pensare a una dittatura nel quadro del Patto di Varsavia,
con suggestioni della vicenda bulgara di Todor Zhivkov, il drammaturgo opta per un
tratteggio così sfumato da prestarsi a considerazioni che valicano le contingenze storiche, tanto da attingere toni che, alla luce delle vicende dei nostri giorni, potremmo
persino considerare profetici. Penso al monologo del tiranno Berek che chiude il Terzo tempo del dramma, in cui pare preannunciato, con un anticipo di almeno un quarto
di secolo, il pericolo della falsa democrazia propria della nostra età della comunicazione, che, in nome del superamento delle ideologie, ne costituisce, come ha ben visto il
filosofo Perniola, la elevazione in un sistema invisibile e per questo inattaccabile, diciamo pure una meta-ideologia capace di sostenere una „dittatura informale‟246. Così
riflette Berek: «Dicono che siamo anacronistici / riguardo al duemila prossimo, / non
ci saranno uomini che mi assomigliano / e neppure la funzione che esercito, / il terzo
millennio farà pulizia di questi cadaveri / che ancora si aggirano prodotti dalla vetusta
macchina / del potere, intendono, o della sua superstizione. / Eh fosse vero! / fosse
vero! Saremmo liberati tutti quanti infine. Tutti quanti. / Ma non è questo che vedo
dal futuro emergere, / bensì qualcosa d‟altro assai più temibile, un vuoto / al posto
mio e degli altri come me, / un buco, un‟assenza piena di anonima tirannide»247. La
GUGLIELMO PIANIGIANI (Persona e personaggio luziano: “Hystrio” e “Io, Paola, la commediante”, in «Allegoria», VI, 16, n.s., 1994, pp. 172-181: 178) individua il tratto fondamentale di questo dramma proprio
nella separazione, tipica dell‟età contemporanea, fra «possibilità di cambiamento e sua effettiva realizzazione, potenza e atto, flusso statico del continuum e rottura evolutiva di quell‟immobilismo».
243 GEORGE STEINER, The death of tragedy, London, Faber and Faber, 1961; ed. it.: Morte della tragedia,
trad. di Giuliana Scudder, Milano, Garzanti, 1965 (poi 1976, 1992, 1999 e 2005).
244 Quarto Tempo, sc. II, pp. 296-299: 298.
245 Non posso non riferirmi a questi versi: «Muore ignominiosamente la repubblica. / Ignominiosamente la spiano / i suoi molti bastardi nei suoi ultimi tormenti. / Arrotano ignominiosamente il becco i
corvi nella stanza accanto. / Ignominiosamente si azzuffano i suoi orfani, / si sbranano ignominiosamente tra di loro i suoi sciacalli. / Tutto accade ignominiosamente, tutto / meno la morte medesima –
cerco di farmi intendere / dinanzi a non so che tribunale / di che sognata equità. E l‟udienza è tolta» (per
i testi lirici si cita sempre da MARIO LUZI, L‟opera poetica, a cura di Stefano Verdino, Milano, A. Mondadori, 1998, pp. 405-499: 477).
246 Cfr. MARIO PERNIOLA, Contro la comunicazione, Torino, Einaudi, 2004: «Di tutte le mistificazioni della comunicazione indubbiamente la più grande è stata quella di presentarsi sotto le insegne del progressismo democratico, mentre costituisce la configurazione compiuta dell‟oscurantismo populistico» (p. 6);
«la nuova comunicazione», infatti, è «priva della possibilità di verifica e di prova» (p. 7), «si sottrae a ogni
determinazione […]. Aspira a essere contemporaneamente una cosa, il suo contrario e tutto ciò che sta
in mezzo tra i due opposti. È quindi totalitaria in una misura molto maggiore del totalitarismo politico
tradizionale» (p. 9).
247 Terzo Tempo, sc. IV, pp. 285-287.
242
95
profezia dell‟attuale post-democrazia della rete, con tanto di rappresentazione degli
avversari come morti che camminano, non poteva essere più chiara e mette anche un
po‟ i brividi…
La tattica della «mummificazione del Capo», progettata dall‟intrigante Sergio Malik,
prevede, come prima fase, la messa in scena di uno stolido dramma storico sulla vicenda dell‟imperatore Tiberio, opera di un «uomo di penna» di cui non viene mai rivelato il nome e che per di più viene connotato sempre in maniera fortemente sprezzante, come di chi non meriti di essere ricordato248. Un uomo di penna, dunque, più che
di teatro, esplicitamente indicato come «scriba», secondo l‟accezione negativa che questa parola ha nella poesia di Luzi degli anni Ottanta: scribi sono, per esempio, i burocrati della Cina postmaoista da lui visitata e „raccontata‟ nel Reportage incluso in Per il
battesimo dei nostri frammenti, scribi anche i poeti che non si pongono più al servizio della
realtà e dell‟autenticità, ma inseguono la regola stretta e artificiosa della propria retorica esatta e indifferente249.
Dunque il Tiberio non merita considerazione artistica, perché è solo lo strumento di
una macchinazione politica, non contiene verità storica, tanto quanto un dossier calunnioso non serve che a confondere le acque e a mettere in moto la violenta macchina del fango. In questo caso l‟astuzia dei congiurati consisterebbe nel rappresentare in
maniera farsesca la vicenda dell‟imbelle imperatore, chiuso nella solitaria e schiva amministrazione del potere, detentore leale di un mandato repubblicano, ma indisponibile ai fasti e agli eroismi del suo predecessore e per questo impopolare e disamato, anzi
accusato di essere solo un tiranno: il personaggio è amato dall‟ormai vecchio Berek
che s‟identifica nella figura del despota dispotizzato e per questo a lui il dramma verrebbe offerto come una celebrazione e un risarcimento d‟affetto, mentre in realtà lo
scopo è quello di rinfocolare nel popolo l‟astio per un presidente che si atteggia a
principe dinastico.
Ma la trappola sarebbe duplice, in quanto se Hystrio accettasse d‟interpretare la figura del principe, il popolo vedrebbe in lui un celebratore del vecchio despota che ormai
non sopporta più, reso per giunta goffo dagli accenti satirici e antimperiali dell‟opera;
così si ridurrebbe l‟eccessivo prestigio dell‟attore e lo si addomesticherebbe più agevolmente secondo il dettato della ragion di Stato. Viceversa, se Hystrio si rifiutasse, si
coglierebbe l‟occasione per una sua persecuzione politica, magari anche per una punizione esemplare. Dunque l‟anonimia dell‟autore del Tiberio è complementare a quella
di Hystrio, giacché questi è ormai privo di una sua anima e s‟identifica col servizio al
magistero della sua arte e quegli è privato del nome perché è un grigio strumento delle
macchinazioni politiche, ma espressioni l‟uno e l‟altro degli opposti rischi che corre
248 Così viene indicato l‟anonimo autore del cosiddetto Tiberio, «un frusto uomo di penna», «quel tale»
(p. 214), «il trageda» (p. 238), «poeta-pseudo» (p. 240), «poetucolo», «poeta» (p. 242) e soprattutto, per
due volte, «scriba» (p. 266).
249 Per il battesimo dei nostri frammenti (Milano, Garzanti, 1985; ora in MARIO LUZI, L‟opera poetica, cit., pp.
503-706, apparato critico alle pp. 1620-1678) comprende, quale sua terza sezione, il Reportage del viaggio
compiuto in Cina dal 10 al 30 ottobre 1980, in compagnia di Vittorio Sereni, Luigi Malerba, Alberto Arbasino e Aldo De Jaco. La serie era già stata pubblicata nell‟Almanacco dello Specchio (vol. XI, Milano, A.
Mondadori, 1983) e poi, arricchita dalla prosa giornalistica consegnata a «la Nazione» di Firenze nel 1981,
era stata pubblicata col titolo Reportage. Un poemetto seguito dal Taccuino di viaggio in Cina 1980 (Milano,
All‟insegna del pesce d‟oro, 1984). Il termine «scriba», che parifica negativamente i burocrati cinesi e gli
scrittori italiani, compare qui nella prima e, per altre due volte, nella quarta lirica, portando a compimento
un progressivo abbassamento ironico del suo significato, iniziato in Su fondamenti invisibili e in Al fuoco della
controversia.
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l‟arte, lacerata fra l‟autonomia e la compromissione250. Il problema del conflitto fra arte e libertà o, meglio, fra autonomia ed eteronomia dell‟arte è sempre stato un punto
nodale dell‟opera di Luzi e dell‟intera riflessione estetologica circolante nei paraggi della generazione ermetica, come può ricordarci un celeberrimo libro di Luciano Anceschi, il cui maestro Antonio Banfi, si sa, era stato fra gli ispiratori di una delle riviste
ermetiche degli anni Trenta, «Corrente»251.
Su questi temi Luzi era tornato negli interventi intorno al realismo negli anni Cinquanta, nelle stesse grandi poesie di Nel magma a metà del decennio successivo252 e in
quelle più recenti di Per il battesimo dei nostri frammenti. Il dramma del 1987 si colloca,
dunque, al culmine di una riflessione che non può concludersi con una scelta definitiva e serena. L‟autonomia dell‟arte, doverosa e irrinunciabile, presenta, infatti, un costo
troppo alto e inaccettabile. Occorrerà al poeta implorare la sua stessa arte di essere capace di tenere insieme «avvenimento» e «parole», «cose» e «metafora», «nadir» e «zenith»253, perché la complessità del mondo delle cose pretende l‟accettazione del suo
orizzonte, la condanna di un‟arte sublime e algida, come quella professata da Hystrio.
È possibile giudicare bruschi e poco risolti i passaggi sentimentali del dramma, specialmente laddove occorrerebbe rendere plausibili le ragioni dell‟innamoramento di
Hystrio e Giulia, ma va riconosciuto che la stilizzazione della trama è una caratteristica
propria di tutto il teatro di poesia novecentesco e della stessa tradizione melodrammatica, alla quale per certi aspetti esso va ricondotto: in particolare non convince del tutto il finale del Secondo Tempo che culmina nell‟abbraccio dei due. Eppure in qualche
altra scena, come la III del Primo tempo, il pur rapidissimo cenno al passato sentimentale del protagonista basta a offrire la chiave per poter ascrivere quest‟ultimo alla
Molto opportunamente Abenante ricostruisce in proposito la stratigrafia semantica del termine «istrione» negli scritti del poeta fiorentino, cogliendone la genesi in un paragrafo del saggio La creazione poetica? (1973) dal titolo (Parentesi sul poeta come istrione) (dapprima in MARIO LUZI, Vicissitudine e forma, Milano,
Rizzoli, 1974; poi IDEM, Naturalezza del poeta, a cura di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1995, pp.
135-164), «in cui questo termine assume un‟accezione negativa, indicando il poeta che rappresenta se
stesso più che la propria arte e la propria poesia, l‟artista che attende alla propria spettacolarità»: MARIA
ANTONIETTA ABENANTE, L‟opera teatrale di Mario Luzi, in Mario Luzi da Ebe a Constant. Studi e testi, a cura
di Daniele Maria Pegorari, Grottammare, Stamperia dell‟Arancio, 2002, pp. 47-77: 57.
251 Cfr. LUCIANO ANCESCHI, Autonomia ed eteronomia dell‟arte. Saggio di fenomenologia delle poetiche, Firenze,
Vallecchi, 1959.
252 La questione della resistenza dell‟ermetismo sia pur in un confronto costruttivo col neorealismo è
affrontata da MARIO LUZI in una serie di articoli pubblicati sulla rivista fiorentina «La Chimera» fra il
1954 e il 1955 e poi raccolti nel volume Tutto in questione, Firenze, Vallecchi, 1965. Decisiva, però, per un
pieno (e preoccupato) interessamento del poeta alle tematiche della trasformazione neocapitalistica postbellica, sarà la pubblicazione dell‟editio ne varietur di Nel magma, Milano, Garzanti, 1966.
253 Cfr. IDEM, Per il battesimo dei nostri frammenti, cit.: «pilotata nell‟oscuro / l‟ancora tramortita / pattuglia delle parole. / Così resta muto l‟avvenimento» (p. 510); «Superflua / è quella grammatica. / La metafora è già. / Sei tu la metafora» (p. 511); «Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith
della tua significazione, / giacché talvolta lo puoi – sogno che la cosa esclami / nel buio della mente» (p.
591). A confermare la complanarità fra le riflessioni sul „limite della metafora‟ nel Battesimo e il conflitto
fra recitazione e vita nel terzo dramma, soccorre l‟intervista “Hystrio”: il teatro, memoria di vita, rilasciata a
Katia Migliori a Firenze il 15 luglio 1987, in cui il poeta afferma: «Rispetto agli altri due precedenti lavori
[…] il discorso diviene più conciso per dar luogo difatti ad un‟assenza di metafora. È una spoliazione
progressiva. La cosa si presenta da sé, è metafora essa stessa. Dal momento che tutto poi è metafora,
inutile farne ancora» (dapprima in AA. VV., Studi per Eliana Cardone, Urbino, Università degli studi, 1989,
pp. 307-314; poi nella rivista di Gianni D‟Elia, «Lengua», 10, 1990; infine nell‟antologia di quest‟ultima,
Voci di scrittori italiani. Lettere, letture, conversazioni dalla rivista «Lengua» [1982-1994], a cura di ELINA SUOLAHTI e MARTTI BERGER, Helsinki, Artemisia, 1997, pp. 271-279: la frase riportata è qui a p. 274).
250
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schiera degli „inetti‟ o antieroi contemporanei: e non mi riferisco solo o tanto ai lontani
prototipi sveviani, quanto ai più recenti modelli offerti dalla maggior parte dei romanzi
di Umberto Eco. Come per Jacopo Belbo nel Pendolo di Foucault, per Roberto de la
Grive nell‟Isola del giorno prima, per lo stesso eponimo di Baudolino e per Yambo Bodoni
nella Misteriosa fiamma della regina Loana (farebbero eccezione, dunque, i casi estremi e
non casualmente opposti per moralità, ma coincidenti per misoginia: Adso e Simonini)254, anche per Hystrio, intellettuale umanista, la fuga nella separatezza dell‟arte e del
décor è conseguenza di una primaria sofferenza amorosa, di un fallimento sentimentale
che avrebbe dovuto sospingerlo verso la realtà della vita vissuta e che, invece, lo ha
consegnato per sempre alla sublimazione della scena.
Illuminante è, infatti, ciò che le due assistenti personali del grande attore si dicono
proprio mentre egli sta recitando il suo Edipo. Amina ricorda che l‟abbandono da parte di Eliana fu per lui l‟origine di una certa pazzia, «la prima causa di questo suo disordine», e Lisa rincara la dose dicendo: «Scindersi da lei fu come / una nuova tribolata
nascita / a cui non era pronto. Quasi la sua vera Giocasta»255. Dunque, come Edipo
soffre due volte la creduta orfanità e poi la scoperta dell‟involontario incesto, così
Hystrio si condanna a recitare la tragedia ficta di Edipo per non dar corpo alla tragedia
reale della sua appartenenza al mondo della storia, in cui si nasce, si ama, si soffre e si
muore realmente. Ma i nodi, come si vedrà, verranno pure al pettine…
Parallelamente, nella sc. III dell‟atto successivo (il Secondo Tempo) veniamo messi a
parte dell‟antica sofferenza sentimentale di Giulia, la figlia del presidente Berek che si
è innamorata dell‟attore. Non si tratta già di un‟irruzione del passato della protagonista
femminile «senza effettive conseguenze sul presente dei personaggi, risultando quindi
inutile al fine di determinarne le azioni»256. Al contrario, come l‟allusione al fallito
amore giovanile di Hystrio è indispensabile a definirlo come un lucido rinunciatario
verso la vita, così Giulia, che ha sempre inutilmente cercato l‟affetto paterno, dopo la
precoce perdita della madre, ha conosciuto l‟affettazione, il protocollo rituale dei gesti
del dittatore. È lei, insomma, la prima consapevole denunciatrice del potere come finzione, come teatro speculare a quello di Hystrio: ella è, come mi piace dire, la „verità
anche reale‟, cioè la vita irriducibile alla finzione, è la resistenza di un‟autenticità che
saprà spingersi fino a sacrificare il proprio corpo per schermare Hystrio dai colpi del
sicario, non prima di aver indicato le crepe nelle maschere del grande attore e dei potenti, l‟uno e gli altri aggirantisi sulle tavole di una recitazione permanente e avvilente.
È vero, sì, che anche Giulia cerca una qualche sua «liberazione»257, ma non può at254 Questi, nel dettaglio, tutti i romanzi di UMBERTO ECO: Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1980; Il
pendolo di Foucault, Milano, Bompiani, 1988; L‟isola del giorno prima, Milano, Bompiani, 1994; Baudolino, Milano, Bompiani, 2000; La misteriosa fiamma della regina Loana, Milano, Bompiani, 2004; Il cimitero di Praga,
Milano, Bompiani, 2010; Numero zero, Milano, Bompiani, 2015. Il rapporto fra fallimento nella relazione
sentimentale e falsificazione della realtà nell‟opera narrativa dello scrittore alessandrino è indagato
nell‟ampio cap. III di DANIELE MARIA PEGORARI, Il fazzoletto di Desdemona. La letteratura della recessione da
Umberto Eco ai TQ, Milano, Bompiani, 2014, pp. 143-217.
255 Primo Tempo, sc. III, pp. 220-223: 222.
256 Come afferma LAURA PIAZZA, nel suo pur acutissimo studio Il gesto, la parola, il rito. Il teatro di Mario
Luzi, pref. di Federico Tiezzi, Genova, Il melangolo, 2012, pp. 121-152: 131.
257 Nella sc. IV dell‟atto II Giulia dice a Hystrio: «Credo che siamo molto uniti. L‟uno / e l‟altro cerchiamo la nostra liberazione» (pp. 255-261: 260), una condizione da lei ribadita nella sc. I dell‟atto IV: «C‟è
un desiderio di liberazione che, ti ho detto, ci accomuna» (pp. 291-295: 293). Hystrio farà sue le parole
dell‟amante nella stessa scena: «Giulia dolcissima. Tu cerchi la tua liberazione, / tu corri la tua imperterrita avventura. E io / che posso obiettarti? / E poi un grigio inosservato sbirro risolverà la cosa…» (p.
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tenderla da Hystrio, come vorrebbe la topica delle storie d‟amore: anzi, l‟attore si presenta con gli atteggiamenti propri del dandy, dell‟affettato coreografo dei suoi movimenti e apparecchiatore delle scene258, sin dal primo incontro con Giulia che si reca a
fargli visita in camerino dopo uno spettacolo: introdotta dall‟eloquente didascalia «(Recitando)», che funge, in verità, da vero e proprio auto-commento, la battuta pronunciata
da Hystrio in presenza della donna, ma come se lei non potesse ascoltarlo, presenta
caratteri di acceso narcisismo e di decadente morbosità: «Siede […] / la principessa
nella lurida baracca / dell‟istrione e tace. /[…] Tace lei e guarda / il guitto ripulirsi
delle oscene croste / del suo ignobile mestiere, / senza volgersi a lei»259. E poco più
avanti non si potrà non cogliere l‟ironia (e ancora l‟insistenza sulla recitazione permanente) con cui un‟amica di Giulia, Marcella, schernisce il retorico saluto che lui le ha
rivolto: «Scherzosamente recitando, mi piace. / Piace anche a te, piace a tutti noi»260,
parole che insinuano che l‟attore, come non „saprà morire‟ al termine del dramma, così
non sa amare Giulia, se non come la ama il padre Berek, cioè recitando un copione già
scritto (quello galante della scena romantica per l‟uno, quello convenzionale della ragion di Stato per l‟altro). Non per caso il finale vedrà proprio i due uomini – quasi
ipostasi teatrali di Stanislavskij e Stalin in un dialogo immaginario261 – uniti dal comune destino di sconfitti262 dinanzi al cadavere della martire Giulia, il cui eroismo, ormai
impossibile per gli altri, consiste proprio nella potenza della sua umanità, nel suo „saper morire‟263.
Il suo martirio è, sì, paragonabile a quello di Ipazia nella prima pièce, ma non perché
la donna sia nel primo teatro di Luzi «incapace per la sua purezza di sopravvivere alla
mostruosità del proprio presente»264, ma perché essa rappresenta, al contrario, l‟unica
potenza che rimane in grado di riconiugare la verità con la realtà, e che potrei chiamare „ricerca‟: la ricerca della sapienza, nel caso della filosofa alessandrina, la ricerca
295), e in quella finale: «È questo, Giulia, che volevi. È questa per te / e per me la liberazione?» (pp. 304310: 307).
258 Ne assecondano i vezzi decadenti (quasi da Andrea Sperelli) le sue assistenti: Amina dice a Lisa, nel
finale della sc. III dell‟atto I (pp. 220-223: 222): «[…] Provvediamo al camerino. / Il suo lo sai come deve
essere: dove e quali solventi per il trucco, / dove e quali le essenze di magnolia. Poche rose, / rosa, ma in
un calice d‟argento. Eccetera eccetera…».
259 Secondo Tempo, sc. IV, pp. 255-261: 256.
260 Terzo Tempo, sc. II, pp. 272-278: 274.
261 L‟intuizione è del grande regista amico di Luzi, Orazio Costa Giovangigli, che pure non apprezzò
molto Hystrio. Le sue considerazioni si possono leggere nei quaderni inediti custoditi dalla Fondazione
Teatro della Pergola di Firenze, citati da LAURA PIAZZA, op. cit. (passim).
262 Non colgono questo aspetto LISA RIZZOLI e GIORGIO C. MORELLI (Mario Luzi. La poesia, il teatro,
la prosa, la saggistica, le traduzioni, Milano, Mursia, 1992, p. 193), i quali vedono nel finale, piuttosto, la «farsa» di due uomini che si comportano «come se la morte di Giulia fosse loro estranea e l‟esperienza fatta
non avesse portato nessun mutamento ai loro ruoli».
263 GIORGIO MAZZANTI (Hystrio: la tragedia della ripetizione, in Pensiero e poesia nell‟opera di Mario Luzi, a cura di S. Mecatti, Firenze, Vallecchi, 1989, pp. 103-106; e Hystrio dramma della salvezza, in «Città di vita»,
XLV, 3, 1990) e C. ARBIZZONI (La riflessione sul tragico nel teatro di Mario Luzi, in «Vita e pensiero»,
LXXIII, 1, gennaio 1990, pp. 65-78) suggeriscono di leggere in Giulia una figura cristologica, sia pur declinata laicamente, sostenuta da un lessico di chiara provenienza spiritualistica, tale da instaurare rapporti
intratestuali con le liriche di Dal fondo delle campagne e intertestuali con Assassinio nella cattedrale di Thomas
Stearns Eliot. Su questa scia si colloca la lettura tutta religiosa offerta dal paragrafo che a Hystrio dedica la
monografia di SARAH BERNASCONI, Tra cielo e terra. La metamorfosi del sacro nella poesia e nel teatro di Mario
Luzi, Firenze, Cesati, 2005, pp. 169-174.
264 Come vorrebbe ancora LAURA PIAZZA, op. cit., p. 137, che richiama, in proposito, anche il confronto con Corruzione al Palazzo di Giustizia di Ugo Betti.
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dell‟amore nel caso della figlia del tiranno. L‟antieroismo drammatico di Hystrio, invece, è speculare all‟inettitudine che pervade il romanzesco contemporaneo, il suo è
un personaggio statutariamente privato di trasformazione – persino la sua decisione di
astenersi dalla congiura è già data in partenza, anche prima che si provasse Giulia a
dissuaderlo – giacché si tratta, in fondo, di un meta-personaggio, uno, nessuno e centomila,
al di là di ogni drammaturgia forse ormai impossibile265. Il tragico consiste qui soltanto
nel mascheramento perenne del grande attore, narcisisticamente pago di sé, ma indifferente tanto alla realtà quanto ai personaggi che interpreta. Per questo non ha nome,
né il nome proprio, né quello del personaggio prediletto (come talvolta è accaduto nella storia del teatro e del cinema, da Arlecchino a Charlot): egli è solo Hystrio, murato
nell‟anestetizzazione della sua funzione.
A Giulia non resta che attendere i rari momenti in cui la macchina della finzione si
inceppa: «Ti aspetto», dice a Hystrio in una scena già citata collocata nel cuore del
dramma, «quando / l‟elica si spezza e il tuo gioco si interrompe, / e tu, ferito, sanguini
/ in fondo a qualche personaggio, o esci / fuori di esso […]»266, parole queste che i
lettori di Luzi riconoscono agevolmente come l‟eco della celebre Invocazione presente
in Primizie del deserto (1952): «estirpa i rovi, medica le scorze, / ma ferisciti, sanguina
anche tu, / soffri con noi, umiliati in un tronco» (vv. 30-33), e ancora: «pesta le muffe
tristi, i secchi sterpi, /schiantane i nodi, lacera i grovigli, / ma ferisciti, sanguina anche
tu, / piangi con noi, oscurati nel folto» (vv. 47-50)267. Lì si trattava di una sorta di invito all‟Incarnazione, a una Rivelazione della luce che però non dimentichi la sofferenza
dell‟uomo, ma anzi faccia propria la sua disperazione (resa così vivida dagli accenti
danteschi dell‟arborizzazione nascosta in quei versi): su questa filigrana si può riconoscere nel dramma del 1987 la necessità di aspirare a una sensatezza che accolga il dolore
(in tutte le sue forme, compreso il peccato e l‟errore) anziché sublimarlo o fuggirlo.
La contrapposizione fra finzione e naturalezza è ben espressa nel dramma anche dalla distribuzione e dalla caratterizzazione degli spazi. Tutto avviene al chiuso, alternativamente nelle sale del Palazzo presidenziale o dietro le quinte del Teatro che lo fronteggia268, così come spiega la Vecchia Maestra che recita il Prologo («Di qua, monumentali, i pubblici edifici / […] E poi c‟è il teatro, laggiù»)269: sono i due luoghi della
265 Prevalentemente orientata a vedere in Hystrio un „positivo‟ difensore dell‟autenticità, dell‟eternità e
della libertà del teatro, MARIA ANTONIETTA ABENANTE (Finzione e realtà nel teatro di Mario Luzi, in «Linee», I, 1, marzo-maggio 1999, pp. 17-19: 17) enfatizza la distanza del protagonista luziano dai «personaggi pirandelliani», questi afflitti da «annientamento» e «completa perdita di identità», quello, invece, impegnato in un biunivoco scambio di «vita» e «anima» con i «personaggi che interpreta».
266 Secondo Tempo, sc. IV, p. 259.
267 MARIO LUZI, Invocazione, in IDEM, Primizie del deserto, Milano, Schwarz, 1952; ora in IDEM, L‟opera
poetica, cit., pp. 167-204: 177, apparato critico alle pp. 1433-1457: 1439. I lemmi «pruni», «radici», «schiantare» e «sterpi» riconvocano inequivocabilmente alla memoria l‟episodio dantesco di Pier delle Vigne (Inf.
XIII), come documentato in DANIELE MARIA PEGORARI, Vocabolario dantesco della lirica italiana del Novecento, Bari, Palomar, 2000, pp. 497-555 e in IDEM, Il codice Dante. Cruces della „Commedia‟ e intertestualità novecentesche, Bari, Stilo, 2012, pp. 173-246.
268 Per essere più precisi, non hanno una collocazione spaziale specifica i brevi brani affidati alla Vecchia Maestra e alle voci di «Sì e No», mentre le scene dell‟atto I si svolgono nel palazzo del partito, a teatro e a casa di Giulia; quelle dell‟atto II nel palazzo del partito, in un interno del teatro, a casa di Giulia e
nel camerino di Hystrio; le scene dell‟atto III in un club politico, in un parco, nell‟anticamera del palazzo
di partito e nell‟interno privato di Berek; infine quelle dell‟atto IV si svolgono nel camerino di Hystrio,
nell‟ufficio di Berek, in un altro interno dello stesso palazzo e nel ridotto del teatro.
269 Prologo, pp. 203-205. Nella prima messinscena a impersonare la Vecchia Maestra (recitando anche
le parti di «Sì e No» e della nutrice di Giulia, Matilde) era Paola Borboni (1900-1995), la quale proprio in
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convenzione che sconfina nella finzione, da cui è esente solo la già richiamata sc. II del
Terzo Tempo, quella delle confidenze d‟amore di Giulia a Marcella, cui segue
l‟irruzione di Hystrio che, nonostante la frigidità delle sue maniere da dandy, si fa piegare dalla tenerezza di Giulia e la bacia, in una cornice che potremmo definire pastorale, dal momento che siamo in un parco, dunque in uno spazio di natura, incontaminato da quei veleni morali che invece appestano i luoghi chiusi. Ne è consapevole
anche Berek, che nella IV e ultima scena dello stesso atto, dice: «Via, via tutti con le
vostre delazioni e le vostre chiacchiere, / con i vostri adulatorî con i vostri insinuatorî
accenti, / con i vostri serpentini intendimenti. Aria, aria». E a un inserviente ordina:
«Apri le finestre, lascia aperte le porte / di tutte le sale e le camere e le anticamere. /
Che l‟aria circoli, che il sole ci faccia visita», per poi confessare la propria parentela
stretta con l‟«esecrabile genia» degli attori, consacrati dalla «menzogna», dai quale lo
distingue solo il «non avere / quella febbre o quella fisima dell‟arte che loro esibiscono»270.
Hystrio è, dunque, solo superficialmente un dramma sulla tirannia politica, come dimostra il fatto che ben poco vi si esprime delle azioni e del carattere di Berek, la cui
comparsa in scena è, peraltro, limitata alla sc. IV dell‟atto III e alle scc. II e IV del successivo e ultimo atto271: ciò che sfuggì persino a un gigante del teatro italiano del Novecento, Orazio Costa Giovangigli, è che Luzi è qui più interessato a un‟altra crudeltà,
quella speculare dell‟arte che, al servizio della propria autonomia, rischia di essere non
meno cinica e vanagloriosa di ogni altro potere. Il dilemma che agita il poeta è lo stesso che lo mosse giovane a una critica interna al simbolismo: quando fa dire a Giulia,
nella sc. I dell‟ultimo atto: «[…] Penso talvolta / che al suo culmine un‟arte si distrugga»272, non intende solo profetizzare l‟imminente assassinio dell‟artista che si è rifiutato
al complotto, salvaguardando la purezza della sua arte, ma vuol soprattutto fissare
l‟eterno conflitto orfico fra la potenza quasi divina dell‟arte e la limitatezza umana del
poeta, sicché la prima può attingere l‟ideale solo a patto di riuscire nell‟azzardo di divorziare dalla realtà, che però coincide anche con la perdita della sua radice primaria e,
pertanto, col suo inevitabile inaridimento273. E ancora una volta ecco riaffacciarsi il
questa circostanza espresse a Luzi l‟aspirazione di congedarsi dalle scene con un testo scritto appositamente per lei dall‟autore fiorentino; ne nacque, nel 1992, Io, Paola, la commediante, un vero e proprio
omaggio alla Borboni, che però non lo recitò mai, forse per pudore nei confronti di un testo che ne proponeva una certa monumentalizzazione. Dopo la sua morte, però, il testo fu portato in scena da Rossella
Falk (1996) e da Marisa Fabbri (2000 e 2001).
270 Terzo Tempo, sc. IV, pp. 285-287.
271 Tuttavia ci ricorda Taffon che la ritornante suggestione degli intrighi di Palazzo (già affacciatasi nel
Libro di Ipazia e in Rosales) deriva a Luzi dalla notevole esperienza traduttiva del Riccardo II di Shakespeare
(Torino, Einaudi, 1966), dal cui modello deriverebbero i «due piani di azione» di Hystrio: «quello dei congiurati che preparano il loro progetto […] e il piano dei personaggi, per lo più monologanti, che, non
coinvolti come agenti nel primo percorso attanziale, pur tuttavia ne sono implicati come oggetti
dell‟azione prima» (GIORGIO TAFFON, Metateatro e rapporto teatro-vita: una lettura di Hystrio di Mario Luzi, in
«Critica letteraria», XVIII, 68, 1990, pp. 587-597: 595).
272 Quarto Tempo, sc. I, pp. 291-295: 293.
273 Commentando le ultime battute di Hystrio, Mario Specchio scrive con intelligenza: «a me sembra
di udire in queste parole la risposta a quella grande eresia romantica, come tu l‟hai definita, e a tutto un
processo e un percorso di pensiero che arriva fino a Mallarmé. Mi sembra proprio che queste parole rispondano con una umiltà, che però è anche uno scarto in qualche modo, un capovolgimento, alla tragica
ma disumana scommessa di Igitur». E Luzi conferma: «A me è piaciuto che lo dicesse qui proprio Hystrio
che s‟era vantato del contrario. Quindi è una risposta a quello che era il teorema mallarmeano»; in MARIO LUZI, MARIO SPECCHIO, Luzi. Leggere e scrivere, Firenze, Nardi, 1993, p. 170.
101
perfetto parallelismo fra il tiranno e l‟artista: il primo è bersaglio di una «mummificazione», il secondo è vittima di una „mineralizzazione‟ da lui stesso innescata. Come
Prospero nel finale della Tempesta shakespeariana, insieme duca e regista, Berek e Hystrio, l‟uomo di potere e quello di scena, devono riconoscere la propria sconfitta, il
primo non avendo saputo proteggere la figlia col proprio «amore sbagliato»274, il secondo non potendo «soffiare la vita» nel corpo esanime di Giulia: ella, infatti, che sin
dal suo primo incontro con Hystrio aveva detto di non apprezzare il teatro perché è
già «troppo grande la vita, così, da sé», rimane fino in fondo estranea al «copione»,
creatura di quella «vita» che ora «resta sul campo»275, «si sparge sul pavimento»276 e rinfaccia alla sterile immortalità dello hypokrités la sua squallida sostanza, la sua «crudeltà».
Quarto Tempo, sc. IV, pp. 304-310: 309.
Ivi, pp. 306-308.
276 L‟inarrestabile «profusione» di sangue nella storia, apparentemente sprecato e invece sparso come
un seme di continua rinascita è un tema ricorrente della lirica luziana, all‟interno di una visione teleologica, ancorché non ortodossa: basti solo pensare, a mo‟ d‟esempio, alla riflessione sul senso della seconda
guerra mondiale in A mezzacosta (contenuta in Dal fondo delle campagne, 1965: «[…] Colpi / a vuoto, colpi
dati all‟impazzata / non c‟erano, miravano nel segno / se pure era difficile comprendere»: MARIO LUZI,
L‟opera poetica, cit., pp. 257-310: 302), sugli orrori della Cambogia di Pol Pot in (La lite) (da Frasi e incisi di
un canto salutare, 1990: «zig-zag d‟una cangiante / medesima agonia / tra la luce del mondo / e la sua nera
carne. / Necessaria all‟armonia? / Pegno dovuto all‟alleanza? Forse…»: ivi, pp. 707-947: 718) e, soprattutto, alla metafora del Sangue come „segno‟ molteplice di vita, assassinio e «resurrezione» (in IDEM, Sotto
specie umana, Milano, Garzanti, 1999, pp. 156-157: «sua dissipazione antica / nelle stragi palesi e clandestine, / nelle cacce, nelle ecatombi, / nelle mattanze, nelle carneficine, / nelle croci – una alzata ad espiarne / lo sperpero, lo scempio…»).
274
275
102
IL MERAVIGLIOSO CRISTIANO A TEATRO:
IL “CORALE” PALERMITANO
E “IL FIORE DEL DOLORE”
Categoria critica usata di consueto a proposito del
manierismo, almeno a partire dalla lezione di Torquato Tasso, il „meraviglioso cristiano‟ è stato recentemente riproposto in applicazione alla letteratura contemporanea. L‟autore di queste pagine vi
fa ricorso per mettere a confronto due drammi
dell‟ultima stagione di Mario Luzi, in cui l‟epifania
del sacro (nella forma del miracolo o in quello della visione) è interna alla costruzione di un‟allegoria
civile: il debellamento della mafia a Palermo.
Critical category generally used about Mannerism, at least
from the lesson of Torquato Tasso, the „Christian wonderful‟ was recently reproposed in application to contemporary
literature. The author of these pages resorts to it to compare
two dramas of the last season of Mario Luzi, in which
epiphany of the sacred (in the form of miracle or vision) is
internal to building civil allegory: the defeat of the mafia in
Palermo.
S
coperto il teatro come linguaggio speciale della „controversia‟ storica, del dibattito che può ospitare laicamente lo scontro fra le posizioni, lasciando invece
alla coeva scrittura lirica il tono sublime dell‟elevazione metafisica, Luzi per
due volte nel corso di meno di quindici anni, nel 1989 e nel 2003, decide di scrivere
testi drammatici di ambientazione palermitana, riconducibili a quel registro minore del
Novecento che Langella ha opportunamente definito „meraviglioso cristiano‟ nella
quarta parte di un suo studio sulle Tendenze religiose nella letteratura italiana più recente1. Il
primo lavoro a cui mi riferisco è Corale della città di Palermo per Santa Rosalia, scritto su
invito di Leoluca Orlando, allora sindaco del capoluogo siciliano, il secondo è Il fiore
del dolore, ricordato come esemplare proprio da Langella, ispirato alla terribile vicenda
dell‟assassinio del prete antimafia Pino Puglisi, parroco di San Gaetano nel quartiere
Brancaccio. L‟epifania del fantasma di don Pino, nell‟epilogo di questa pièce, l‟ultima
del lungo itinerario dell‟autore fiorentino che morirà meno di due anni dopo, chiarisce
a pieno il suo significato miracoloso, a mio modesto avviso, se strettamente riportato
al precedente del Corale palermitano del 1989; e mi sembra sintomatico che, in un percorso di teatro laico (e a forte rilievo politico, come in Hystrio, nel 1987, e in Ceneri e
ardori, nel 1997), il meccanismo del miracolo si affacci nella drammaturgia luziana esclusivamente, mi pare, in coincidenza con una questione pur essa di stampo civile,
ma di una gravità tale da chiamare in causa categorie religiose come il soprannaturale e
la conversione.
Occorrerà, nondimeno, cogliere la differenza fra le due manifestazioni teatrali del
meraviglioso cristiano, per ricostruire in che termini questa categoria possa essere accolta nella poetica di Luzi e quale rovello etico posto dal primo dei due testi abbia
trovato soluzione nel secondo. Nonostante lo sfondo storico del Corale – il debellamento della peste del 1625 in seguito al rinvenimento dei presunti resti della vergine
Rosalia, riconosciuta e canonizzata a furor di popolo – appaia così diverso dalla tragedia di don Puglisi e il meraviglioso cristiano vi sia declinato in maniera ben più massiccia, non deve sfuggire che la tematica seicentesca non è che il travestimento barocco della piaga storica siciliana rappresentata dalla mafia, a cui il testo allude in più punGIUSEPPE LANGELLA, Il meraviglioso cristiano, in «Polifemo XXI secolo», II, 2015, pp. 155-171, temporaneamente visualizzabile dallo store.torrossa.it; cfr. www.polifemo.info.
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ti. Luzi doveva fatalmente accostarsi alla questione, spinto com‟era dall‟atmosfera istituzionale in cui era maturata quella committenza: si ricorderà che il sindaco palermitano era allora un simbolo della costruzione di un ampio e non usuale fronte di lotta
alla mafia, in un clima crescente di tensione che porterà tre anni dopo alle clamorose
stragi di Capaci e via D‟Amelio in cui persero la vita i giudici Falcone, Morvillo e Borsellino e alcuni agenti di scorta e, dopo un altro anno, proprio all‟assassino di don Puglisi.
Ma la sensibilità del fiorentino per questa tematica è, in verità, testimoniata da una
lirica extravagante precedente, Palermo, aprile ‟86, composta durante un breve soggiorno nel capoluogo in occasione di un convegno. La città vi appare in uno stato sonnolento, di sospensione del tempo, d‟inversione naturale; ancorché la natura sia desta,
Palermo è come oppressa da un cielo nuvoloso («la sfioccata coltre»), che ricorda a
sua volta la caratterizzazione sospesa e melanconica che connota il mese di «aprile»
nella prima poesia edita da un Luzi diciottenne, Toccata2. Ma, se ne La barca «la noia /
dei cieli d‟acqua di polvere» è il sintomo dell‟assenza di una figura innominata, di «una
ferita» misteriosa, ancora esterna all‟esperienza soggettiva del mondo, Palermo, aprile
‟86 disegna un «letargo» e un silenzio decisamente minacciosi, profetici di un prossimo
riacuirsi dell‟«oscura malattia» che divora la città. La stessa operosità del porto è inspiegabilmente interrotta, lasciando il poeta sul crinale che congiunge la speranza in
un‟epifania metafisica e il sospetto di occulte nefandezze:
Le muraglie e le cupole si staccano
sui chiostri e sui giardini
in un chiarore infido, morbido.
Tranquillo il porto ed i bacini,
semideserte le banchine,
mediocre la stazza delle navi.
I rimorchiatori sono fermi.
Si purga dai suoi mali o altri ne prepara
Palermo in questa oasi
se è un‟oasi che si è aperta nel suo ventre, come pare,
e non un‟officina di crimini e di morte
intenta a un più subdolo lavoro3.
Lo «splendido torpore» che comprime temporaneamente lo scatenarsi della tragedia,
topico della scenografia luziana della Crisi, come ci rivela il confronto col panorama di
Alessandria d‟Egitto nell‟atto I del Libro di Ipazia, è chiaramente trasferito all‟inizio del
Corale della città di Palermo per Santa Rosalia, laddove l‟Angelos ripropone il tema
dell‟incertezza fra speranza e presagio («Qualcosa matura, / qualcosa è nell‟aria. / Palermo è sospesa / tra l‟incombente sventura / e la più lieta luminaria»)4 e il Protome2 La lirica, risalente al 1932, apparve nel libro d‟esordio, La barca, solo a partire dalla seconda edizione,
quella di Parenti (Firenze 1942); ora in MARIO LUZI, L‟opera poetica, a cura di Stefano Verdino, Milano,
Arnoldo Mondadori, 1998, pp. 7-41: 15. Per un commento al testo rinvio a DANIELE MARIA PEGORARI, Dall‟«acqua di polvere» alla «grigia rosa». L‟itinerario del dicibile in Mario Luzi, Fasano, Schena, 1994, pp. 919.
3 La lirica venne inserita fra le Semiserie ovvero versi per posta, a partire dall‟inclusione di questa plaquette in
appendice a MARIO LUZI, Tutte le poesie, Milano, Garzanti, 1988, pp. 711-722: 719; poi 19982, vol. II, pp.
1187-1898: 1195; si cita da IDEM, L‟opera poetica, cit., pp. 1199-1213: 1210.
4 Scritto sicuramente dopo l‟incontro con Orlando, avvenuto nel 1988, il dramma fu rappresentato
per la prima volta il 4 luglio 1989 dalla compagnia stabile del Teatro Biondo di Palermo e contestual-
105
dico e il Provveditore così ne descrivono, rispettivamente, lo stato:
PROTOMEDICO
[…] La pestilenza non si placa,
non dà tregua la forza del contagio,
sebbene qualche pausa di stanca
ci abbia illuso di un prossimo declino
[…]
PROVVEDITORE
E detto questo dobbiamo anche notare
che la città è in disarmo.
È cessata ogni opera di mare, ogni lavoro
interrotto. Dovunque l‟abbandono
e la paralisi: i pubblici servizi
falcidiati da moria e da diserzioni, avviliti da sconforto5.
Concepito come un‟azione liturgico-teatrale scomposta in scene di diversa misura,
tutte giocate sull‟irrealtà di ciò che viene rappresentato (come mettono in rilievo con
chiarezza i verbi più usati nelle didascalie per indicare le ambientazioni scenografiche,
gli ingressi e le uscite di scena dei personaggi: «L‟arcivescovo appare», «L‟arcivescovo
scompare», «Scompare il diacono, scompare la chiesa», «Appare l‟interno di un palazzo» e così via), il Corale della città di Palermo si gioca in prevalenza sul doppio conflitto
„conoscenza vs credulità‟ e „accadimento vs racconto‟, col personaggio dell‟Angelos che
non svolge solo, e banalmente, il ruolo del narratore che sintetizza gli intrecci e accelera l‟azione, bensì è portatore, letteralmente, di un annuncio di verità che dal piano
del trascendente si comunica a quello della realtà e lo piega alle sue ragioni. La verità,
come ci ricorda il prologo del Vangelo giovanneo, ha statuto nativo di linguaggio e si
contrappone alla realtà come la luce all‟opacità, con l‟aspirazione, evidentemente, a
rappresentare l‟elemento virtuoso dell‟equazione. Il tema è adombrato nella prima battuta di Santa Rosalia:
Ho molto a lungo patito
la sottrazione del corpo,
la sottrazione dell‟io.
Fu lunga la vigilia.
Ero stata, ero;
ma che cosa restava?
Il nome, il nome solo6.
Verrebbe da dire, giocando con Umberto Eco: Star Rosa(lia) pristina nomine, attratti, per
di più, dalla suggestione per cui la componente onomastica che manca in quel verso
finale del Nome della rosa7 corrisponde al nome dell‟archetipo veterotestamentario della
mente pubblicato in IDEM, Corale della città di Palermo per Santa Rosalia, Genova, San Marco dei Giustiniani, 1989; qui e in seguito si cita dalla ristampa contenuta in IDEM, Teatro, postfazione di Giancarlo Quiriconi, Milano, Garzanti, 1993, pp. 311-385: 321.
5 Ivi, p. 322.
6 Ivi, p. 314.
7 UMBERTO ECO, Il nome della rosa, Milano, Bompiani, 1980; costantemente ristampato, il romanzo
d‟esordio del filosofo e romanziere alessandrino ha visto nel 2010 (per lo stesso editore) una redazione
corretta e lievemente modificata.
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vita attiva, Lia; come dire che questa seconda parte del nome rappresenterebbe la dimensione corporea e reale della santa, che, dissociata da quella spirituale, ha lasciato
che essa si accomodasse in una «beatitudine» metafisica che, tuttavia, ha i connotati
pericolosamente nichilistici dell‟«abisso» (p. 315). Naturalmente si tratta solo del „capriccioso‟ accostamento di un critico che di per sé non dimostra nulla, ma può soccorrere come traccia per intuire quale irresolubile controversia si scatenerà di lì a breve: preparato dalla lunga «attesa degli uomini», concepito in uno spazio intermedio fra
l‟«oblio» e la «reminiscenza» (e il lessico è quello ermetico che attraversa tutta la poesia
luziana, da La barca a Dottrina dell‟estremo principiante), il miracolo del rinvenimento delle
ossa della santa fra i frammenti rocciosi cavati dal monte Pellegrino è preannunciato
dal verso lapidario di un‟altra santa, Cecilia, la quale dice dei fedeli: «vedono ciò a cui
credono» (pp. 316-317)8.
E, infatti, nonostante che la perizia dei medici – richiesta dalla Chiesa e dal potere
civile – non possa approdare ad alcun referto probante (troppo sconnessi i frammenti,
troppo dubbia la natura ossea e, in ogni caso, più probabile la loro origine ferina che
quella umana), il popolo – che, parlando attraverso il Coro, rinnova continuamente il
miracolo, proprio come in un‟actio liturgica – scioglie ogni perplessità e si pronuncia
per la santità di quei poveri resti, confortato dai primi segnali di prodigiose guarigioni
dalla peste che affligge la città. Ed ecco il punto nevralgico dell‟analisi politica che si
annida dietro questa allegoria seicentesca: la crisi di autorevolezza che indebolisce «i
dotti» è conseguenza diretta della loro precedente incapacità di fornire risposte efficaci
alla peste, il che spiega la disponibilità del popolo a proiettarsi verso una soluzione
metafisica, meravigliosa9:
[…] il flagello
a dispetto di ogni nostra
umana provvisione
di norme e di decreti
si estende e incrudelisce.
Le risposte che non danno i medici,
ci dicono, ci gridano
da ogni parte della città,
le dà lei, Rosalia,
con i suoi miracoli10.
Analogamente, vuol dire l‟autore fiorentino, gli organi dello Stato (l‟amministrazione
I pericoli gnoseologici sottesi al rapporto fra fede e segni non poteva sfuggire proprio a Umberto
Eco, poc‟anzi citato: il suo quarto romanzo, Baudolino (Milano, Bompiani, 2000), vi si riconduce in più
d‟un punto, soprattutto per bocca dello storico bizantino Niceta Coniate, evidentemente portatore di
una razionalità scientifica: «Molte reliquie […] sono di dubbiosissima origine, ma il fedele che le bacia
sente emanare da esse aromi sovrannaturali. È la fede che le fa vere, non esse che fanno vera la fede» (p.
118; si cita dall‟edizione del 2007); più avanti: «Qualsiasi delle due reliquie mi porgessi, ti assicuro che, nel
chinarmi a baciarla, sentirei il profumo mistico che emana, e saprei che si tratta della vera testa» (p. 274);
la „lezione‟ è ben appresa dal protagonista del romanzo che verso la fine ripeterà: «La fede fa diventare
vere le cose; i miei concittadini hanno creduto in una città nuova, tale da incutere paura a un grande imperatore, e la città è sorta perché loro volevano crederci. Il regno del Prete è vero perché io e i miei
compagni abbiamo consacrato due terzi della nostra vita a cercarlo» (p. 409).
9 La «dedizione totale al divino» del dramma del 1989 è colta da SARAH BERNASCONI, Tra cielo e terra.
La metamorfosi del sacro nella poesia e nel teatro di Mario Luzi, Firenze, Cesati, 2005, pp. 174-177: 176.
10 MARIO LUZI, Corale, cit., p. 356.
8
107
politica, le forze dell‟ordine, la stessa magistratura) non riuscendo più a proporsi come
agenti della trasformazione o tutori della felicità pubblica, non possono nemmeno
frenare le possibili derive irrazionalistiche o i fenomeni di condizionamento collettivo
che sono le sole riserve di vitalità che rimangono in seno ai ceti oppressi.
Questa contrapposizione fra conoscenza e credulità spiega l‟altra, quella fra accadimento e racconto, a cui si accompagna per tutto il corso della pièce. Mentre lo stesso
Angelos cerca di sospendere la propria „narrazione di verità‟ per lasciare campo
all‟evidenza della scena (cioè alla presentificazione della storia attraverso la magia del
teatro e della liturgia, che avrebbe la forza di far accadere le cose sempre e nuovamente), il popolo reagisce quasi spazientito di fronte alla realtà prosaica della diatriba fra
medici e notabili della città, del consulto scientifico o della violenza cieca del popolo
affamato, e invita ripetutamente l‟Angelos a sostituire il suo racconto all‟azione: «Racconta, racconta» (p. 321), «Racconta quel che segue, / racconta chiaramente» (p. 330),
«Abbiamo preso atto / e conosciuto de visu. / Ma, sappilo, ci piace / assai di più il
racconto, preferiamo il suo filo. / Prediligiamo il poema, / è più chiaro, è più vero»
(p. 349), «Prosegui tu stesso / lascia andare la disputa. / Ci piace di più il racconto» (p.
364). Sono giusto alcuni esempi in cui può esser colto non solo un sottile atto di sfiducia nei confronti di quella facoltà teatrale e liturgica cui accennavo, ma soprattutto
la precisa volontà popolare di affidarsi alla parola dell‟Angelos, avvertita come ripetitrice del Logos e, dunque, „vera‟, in contrasto con una „realtà‟ pestilenziale, dietro la
cui descrizione non si fatica a riconoscere l‟allegoria della mafia11:
Sempre portano le pestilenze questo sfacelo
nei corpi, nella volontà, negli animi,
sempre alterano le usanze e le regole.
Talora distruggono i più elementari sensi
di affetto e di pietà, perfino paterni, perfino filiali.
[…] Molti stravolgimenti dell‟umano
non si chiamano pestilenze eppure lo sono.
Guardate le storture, le occulte leggi che vanificano
quelle della morale e dello Stato12.
Il Corale della città di Palermo per Santa Rosalia, dunque, è, dietro l‟affettuoso omaggio a
una città sofferente da troppo tempo (e a una regione che, non lo si dimentichi, aveva
ospitato già alcuni spettacoli del fiorentino) e accanto a una manifestazione di interesse per il sacro cristiano, soprattutto la messinscena della disperazione storica di un
popolo che invoca l‟intervento divino da cui solo può aspettarsi una liberazione: e il
ripetuto e festoso „ritornello‟ della santa che «nasce dalle sue ossa, / principia dalla sua
fossa!» (pp. 313, 329, 351, 377) è senz‟altro l‟inno religiosissimo di chi confida nella
rinascita (del Cristo, del singolo, della comunità) dopo l‟attraversamento del dolore.
Eppure al drammaturgo non può sfuggire la contraddizione in cui cade nel momento
stesso in cui rinuncia a una filosofia della storia come assunzione di responsabilità e
purificazione, e demanda a un Angelos e a un evento miracoloso il risanamento di
un‟angoscia. Nel Corale, cioè, s‟insinua l‟insidia di un atteggiamento per il quale il meraviglioso si oppone al purgatoriale (si tenga a mente che Luzi sta contemporaneaA suggerire la filigrana mafiosa di questo dramma fu acutamente MARIA ANTONIETTA ABENANTE,
L‟opera teatrale di Mario Luzi, in Mario Luzi da Ebe a Constant. Studi e testi, a cura di Daniele Maria Pegorari,
Grottammare, Stamperia dell‟Arancio, 2002, pp. 47-77: 63.
12 MARIO LUZI, Corale, cit., p. 323.
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mente lavorando alla messinscena della seconda cantica dantesca)13 e si attende il
«soccorso» di «un portatore di notizie», che in una splendida poesia del 1949 appariva
prospettiva troppo povera e semplicistica; allora aveva affermato: «Tutto, se mai verrà,
verrà dal fondo / di questa angoscia eterna senza nome / goccia a goccia durata e fatta mia»14.
Probabilmente insoddisfatto della semplificazione miracolistica che la pièce rischiava
di offrire, Luzi escogita il tema della doppia «festa grande. / Non una sola, due, / una
triste, una esultante», che viene annunciata sin dalla battuta d‟apertura del dramma (p.
313) – dove pare si ripeta la duplicità misteriosa della Pasqua, insieme festa di Passione e di Resurrezione – e che rivela tutto il suo significato solo verso la fine, allorché
un Arcangelos stavolta (dunque, si badi bene, una figura superiore all‟Angelos) lamenta la scarsa disposizione penitenziale da parte di Palermo, che, invece, sarebbe necessaria a riconoscere che «fonte di tutti i mali, / causa di tutti i castighi» sono i «peccati /
individuali e domestici» dei suoi cittadini. Così, a dispetto di un Coro che vorrebbe
solo una «santa allegria», l‟Angelos è costretto a far uscire dall‟«ombra» i penitenti, che
chiedono perdono «[…] per le uccisioni, / le rapine, i sequestri, / le male consorterie,
/ la pubblica corruzione / che devastano Palermo» (pp. 371-373). Si tratta, cioè, di recuperare il paradigma veterotestamentario (pensiamo al Libro di Geremia) in cui le vessazioni a cui è sottoposta la città richiedono l‟intervento divino, ma sono conseguenza
delle colpe dello stesso popolo e spetta al profeta invitare a quella conversione che è
prerequisito per la liberazione.
Ed è esattamente su questo punto che idealmente si innesta Il fiore del dolore, dramma, a mio parere, artisticamente meno ispirato, indeciso fra il verso (cui si attiene tutto il teatro luziano) e la prosa, come si evince dalle numerose pagine autografe riprodotte nell‟edizione in volume, in cui la scansione metrica non pare né giustificata né,
curiosamente, rispettata nella versione stampata a fronte. Opera di un Luzi sulla soglia
dei novanta anni, che ben altre prove di genio aveva dato e avrebbe continuato a dare
col suo ultimo libro, Dottrina dell‟estremo principiante, e col postumo Lasciami, non trattenermi15, il testo, commissionato ancora dal Teatro Biondo di Palermo per il decennale
della morte di don Giuseppe Puglisi, consente però al poeta di rimettere al centro del
suo discorso il valore profetico della testimonianza di fede, trovando un nuovo equilibrio fra meraviglioso cristiano e giustizia terrena16. Il primo dei due elementi, come ha
13 Commissionato dalla compagnia di Federico Tiezzi e Sandro Lombardi (all‟interno di una trilogia
che coinvolgeva Edoardo Sanguineti per L‟Inferno e Giovanni Giudici per Il Paradiso), Il Purgatorio. La
notte lava la mente (Genova, Costa & Nolan, 1990; poi in MARIO LUZI, Teatro, cit., 415-493) fu portato in
scena il 2 marzo 1990 al Teatro Fabbricone di Prato e in seguito al Petruzzelli di Bari.
14 IDEM, Villaggio, in Primizie del deserto, Milano, Schwarz, 1952; ora in L‟opera poetica, cit., pp. 167-204:
192.
15 IDEM, Dottrina dell‟estremo principiante, Milano, Garzanti, 2004; Lasciami, non trattenermi, Milano, Garzanti, 2009.
16 Come nel caso del summenzionato rapporto fra il Corale e le Semiserie, c‟è una spia intratestuale che
lega anche Il fiore del dolore al filone civile che fino ai primi anni Novanta caratterizza l‟itinerario poetico di
Luzi: la voce che nel brevissimo “Prologo” del dramma è ascrivibile a padre Giuseppe chiude pregando
per gli uomini di buona volontà che si adoperano in soccorso delle vittime e per il recupero dei giovani a
rischio criminale: «Aiuta, ti prego, coloro che li aiutano» (MARIO LUZI, Il fiore del dolore, prefazione di Donatella Bisutti, Edizioni della Meridiana-Archivi del ‟900, Firenze-Milano 2003, p. 28). Queste parole riprendono testualmente quelle di Nefas, una poesia extravagante dedicata a degli «adolescenti» caduti nella
tossicodipendenza: apparsa per la prima volta col titolo Adversa numina, nell‟Annuario di poesia 1991-1992,
a cura di Guido Oldani (Milano, Crocetti, 1991, pp. 46-47), poi nella suite Sia detto (in «Annuario della
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segnalato Langella, prende corpo nell‟epifania finale – per la verità più intuibile che
descritta – del sacerdote sorridente nella cella del suo assassino (per la cronaca: Salvatore Grigoli), il quale ne è provato fino ad avvertire quel dolore che è necessario al
suo recupero umano. Il secondo elemento – la giustizia o il riscatto sul piano della
Storia – consiste, invece, innanzitutto nello stesso antefatto di cui il martirio è conseguenza: si vuol dire che don Puglisi (o «padre Giuseppe», come si dice nella pièce) è
l‟individuo storico che non si è sottratto al compito di denunciare la mafia, che ha
speso la sua voce di profeta per raccogliere i ragazzi di strada e offrire un modello di
accoglienza e diritto che si opponesse al secolare paradigma mafioso.
Più ancora, egli è colui che ha scelto di sottolineare l‟importanza dei valori predicati,
attraverso la perseveranza di un‟azione „donata‟ alla Storia e che, dovendosi consumare tragicamente in essa, rimane estranea all‟actio teatrale, non viene messa in scena e
nemmeno raccontata: e si ricorderà che in quel piccolo capolavoro che è Hystrio, Giulia, la creatura che «non appartiene al teatro», è colei che ci rimette la vita, colpita dalla
violenza della politica, mentre il «misero e grande istrione», abituato alla «commedia»,
rimane incolume17. Padre Giuseppe è andato incontro al suo assassino, come per un
inevitabile appuntamento: «Vi aspettavo»18, pare abbia detto, col sorriso sulle labbra, il
prete al mafioso che gli puntava l‟arma, e la frase è ricordata anche dal personaggio del
Sicario nel Fiore del dolore, come chiave di volta per la piena maturazione del suo senso
di colpa.
Questa, infatti, genera dall‟«ignominia», dalla «vergogna» di essersi scontrato con un
piano altrettanto vigoroso e meditato quanto quello criminale del quale si è reso strumento: la vittima, che l‟assassino si sarebbe aspettato fragile e sorpreso, rivela invece
con la sua «preveggenza» l‟appartenenza eroica a un destino, a una Storia altra che si
scontra con la «bestialità» mafiosa19. Il Sicario comprende, così, che il disonore, la subumanità sono tutti dalla sua parte, giacché egli è stato l‟esecutore della «perfetta inesorabilità di quella morte»; egli, cioè, non ha colto la sua preda nel buio
dell‟inconsapevolezza, ma nella luminosa attesa di un martirio che avrebbe avuto come ultima e trionfale conseguenza, più ancora che lo scuotimento della coscienza, la
percezione di quel «dolore»20 che solo potrà ridestare l‟umanità del colpevole. Così,
infatti, il Sicario prevede la sua sorte:
Solo allora tornerò uomo,
sarò di nuovo disperatamente io.
Padre Puglisi, non so chi eri,
ricordo solo il tuo sorriso di fronte al braccio
alzato contro la tua persona21.
Fondazione Schlesinger», 1995, pp. 11-25: 20; infine in appendice a IDEM, L‟opera poetica, cit., pp. 12151233: 1226), la lirica ripete quasi con andamento litanico: «Aiuta, se puoi, quelli che li aiutano» (v. 43),
«Aiuta se puoi quelli che li aiutano / a convertire in agonia la fine / e in resurrezione la morte… / Aiutali. Aiutali, ti prego» (vv. 65-68).
17 IDEM, Hystrio, nota di Giancarlo Quiriconi, Milano, Rizzoli, 1987; si riporta da Teatro, cit., pp. 201310. La prima rappresentazione, come accennato, avvenne proprio in Sicilia, presso il Teatro dell‟Ara di
Ierone a Siracusa, con la partecipazione di Paola Borboni.
18 IDEM, Il fiore del dolore, cit., p. 82.
19 Ivi, p. 82.
20 Ivi, p. 84.
21 Ivi, p. 86.
110
Il parroco di Brancaccio, allora, non solo ripete in sé la figura primaria del teatro luziano, quell‟Ipazia che già nella prima redazione del suo dramma, l‟atto unico del
1971, non si sottrae al martirio per mano fanatica, spinta da una Voce (che va intesa
come allegoria della Filosofia o della Sapienza, della Verità, del Divino) a cercare il sacro «anche in ciò che lo nega e lo offende», preparandosi all‟«ora» dell‟incontro con coloro che la massacreranno22; ma, in quanto profeta, in quanto voce che «intese […]
correggere l‟abiezione della miseria» (p. 74), il sacerdote è assimilabile a García Lorca,
Mandel‟štam e Pasolini che, a causa della non negoziabilità della parola poetica, sono
stati votati al martirio e vengono ritratti, in alcuni memorabili versi luziani degli anni
Settanta, mentre «s‟avviano al sanguinoso appuntamento»23.
Ma vi è un ultimo tassello che, prima di chiudere il confronto fra le due pièce „palermitane‟, vale la pena lumeggiare per riconoscere l‟aspirazione del tardo Luzi a ricondurre il meraviglioso cristiano al suo convincimento ermetico: nel Fiore del dolore compare una figura di Opinionista (che autoironicamente si definisce «Maître à penser» nei
suoi primi versi), inviato a Palermo da un direttore di giornale perché «tragga qualche
sugo, / possibilmente qualche solenne avviso» da quella vicenda criminale e giudiziaria. Lo spettatore/lettore si aspetta, probabilmente, che egli ricopra la tipica funzione
drammaturgica del narratore, assimilabile per questo all‟Angelos del Corale, e invece
l‟anonimo giornalista rimarrà del tutto marginale, confinato in un unico e appartato
assolo (pp. 30-36) che ruota intorno all‟impossibilità di formarsi un‟«opinione» dinanzi
al misterioso «accadere delle cose». Non si tratta della scoraggiata manifestazione di
impotenza intellettuale (che altre e notissime attestazioni ha avuto nella letteratura italiana del Novecento, da Svevo ai crepuscolari, da Gadda a Montale, da Moravia a Caproni), ma del «pudore» di chi, avvezzo alla «caccia di logicità / pur nel caos degli avvenimenti», coglie ora intorno a sé i segni di un disordinato disporsi di realtà e verità,
il quale richiede una prudente e paziente sospensione del giudizio. Così, infatti, si conclude il suo monologo: «ti condurrò in un giro alla caccia di realtà, / nel sogno e desiderio inverosimile di pura verità».
Se il Sicario è la figura tragicamente più centrata e sublime di quest‟opera, col suo
lento elaborare un senso di colpa che sovverte la sua originaria gerarchia valoriale e lo
conduce a scoprirsi „uomo‟ solo nella finale contrizione, il discreto Opinionista si inscrive, invece, nella genia delle figure che nel Luzi più maturo allegorizzano la valenza
filosofica dalla poesia ermetica. Come nella coppia Ipazia/Sinesio dell‟esordio teatrale,
nell‟estudiant che annota il viaggio di Simone Martini24 e nell‟„estremo principiante‟ che
22 Il radiodramma in un atto Ipazia fu trasmesso dalla Rai la prima volta il 25 dicembre 1971, per
l‟interpretazione, fra gli altri, di Franca Nuti e Massimo De Francovich, e poi pubblicato a Milano,
All‟Insegna del Pesce d‟Oro, 1973. Completato da un secondo atto (Il messaggero), fu prima pubblicato
col titolo Libro di Ipazia (con scritti di Geno Pampaloni e Giancarlo Quiriconi, Milano, Rizzoli, 1978; si
cita da IDEM, Teatro, cit., pp. 5-101:) e poi rappresentato il 24 luglio 1979 a San Miniato, con la regia di
Orazio Costa Giovangigli.
23 Precisamente in Poscritto (IDEM, Al fuoco della controversia, Milano, Garzanti, 1978; poi in L‟opera poetica,
cit., pp. 405-499: 413) si sottolinea la simultanea convergenza degli opposti destini: «[…] escono il poeta
e l‟assassino / l‟uno e l‟altro dalla metafora / e s‟avviano al sanguinoso appuntamento / ciascuno certo
di sé, ciascuno nella sua parte». Allo stesso modo, nel Fiore del dolore (cit., p. 84) il mafioso si chiede:
«L‟assassino per rendere irrimediabile quell‟avvenimento ci voleva: / e io, idiota!, pronto a quell‟ufficio».
24 Nel poema Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (Milano, Garzanti, 1994) MARIO LUZI introduce
una tenue figura di estudiant, una sorta di clericus vagans che accompagna il pittore e la sua carovana durante l‟immaginato ritorno da Avignone a Siena (e di qui in un pellegrinaggio eterno): il giovane svolge un
ruolo di narratore, cogitabondo e dubbioso, che rappresenta il punto di vista del poeta.
111
consegna il suo testamento spirituale nell‟ultima raccolta edita in vita, così anche il
giornalista del Fiore del dolore abdica a una mera funzione cronistica, alla ricerca di scoop
o comunque di notizie che siano materia riplasmabile per l‟industria dell‟informazione,
e affronta anche lui una sua peculiare conversione, ancorché meno drammatica ed evidente dell‟assassino: disobbedendo alle aspettative del suo direttore, egli scopre una
più profonda missione conoscitiva che passa dalla contemplazione, più che
dall‟investigazione, e dalla moderazione filosofica, più che dal giudizio netto.
L‟antica nozione ermetica dell‟attesa, coltivata e variamente articolata dagli anni
Trenta del Novecento in poi, trova dunque anche in questo congedo di Luzi dal teatro
una declinazione riconducibile alla riscoperta dell‟epoché tardo-antica, filtrata nel cuore
del Novecento attraverso la mediazione di Antonio Banfi e Luciano Anceschi25: è
l‟atteggiamento etico più consentaneo a un soggetto che annette alla saggezza un valore superiore alla tempestività della critica e che ha accettato la sorte di costruire la
propria identità „dentro‟ e non „indipendentemente‟ dalla crisi in atto, nel magma delle
contraddizioni, al fuoco della controversia26.
Mi sia consentito qui fare solo un accenno alla tradizione novecentesca della nozione di epoché in
chiave poetica, dal momento che vi ho dedicato le pagine di Attesa ed epoché: il “Libro di Ipazia” come autobiografia dell‟ermetismo, in PAOLA BAIONI, GIORGIO BARONI (a cura di), «L‟amore aiuta a vivere, a durare».
Bigongiari, Luzi, Parronchi cento anni dopo (1914-2014), numero monografico della «Rivista di letteratura italiana», XXXII, 3, 2014, pp. 59-71.
26 Alludo, naturalmente, ai titoli (e alle proposte etiche) di due fra le opere più note di MARIO LUZI,
Nel magma, Milano, All‟insegna del pesce d‟oro, 1963; editio ne varietur Milano, Garzanti, 1966; Al fuoco della
controversia, Milano, Garzanti, 1978.
25
LETTURA DEL “VIAGGIO TERRESTRE
E CELESTE DI SIMONE MARTINI”
N
1994 appare la prima edizione di Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini,
un‟opera di straordinario impegno, che impone di guardare all‟opera di Mario
Luzi non come già consegnata alla storia (della letteratura), ma come ancora
impegnata in una definizione, sempre più alta, organica e compiuta, della teoria ermetica della conoscenza. Il poeta, com‟è noto, ha perseguito, lungo un arco temporale di
oltre sessant‟anni, un intento di riunificazione fra scrittura e filosofia, che risente non
solo dell‟attraversamento critico del simbolismo internazionale, bensì anche
dell‟insofferenza nei confronti della sterilità di una filosofia professorale, ridotta, nel
secondo Novecento, a una mera „storia del pensiero‟, simultaneamente allo sviluppo di
poetiche, dal neorealismo alla neoavanguardia al postmoderno, disinteressate ad una
spregiudicata interrogazione sull‟esistenza, impegolate, com‟erano e come sono, a registrarla come dato, e non come problema, men che mai come problema teoretico.
Il poema in questione è un unicum nella produzione luziana: non che il poeta non
avesse già fatto ricorso altre volte alla composizione lunga, ma mai, fino a quest‟opera,
essa aveva raggiunto la dimensione di un libro autonomo. La predilezione per il
frammento appartiene, in verità, soprattutto alla sua prima stagione poetica – da La
barca a Un brindisi, e poi ancora da Quaderno gotico a Dal fondo delle campagne –, lasciando
lo spazio successivamente a testi più lunghi, in cui si avverte forse l‟esigenza di un respiro più avvolgente, meglio in grado di esaurire, nel movimento sghembo dei periodi e
dei versi, il “verace intendimento” e di slanciarsi nell‟agone dei dibattiti filosofici e non solo letterari. Il primo caso di poemetto è quello intitolato Un brindisi, del 1941, ma pubblicato nella raccolta dallo stesso titolo del 19461. Tuttavia la definizione di poemetti
per questi componimenti va comunque intesa nella limitata accezione di „poesia lunga‟,
dal momento che mancano completamente i caratteri tipici di quel genere letterario, a
cominciare dalla valenza sostanzialmente narrativa del testo: il racconto è, invece, costantemente evitato, in favore, semmai, di uno sviluppo dei concetti e delle immagini,
piuttosto che dell‟azione.
Per il Simone Martini, invece, Luzi accetta il soccorso della „storia‟, al fine di sostenere
il peso di una versificazione lunga e concettosa, musicalissima, certo, ma di
un‟armonia difficile e virile, non proprio cantabile e carezzevole. Ma, si badi bene, il
ruolo della „trama‟ va inteso solo in questo senso puramente strumentale, poiché,
anche in questo caso, è di una trasformazione di pensiero e di stati d‟animo che si tratta, non di un romanzo in versi.
Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini non è solo una vasta, splendida messa a punto degli esiti dell‟ermetismo, la conferma di una fedeltà appassionata e non coatta alla
poesia e all‟ideologia (concediamoci, finalmente, di riesumare questa parola ingiustamente demonizzata e di cui pur sentiamo la mancanza, quando vogliamo indicare una
coerente teoria dei valori associati, cui corrisponde un‟etica progettuale conforme, e
volendo evitare l‟abusato e romantico termine Weltanschaaung). L‟opera è, anche, un
ulteriore esempio dell‟approssimazione luziana a Dante, iniziata intorno al 1945, alla
EL
1 Ora in M. Luzi, L‟opera poetica, ed. critica di Stefano Verdino, A. Mondadori, Milano 1998; e in Tutte le
poesie, 2 voll., Garzanti, stesso luogo e data.
114
cui chiarificazione ermeneutica abbiamo, in altra sede, cercato di contribuire, nel più
vasto ambito di un tentativo di risistemazione storico-interpretativa del rapporto tra
Dante e la poesia del Novecento, con specifico riferimento ai „luoghi‟ di un recupero
non meramente linguistico e mitico, come è accaduto fino a D‟Annunzio, bensì strutturale e speculativo2. Dantesco è il Simone Martini, nella concezione generale, nelle frequenti citazioni sommerse, nella stessa ambientazione storica; dantesco come
dev‟essere necessariamente, nella tradizione letteraria europea, un viaggio di conoscenza e di recupero del Significato.
Protagonista del poema è il pittore gotico senese Simone Martini, nato intorno al
1280 e morto nel 1344 ad Avignone, dove aveva seguito il Papa nel 1340, integrandosi
completamente nell‟ambiente culturale e cortigiano francese3; nella sua patria, pertanto, non aveva mai fatto ritorno. Ma qui si innesta la libertà creativa del poeta, che
immagina che Simone abbia invece, ad un certo punto, avvertito un misterioso bisogno di ritornare in Italia e nella sua città, accompagnato dal fratello, dalle rispettive
mogli (entrambe di nome Giovanna), da un giovane clericus vagans e, presumibilmente,
da qualche altro pellegrino; ma questo viaggio si rivelerà presto non solo “terrestre”,
ma “celeste”, perché dal cielo giunge l‟invito a partire e ad esso idealmente si ascende,
sicché il pellegrinaggio si trasforma in un sorprendente viaggio verso l‟Assoluto e
l‟assolutamente altro, follia compresa. Col Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini
giunge a maturazione un tema topico della poesia di Mario Luzi, sin dai primi passi
poetici, segnati dalle liriche giovanili della Barca (1932-1936), quello del „transito‟ come
risalita verso le sorgenti (“Amici dalla barca si vede il mondo / e in lui una verità che procede /
intrepida, un sospiro profondo / dalle foci alle sorgenti”4), riconoscimento primario e necessitante dell‟ascendenza misteriosa eppure intuibile della vita.
La barca era il primo oggetto allegorico della scrittura luziana, capace di racchiudere
in sé, e di coagularli fin quasi a confonderli, i significati della fede religiosa,
dell‟apertura conoscitiva in chiave ermetica e della stessa poesia, intesa come kairòs,
occasione propizia per l‟epifania della verità e per l‟assunzione di responsabilità del
soggetto dinanzi ad essa: un tempo come kairòs in aperto antagonismo al tempo come
chrònos, quello concepibile solo come spazio, come serie di intervalli matematizzati nei
movimenti astronomici. Solidale con quest‟ultima concezione del tempo, sarebbe
l‟ordinario flusso delle acque dalle sorgenti alle foci, in un corso irreversibile e insignificabile, mentre alla poesia interrogante, che si nutre di memoria e di insaziata ansia,
è possibile ricomporre l‟andamento storico individuale e collettivo secondo percorsi
insondati e irrazionali, ma non per questo fallaci, proprio come il percorso a ritroso
del fiume che, per quanto irrazionale-innaturale, conduce a conoscere la sorgente e a
soddisfare l‟anelito platonico di ricongiungimento con l‟origine. La barca, dunque, sanciva in partenza l‟equazione di poesia e viaggio, come percorso (faticoso proprio
perché „innaturale‟), inteso come esplorazione dell‟anima e ritrovamento del senso. Da
quella prima figura allegorica, animata da uno sforzo giovanile e neostilnovistico di
versificazione semplice, di pronuncia cordiale e genuina, ma gelosa dei suoi presupposti frammentistici, il discorso luziano ha compiuto una strada lunghissima, che passa
Ci riferiamo al nostro Vocabolario dantesco della lirica italiana del Novecento, Palomar, Bari 2000.
Anche in seguito, nella sua scrittura teatrale, Luzi ha fatto ricorso alla rielaborazione fantastica della
biografia di un artista del passato: del ‟95 è Felicità turbate, senza dubbio una delle sue pièces più belle, in cui
il protagonista-simbolo è il pittore manierista Jacopo Carucci, detto il Pontormo, e del ‟97 è Ceneri e ardori,
dramma sugli ultimi giorni di vita dello scrittore Benjamin Constant.
4 Alla vita (1935), da La barca, 1935, 19422.
2
3
115
attraverso la stesura dei „poemi filosofici‟ di Su fondamenti invisibili (1962-1971), e le evidenti tensioni ad un poema in embrione, presenti in Per il battesimo dei nostri frammenti
(1977-1984) e di Frasi e incisi di un canto salutare (1984-1989), libri animati da una comune tensione del dire verso una vera e propria musicalità del pensiero, una ricerca, in
altri termini, del giusto equilibrio fra la scrittura musicale, timbrica, e l‟interrogazione
aspra e risentita della mente e della lingua.
Il percorso, ora, è tanto avanzato da condizionare un‟intera opera, da conquistare la
forma, a lungo cercata, del poema narrativo, naturalmente distante dagli esiti cui era
giunto, per diverse vie, Attilio Bertolucci con La camera da letto. Si direbbe che Luzi abbia cercato di apprendere dallo stesso protagonista, scelto per la sua opera, la maniera
di costruire una storia senza tradire la natura della sua poesia frammentistica, speculativa ed anti-realistica: la pittura, infatti, specie quella degli affreschi religiosi e civili, in
cui era maestro indiscusso Simone Martini, offre un esempio di come un‟immagine
statica, e per ciò stesso, isolata e franta, possa contenere il segno di uno svolgimento,
la cifra più alta e significativa di un evento o di una serie di eventi. Così, il poema „narrativo‟ di Luzi non sviluppa ortodossamente un intreccio, non cura gli snodi tra le parti, ma procede per illuminazioni progressive, quasi stazioni di un ciclo di affreschi, appunto, riducendo la trama a una pura funzione della meditazione, lasciando che sia essa a ordinare i mille risvolti del viaggio fisico e metafisico di Simone e dei suoi compagni.
Luzi affronta preliminarmente il problema del rapporto fra autore, voce narrante e
protagonista del viaggio, che il grande modello dantesco risolve mirabilmente attraverso l‟assunzione delle tre dimensioni sulla sua stessa persona, fingendo di attribuire a
ciascuna di esse un diverso grado di consapevolezza rispetto alla storia raccontata:
l‟unico modo che Dante aveva di riferire al genere della letteratura visionaria e sacra la
concezione della poesia come atto precipuo della conoscenza era quello di immaginare
di raccontare a posteriori ciò che si è vissuto prima in un visionario pellegrinaggio oltremondano, sicché Dante-autore si serve di Dante-personaggio per descriverne il
percorso gnoseologico che, in verità, e vale solo la pena di accennarvi, avviene solo
nella misura del poema, coincide con la sua composizione e non ha ragione di esistere
al di fuori di esso. Luzi è debitore a Dante della stessa esigenza di distinguere fra le
funzioni costitutive del „racconto di viaggio‟ – il „narrare‟ e il „viaggiare‟ – ma risolve il
problema in modo affatto diverso, frantumando cioè quella convergenza fra i partecipanti all‟atto comunicativo che si era verificata nella Comedìa. Si direbbe, infatti, che,
per un atto quasi d‟umiltà nei confronti dell‟esplicito modello, il poeta novecentesco
non se la senta di presentarsi come protagonista del viaggio, sicché non riferisce più a
sé (Mario Luzi) l‟esperienza, ma ad un personaggio storico del passato, con un ammiccamento al criterio di verosimiglianza.
Il procedimento di occultamento del soggetto, peraltro, giunge anche ad individuare
una terza presenza, alternativa e mediatrice, fra quella dell‟autore e quella del protagonista: la voce narrante, infatti, è quella di un compagno di viaggio, misterioso quanto
affascinante, il giovane studioso di teologia che, con voce del francese antico, viene da
Luzi chiamato estudiant. È proprio dietro questo personaggio che l‟autore si nasconde,
confondendo le sue riflessioni e le sue passioni con quelle dei personaggi fittizi del suo
poema, con bruschi cambiamenti di punti di vista che il lettore dev‟essere abile a cogliere. Cruciale è questo sdoppiamento della figura del protagonista, attraverso il quale
Luzi lascia a Simone l‟onere di rappresentare l‟atteggiamento canonico del poeta e
dell‟uomo novecentesco, malato di inappartenenza (“non è mia questa arte”), di incom-
116
piutezza, e allo scriba il compito di rappresentare il punto di vista esterno, la coscienza
critica della compagnia, l‟intelligenza in grado di raccogliere le carte del viaggio, di salvarsi dal naufragio della mente e della speranza, durante la parte più drammatica
dell‟esodo, e, dunque, di consentire alla poesia di pervenire al proprio scopo che è
quello di riprodurre l‟armonia dell‟essere, sfuggita alla storia degli uomini.
I due poli del „romanzo‟ non si annullano, stanno l‟uno di fronte all‟altro a rispecchiarsi e a garantire ciascuno la possibilità di esistenza dell‟altro. È così, per esempio,
che Simone, „protetto‟ dalla saldezza dell‟estudiant, può essere rappresentato, rispetto
alla sua arte e alla sua particolare storia di convertito (anche nel senso etimologico del
termine, ovvero di colui che ha voltato le spalle al passato per incamminarsi verso una
meta imprevista), come un novello san Paolo, abbagliato dalla stessa illuminazione artistica, rapito da una forza superiore, guidato nella creazione dalla creazione stessa,
mentre spetta allo scriba cercare di ricostruirne la compattezza e la consistenza di personaggio5. Lungo le „note di viaggio‟, infatti, si snoda una vicenda spirituale altissima,
quella di un uomo che dalla frammentarietà magmatica e provvisoria della propria
esistenza particolare perviene al riconoscimento della propria umanità, vale a dire del
proprio inserimento armonico nella natura e nella storia, illuminato da una volontà
trascendente e da una speranza fortemente religiosa. In questo pellegrinaggio i luoghi
fisici attraversati non sono che figure, metafore, talvolta solo pretesti di tappe interiori,
di stazioni dell‟anima lungo la progressiva ricostruzione di se stessa attraverso il recupero memoriale che, anche in quest‟ultimo Luzi, significa capacità di risignificare e riqualificare la vita, dando una luce a ciò che la logica sprofonderebbe nell‟oscurità e
nell‟insignificanza.
L‟istintività del viaggio, del movimento, l‟inconsapevolezza delle motivazioni, il ritorno alle origini, rimandano ad un tema classico della filosofia morale del Novecento:
quello, appunto, della necessità umana di indagare l‟origine del proprio agire e del
proprio essere, che si scontra drammaticamente con l‟impossibilità di esperire perfettamente tale consapevolezza e tale ritorno. Tuttavia permane un oscuro imperativo
che è principio etico e di conoscenza, quello di affrontare i rischi del viaggio entro di
sé e verso l‟altro da sé, ovunque esso porti. È il tema dell‟ingiunzione che è chiaramente richiamato da un‟epigrafe con cui si apre il volume, che è un altro richiamo indiretto, ma nondimeno palese, a Dante:
Ascolta tu pure: è il Verbo
stesso che ti grida di tornare…
Agostino, Confessioni IV, 11-16
Sono le prime parole di un lungo passaggio agostiniano in cui si analizza il tema
dell‟errore come anelito alla conoscenza, che si traduce in allontanamento da Dio e
smarrimento, se condotto con la sola presunzione della sapienza umana, ma che poi si
può convertire in un fecondo ritorno a Lui: anzi il vagabondaggio della mente, che è
ragione e sentimento insieme, è condizione essenziale della conoscenza. Luzi agisce
sul testo agostiniano suggerendo la sua trasformabilità, dal genere della prosa argomentativa a quello della poesia, e particolarmente a quel genere di poesia sacra che è il
salmo, che nella tradizione giudaica prima, cristiana poi, si era soliti citare tramite la
5 Cfr. Per amore di chi, in Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (d‟ora in poi SM), p. 27; si cita dalla prima edizione, Garzanti, Milano 1994.
117
sola pronuncia dell‟incipit. Ripeterne i primi versi significava ricordarlo tutto e farlo
proprio; d‟altra parte lo stesso procedimento è abbondantemente ricordato da Dante
nella Comedìa6.
Allo stesso modo Luzi ci suggerisce con quella breve epigrafe di rileggere tutta la sequenza dei sei capitoli che di lì si sviluppano e che il poeta pone alla base del Simone
Martini. In quelle antiche pagine troviamo moduli retorici e concetti che saranno molto cari alla speculazione ermetica. Innanzitutto l‟apostrofe diretta alla propria anima è
già nel citato Brindisi luziano del ‟41, che era propriamente l‟augurio-invito, rivolto alla
mente, di ritrovarsi nella proiezione simbolica di uno spazio diverso da quello dell‟esperienza quotidiana che ha frustrato ogni attitudine alla speranza:
Ma tu persa trascorri, anima mia,
al di là dei tuoi termini sfioriti,
brama la rosa neutra dei paesi
dimenticati all‟orlo delle strade deluse,
di là dalle stagioni una rosa continua,
rosa fissa nell‟etere e indivisa.
È legittimo supporre, a questo punto, l‟esistenza di una relazione transtestuale7 tra le
Confessioni agostiniane, lo smarrimento dantesco nella selva e il Brindisi luziano, e per
questa via si può decifrare la rete dei rapporti e dei riferimenti presenti nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini. Conosciamo il significato che l‟opera di Agostino ha ricoperto per Dante, che ha esemplato l‟intero suo poema sulle testimonianze scritte del
percorso di conversione e di iniziazione spirituale del vescovo di Ippona, ascrivibile,
pertanto, tra le più sicure e massicce fonti della Comedìa; così il ruolo di Virgilio, messaggero del Verbo che lo esorta a intraprendere l‟unico viaggio possibile per “campar
d‟esto loco selvaggio” e pervenire alla beatitudine terrena, figura di quella celeste, trova la
sua preparazione in quell‟esortazione di Agostino a ritornare a Dio: “In Lui fissa la tua
dimora, a Lui affida tutto quello che ti viene da Lui, o mia anima, stanca qual sei di
menzogna. Alla Verità affida tutto quello che ti è venuto dalla Verità: nulla perderai;
spunteranno fiori dal tuo putridume” (IV, 11)8. È ancora Agostino a chiarire che
6 Riportiamo qui di seguito, per l‟utilità del lettore, l‟elenco dei loci in cui Dante fa menzione di inni,
salmi, antifone liturgiche, secondo il procedimento descritto: nell‟Inferno vi è, per ragioni facilmente intuibili, un solo esempio: XXXIV 1; molto lunga è la lista dei riferimenti nel Purgatorio: II 46; V 24; VII 82; VIII
13; IX 140; X 40; XI 1 sgg; XII 110; XIII 50-51; XV 38-39; XVI 19; XIX 50; XIX 73; XIX 137; XX 136; XXII 6;
XXIII 11; XXV 121; XXVI 130; XXVII 8; XXVII 58; XXVIII 80; XXIX 3; XXIX 51; XXIX 85-87; XXX 11; XXX
15; XXX 19-21; XXX 83-84; XXXI 98; XXXIII 1; XXXIII 10-12. Un po‟ più contenuto il numero dei loci del
Paradiso: III 121-122; VII 1-3; VIII 29; XIV 125; XVII 33; XVIII 91-93; XXIII 128; XXIV 113; XXIV 130-131;
XXIV 136; XXV 73-74; XXV 98; XXVII 1-2; XXVIII 118; XXXI 91; XXXII 12; XXXII 95; XXXII 135; XXXII
147; XXXII 151; XXXIII 1-39.
7 Per la terminologia e i metodi dell‟ermeneutica transtestuale ci rifacciamo agli studi capitali di G. Genette, in particolare a Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997 (ma la prima ed. francese è del 1982). Rimandando ad altro luogo la trattazione delle relazioni intertestuali, paratestuali, metatestuali e architestuali, in quel volume si disaminano le modalità in cui può presentarsi un rapporto ipertestuale, la cui definizione generica e introduttiva è indicata come “ogni relazione che unisca un testo B
(che chiamerò ipertesto) a un testo anteriore A (che chiamerò, naturalmente, ipotesto)”, senza che B debba
necessariamente menzionare in maniera esplicita A, “ma non potrebbe esistere così com‟è senza A, dal
quale risulta al termine di un‟operazione che chiamerò, provvisoriamente ancora, di trasformazione” (pp. 78).
8 Le citazioni sono tratte dall‟edizione Rizzoli (Milano 1986, pp. 122-130), nella collana „I classici della
118
l‟itinerario della mente a Dio corrisponde perfettamente ad una riappropriazione di sé:
“Ecco dove Egli sta, ecco dove la verità si insapora. È nel profondo del nostro cuore
ma il cuore si è sbandato, lontano da Lui. […] Se n‟è partito dai nostri occhi affinché
rientrassimo in noi stessi e ivi lo trovassimo. Se n‟è andato, ed eccolo, è qui.[…] Ma
che salire è mai il vostro, che inorgogliti, avete posto la vostra bocca nel cielo? Discendete, se volete risalire, e risalire fino a Dio” (IV, 12).
Qui si pone anche la fondamentale questione del percorso infernale, dell‟errore, come
si diceva prima, come necessità dello sprofondamento dell‟uomo dentro di sé, dentro
le proprie miserie e quelle dell‟umanità, per ritrovarvi il seme di Dio, sicché la conversione cristiana è fatta di un primo movimento discendente, preliminare ad un secondo, specularmente ascendente, quello del Purgatorio. In Dante questo è significato
proprio dalla terribile apparizione di Satana nel XXXIV dell‟Inferno, nel quale il triplice
volto dello “‟mperador del doloroso regno” non è che la straordinaria significazione della
sua discendenza da Dio, del quale era angelo prima che “contra ‟l suo fattore alzò le ciglia”:
anch‟egli, in quanto creatura di Dio, pur nel fondo della dannazione, porta i segni della
divina Trinità, ma tramutati in strumenti di morte e di orrore9. Ora che nella consapevolezza più profonda del peccato, l‟uomo ha riconosciuto, in un unico punto,
l‟inequivocabile esistenza di Dio e l‟origine dei propri mali, non gli resta che affrontare
il percorso di ricongiungimento a Dio che, al contrario dell‟uomo, non è soggetto a
mutazioni, né a movimento, come la “dimora” agostiniana e la “rosa” del Brindisi luziano.
Infine, il cap. 16 delle Confessioni offre al poeta ermetico un supporto teologico alla
propria definizione del rapporto tra assenza e „rivelazione‟: “Né abbiamo motivo di temere che non esista più il luogo del nostro rifugio, perché noi ne siamo precipitati:
anche nella nostra assenza, la casa nostra – la tua eternità – non crolla”. Nell‟uomo è riposta tanto l‟origine del male (l‟assenza, la stasi, nel più tipico linguaggio luziano), quanto la responsabilità dell‟approssimazione al Vero, immanente o trascendente che sia
(l‟attesa, l‟estasi: ma anche la metamorfosi, il viaggio); questo insieme di rimandi agostiniani
riporta a Dante, alla sua soluzione poematica delle nozioni di conversione e di conoscenza, e preparano il lettore del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini a tutto un
giuoco di riferimenti dotti, così all‟intera tradizione cristiana medievale, come alla stessa produzione letteraria luziana ed ermetica in generale, di cui questo poema sembra,
in più luoghi, una vigile, ma nondimeno febbrile, risistemazione.
Misteriosa ed extraordinaria manifestazione dell‟„ingiunzione‟ agli occhi (o alla fantasia?) di Simone è “una luce d‟angelo”10, un‟“ambigua / luminescenza”11 celeste che produce
nel pittore un‟istanza di movimento, sin dal principio fisico e psichico, che attiene alla
necessità, improvvisamente avvertita, di abbandonare Avignone e di accogliere la propria metamorfosi. Simone intuisce che l‟apparizione luminosa ha una valenza profetica
B.U.R.‟.
9 A questo proposito, vorremmo solo ricordare che proprio quell‟unica citazione liturgica, per giunta
in latino, presente nell‟Inferno e indicata già alla n. 6 (XXXIV 1: Vexilla regis prodeunt inferni), è un esempio
celeberrimo del rovesciamento della divinità che avviene nella persona di Satana, che proprio nell‟essere
l‟esatto contrario di Dio, testimonia una lontana appartenenza alla stessa sua natura. Infatti, il „re‟ di cui si
annunciano le insegne in questo caso è Lucifero, ma nell‟inno originario era Cristo stesso e i “vexilla”
erano le reliquie della santa Croce. Invero, la presenza di questo verso nel canto di Dite, non ha funzioni
liturgiche, non è un elevazione di canto, come invece sarà nelle due cantiche successive, ma semplicemente un‟ironica, dotta iperbole.
10 Guizzò una luce d‟angelo, in SM, p. 36.
11 Ancora quella ambigua, in SM, p. 42.
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e, pur non conoscendo con certezza la meta, si spinge al di là di ogni sicurezza, lacera i
suoi legami con la sua seconda patria e intraprende la propria reiniziazione. I frammenti della seconda sezione dell‟opera (in particolare gli ultimi due menzionati e quello intitolato Via da Avignone) costituiscono una sorta di anticipazione del clima purgatoriale che apparterrà, più specificamente, alla quarta, così carica di sogni e di visioni
catartiche (proprio come nel Purgatorio dantesco): l‟anticipazione consiste innanzi tutto
nella presenza di una dimensione luminosa, non ancora folgorante – come si addice al
Paradiso e che ritroveremo nella quinta e nella sesta sezione, dedicate rispettivamente a
Firenze e Siena – ma carica di presagi e di emozioni. Luzi dissolve la possibile fisicità
dell‟apparizione (possibile, se si tratta di una cometa, ad esempio), nella probabilità di
una pura immaginazione o di un ricordo riemerso dai recessi della mente e ora pronto
a produrre la suggestione di una profezia ancora aperta.
Si fondono, così, in questa epifania luminosa, diversi celebri luoghi letterari in cui
fenomeni simili ricoprono la funzione fantastica e strutturale dell‟ingiunzione, da quello
evangelico della cometa che annuncia ai Magi la nascita del Redentore e li induce al
cammino, a certe omologhe immagini dantesche (i “raggi del pianeta / che mena dritto altrui per ogne calle” e dà a Dante il primo impulso a procedere verso la beatitudine; ma
soprattutto il „lume‟ d‟angelo che sprona all‟ascesa Dante, ad ogni principio di cornice
purgatoriale), per giungere a un ipotesto interno alla stessa letteratura luziana, ovvero
l‟episodio della “cometa” in Biografia a Ebe12: si trattava, in quel caso, di un ricordo infantile (una cometa, appunto, o forse solo una „stella cadente‟) che riemerge da un
drammatico vortice di materiali psichici, agitati in un animo scosso che medita il suicidio, portando con sé un carico di presagi, come di qualcosa che, inadempiuto, attende
di compiersi, di rivelarsi pienamente. Di qui scaturisce un‟estasi (termine che si contrappone alla stasi psichica precedente: entrambe le nozioni si ritrovano nel Simone
Martini e sono equivalenti, rispettivamente, all‟attesa e all‟assenza), ovvero una tensione
conoscitiva e sentimentale, che nulla ha a che vedere con una condizione mistica, e
produce nel soggetto uno slancio di apertura verso il futuro. Quello di Biografia a Ebe è
il primo tentativo luziano di esporre in chiave paranarrativa il funzionamento della
memoria come “cespite di vita”13, indagine ininterrotta del senso e creazione fantastica
continua.
12 Pubblicata la prima volta nel ‟42 dall‟editore Vallecchi di Firenze (e poi raccolta da Rizzoli di Milano
nel 1982 in un‟antologia di prose luziane intitolata Trame), questa originalissima prosa ermetica fu, in
realtà, composta in gran parte nel ‟38-‟39, quindi proprio nel fuoco della maturazione dell‟ermetismo fiorentino, dalla fuoriuscita di Luzi e dei suoi giovani sodali dal “Frontespizio” alla breve ma intensa esperienza di “Campo di Marte” (si noti che entrambe le riviste erano pubblicate dallo stesso sensibilissimo
Vallecchi). La Biografia non ha sempre goduto della giusta attenzione da parte della critica, che solitamente non ne ha colto lo sforzo di rappresentazione fantastica della teoria ermetica sulla conoscenza e
sulla memoria. Fanno eccezione: A. Luzi, La vicissitudine sospesa, Vallecchi, Firenze 1968, pp. 62-68; A.
Serrao, Biografia a Ebe: appunti per una lettura, in AA.VV., Atti del convegno di studi su Mario Luzi, Siena 9-10
maggio 1981, Edizioni dell‟Ateneo, Roma 1983, pp. 67-73; poi riproposto in A. Serrao, M. Nifosì, Contributi per una bibliografia luziana, Comune di Campi Bisenzio, Firenze 1984, pp. 69-79; A. Panicali, Saggio su
Mario Luzi, Garzanti, Milano 1987, pp. 59-83; D.M. Pegorari, Del primo Luzi, in “in oltre”, VI, 12, dicembre 1993, pp. 31-64; rifuso in Dall‟“acqua di polvere” alla “grigia rosa”. L‟itinerario del dicibile in Mario Luzi,
Schena, Fasano 1994, pp. 117-138. È, dunque, con vivo piacere che ripubblichiamo, nella seconda parte
del presente volume, il testo integrale di questo prezioso libello giovanile.
13 È una definizione che della memoria M. Luzi dà in un saggio sulla poesia d‟immaginazione, scritto
proprio nel cuore dell‟elaborazione della Biografia giovanile: Nota su Sparkenbroke, in “Campo di Marte”, III, 10-1, 1° gennaio 1939 (poi pubblicato in Un‟illusione platonica e altri saggi, Boni, Bologna 1972, pp. 113116).
120
Allo stesso modo la “visione” luminosa di Simone è scaturigine tanto del ritorno a
Siena, quanto di una rinascita della sua arte:
[…] A lui
viene, perché in immagine si acclari,
perché in immagine si stampi
e rifulga il suo lavoro
e lo smaghi e lo catturi
con le sue terre, i suoi azzurri,
i suoi ori. […]14
La luce, dunque, non è soltanto mezzo del vedere, ma anche suo oggetto, nonché sostanza di una poesia modernamente „profetica‟, allo stesso modo del Paradiso di Dante,
in cui è la stessa lingua a farsi luce e il viaggio oltremondano è ormai definitivamente
visione di essenze luminose15; alla stessa fonte poematica rimanda anche la sinestesia
che relaziona luminoso e sonoro, che è motivo di fondo di tutta la terza cantica dantesca e che nel Simone Martini perviene, proprio nella zona culminante e „paradisiaca‟
dell‟opera (quinta e sesta sezione, come si è accennato), a forme intense e ritmicamente contratte, come “Squillò luce / di luglio […]” (p. 143), incipit di un frammento dal
carattere acutamente visionario ed astratto.
Il poeta chiama di fronte a sé, oltre che i grandi modelli della tradizione letteraria italiana che gli sono sempre stati più cari (Dante, naturalmente, ma anche un certo Leopardi dei Canti), due veri e propri atteggiamenti intellettuali, alternativi l‟uno all‟altro,
che costituiscono i due poli attrattivi e fascinosi del proprio essere poeta e uomo: la
spregiudicatezza prometeica dell‟eterno Mallarmé, costruttore di simboli e di una poesia che si misura col Nulla, fino a condividerne il tragico abisso, e la fiduciosa disponibilità delle Sacre Scritture, legate (a differenza della poesia simbolista) al culto di una
Parola primigenia che s‟incarna nella storia, sopporta la passione del distacco tra
l‟uomo e Dio, ma riscatta l‟umanità proprio mantenendo la promessa fattale. Le due
scritture, quella simbolista e quella biblica, disegnano così due direzioni opposte nella
relazione tra parola e realtà: nel primo caso la poesia deve costruire un paradiso artificiale per tentare una consistenza di verità autosufficiente e autonoma dalla corruzione
della storia; nel secondo caso la Parola preesiste alla creazione, ma non disdegna di incarnarsi in essa per rivelare la propria Verità, ed anzi solo in essa trova l‟unico codice
segnico in grado di attestare una traducibilità dell‟Assoluto. La poesia di Luzi da sempre si muove tra questi due opposti, verificando di volta in volta la propria tenuta su
quanto può strappare, da un lato, al silenzio mortuario in cui sprofonda lo splendore
della forma, dall‟altro, alla soluzione preventiva del conflitto tra peccato e rettitudine,
tra vero e falso, che abita la scrittura teologica. I fondamenti di questa tenuta poetica
sono quelli che hanno sorretto la lunga e feconda militanza letteraria luziana, dalla ricerca di una lingua interrogante, irrisolta, capace di fagocitare tutto l‟umano in una costante condizione di attesa, alla predilezione per le immagini di metamorfosi psichica,
implicante l‟esperienza di tutto l‟arco di situazioni che si estende dal baratro della follia
all‟estasi della serena contemplazione religiosa.
Ma ritroviamo anche la giovanile disposizione al canto della natura, dei paesaggi e
Ancora quella ambigua cit., vv. 16-22.
Sul nesso tra visione e luce nel Paradiso, cfr. dello stesso M. Luzi, La luce (dal Paradiso di Dante), Galleria Pegaso, Forte dei Marmi 1994.
14
15
121
delle figure umane che vi sono immerse, che offrono al lettore lo sfolgorante scenario
di foreste, lame d‟acqua, campi assolati, città (Avignone, Genova, Venezia, Roma, Macerata, Osimo, Firenze e, naturalmente, Siena) ricche di storia e di inquietudini, in cui
si svolge il percorso dei pellegrini, talché l‟Italia intera appare percorsa da un medesimo anelito di ricerca e di abbraccio creaturale (“O Italia ininterrotto agone,/ ininterrotta pena”16). Tempo e natura appaiono sin dalla prima pagina i due fuochi dell‟orbita di Luzi,
associati, anzi, in un‟unica essenza, quella della stessa origine della vita, che di lì esplode nella ricchezza delle sue forme, nella varietà delle sue apparenze, moltiplicandosi
nel giardino meraviglioso dell‟esistenza come unica e sublime testimonianza del Creatore.
Questi, peraltro, si nasconde sovente nella sua “afasia”, nella “scomparsa degli angeli” o
nella “morte dei profeti”, ma lascia al mondo il suo spirito consolatore incarnato eternamente “da nuvole, da pietre,/ da alberi, animali,/ da quel loro / ininterrotto afflato,/ tutto, creaturalmente”17. Per questo il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini culmina nel genere di
una moderna e rivisitata „lauda‟, nel senso dell‟inno paraliturgico di esaltazione del
Creatore, modellato sull‟“antico salmodiare” ebraico, rievocato già nel libro precedente –
che aspirava ad un canto salutare – come invocazione e preghiera di un popolo perennemente costretto a un esodo, in cui si confondono e s‟identificano la deportazione ed
il ritorno, la sofferenza e la salvezza, la coazione e la ricerca di Dio18. Alla tipologia dei
salmi rimandano molti brani dell‟ultimo libro, soprattutto per il fraseggiare frequentemente interrotto da interrogativi e invocazioni, specie in apertura e chiusura di ciascun
testo, ma anche per i caratteri assunti dall‟estudiant, scriba di un viaggio e di una visione, e salmista di una musicalissima preghiera scritta “per amore”19. Luzi aveva definito la propria poesia matura nei termini di salmo e di amore, già dai tempi di Su fondamenti invisibili:
Eh, il punto oltre di me, eppure ancora in mio potere
dove vibrano intatte
parole come queste di salmista o, chi sa, di amante –
[…]
Che mi offre, che mi nega
che non abbia già avuto e perduto
e non stia tra possibile e impossibile
come sta tutto il resto alle mie spalle –
mi chiedo mentre ascolto in me, fuori di me,
quella voce di salmista o, chi sa, di amante,
un po‟ suono di ribeca
da qualche padiglione d‟estate,
un poco crepitio di braci, lontane, di ghetto passato al napalm20.
Via da Avignone, in SM, p. 39.
Durissimo silenzio, in SM, p. 126.
18 Cfr. In itinere, in Frasi e incisi di un canto salutare; si cita dalla prima edizione, Garzanti, Milano 1990
(d‟ora in poi CS), pp. 125-126. Ricordiamo che una nota dello stesso autore, in chiusura del volume, precisa che l‟aggettivo salutare del titolo riguarda sia la “salute”, come salvezza, sia il “saluto” (i due significati
si sovrapponevano già nella nozione stilnovistica del “saluto”, come si può leggere nella Vita nova). Nella
stessa p. 269 un‟altra nota specifica che “l‟antico salmodiare” è da connettere col ricordo di una deportazione ebraica.
19 Per amore di chi, in SM, p. 27.
20 Il pensiero fluttuante della felicità, vv. 236-238 e 304-312. Acute osservazioni sull‟elaborazione di una
pronuncia lirica religiosa e salmica, da Su fondamenti invisibili fino a Frasi e incisi di un canto salutare, come
16
17
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In questa moderna forma di salmo ha modo di stemperarsi, fin quasi a scomparire,
la figura dello stesso soggetto poetante, nascosto dietro i molteplici filtri rappresentati
dai suoi personaggi e dagli stessi elementi naturali chiamati a benedire e ad accompagnare questo viaggio di riappropriazione e di identificazione. Si potrebbe individuare
una matrice pascoliana in questo accostamento tra uomo e natura, o potrebbero essere
chiamati in causa la nozione tardo-romantica di correspondance (Baudelaire) o quella cattolica di confidenza (Fallacara), se non fosse che questa prossimità ideale è ottenuta, in
Luzi, attraverso il riconoscimento che la sete di conoscenza nell‟uomo è originata dalla
consapevolezza della propria nullità o della propria animalità. La domanda dell‟uomo
è, allora, la domanda di tutto il creato, consegnata alla forma poetica come la più adatta ad esprimere l‟ansia di un destino comune e indistinguibile, quello del tempo che
scorre incessantemente, come si avvertiva già in Frasi e incisi di un canto salutare:
Dov‟era lei con la mente?
In quale ricordo
o in che lontananza
dal ricordo, incolmabilmente?
Era
o era stata
e macerava il senso
della sua passata essenza?
o niente,
sciocco
era il dilemma,
meschina la differenza
e passava l‟acqua e il suo brivido
passava il vento
e il trascorrere in se medesimo
dell‟universale evento21.
In questi versi, come poi in tutta la prima sezione del Viaggio terrestre e celeste di Simone
Martini, che svolge la funzione strutturale di prologo, introducendo i temi del viaggio
esistenziale, si pone la centralità del tema della natura e del suo rapporto con la storia
umana, che è, in un certo senso, la focalità dell‟intera ricerca e dello stesso ermetismo.
La natura, con i suoi tempi, i suoi ritmi, scandisce il tempo universale e stabilisce i destini, è da sempre oggetto di riflessione degli uomini, divenendo prigioniera della loro
finitudine, che solo a tratti esplode in entusiasmo ed energia vitale; la somma delle esperienze umane, in cui consiste la storia, nasce nel grembo della natura, per poi divenirle apparentemente estranea, se non nemica, come avviene nella riflessione leopardiana. Luzi, invece, pone subito la questione di una laica riconciliazione tra storia e
tempo naturale, scansando ogni rischio di fatalismo implicito nell‟assolutizzazione della natura e del destino. L‟insipienza umana conduce a sottovalutare il ruolo che le propreparazione delle modalità stilistiche del Simone Martini, sono state condotte nel saggio di A. Panicali,
Dialogo, visione, “l‟antico salmodiare”, in AA.VV., Per Mario Luzi, Atti della giornata di studio, Firenze 20
gennaio 1995, Bulzoni, Roma 1997, pp. 34-50 (partic. le pp. 47 sgg.).
21 Dov‟era lei con la mente?, in CS, p. 80.
123
prie volizioni, le proprie ragioni e le conseguenze delle proprie azioni giocano sul
tempo e sull‟equilibrio naturale.
È l‟affermazione del principio di responsabilità, nonché la risposta ermetica alla crisi
della nozione di volontà nel Novecento, che ha avuto soprattutto nel romanzo dei
primi decenni del secolo una chiara esemplificazione, lungo una linea ideale che si estende da D‟Annunzio (ipertrofia della volontà) a Svevo (inettitudine) a Moravia (indifferenza, assenza totale della volontà). L‟ermetismo luziano, bandendo ogni forma di
attivismo, come di pragmatismo-storicismo, sceglie di richiamare l‟attenzione su una
dimensione sostanzialmente individuale dell‟eticità, al di fuori, per così dire, di ogni
prospettiva rigidamente formulata da una dottrina moral-politica, ma sottolineando
che così le colpe come i meriti dell‟uomo sono scontati dall‟intera collettività: e non
soltanto da quella contemporanea, ma dall‟umanità di ogni tempo:
Così scendono e salgono
dove tutte le storie si confondono
in un effimero ed eternale accumulo
essi, la notte, fino all‟alba, in quel profondo ricovero22.
Tuttavia, nello stesso momento in cui il poeta pronuncia la propria fedeltà creaturale
e storica, il poeta avverte l‟insufficienza del tradizionale statuto retorico della poesia,
fondato sulla centralità della metafora come modo della raffigurazione concettuale
dell‟oggetto (“da dove si spicca questo canto / pari a se medesimo / in cui muore la metafora,/
muore infinitamente”23); laddove l‟oggetto sia il Vero e la poesia ambisca all‟ontologia,
nessun filtro figurativo è consentito, perché apparirebbe inidoneo alla rappresentazione. Essa stessa è possibile non in termini mimetici, ma in quelli del memoriale, della presentificazione rituale, secondo una concezione che fu, peraltro, egregiamente esposta da Piero Bigongiari nel 1977, allorché fu richiesto di testimoniare il senso della ripresa di Dante da parte dei poeti ermetici24: se la visione di Dio è la conquista “in concreto del Significante supremo”, la lingua del poeta diviene tanto più incapace di restituire l‟epifania quanto più resta soggetta alla mediazione di allegorie, metafore e similitudini: “si può dire che il particolare monolinguismo ermetico, più che richiamarsi all‟esempio del monolinguismo petrarchesco, è stato il tentativo nodale della
poesia novecentesca di superare la poetica della parola in una poetica del discorso che
ha il suo più forte richiamo proprio nell‟esempio del discorso dantesco, come discorrere implicante dal volgare basso dell‟Inferno al volgare visivo e illuminato del Purgatorio fino al volgare puramente mentalizzato del Paradiso, in cui la metafora si scioglie, implicandola integralmente, nella stessa ragione ragionante […] Il discorso, questo
continuo rimandarsi del senso in chiave ritmico-tematica, e il senso del „viaggio‟, da
proposta allegorica a condizione esistenziale, sono stati gli esempi profondi a cui
l‟ermetismo ha attinto più o meno consciamente: discorso che in Dante è sviluppato
piuttosto diacronicamente, e per questo si parla di plurilinguismo, e nell‟ermetismo è
sviluppato effettivamente in maniera prevalentemente sincronica, e per questo io parlerei di monolinguismo” (p. 204).
Tappa e ricovero, in SM, pp. 67-68, vv. 29-32.
Seme, in SM, pp. 177-180: 179.
24 Avvenne in occasione del convegno Dante nella letteratura italiana del Novecento (Roma, 6-7 maggio
1977), i cui atti furono pubblicati, due anni più tardi, dall‟editore Bonacci di Roma. La relazione di Bigongiari, dal titolo L‟ermetismo e Dante, è alle pp. 203-216.
22
23
124
Forte è la tentazione di seguire l‟avvolgente discorso di Bigongiari fino alla conclusiva contrapposizione del modello „mitologico‟ rappresentato dalla coppia BeatriceDante (recuperato nel Novecento) a quello classico della coppia Euridice-Orfeo
(trasmesso dalla tradizione Petrarca-Mallarmé), contrapposizione nella quale la prima
opzione costituisce il superamento risolutivo del conflitto tra poesia e umanità
dell‟uomo, adombrato dalla seconda; ma, naturalmente, in questa sede ci interessa solo
cogliere, del brano riportato, qualche suggerimento utile all‟interpretazione del Simone
Martini. Innanzitutto la scelta, ad un tempo stilistica e strutturale, di Luzi dipende, allora, dall‟impossibilità di contare ancora sul supporto della metafora, dalla necessità di
liberare il linguaggio dai legami della tradizione retorica e grammaticale, per tentare
l‟inventio di una lingua trasumanata e, per così dire, trasnaturata, fino ad ottenere un libro dalla straordinaria compattezza timbrica, in continuità con la musicalità spezzata e
drammatica e l‟impegnativa interrogazione metafisica, trovate lungo la via di Per il battesimo dei nostri frammenti e confermate da Frasi e incisi di un canto salutare. L‟effetto monolinguistico è, dunque, il risultato di una trasformazione del diacronismo dantesco nel
sincronismo di un poema in cui il corso narrativo è interrotto e travolto frequentemente da una meditazione che rende sempre presenti e coincidenti tutti i termini della
questione.
Inoltre, l‟importanza che Luzi attribuisce al Purgatorio dantesco lo conduce non solo
a dedicarsi alla „trasformazione‟ teatrale della seconda cantica, pubblicata col titolo Il
Purgatorio. La notte lava la mente25, ma a farne il più autentico paradigma del suo stesso
percorso poetico, quale allegoria della metamorfosi e suggestivo repertorio dei simboli
più consentanei alla sua teoria della conoscenza; l‟identificazione dell‟essenza del viaggio con il passaggio purgatoriale opera in Luzi al punto che esso appare, in un certo
qual modo, anticipato e posto tra la „piaggia diserta‟ ed il descensus ad inferos. La terza sezione, Carovana, palesa, infatti, il modo autonomo e originale con cui in Luzi la purificazione si salda strettamente alla necessità dello sprofondamento nell‟angoscia; i due
frammenti iniziali ribadiscono l‟atmosfera purgatoriale della prima parte del Viaggio,
per poi lasciare che il tono si trasformi nei brani successivi, in cui propriamente consiste l‟attraversamento del male, la fase infernale del poema, sotto le varie forme
dell‟inazione, della tenebra, della „clausura‟, dell‟assenza e della follia.
La materia del frammento Ci apre,/ primavera-domenica diversa è tutta intessuta di materiali simbolici e figurativi derivati dal Purgatorio e, precisamente, dai canti XXVIII, quello
dell‟accesso al Paradiso terrestre, XXXI, quello in cui Dante è immerso nelle acque del
Leté, e XXXIII, quello in cui beve la „rinovellante‟ acqua dell‟Eunoé. I riferimenti a
questi due fiumi e alle loro proprietà sono chiari, inequivocabili, e forse per questo
non richiedono molti segnali lessicali; numerosi, invece, e sottili, sono i rinvii al canto
XXVIII. È il canto, ricordiamo, in cui Dante, svincolato dalla guida di Virgilio (il quale
d‟ora in poi si limiterà a seguire il pellegrino ancora un po‟, ma senza più proferire parola), s‟inoltra nella “divina foresta spessa e viva”, profumato da una lieve brezza e da
un‟incantevole rigogliosità naturale, dove gli si rivela la misteriosa Matelda, la bella
25 Costa & Nolan, Genova 1990; ora in M. Luzi, Teatro, a cura di Giancarlo Quiriconi, Garzanti, Milano 1993, pp. 415-493. L‟opera, rappresentata nei maggiori teatri italiani (fra cui il Fabbricone di Prato nel
‟90 e il Petruzzelli di Bari nel ‟91), fa parte di una trilogia teatrale, ideata da Federico Tiezzi e Sandro
Lombardi, rispettivamente regista e primo attore della compagnia dei Magazzini di Prato, che ha visto
impegnati anche Edoardo Sanguineti per il “travestimento” teatrale dell‟Inferno (1989) e Giovanni Giudici
per la “satura drammatica” del Paradiso (1991), pubblicate sempre da Costa & Nolan. Da molti anni ormai I Magazzini di Prato perseguono con successo la realizzazione di un nuovo “teatro di poesia”.
125
donna che precede l‟epifania di Beatrice e dominerà tutti gli ultimi sei canti del Purgatorio. La “profondissima riserva / d‟aria, d‟erba” del testo luziano presenta tutte le caratteristiche della “divina foresta”: questo frammento, infatti, ripropone il tema del Leté, ma
l‟immersione in esso per la salutare conquista dell‟oblio consiste proprio nell‟attraversamento del male.
Il seguito della sezione, infatti, proporrà i toni più cupi dell‟intera opera, quelli del
reciproco „smarrimento‟ di Simone e Giovanna, o del soggiorno nel monastero
dell‟Abbesse (badessa, certo, ma qui anche figura dell‟abesse, dell‟assenza), del “tetro camminamento” e, soprattutto, della follia di Giovanna, “la sposa di Donato”, che presto dilagherà e getterà nello sconforto tutta la compagnia. Al contrario, la sezione successiva
(Dopo la malattia. Deliri, vaneggiamenti, visioni) rappresenta un ritorno al tono luminoso e
carico di promesse, con riprese, ad esempio, di Pg XXII 130-141 e XXIV 103-114, nell‟immagine dell‟albero contenuta nel brano che inizia col verso Guardalo, si dona (p.
111). La sezione, poi, complessivamente, prelude alla fase culminante del Viaggio, quella del passaggio per Firenze (sezione Simone e il suo viaggio) e per Siena (sezione Lui, la
sua arte), che corrispondono al momento paradisiaco di Simone.
Se ne ricava che in Luzi il momento purgatoriale coinvolge ed assorbe in sé la discesa infernale nella sincronia della ricerca e del tormento, dell‟attesa e dell‟assenza, della
tematizzazione della crisi e dell‟indeterminatezza della speranza. Per di più, l‟approdo
paradisiaco non è definitivo, ma si trasforma anch‟esso in un eterno Purgatorio, in un
pellegrinaggio incessante, poiché il viator ha scoperto che la vera meta del suo viaggio
non è Siena, che quel richiamo alle origini non era da intendersi in termini puramente
storici e geografici, bensì come purificazione dell‟anima e come ricerca del Significato,
ed essendo, questo, in ogni luogo e in ogni tempo, l‟uomo deve mantenersi nella condizione di pellegrino. Se è vero che il poema vuol essere anche un atto d‟omaggio per
la città di Siena, cui è dedicato in ricordo dei suoi anni giovanili e dei “compagni” con
cui condivise l‟esperienza liceale, è vero anche che l‟insoddisfazione del rientro a Siena, patita da Simone nel poema, è un elemento di chiara derivazione autobiografica, se
si rilegge una vecchia prosa luziana Ritorno a Siena26, con quel suo inizio che sembra
una chiosa al poema: “Non so neppure oggi, dopo tante volte che il fatto si ripete, che
cosa mi richiami imperiosamente a Siena e che cosa me ne faccia subito allontanare.
[…] A che cosa obbedisco salendo sulla corriera che, superate le magre boscaglie di
pini, si addentra nella Toscana profonda, alla memoria, alla speranza, a un doloroso
compiacimento o al diletto? Non so rispondere”. Ritroviamo il senso di un misterioso
richiamo verso la città, rispondente, forse, ad un sentimento nostalgico, o forse ad un
nuovo desiderio, ad uno slancio proiettivo verso il futuro, che puntualmente, però, si
conclude con un amaro avvertimento di insoddisfazione.
Il racconto, dal cursus giornalistico e cordiale, prosegue con una descrizione dei paesaggi incontrati nel viaggio da Firenze a Siena, lungo quella via Cassia che anche Simone avrebbe percorso nel suo viaggio immaginario, e che nel poema è occasione di
cenni paesaggistici di grande suggestione: “Tutto questo spazio, nella lontananza, trascolora e sfuma in azzurro e violetto quando lo osserviamo dai bastioni o dalle alte case
di Siena. Più realtà e più sogno insieme, indistintamente. Niente per me che scendo dal
fiorentino è materia più certa, netta, per nulla illusoria di queste terre a riposo e di
queste case rustiche e insieme civili vigorosamente squadrate; e niente è più immateriale di tutto questo quando sale a sublimarsi nei marmi e nei cotti di Siena. Così la
26 Raccolta nella già menzionata antologia Trame (pp. 103-105) e poi, più di recente, in Siena e dintorni.
Poesie e prose, Il Leccio-La Copia, Siena 1996, pp. 7-9.
126
città appare intrinseca e distante nella sua stessa regione, insieme può dare il senso della terra e apparire circondata dal vuoto e dalla vertigine”. Si noti il gusto, anche nel
Luzi prosatore, per una resa ambientale affidata più ai colori che alla descrizione concreta; il paesaggio senese in queste righe è trasfigurato in una visione evanescente, i
volumi perdono la loro gravità e diventano pure forme sospese, come l‟immagine,
contemplata e amata sin dagli anni giovanili, del condottiero Guidoriccio da Fogliano,
vincitore, nel 1328, sui castelli di Montemassi e Sassoforte che si erano ribellati a Siena, nell‟affresco che proprio Simone Martini realizzò nella sala del Mappamondo del
Palazzo Pubblico della città: “Per lo più, era quella l‟ora che da ragazzo sentivo come
un‟arcana ventilazione frustarmi e agghiacciarmi il sangue, e la mente tornava esaltata a
certe immagini dell‟arte senese che allora mi pareva più di altre esprimessero quella
raccolta vertigine: la misteriosa, deserta cavalcata di Guidoriccio da Fogliano si associava immancabilmente ai miei pensieri e quella landa tra quelle rocche era allora la
campagna circostante e quella favola tutta la vita, la sua essenza, la sua febbre”.
L‟impressione esercitata su Luzi da questo affresco martiniano è tale che se ne trova
una traccia evidente nella sesta sezione del poema (Lui, la sua arte):
Passano
su di lei da borgo a borgo,
ricorda, i mercanti in carovana
e i pellegrini verso Roma.
Passano
talora da castello
a castello in solitudine
sulle loro bardate
cavalcature i capitani
con la mente a Siena
e al suo difficile governo.
Potrò, forse potrò
fissarne il più romito…
e anche lui sarà passato
senza traccia – oh grazia
equanime – su quelle luminose lande,
avendo molto provato e molto dato,
essendo e quasi non essendo stato27.
Si ritrovano in questi versi tutti gli elementi del brano appena letto di Ritorno a Siena,
la menzione della via Cassia (che era, appunto, la via percorsa dai pellegrini che provenivano dalla Lunigiana verso Roma), dei castelli e soprattutto dei capitani, dei quali
“il più romito” Simone auspica di aver immortalato nel suo affresco, dandogli una consistenza e un‟immagine pregna di significato. Anche nella prosa Luzi mostrava di essere stato affascinato dal carattere solitario della cavalcata di Guidoriccio, cui il pittore
aveva conferito un‟atmosfera non solo eroica, ma perfino „sacra‟, immateriale, facendo
in modo che le figure del cavaliere e del suo cavallo, pur nella possanza dei corpi e
delle raffinatissime bardature (quasi un arazzo, rispecchiante la Maestà dipinta dallo
stesso Martini sulla parete opposta, tredici anni prima), non poggiassero sulla “landa”,
ma sfilassero davanti al paesaggio, sospese tra terra e cielo. Nel Ritorno a Siena, inoltre,
ritroviamo il medesimo intreccio di luce e colore, un intreccio che in città produce nel
27
Terra ancora lontana, terra arida, in SM, p. 152, vv. 5-22.
127
visitatore quasi uno smarrimento, un‟immersione in un‟epifania sfolgorante, per la
quale Luzi ricorre alla stessa sinestesia della “luce […] squillante”, di cui abbiamo già
segnalato la presenza in un brano della quinta sezione del poema (Simone e il suo viaggio):
“Ma anche durante il giorno pieno, nel pomeriggio, il silenzio a volte è così alto e la
luce che picchia sulle pietre, sui marmi, sui cotti incandescenti così squillante che i
sensi non possono riceverla e allora l‟immaginazione sfrenata corre verso miraggi impossibili, tanto che spesso si è spinti fuori verso le porte a cercare una rassicurazione
nel colore denso e concreto della terra, nel verde verde dell‟erba”.
Nel ricordo di Siena non poteva mancare un‟annotazione sull‟universo femminile,
anche qui sottoposto ad un processo astrattivo e luministico; la donna vi viene rappresentata come una figura ieratica e solitaria, degna di essere ritratta in un‟opera d‟arte di
ispirazione religiosa, “su fondo oro”, come ad esempio la Vergine nel Polittico
dell‟Annunciazione del Duomo di Siena, dello stesso Martini. Eppure il fascino di Siena,
sempre vivo, sempre incisivo, ogni volta che il poeta rientra fra le sue mura, non basta
a trattenervelo; il viaggio assume i connotati del cammino di purificazione, di recupero
della memoria e delle proprie radici, al termine del quale urge il reinserimento nella
storia reale e nell‟impegno quotidiano: “Della donna tutto quello che potrei osservare
oggi rimarrà sempre soverchiato da certe apparizioni fredde, sublimi e intangibili che
avevo allora passando per queste vie o salendo per alcune di queste ripide coste. […]
avevano intorno una solitudine così profonda che pareva vivessero circondate dalla
loro irradiazione pura, né più né meno delle donne della pittura su fondo oro. […] E
uscendo si esce da un mondo, da un regno distinto dell‟anima come da una strana
cornice purgatoriale e si rientra nella vicenda ordinaria della vita”.
Così nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, l‟attraversamento delle città si qualifica soprattutto in termini memoriali, secondo un‟accezione della memoria che, partendo da Bergson, ha trovato le sue radici in Platone, per il tramite di sant‟Agostino. Il
transito, infatti, come peraltro era avvenuto anche nelle visioni di Praga e Recanati in
Frasi e incisi, non produce mai una descrizione fisica dei luoghi, ma delle straordinarie
esplosioni di luce, increspata, pur sempre, da un‟ambiguità che potrebbe ricordare gli
scorci metafisici di De Chirico, allo stesso modo che certi paesaggi urbani di Campana
erano stati concepiti come delle composizioni cubiste (in un „viaggio‟ ben altrimenti
memore del comune modello dantesco). L‟enigmaticità delle città, che Simone e i suoi
attraversano, è l‟effetto di una lontananza, di una costante imprendibilità del reale, o di
una relazione attuabile solo sul piano della memoria: d‟altra parte all‟infuori di Genova
e Firenze, le altre città menzionate nel poema non sono affatto sulla strada che porta
da Avignone a Siena (Venezia, Macerata e Osimo sono troppo a est, Roma troppo a
sud), e sono, dunque, da intendersi come tappe immaginarie, stazioni dell‟anima e della memoria. Anche Siena sarà, quindi, lasciata alle spalle, anzi, sembrerà essa stessa essersi sottratta al possesso (“Si ritira da me lei, mia città,/ e io da lei. Finito il tempo dato,/
l‟amalgama perduto”28), perché l‟inappartenenza è l‟unica lingua che si addica al poema di
un viaggio ermetico, l‟unica che consenta di mantenere aperte le prospettive del cammino e, dunque, di conservare all‟uomo il suo impegno etico con la Verità.
Ciò non toglie, tuttavia, che l‟arte debba nutrirsi di storia, di natura, di umanità,
come si accennava: il distacco da Siena, infatti, è accompagnato dall‟invocazione di
Simone a Maria, originalmente intesa come testimone del reale e della storia:
28
Si ritira da me lei, mia città, in SM, p. 165.
128
Non lasciare deserti i miei giardini
d‟azzurro, di turchese,
d‟oro, di variopinte lacche
dove ti sei insediata
e offerta alla pittura
e all‟adorazione,
non farne una derelitta plaga,
primavera da cui manchi,
mancando così l‟anima,
il fuoco, lo spirito del mondo.
Non fare che la mia opera
ricada su se medesima,
diventi vaniloquio, colpa29.
Il brano spiega nel modo più alto il rifiuto dell‟autoreferenzialità letteraria da parte
dell‟ermetico Luzi, la relazione stretta tra atematicità e tematizzazione provvisoria
dell‟attesa, risolta proprio nell‟icona del pellegrinaggio eterno, spinto lungo la verticale
che congiunge le mozioni della psiche con la volontà dell‟Altro, ma ottenuto orizzontalmente attraverso il commercio con la realtà e con gli altri. L‟uso dei verbi al tempo
presente, allora, più che essere funzionale al racconto „in presa diretta‟, è la modalità
stilistica dell‟inveramento, dell‟evocazione di luoghi e situazioni resi, per così dire, „visibili‟, prossimi al lettore30, anche grazie ad una luce abbagliante e avvolgente (opportunamente messa in risalto da incidenze oscure e tenebrose), che costituisce, per
l‟autore, per il suo alter ego poetico e per il lettore, la condizione di una riflessione e di
una scoperta comune.
La ricaduta stilistica di questa concezione della poesia è un linguaggio non asseverativo, una meditazione non argomentativa, in cui le parole galleggiano su pagine che
appaiono semivuote, e sono invece piene di silenzi, di intervalli sospensivi, in cui le
pause metriche hanno valori e durate differenti l‟una dall‟altra: i versi sono inscritti in
un invisibile rigo musicale, suggerendo la somiglianza di queste pagine con le partiture
contemporanee come quelle, ad esempio, che il compositore Luciano Sampaoli ha
scritto proprio per Luzi31. Il ritmo è dato da insistite frasi interrogative o da costruzioni disgiuntive32 che fondano la gnoseologia luziana sulla mancanza di certezze – e
sul desiderio di verità e di scoperta che ne deriva –, piuttosto che su un‟episteme teorematica, vale a dire legata alla logica della dimostrazione e della ripetibilità e universaRimani dove sei, ti prego, in SM, 167.
Su questa osservazione cfr. A. Prete, Tempo del miraggio, tempo della necessità, in AA.VV., Per Mario Luzi
cit., pp. 21-31: 30.
31 Sampaoli ha musicato, tra il 1985 e il 1995 numerose liriche di Luzi. La collaborazione tra i due artisti è stata oggetto di un interessante convegno (Mario Luzi - Luciano Sampaoli, il Tempo tra Poesia e Musica)
tenutosi a Longiano (FO) il 10 dicembre 1995, e di una mostra ivi organizzata, fino al 10 febbraio del
1996, e poi replicata a Gubbio, dal 2 marzo al 30 aprile 1997. Il catalogo della mostra, con estratti degli
atti del convegno, è stato pubblicato nel 1997, per i tipi dell‟editore Crocetti di Milano. Notevoli ci sono
sembrate, tra le altre, le relazioni di G. De Santi, M. Fabbri, G. Quiriconi e S. Verdino.
32 Si citano a mo‟ di breve esemplificazione: “Il rigoglio dell‟essere./ O la pena delle generazioni./ Forse altro /
ancora me la spingeva verso / o contro” (Giovanna, p. 14); “quel fiato / o quella cupidigia” (Lo umilia, p. 15); “Nella
mente umana?/ o nell‟universo?/ o in un più alto / non distinto ibi?/ È, lui,/ là,/ o è il suo mancamento?” (Nelle mente
umana?, p. 16); “L‟uomo – o l‟ombra /[…] Non può fuori distinguere / né dentro se medesimo” (L‟uomo – o l‟ombra,
p. 21). Ma già in CS, un esempio per tutti: “nella mente / che li tenne uniti / o in quale / altra unicità?”
(L‟immagine – no, p. 253).
29
30
129
lità dei fenomeni. Piuttosto che del graduale dislocamento in avanti dell‟appagamento
intellettuale (eventualmente riconducibile all‟influenza della teoria del piacere di Leopardi), per questa „inadempienza‟ del viaggio si dovrebbe parlare dello stupore che scaturisce dal definitivo allontanamento all‟infinito della meta conoscitiva, che libera
l‟uomo dall‟angustia di una concezione materialistica della vita e lo proietta in una dimensione metamorfica: le cose, gli eventi, gli altri, non sono accidenti antagonistici
rispetto all‟attività soggettiva, bensì occasioni della ridefinizione etica dell‟uomo.
Questi non è mosso, determinato, causato da alcuna forza esterna, pertanto la sua
decisione sul mondo è libera da qualsivoglia condizionamento ed è costantemente al
limite dell‟indifferenza, dell‟irresponsabilità; allora la virtù dell‟uomo ermetico (di cui è
icona Simone Martini) consiste nell‟accettazione di questo rischio, nella disponibilità a
una conoscenza priva di una sovradeterminazione ideologica e, dunque, nella libera
scelta dell‟impegno etico nel magma della realtà. A dar forza e speranza a questo viaggio
è la poesia stessa che si fa profezia di una catarsi, percezione che al termine vi sia il
congiungimento, nel Verbo, di significante e significato, di nascita e morte, di metamorfosi e perfezione dell‟essere:
Quell‟alone, quell‟eccitato lembo,
quell‟aria rilustrante
in cui balena
la ventura primavera
ancora chiusa
nel cuore dell‟inverno –
Ritrova,
il senso, ritrova
tra sorpresa
e attesa quel mirifico
vacillamento,
ritrova lo stupore
del ritorno
a se stessa della vita –
da dove? non ha esilio,
essa – ritrova quel portento
e il suo tremore, il suo
indicibile sperdimento,
ritrova il tempo,
ritrova se stesso
prodigiosamente il senso33.
La scelta di Simone Martini come protagonista del Viaggio stabilisce un nesso tra
l‟attività artistica del pittore e quella del poeta Luzi (ut pictura poesis…), accomunati dalla profonda tensione religiosa della propria arte, nonché da una possente attrazione
verso i colori e la luce e la loro valenza simbolica. Frequentemente Luzi evoca direttamente gli azzurri e gli ori delle tavole e degli affreschi di Simone, i colori, non le figure, appaiono ad animare i versi, a incresparli di emozioni e di stupore. Il registro stilistico cui perviene il poeta ha ormai come suo modello implicito il Paradiso dantesco,
che già Pirandello, mirabilmente ed icasticamente, definì “musica inarticolata” e “mu-
33
Quell‟alone, quell‟eccitato lembo, in SM, p. 20.
130
sica raggiata negli spazii”34, cioè suono e colore abbagliante che non riempiono lo spazio, ma lo creano, essi stessi, lo plasmano rendendolo abitabile dal pensiero e dal desiderio. Così, se blu e oro rimandano al vertice superiore (celeste) del viaggio di Simone,
all‟oltretempo e oltreluogo dell‟eternità e della spiritualità, altri colori, un rosso sfavillante e terragno e un verde seducente e sereno, rammentano il necessario vertice inferiore (terrestre, appunto) della medesima esperienza: si direbbe che le due dimensioni
trovino l‟armonizzazione proprio nel momento della creazione artistica, incaricata di
conferire la stessa luminosità e la stessa autentica sostanza al creato e all‟increato.
Nelle pagine di questo poema la sotterranea presenza dantesca diviene la linea di
forza e la struttura stessa della lenta ed avvolgente scrittura luziana; il sapiente riutilizzo transtestuale dell‟ipotesto dantesco avviene talvolta consapevolmente, come dimostrano le poche citazioni esplicite, talaltra la memoria dei simboli e della struttura del
modello avrà agito incontrollatamente, per una spontanea assimilazione del proprio
„viaggio‟ di conoscenza alla Comedìa35. Aggiungiamo, ancora, che dantesco è un atteggiamento orientato all‟estensione corale della voce poetante, che comporta non solo
un suo parziale occultamento o una sua frantumazione nell‟insorgere di più personaggi
che reclamano la propria partecipazione alla riflessione, ma anche un sentimento di
affratellamento universale, di compassione per la comune sorte degli uomini: il tema,
originariamente importato dalla lezione leopardiana, è, tuttavia, privato dell‟amarezza e
dell‟ironia propria della Ginestra, e corretto da una prospettiva salvifica in cui anche il
singolo riacquista una propria dignità funzionale e si propone come sostegno
dell‟universo, punto in cui convergono i destini degli altri uomini del passato e del presente, e centro d‟irradiazione di una storia sempre nuova e carica di speranza. Ed è appunto questa speranza, tutta cristiana, che motiva e rivitalizza il classico tema ermetico
dell‟attesa, su cui si gioca tutto il Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini.
Il libro, anzi, appare, come Biografia a Ebe, la poematizzazione e quasi la drammatizzazione dei concetti che hanno nutrito, dagli anni Trenta ad oggi, il pensiero poetico e
critico di Mario Luzi, con esiti formali di grande vibrazione e compostezza ritmica.
Echi di gran parte della precedente produzione luziana sono ravvisabili, anche per
semplice associazione d‟immagine, in tutte le sezioni del poema, senza mai, peraltro,
provocare un corto circuito di senso: la poesia, liberata dal complesso dell‟autoreferenzialità, rifondata la propria transitività sulla storia umana e naturale, non teme di
rappresentarsi, di trasformare in personaggio36 quella voce interrogante che l‟ha semCosì nel foglio di risguardo della copia della Commedia (a cura di G. Biagi, Sansoni, Firenze 1883) che
il drammaturgo e narratore adoperò durante il suo insegnamento, dal 1897 al 1922, presso l‟Università di
Roma. Il volume, custodito nella Biblioteca Apostolica Vaticana (RISERVA VI, 27), appare fittamente
postillato da Pirandello, specialmente per quel che riguarda la terza cantica, per la quale il professore di
Stilistica aveva segnalato, sempre nel medesimo appunto „programmatico‟, l‟importanza di un‟attenta ricognizione dei “mezzi espressivi del poeta, poiché per intendere ci mancano i termini di paragone – Non
così nell‟inferno e nel Purgatorio”. Ora tutte le postille dantesche sono state pubblicate nel volume L.
Pirandello, Chiose al “Paradiso” di Dante, a cura di Giuseppe Bolognese, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)
1996.
35 In appendice pubblichiamo uno schema che ipotizza il complesso sistema di rimandi intertestuali
presenti nel SM.
36 Anche in teatro Luzi propone personificazioni di concetti o di temi specificamente poetici: se ne potrebbero rintracciare in ogni dramma, crediamo, ma ci è caro ricordare almeno le figure dell‟Angelos nel
Corale della città di Palermo per Santa Rosalia (scritto e rappresentato per la prima volta nell‟89; ora in Teatro
cit., pp. 311-385), del Poema in Il Purgatorio. La notte lava la mente (cit.) e della Memoria in Felicità turbate
(Garzanti, Milano 1995).
34
131
pre percorsa e provocata, eco del Verbo che diffida del nome delle cose e cerca la riqualificazione della lingua, il battesimo dei frammenti in cui è ridotta la nostra esistenza.
L‟attesa qui giunge ai toni accorati della preghiera, coinvolgendo in un solo flusso ragione e fede37, non più avvertite come forze antagonistiche giunte a controversia, ma
come materia bruciata nel cammino verso l‟Evento. Ma l‟Evento, il giorno, la pienezza
della rivelazione, sono elementi extrapoetici; quello della poesia è, piuttosto, il tempo
dell‟avvento, del “non ancora”38:
Alba, quanto fatichi a nascere!
Ti tiene
alcuno
stretta
al suo nero impedimento,
non vuole tu ti sciolga
la notte
dal suo buio grembo.
O sono io non pronto
ancora
al tuo miracoloso avvento…
Ti aspettano con me –
lo sento – i profili montuosi,
le cime,
i precipizi
del luogo e della mente39.
Se Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini è anche il viaggio del ricongiungimento
della storia umana con la natura, delle volizioni individuali con le finalità collettive, e,
in fin dei conti, dell‟istintualità con la ragione – ponendo, dunque, fine a quella separazione fra i due elementi che è alla base della crisi della volontà occidentale –, il punto
ideale e simbolico di coincidenza della natura col piano della storia di ciascun individuo è incarnato dalla figura femminile: nel cuore della vicenda spirituale di Simone,
infatti, si colloca il tormento e la metamorfosi di un personaggio memorabile, forse il
più complesso dell‟intero repertorio luziano, Giovanna (la moglie del pittore).
Da sempre, sin dai tempi della Barca, le angosce, le speranze, il conflittuale rapporto
con il destino, trovano le loro ipostasi nelle tante immagini di donne e fanciulle, ora
elette a simboli della fragilità umana, ora come esempi di soggetto sociale debole, ora,
infine, trasfigurate neostilnovisticamente nel ruolo di mediazione del divino con
l‟umano, divenendo il femminile il misterioso e straordinario luogo a cui è affidata la
Del fertile attrito tra ragione e fede nell‟ultimo Luzi V. Vitiello preferisce sottolineare la permanenza
della conflittualità: “l‟animo di Luzi s‟espande tanto da non aver più bisogno nel Viaggio di tentare mediazioni tra Atene e Gerusalemme. Ora accoglie tutti i contrasti, e le contraddizioni, così come gli si presentano, fuor d‟ogni conciliazione” (Tra terra e cielo: il “Viaggio” di Mario Luzi con Simone Martini, in “Il Pensiero”, n.s., XXXVI, 1997, 1, pp. 47-63: 58). Il concetto è stato ripreso dal filosofo napoletano in occasione
del convegno Gli intellettuali italiani e la poesia di Mario Luzi, S. Gimignano (SI) 30-31 gennaio 1998, durante il quale si è fatto il punto sull‟influenza che Mario Luzi ha esercitato sui filosofi italiani contemporanei.
38 Cfr. Non ancora il radioso degli alberi, in SM, p. 107. Ma si pensi anche a certi toni della produzione giovanile di Luzi, che nel ‟40 aveva pubblicato una raccolta dal titolo emblematico di Avvento notturno, sintagma, peraltro, desunto da Biografia a Ebe.
39 Alba, quanto fatichi a nascere!, in SM, p. 95, vv. 1-16.
37
132
rigenerazione della specie, e in cui l‟umano trova il pieno raccordo con i ritmi e il respiro della natura. Giovanna è la più matura di queste donne luziane, poiché associa alla
femminilità il suo essere compagna di viaggio di Simone, come a significare un livello
più avanzato di partecipazione alla sorte di lui; anzi, come si accennava, ella simbolizza
proprio il destino di Simone, quello di affrontare l‟altro come parte ineludibile e costitutiva del percorso di conoscenza. Giovanna è, perennemente, l‟altro di Simone, il suo
doppio e il suo contrario:
Il rigoglio dell‟essere.
O la pena
delle generazioni.
Forse altro
ancora me la spingeva verso
o contro40.
Già in un testo luziano del 1952, Come deve, appartenente alla raccolta Onore del vero, la
figura della donna era associata a quella del viandante, in una duplice esemplificazione
del carattere umano:
Che vuoi che vieni da così lontano
ed entri a volo cieco nella nebbia
fin qua dove gli uccelli anche di nido
da ramo a ramo perdono la traccia?
La vita come deve si perpetua,
dirama in mille rivoli. La madre
spezza il pane tra i piccoli, alimenta
il fuoco; la giornata scorre piena
o uggiosa, arriva un forestiero, parte,
cade neve, rischiara o un‟acquerugiola
di fine inverno soffoca le tinte,
impregna scarpe ed abiti, fa notte.
È poco, d‟altro non vi sono segni.
Questa poesia può ben servire a spiegare il senso dell‟azione umana come parte degli
accadimenti naturali; la condizione storica ed esistenziale, cui qui si allude, è di totale
perdita di segnali di riferimento. Molto precocemente Luzi, in netto anticipo anche
sulle tendenze della poesia cosiddetta engagé, colse la disfatta delle speranze resistenziali
di rinascita civile e democratica dell‟Italia dopo l‟incubo della dittatura fascista: la miseria dell‟uomo superava la stessa povertà economica e si mostrava come condizione
generale dell‟esistenza, come assenza di cultura, come incapacità di cogliere le ragioni
del disastro, come superficialità di relazioni umane, come indistinto desiderio di fuga
dal reale.
Luzi, invece, invoca un rinnovamento etico che parta dalla considerazione della preziosità della vita, della sua completa appartenenza alla passione umana, quando manchi su di essa il perfetto e concluso controllo della ragione; è quello che è stato definito il tempo del „dovere‟, dell‟impegno non già esclusivamente politico, ma più la40
Giovanna, in SM, p. 14.
133
tamente umano, è la scoperta del sentimento della solidarietà fra le vite che il male storico ha segnato, ma non distrutto. Per questo il „gesto‟ acquista un‟importanza inusitata nella poesia di Luzi, poiché diviene chiaro che la storia è fatta di „gesti‟, ciascuno dei
quali, preso per sé, non ha senso, ma riacquista valore al momento della riscoperta del
prossimo.
Di qui l‟abbondante presenza, nel corpo centrale della poesia, di verbi carichi di significato attivo, segno più evidente della maturazione del momento psichico pericolosamente irrisolto di chiusura e di alienazione, presente nella sua celebre prima poesia
edita, Toccata, risalente al 1932, costruita interamente con stile nominale e in cui, quindi, la mancanza di verbi era il segno sostanziale della totale assenza di connessioni logiche fra immagini frammentarie di una vita avvertita come “aliena”, cioè espropriata.
In Come deve le azioni umane si confondono o sono parte delle condizioni atmosferiche, anch‟esse espresse come azioni compiute dagli elementi naturali; ma ciò che in
questa sede mette conto sottolineare è che i simboli dell‟umano siano qui la madre e il
forestiero, che in Luzi acquistano la forza di veri e propri archetipi del diverso,
dell‟inconosciuto, del viaggio, della vita stessa. Essi però, si badi bene, non coincidono
affatto con la distinzione femminile/maschile, essendo entrambi presenti in ciascun
uomo, ragione per la quale, nel poema del ‟94, i due attributi vengono fusi nell‟unico
personaggio di Giovanna, donna e forestiera, senza che sia esclusa la loro reversibilità
nella figura dello stesso Simone.
La mente umana, tuttavia, è ancora del tutto impreparata a un confronto con questi
temi, è avvolta nelle tenebre dell‟ignoranza e la sua affannosa ricerca del „noumeno‟ si
risolve in un continuo ed inevitabile fallimento, vista una certa „ritrosia‟ della Verità a
farsi incontrare e possedere. Di qui scaturisce la geniale sovrapposizione a questa figura femminile dell‟altra Giovanna, la moglie di Donato, che sarà colta dalla follia durante il viaggio e rappresenta l‟aspetto più oscuro e refrattario della natura (femminile
e umana in generale). Precedente immediato di questa complessa e molteplice presenza femminile è soprattutto Angelica cui è dedicata la splendida seconda sezione di Frasi e incisi di un canto salutare. In Angelica è già sperimentata la fusione di memoria e oblio, di speranza e dubbio, di temporale e intemporale41, e il poeta vi colloca la sorgente
della poesia stessa, secondo un topos che in Luzi discende direttamente dalla tradizione
stilnovistica, secondo quanto egli stesso ha avuto modo di testimoniare in un saggio
sul ruolo giocato da Dante nella formazione di un pensiero e di un gusto poetico: “Ho
fatto il mio liceo con eccellenti maestri tra cui Francesco Maggini, eccezionale conoscitore del Due e del Trecento. Non potevo avere guida più autorevole e persuasiva alla
lettura della Commedia e delle altre opere dantesche. Tra queste fu piuttosto la Vita nuova a prendermi con la sua alchimia e sublimazione dell‟esperienza giovanile, con i suoi
trasalimenti e le sue intese profonde, con i suoi sgomenti e le sue estasi”42.
Negli anni della prima formazione e degli esordi poetici era, dunque, la Vita nova,
A. Noferi parla a questo proposito di “oceano della muliebrità”, nel saggio Una variante della malinconia: il pathèma nella poesia di Luzi, in A. Dolfi (a cura di), Malinconia, malattia malinconica e letteratura moderna,
Bulzoni, Roma 1991, pp. 402-409.
42 M. Luzi, Dante, da mito a presenza, in Dante e Leopardi o della modernità, a cura di Stefano Verdino, Editori Riuniti, Roma 1992, pp. 47-57: 49. L‟articolo, con la specificazione della data di stesura: 9 marzo 1991,
era stato pubblicato contemporaneamente in “Letture classensi”, 20-21, 1992, pp. 157-159. Altra sede
merita un‟attenta ricostruzione delle forme e delle motivazioni del dantismo di Mario Luzi, che si svolge,
senza soluzioni di continuità e con coerenza, dal giovanile neo-stilnovismo (da La barca a Quaderno gotico)
alla purgatorialità vibrante e meditata delle opere teatrali e liriche degli anni Novanta, culminata, appunto,
nel SM.
41
134
piuttosto che il “poema sacro”, il libro dell‟approccio a Dante, capace di suggerire a
Luzi tutta una serie di figure femminili mediatrici fra cielo e terra, fra natura e spirito,
ma anche fra storia individuale e storia collettiva. Giovanna appare sovente come icona sibillina delle inquietudini cui sono soggetti tutti i viandanti, in lei meglio che in Simone si rilevano i segni dell‟insoddisfazione, dei complessi di colpa per un lungo, colpevole rifiuto di se stessa al proprio ruolo naturale di genitore:
Si agita Giovanna.
Nel sonno,
agro rimorso, la mancata
maternità la affanna, procellosa
è la sua traversata verso l‟alba43.
Ma, anche in questo caso, il senso d‟inadempienza si traduce, in virtù del „miracoloso‟
viaggio della riacquisizione di sé, nell‟ingiunzione a riprendere il cammino interrotto, a
dare corso alla propria vocazione, a recuperare il tempo perduto. Il desiderio di fertilità, dunque, non è che la metafora dell‟attesa, la primavera della coscienza.
Si veda, in proposito, la splendida ed orfica Dormitio virginis, in cui la „morte‟ della
vergine significa la nascita della vita, la tensione erotica è interna a uno sviluppo della
personalità che avviene tramite la scoperta e l‟assunzione in sé dell‟altro-da-sé, secondo la lezione di Jung sull‟„archetipo del mandala‟. Di prepotente suggestione, a
questo punto, è l‟accostamento a questa poesia della Vergine di Gustav Klimt (18621918), uno dei più celebri quadri in cui il pittore modernista abbia allegorizzato quel
processo antropologico noto come femminizzazione, ovvero proprio scoperta
dell‟altro nel profondo dello stesso io borghese, assoluto e maschile. Il dipinto, eseguito nel 1913, rappresenta una vergine dormiente circondata da proiezioni oniriche di
altre figure femminili, in un complicato movimento di doppia spirale che produce,
così, una struttura mandalica (riconducibile anche al simbolismo erotico della vulva,
“la martoriata / vulva della sua innocenza”, secondo recita il testo citato di Luzi). È una
sensualissima allegoria dell‟attesa che nel soggetto, che ancora non conosce l‟altro, non
può che determinare un‟indefinita e provvisoria riproduzione del sé.
Anche nel Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini è presente la „femminizzazione‟
dell‟artista (di tutti e due gli artisti, ovviamente: il protagonista del poema e il suo autore), nel senso della concentrazione, nella figura di Giovanna, di una simbologia psicologica che riguarda anche Simone, e con lui tutti i pellegrini. Così, in Dormitio virginis,
il presagio di “primavera”, cioè di rinascita e di fecondazione spirituale, avvertito da
Giovanna non è che la trasfigurazione di un sentimento condiviso dall‟umanità intera:
va detto, anche, che nello stesso Klimt la nozione di attesa, sia pur con un‟accezione
più sensuale e decadente, aveva esplicitamente dominato alcuni dei suoi più importanti
dipinti, a cominciare dal Fregio di Palazzo Stoclet a Bruxelles, eseguito tra il 1905 e il
1911, in cui una delle tre figure inserite nel preziosissimo e imponente mosaico allegorico è denominata proprio L‟attesa, e rappresenta un‟aggraziata danzatrice, con ogni
probabilità simbolo, ad un tempo, dell‟arte e della tensione vitalistica e conoscitiva.
Essa fronteggia una coppia di amanti (L‟abbraccio), in cui l‟appagamento della sete di
conoscenza e di amore si è realizzato in un gesto di totale donazione e affidamento
reciproco. Al centro, tra le due figure, si colloca L‟albero della vita, le cui ramificazioni
spiraliformi costituiscono il motivo di sfondo che lega assieme tutto il fregio, moltipli43
Si agita Giovanna, in SM, pp. 57-58, vv. 1-5.
135
cando infinitamente le linee circolari che in Klimt rimandano sempre alla simbologia
dell‟eterno femminino e della fertilità. L‟opera, complessivamente, rappresenta
un‟interpretazione moderna del mito cristiano del Paradiso terrestre, in cui “la promessa di felicità è purificata da ogni minaccia”44. Ma già fra il 1903 e il 1907, dunque a
cavallo della progettazione del Fregio Stoclet, Klimt aveva realizzato una coppia di dipinti, intitolati entrambi La Speranza, in cui lo stesso tema dell‟attesa di un ritorno
all‟armonia prenatale (che è poi una sorta di „progressione verso il passato‟) e della
conciliazione indissolubile di vita e morte, salute e malattia, tranquillità e minaccia, è
realizzato attraverso la metafora di una giovane donna incinta che, nel quadro più antico, vede esaltata dalla sua nudità il nuovo e inatteso fascino erotico della prepotenza
naturale e materna, mentre nel quadro successivo ella ha assunto una postura statuaria
e assorta, attirando nel suo corpo monolitico e riccamente ornato, non solo un teschio
– simbolo inquietante di una morte incombente ma non più terrificante – ma anche altre figure femminili, accennate in atteggiamento orante, dormienti come nella Vergine.
Allo stesso modo Luzi traduce l‟attesa nell‟icona di una donna che attrae in sé il significato profondo e archetipico della naturalità dell‟uomo e del cosmo, maternità incessante, natura naturans che già in Per il battesimo dei nostri frammenti aveva chiamato in causa il mito di Cerere (“È con lei che da sempre mi cimento / in desiderio e conoscenza,/ nascita
dopo nascita del mondo / in me, di me nel mondo”45), e ora, nell‟ultimo poema46, assume i caratteri di sua figlia Proserpina, ad un tempo Matelda, che sprofonda nello smemoramento del Leté e nel “ricominciamento”47 dell‟Eunoé, e Beatrice, che conduce
alla plenitudine del cuore e della mente, allegoria essa stessa dell‟arte di cui Giovanna
condivide il “miracolo”48 della „nominazione‟ del creato.
***
G. Fliedl, Gustav Klimt, Taschen, Köln 1990, pp. 145-153: 145.
Cerere mai avuta per madre, in Per il battesimo dei nostri frammenti.
46 Non si può, infatti, parlare propriamente di „poema‟ per il successivo libro del 1999, Sotto specie umana, edito sempre da Garzanti (e solo parzialmente anticipato, nella mondadoriana Opera poetica del 1998,
dalla suite intitolata Un mazzo di rose), nonostante l‟introduzione di un tema-guida (l‟immaginato ritrovamento di alcune pagine di un diario privato), che resta, tuttavia, piuttosto „esterno‟ all‟opera.
47 Si veda l‟orfica ambientazione da Paradiso terrestre nel frammento Ci apre,/ primavera-domenica diversa,
in SM, pp. 54-55.
48 Si agita Giovanna cit.
44
45
136
Proponiamo qui di seguito uno schema riepilogativo della struttura e degli argomenti
del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, richiamando i più rilevanti rimandi intra e
intertestuali cui si è accennato nelle pagine precedenti. Risulta evidente l‟obiettivo di
dimostrare la forte, pur se occulta, presenza ipotestuale della Comedìa dantesca, da Luzi
introiettata e restituita in una forma fantastica originale e coerente con i propri percorsi teorico-poetici abituali. Riportiamo fra parentesi i titoli o i capoversi in corsivo dei
frammenti del poema cui si riferisce più specificamente il „tema‟ enunciato; il lettore
può, così, avvalersi dello schema come guida alla lettura e all‟interpretazione del libro.
STRUTTURA DEL POEMA
L‟“ingiunzione” del “ritorno alle origini”
Epigrafe da Agostino, Confessioni IV, 11-16
(Cfr. “Ma tu persa trascorri, anima mia…” in
M. Luzi, Un brindisi [1941])
1) PROEMIO
Il tema della natura come globalità eterna, origine del tempo
Giovanna come luogo simbolico di coincidenza di natura e storia individuale di Simone
Alla mente ancora umana sfugge questo significato, perciò è nel timore e nell‟angoscia
Invito a ritrovare il senso
L‟uomo-ombra può riprendere il viaggio conoscitivo dopo il suo sprofondamento infernale
Presentazione di Simone
L‟invito a partire
Natura, lei
Giovanna
da Giovanna a Chi è…
Quell‟alone…
da L‟uomo - o l‟ombra a Simone
Simone
Per amore di chi
2) PURGATORIO 1°
„Antipurgatorio‟
L‟esilio
La comparsa della “luce d‟angelo”: frammento
di ricordo e profezia del futuro
Partenza da Avignone fino alla vista di Genova
L‟archetipo del mandala di C. G. Jung e La
vergine di G. Klimt
“All‟eterno dal tempo”
La selva e la valle
La “verde accoglienza” delle “lame d‟acqua”
Calava su di lui… e Fermo nell‟anteluce
In anno domini e Aderge al primo oriente
Guizzò una luce d‟angelo (Cfr. Pg XVII e “la cometa” in M. Luzi, Biografia a Ebe [1942])
da Via da Avignone a Petrarca
Dormitio virginis
Notturna la sua anima s‟allarma (Cfr. Pd XXXI
37–38)
Al centro d‟una ed universa mente e Quel viso, quella
face (Cfr. If I 13–18)
Ci aspetta e Ci apre (Cfr. Pg I 99–117; XXVIII;
XXXI 91–102; XXXIII 142–145)
137
3) INFERNO
Iniziale tentazione di Simone di restare fermo
aspettando che l‟Altro gli si riveli
Il valore allegorico di Giovanna
Momenti di tenebra nel cammino. Il simbolo
della “barca”
L‟Abbesse-abesse
Un tetro camminamento
La follia
Inizio della guarigione
Simone e Giovanna (Cfr. If I 19-28)
da Si agita Giovanna a In giorni di nubi
S‟infrasca il fiume
da Tappa e ricovero a L‟alba rese volume
da Dove avvallava… a È fermo il fiume…
da Ed ecco che Giovanna a E ora lui si ammala
da Notte gli è intorno a Alba, quanto fatichi a nascere!
4) PURGATORIO 2°
La profezia del vegliardo
Le visioni e il ritorno alle origini
Il desiderio come spinta vitale
Quel vegliardo… (Cfr. Pg I)
da Sole, lei, si leva a Ti prego, non ritornino
da Di che questa penuria? a Non ha senso
l‟istante… (Cfr. Pg XXII 130-141; XXIV 103114)
5) PARADISO 1°: FIRENZE
L‟impatto con la Verità-luce
L‟ineffabile
Il passaggio per Firenze
La riconquista dell‟arte e della voce
da Vibrò a Le prode verdi… (Cfr. Pd XVII–
XXXIII)
da Leone a San Sebastiano (Cfr. Pd XXX 16–36)
da Si approssima Firenze a Pietre, aria, il chiaro
rudimento (Cfr. Pd XXXI 39 e If, soprattutto
XIV–XVI, Pg, soprattutto XI–XII e Pd, soprattutto IX 127–129)
da Ma ora s‟ammanta a Di quel flusso di vita (Cfr.
Pg XXX 15)
6) PARADISO 2°: SIENA
Nei dintorni di Siena
A Siena
da Dove mi porti, mia arte a Stelle…
da E ora lo conduce a Sibilla (Cfr. il racconto Ritorno a Siena, in M. Luzi, Trame [1982])
Il distacco da Siena e la fine del viaggio terre- da Si ritira da me lei, mia città a Estrema sua vecstre
chiezza
Giovanna come la Madonna
Era paradiso, gia?
7) VARIAZIONI
Il viaggio celeste. L‟Essere
le ultime tre sezioni: Intermezzo, Estudiant (II),
Ispezione celeste
139
BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE RAGIONATA
R
IMANDANDO,
per un repertorio curatissimo e aggiornato fino all‟estate del
1998, all‟ampia bibliografia che correda il volume mondadoriano che raccoglie
L‟opera poetica di Mario Luzi, offro in questa sede un elenco più stringato e selezionato delle opere dell‟autore fiorentino e della critica che si è andata stratificando
nel corso di oltre mezzo secolo. L‟obiettivo in questo caso è quello di fornire un
orientamento funzionale prima di tutto agli studenti e, in generale a coloro i quali si
accostano per la prima volta allo studio di Luzi; pertanto, ad esempio, si tralasceranno,
per ciò che concerne l‟opera luziana, le edizioni rare, d‟arte e a tiratura limitata e, per
ciò che attiene agli studi, la smisurata quantità di recensioni, articoli e saggi apparsi
nelle storie letterarie e in volumi miscellanei, riviste e quotidiani. All‟interno di ogni
rubrica i titoli si susseguono in ordine cronologico e, in subordine, alfabetico per autore.
I. Lirica
Come molti altri lirici, Luzi ha sottoposto nel tempo la propria produzione a revisioni
stilistiche e, soprattutto, a ripensamenti nella scelta e nell‟ordinamento dei testi: inutile
sottolineare che queste riformulazioni editoriali rivestono un notevole interesse filologico. L‟elenco che qui propongo dispone le opere secondo gli anni di stesura (indicati
fra parentesi quadre), in qualche caso non coincidenti con la cronologia delle edizioni;
quando di un titolo si dà anche l‟indicazione della seconda edizione, s‟intende che
quest‟ultima è ampliata o significativamente modificata rispetto alla prima:
La barca, Guanda, Modena 1935; Parenti, Firenze 1942. [1932-1936]
Poesie ritrovate, a cura di Stefano Verdino, Garzanti, Milano 2003. [1933-1935]
Avvento notturno, Vallecchi, Firenze 1940. [1936-1939]
Un brindisi, Sansoni, Firenze 1946. [1940-1944]
Quaderno gotico, Vallecchi, Firenze 1947. [1945]
Poesie sparse [1945-1948], pubblicate solo nel 1960, nel vol. che raccoglieva tutta la produzione fino al 1956, Il giusto della vita.
Primizie del deserto, Schwarz, Milano 1952. [1947-1951]
Onore del vero, Neri Pozza, Venezia 1957. [1951-1956]
Perse e brade, a cura di Stefano Verdino, Newton, Roma 1990. [1934-1959]
Dal fondo delle campagne, Einaudi, Torino 1965, 19692. [1958-1963]
Nel magma, All‟Insegna del Pesce d‟Oro, Milano 1963; poi Garzanti, Milano 1966.
[1963-1966]
Su fondamenti invisibili, Rizzoli, Milano 1971. [1962-1971]
Al fuoco della controversia, Garzanti, Milano 1978. [1971-1977]
Per il battesimo dei nostri frammenti, ivi, 1985. [1977-1984]
Semiserie ovvero versi per posta, poesie sparse [1967-1987]: raggiungono il numero di otto
solo nell‟Opera poetica del 1998.
Frasi e incisi di un canto salutare, Garzanti, Milano 1990. [1984-1989]
Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, ivi 1994. [1990-1993]
Torre delle ore, All‟Insegna del Pesce d‟Oro, Milano 1994. [1994]
140
Sia detto, poesie sparse [1990-1993]: raggiungono il numero di undici solo nell‟Opera
poetica del 1998.
Parole pellegrine, a cura di Stefano Verdino, con una postfaz. di Ciro Vitiello, Pironti,
Napoli 2001 [1935-1999]; raccolta di ventuno inediti (tranne l‟ultimo, già apparso in
Viaggio terrestre, cit.).
Sotto specie umana, Garzanti, Milano 1999. [1994-1999]
Dottrina dell‟estremo principiante, ivi, 2004. [1999-2004]
Lasciami, non trattenermi. Poesie ultime, a cura di Stefano Verdino, ivi, 2009. [2004-2005]
Tutta la produzione su elencata, fino a Sia detto, è stata raccolta nell‟ottima edizione
critica curata da Stefano Verdino, dal titolo L‟opera poetica, A. Mondadori („I Meridiani‟), Milano 1998: il volume contiene anche un profilo complessivo della lirica di Luzi
(Introduzione), una fitta Cronologia, un‟anticipazione della plaquette del 1999, dal titolo Un
mazzo di rose, una lunga intervista-autocommento (A Bellariva), l‟Apparato critico, con le
varianti, i testi espunti e succinte note esegetiche e di rinvio bibliografico, e, come si
accennava più su, la Bibliografia delle opere e della critica.
Ancorché priva di ogni apparato, è oggi indispensabile per la completezza dei titoli inclusi l‟edizione economica Le poesie (2 tomi, Garzanti, Milano 2014), cui si aggiunge il
volume delle Poesie ultime e ritrovate (a cura di Stefano Verdino, stesso luogo e data).
II. Teatro
Valgono gli stessi criteri di ordinamento della precedente rubrica.
Pietra oscura, a cura di Stefano Verdino, I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme
1994 (ma la stesura risale al ‟47).
Libro di Ipazia, a cura di Geno Pampaloni e Giancarlo Quiriconi, Rizzoli, Milano 1978.
Rosales, a cura di Giovanni Raboni, ivi 1983.
Hystrio, a cura di Giancarlo Quiriconi, ivi 1987.
Corale della città di Palermo per S. Rosalia, a cura di Stefano Verdino, S. Marco dei Giustiniani, Genova 1989.
Il Purgatorio. La notte lava la mente, a cura di L. Baldacci, Costa & Nolan, Genova 1990.
Io, Paola, la commediante, Garzanti, Milano 1992.
Felicità turbate, ivi 1995.
Ceneri e ardori, ivi 1997.
Via Crucis, a cura dell‟Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice, con
quindici illustrazioni a colori di Venturino Venturi, Libreria Editrice Vaticana, Città
del Vaticano 1999; poi col titolo La Passione. Via Crucis al Colosseo, Garzanti, Milano
1999 (priva di illustrazioni e di apparati liturgici).
Opus florentinum, Passigli, Firenze 2000.
Il fiore del dolore, prefazione di Donatella Bisutti, Edizioni della Meridiana-Archivi del
‟900, Firenze-Milano 2003.
Parlate, a cura di Stefano Verdino, Interlinea, Novara 2003.
Tutta la produzione edita fino al 1992 si trova raccolta nel volume Teatro, a cura di
Giancarlo Quiriconi, Garzanti, Milano 1993.
141
III. Prosa d‟arte
Biografia a Ebe, Vallecchi, Firenze 1942; poi in Trame, Rizzoli, Milano 1982; poi in Mario Luzi da Ebe a Constant. Studi e testi, a cura di Daniele Maria Pegorari, Stamperia
dell‟Arancio, Grottammare 2002; infine in Prose, a cura di Stefano Verdino, Aragno
Torino 2014.
Trame, Rizzoli, Milano 1982 (contiene Biografia a Ebe; Le linee della mano; Un sogno; Toscana; Pietà-empietà; Il generale in treno; Discendente; Estate, infanzia; Venezia; Il Monte Amiata;
Volterra; Case marine; Un pomeriggio in Umbria; Ritorno a Siena; Viterbo; Paragrafi fiorentini;
Dylan Thomas; Montale; Giorni in Umbria; Nelle Marche; Manolo; Il vocabolario; La vela latina; Viaggio d‟addio; Agonia di Alberto).
De quibus, Zanetto, Montichiari 1993 (contiene Landolfi negli anni; Il casato; Pietà toscana;
Patetico e peripatetico amico; Noventa; Pagano; Le nuvole)
Prose, a cura di Stefano Verdino, Aragno, Torino 2014 (oltre alla riproduzione integrale
di Trame e De quibus, contiene Al Carmine; Toscanità; Borghi; San Miniato; Bach; Ricordo
di Anna Achmatova; Bernard; 8 settembre: i giorni dell‟armistizio; Pagina di diario; Taccuino di
viaggio in India; Taccuino di viaggio in Cina; [Taccuino di viaggio in Irlanda 1985-1987]; Arnia; Conversazione medianica fra Malagugini, giovane poeta militante, e l‟ectoplasma di Giacomo
Leopardi; La stazione che nasce; Lettera da Firenze; Memoria di Pasqua; Pensione padana; Una
partita di calcio; Dal diario di Mamolo; Un viaggio a Castelfranco; Piccolo viaggio immaginario;
Cervia; Tre castelli; Viaggio nel sud; Parma, un ricordo; Adolescenza; Leone Traverso; Svastiche
a Firenze; Due ricordi di Vasco Pratolini; Il mio liceo; [Don Flori]; Un compagno di viaggio
[Alessandro Parronchi]; Sfiorato a Bucarest [De Sica]; Sintesi memoriale di un‟amicizia [Orazio
Costa]; [Alfonso Gatto]; Imponente e taciturno anche al Caffè Greco [De Chirico]; Gli ozi squisiti di un picaro [Arturo Loria]).
IV. Critica
Abbondante è la produzione saggistica e bisognosa di una rigorosa edizione critica che
ne consenta una lettura attenta e proficua nella ricerca e nella comprensione delle relazioni profonde fra riflessione e creazione letteraria. L‟ideale sarebbe un‟edizione che
riproducesse i contributi secondo la loro esatta successione cronologica, con puntuale
indicazione di tutti i luoghi in cui essi siano via via apparsi nel corso della complessa
loro storia editoriale, rifusi e riassemblati, com‟è avvenuto, in successive antologie. Diamo qui l‟elenco completo delle raccolte saggistiche e delle curatele sin qui pubblicate,
raggruppando in un solo paragrafo, per comodità di lettura, le diverse edizioni di una
stessa antologia, avvertendo che, solitamente, tra un‟edizione e l‟altra vi possono essere differenze sostanziali; per i volumi più rilevanti si dà conto degli articoli ivi contenuti:
L‟opium chrétien, Guanda, Modena 1938; poi accolto in Aspetti della generazione napoleonica… (vedi oltre).
B. Castiglione, Il Cortegiano, a cura di Mario Luzi, Garzanti, Milano 1941.
Un‟illusione platonica e altri saggi, Edizioni di Rivoluzione, Firenze 1941; poi Boni, Bologna 1972 (contiene: Prosa e poesia; Un‟illusione platonica; Note sulla poesia italiana; Vicissitudine e forma; Bornes Stendhaliennes; Una traduzione da Rilke; Su Angelo Cocles; Immagine
di Serra; La prosa di Valéry; Nota su Sparkenbroke; Postilla per D‟Annunzio; Memoria e narrazione di Bilenchi).
L‟inferno e il limbo, Marzocco, Firenze 1949 (contiene: Del progresso spirituale; L‟inferno e il
limbo; L‟uomo moderno e la noia; Sul concetto di natura; Piccolo Catechismo (altre note empiriche
sulla poesia; Sulla poesia di Guido cavalcanti; Il barocco nella poesia italiana; Quirino; Il ciclo
142
delle Grazie; La quiete per il prossimo; La polemica romantica in Italia; La personalità e la poesia in Cardarelli; Un libro su Mallarmé; Forse l‟ultimo umanesimo?; Piccolo Questionario sulla
poesia di circostanza; Sull‟ultimo Éluard; Situazione della poesia italiana di oggi; Penultimo
Faust); poi Il Saggiatore, Milano 1964; infine SE, Milano 1997.
Tommaso Landolfi e Mario Luzi (a cura di), Anthologie de la poésie lyrique française, Sansoni, Firenze 1950.
Studio su Mallarmé, Sansoni, Firenze 1952; poi Editoriale B.M. italiana, Roma 1987.
Aspetti della generazione napoleonica e altri saggi di letteratura francese, Guanda, Parma 1956
(contiene: Corinne et juliette;
Juliette et René; Un filosofo dimenticato; Osservazioni sull‟evoluzione di Chateaubriand; Il diario di
Constant; Cécile; Joseph Joubert; Roma, Parma, Stendhal; Mallarmé e il teatro; La poesia di
Louis Labé; La salute di Montaigne; Il cassetto di Victor Hugo; Un appunto su Nerval; Romantici francesi; A proposito di Rimbaud; Le lettere di Valéry; Gide e Valéry; Omaggio ad André
Gide; Gide postumo; Ricordo di Claudel; Gloria di Apollinaire; Apollinaire e l‟“Esprit nouveau”; La tragedia del Carmelo, François Mauriac; L‟ultimo Mauriac; L‟“Estate” di Camus;
Nuova poesia francese; René Guy Cadou; Poesie di Joyce; Henry Miller; L‟“Andrea” di Hofmannsthal; L‟“Opium chrétien”).
L‟idea simbolista, Garzanti, Milano 1959, 19762.
Lo stile di Constant, Il Saggiatore, Milano 1962.
Tutto in questione, Vallecchi, Firenze 1965 (contiene: Uno sguardo al presente della poesia;
Dubbi sul realismo poetico; Una nuova critica per la nuova letteratura; Il dialetto?; Forse ad un
tramonto; Il 1945; Quesiti sul romanzo; Chiarimento o risposta; Un‟intervista del 1962).
Vicissitudine e forma, Rizzoli, Milano 1974 (contiene: Glossolalia e profezia; L‟incanto e lo
scriba; La creazione poetica?; La parte dei classici; Leggere Lucrezio equivale; Dante, scienza e
innocenza; L‟Odissea di Villon; Il Riccardo II; Per una lettura di Andromaque; Leopardi nel secolo che gli succede; Pascoli e la psiche; L‟azione poetica di rebora; Campana al di qua e al di là
dell‟elegia; Apollinaire e l‟“esprit nouveau”; Apollinaire dentro la guerra; Una lettura pubblica di
Machado; Montale e la compiutezza dell‟arte).
Discorso naturale, a cura di Achille Serrao e Carlo Fini, intr. di Franco Fortini, Quaderno
di Messapo, Siena 1980; poi Garzanti, Milano 1984 e 2001 (contiene: Moderni? Contemporanei; Elegia ed ironia; Onofri?; Per ricordo di Lisi; Ungaretti e la tradizione; Il calore delle
ceneri; Il dubbio e l‟ironia; Di saba; Per troppa ragione; Il Sabato di Carlo Betocchi; Quello splendido faber; Di una lunga familiarità; Non sia nostalgia ma desiderio; Incontro e separazione; Oggi, poesia; Padre mite e dispotico; Il novellare; Poliziano; Corpo a corpo; Il poema negato; Dieci
pensieri su D‟Annunzio; De Robertis e i suoi poeti; Considerazioni su un secolo; E non vergognarsi).
Scritti, a cura di Giancarlo Quiriconi, Arsenale, Venezia 1989.
Cronache dell‟altro mondo, a cura di Stefano Verdino, Marietti, Genova 1989.
Le parole agoniche della poesia, a cura di G. Garufi, Alfabetica, Macerata 1991.
Dante e Leopardi o della modernità, a cura di Stefano Verdino, Editori Riuniti, Roma 1992
(contiene: L‟inferno e il limbo; Dante, scienza e innocenza; L‟esilio, Dante, la poesia; Dante, da
mito a presenza; Note sulla poesia italiana; La polemica romantica in Italia; Vicissitudine e forma; Nella poesia e nel pensiero una necessaria rifondazione; Leopardi nel secolo che gli succede;
Modernità).
La luce (dal Paradiso di Dante), Galleria Pegaso, Forte dei Marmi 1994.
Naturalezza del poeta, a cura di Giancarlo Quiriconi, Garzanti, Milano 1995 (contiene:
Prosa e poesia; Un‟illusione platonica; Vicissitudine e forma; Del progresso spirituale; L‟inferno e
il limbo; L‟uomo moderno e la noia; Sul concetto di natura; Naturalezza del poeta; La strada del
143
simbolismo; Discretamente personale; Glossolalia e profezia; L‟incanto dello scriba; La creazione
poetica?; Paragrafo sui classici; L‟eterna povertà dell‟uomo; Leggere Lucrezio equivale; Dante,
scienza e innocenza; L‟esilio, Dante, la poesia; Leopardi nel secolo che gli succede; Nella poesia e
nel pensiero una necessaria rifondazione; Manzoni e Rebora; Con Mallarmé, a lungo; Nel cuore
dell‟orfanità; Kavafis; Il linguaggio di Gesù; Saluto al pontefice; Religione visibile e invisibile; Idea
ed evento; Le parole agoniche della poesia; Verso Ragusa).
Sperdute nel buio. 77 critiche cinematografiche, a cura di Annamaria Murdocca, Archinto, Milano 1997.
Luzi critico d‟arte, LoGisma, Firenze 1997.
La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, a cura di Stefano Verdino, Piemme, Casale Monferrato 1997 (oltre a una lunga intervista, contiene: Leggendo il Libro di Giobbe; Vangelo e poesia; Sul discorso paolino).
Prima semina. Articoli e saggi critici (1933-46), Mursia, Milano 1998.
Per il bicentenario del tricolore, in G. Carducci, M. Luzi, Discorsi per il Tricolore, Zanetto,
Brescia 1999, pp. 15-22.
V. Traduzioni principali
Degne di nota sono le due traduzioni teatrali alle quali la critica fa risalire la genesi dello stile drammatico del Luzi maturo, nonché una celebre antologia di versioni:
J. Racine, Andromaca, in G. Macchia (a cura di), Il teatro francese del grand siècle, ERI,
Roma 1960; poi J. Racine, Andromaca, Rizzoli, Milano 1980.
W. Shakespeare, Riccardo II, Einaudi, Torino 1966.
La cordigliera delle Ande e altri versi tradotti, ivi 1983 (traduzioni da Ronsard, Labé, SainteBeuve, Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud, Valéry, Supervielle, Michaux, Frénaud, Cadou, Racine, J. Guillén).
VI. Interviste principali
Nell‟ultima stagione della sua vita Luzi ha rilasciato numerose interviste, notevoli per
l‟estensione (in qualche caso assumendo la dimensione di un volume autonomo), per
l‟originalità delle informazioni biografico-culturali e per le aperture di autocommento
ivi contenute:
D.M. Pegorari, Incontro con l‟autore, in «in/oltre», VI, 12, dicembre 1993, pp. 57-64; poi
in Id., Dall‟«acqua di polvere» alla «grigia rosa». L‟itinerario del dicibile in Mario Luzi, Schena, Fasano 1994, pp. 171-185.
M. Luzi, M. Specchio, Luzi. Leggere e scrivere, Nardi, Firenze 1993.
S. Verdino, A Bellariva. Colloqui con Mario, in «Annuario della Fondazione Schlesinger»,
1995, pp. 29-73; poi in M. Luzi, L‟opera poetica cit., pp. 1239-1292.
U. De Vita, Semina. Conversazione con Mario Luzi, pref. di Giorgio Barberi Squarotti,
Nuova cultura, Roma 1996.
M. Luzi, S. Verdino, La porta del cielo. Conversazioni sul Cristianesimo, Piemme, Casale
Monferrato 1997 (contiene anche tre saggi di Luzi: Leggendo il Libro di Giobbe; Vangelo
e poesia; Sul discorso paolino).
F. Medici, Leopardi o della modernità. Conversazione con Mario Luzi, in «Studi Leopardiani»,
VI, 11, 1998, pp. 5-17.
A. Murdocca, Conversazioni. Interviste 1953- 1998, pref. di Stefano Verdino, Cadmo, Fiesole 1998.
M. Specchio, Colloquio, Garzanti, Milano 1999.
M. Guerzoni, La poesia, allegato a «Liberal», 56, 1999.
144
P.G. Santella, Miele amaro. Conversazione con Mario Luzi, Loffredo, Napoli 1999.
D. Fasoli, Il colore della poesia, Semar, Roma 2000.
R. Cassigoli, Frammenti di Novecento. Conversando con il poeta protagonista e testimone di un secolo, Le Lettere, Firenze 2000.
P. Mongiello, Felicità, Vannini, Gussago 2000.
C. Ruzzi, Mario Luzi. Quasi privato, LietoColle, Faloppio 2000.
M. Luzi, R. Cassigoli, Le nuove paure, Passigli, Firenze 2005.
M. Luzi, G. Tabanelli, Il lungo viaggio nel Novecento. Storia politica e poesia, Marsilio, Venezia 2014.
VII. Monografie su Luzi
Si riportano, in ordine cronologico, tutte le monografie apparse fino ad oggi.
S. Salvi, Il metro di Luzi, Leonardi, Bologna 1967.
G. Zagarrio, Luzi, La Nuova Italia, Firenze 1968; ed. accresc. 1973.
A. Luzi, La vicissitudine sospesa, Vallecchi, Firenze 1968; ed. accresc. Sulla poesia di Mario
Luzi. La vicissitudine sospesa ed altri saggi, Fondazione Mario Luzi, Roma 2016.
C. Scarpati, Mario Luzi, Mursia, Milano 1970.
E. Giunta, Mario Luzi poeta del fruire, Centro Pitré, Palermo 1977.
G. Quiriconi, Il fuoco e la metamorfosi. La scommessa totale di Mario Luzi, Cappelli, Bologna
1980.
S. Pautasso, Mario Luzi. Storia di una poesia, Rizzoli, Milano 1981.
G. Mariani, Il lungo viaggio verso la luce. Itinerario poetico di Mario Luzi, Liviana, Padova
1982.
A. Serrao, M. Nifosì, Contributi per una bibliografia luziana, Comune di Campi Bisenzio,
Firenze 1984.
A. Panicali, Saggio su Mario Luzi, Garzanti, Milano 1987.
A. Ulivi, Mario Luzi. Dalla poesia al teatro, Città di vita, Firenze 1988.
I. Saatçioglu, L‟unità e il molteplice. La poesia di Mario Luzi, I Quaderni del Battello Ebbro, Porretta Terme 1991.
L. Rizzoli, G.C. Morelli, Mario Luzi. La poesia, il teatro, la prosa, la saggistica, le traduzioni,
Mursia, Milano 1992.
A. Iacopetta, Azzurro magma (Lettura dell‟opera di Luzi: 1936-1990), Gigliotti, Lamezia
Terme 1993.
G. Mazzanti, Dalla metamorfosi alla trasmutazione. Destino umano e fede cristiana nell‟ultima
poesia di Mario Luzi, Bulzoni, Roma 1993.
D.M. Pegorari, Dall‟«acqua di polvere» alla «grigia rosa». L‟itinerario del dicibile in Mario Luzi,
Schena, Fasano 1994.
N. Caranica, Capire Luzi, Studium, Roma 1995.
M. Landi, Mario Luzi fidèle à la vie, L‟harmattan, Paris 1995.
Ph. Renard, Mario Luzi. Frammenti e totalià. Saggio su “Per il battesimo dei nostri frammenti”,
tr. A. Dolfi e G. Isotti Rosowsky, Bulzoni, Roma 1995.
M. Marchi, Invito alla lettura di Mario Luzi, Mursia, Milano 1998.
V. Micheli Pellegrini, Prontuario di anatomia trascendentale. Lessico antropografico luziano (La
descrizione anatomica nell‟Opera di Mario Luzi), Rossi, Carrara 1999.
G. Cavallini, La vita nasce alla vita. Saggio sulla poesia di Mario Luzi, Studium, Roma 2000.
M. D‟Angelo, La mente innamorata. L‟evoluzione poetica di Mario Luzi 1935-1966, Noubs,
Chieti 2000.
G. Manghetti, Sul primo Luzi, Schewiller, Milano 2000.
145
G. Fontana, Il fuoco della creazione incessante. Studi sulla poesia di Mario Luzi, Manni, San
Cesario di Lecce 2002.
A.M. Biscardi, Mario Luzi. Note di vita dall‟archivio della memoria, Polistampa, Firenze
2004.
C. Bo, Scritti su Mario Luzi, a cura di Stefano Verdino, San Marco dei Giustiniani, Genova 2004.
S. Bernasconi, Tra cielo e terra. La metamorfosi del sacro nella poesia e nel teatro di Mario Luzi,
Cesati, Firenze 2005.
M. Modesti, Finzione e verità nel teatro di Mario Luzi, Edizioni dell‟Orso, Alessandria
2005.
P. Mongiello, Mario Luzi. Il tempo, il mondo, la parola, La compagnia della stampa, Roccafranca (BS) 2005.
L. Nannipieri, Mario Luzi. Il maestro e i suoi dialoghi, Fara, Rimini 2005.
L. Toppan, «Le chinois». Luzi critico e traduttore di Mallarmé, Metauro, Pesaro 2006.
S. Verdino, La poesia di Mario Luzi. Studi e materiali, Esedra, Padova 2006.
F. Medici, Luzi oltre Leopardi. Dalla forma alla conoscenza per ardore, Stilo, Bari 2007.
M. Menicacci, Luzi. Il demone filosofico, Cesati, Firenze 2007.
R. Tordi Castria, Dovuto a Mario Luzi, Bulzoni, Roma 2007.
L. Pellegrini, Mario Luzi. Un poeta, un amico. I quattro elementi de “La barca”, Guerra, Perugia, 2008.
C. Cucinotta, Mario Luzi. Le stagioni del giusto (1935-1960), Le Lettere, Firenze 2010.
E. Ventura, Mario Luzi. La poesia in teatro, Scienze e Lettere, Roma 2010.
M. Merlin, Oltre il varco. Occasioni luziane, puntoacapo, Novi Ligure (AL) 2011.
G. Lupo, In viaggio con Mario Luzi. Studio del “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini,
ABEditore, Milano 2012.
M. Marchi, Per Luzi, Le Lettere, Firenze 2012.
L. Piazza, Il gesto, la parola, il rito. Il teatro di Mario Luzi, Il nuovo Melangolo, Genova
2012.
F. Spedicato Esposito, I viaggi del ritorno. Itinerario poetico, filosofico e sapienziale in Mario
Luzi, Fondazione Mario Luzi, Roma 2013.
A. Donadio, La vita al quadrato. Sulla poetica di Mario Luzi, LietoColle, Faloppio 2014.
M. Menicacci, Mario Luzi e la poesia tedesca. Novalis, Hölderlin, Rilke, Le Lettere, Firenze
2014.
G. Nicoletti, Cinque pezzi facili per Mario Luzi, Passigli, Firenze 2014.
S. Ramat, «Sia grazia esser qui» intorno a Mario Luzi, Le Càriti, Firenze 2014.
I. Baccarini, Mario Luzi. Il «sistema» della natura, Studium, Roma 2015.
R. Vitale, Mario Luzi. Il tessuto dei legami poetici, Società Editrice Fiorentina, Firenze
2015.
VIII. Volumi collettanei principali
A. Serrao (a cura di), Mario Luzi, Atti del convegno di Siena, 9-10 maggio 1981, Edizioni dell‟Ateneo, Roma 1983 (contiene: S. Ramat, Luzi 1939-1940: due frammenti; F.
Fortini, Introduzione a “Discorso naturale”; L. Baldacci, Una testimonianza sul “Libro di
Ipazia”; A. Barbuto, Luzi e “La Chimera”; A. Serrao, “Biografia a Ebe”: appunti per una
lettura; V. Sereni, Testimonianza sulla poesia di Mario Luzi; R. Mussapi, Profezia del presente; F.P. Memmo, “Nella casa di N. compagna d‟infanzia”: una proposta di lettura; E.
Giunta, La misura drammatica nel “Libro di Ipazia”; S. Verdino, Le immagini di “Onore del
vero”; R. Jacobbi, Lettera al Convegno senese sulla poesia di Mario Luzi; G. Zagarrio, Luzi
146
la metamorfosi e la storia (Ovvero della “Parte giusta”); G. Quiriconi, Luzi traduttore; R.
Gagno, Conoscenza per ardore, L. Zinna, Il mare nella poesia di Luzi; G. Marchetti, Tra vicissitudine e forma. L‟emozione poetica e lo stato di crisi in Luzi; M. Bettarini, Radici/rimandi:
Luzi (Firenze) e la mia poesia (una testimonianza); C. Ferrucci, Il problema del tempo nella
poesia di Luzi).
S. Mecatti (a cura di), Pensiero e poesia nell‟opera di Mario Luzi, Vallecchi, Firenze 1989
(contiene: G. Raboni, Il respiro del pensiero; M. Cacciari, Fondamenti invisibili; A. Panicali, Dire il pensiero; R. Berardi, In corpore speciei; A. Prete, Studio sopra la poesia di Luzi; G.
Mazzanti, Hystrio: la tragedia della ripetizione; M. Luzi, I falsi profeti).
G. Nicoletti (a cura di), Per Mario Luzi, Atti della giornata di studio, Firenze 20 gennaio 1995, Bulzoni, Roma 1997 (contiene: G. Nicoletti, Premessa; C. Bo, Il ricordo di
un amico; A. Prete, Tempo del miraggio, tempo della necessità; A.
Panicali, Dialogo, visione, “antico salmodiare”; G. Gramigna, Forme primarie: lettura archeologica di “Avvento notturno”; A. Jacomuzzi, Lettura da “Primizie del deserto”: “Notizie a Giuseppina dopo tanti anni”; G. Orelli, Accertamento luziano: Dalla torre; L. De Nardis, Per
Luzi francesista; L. Tassoni, L‟enigma di “Quaderno gotico”, e un commento a Luzi; S. Vizzardelli, Luzi e Mauriac).
A. Buoninsegni, F. Balestra, G. De Santi (a cura di), Mario Luzi - Luciano Sampaoli. Il
tempo tra Poesia e Musica, Crocetti, Milano 1997 (si tratta del catalogo della mostra di
Longiano, 10 dicembre 1995 - 31 gennaio 1996, replicata a Gubbio, dal 2 marzo al
30 aprile 1997, e a Firenze, dal 5 maggio al 20 giugno 1998; contiene: A. Bertoni, Tra
Poesia e Musica: qualche osservazione preliminare; G. De Santi, Il tema del canto e della musica
nell‟incontro tra Luzi e Sampaoli; M. Fabbri, Tempo della vista e tempo dell‟udito; P. Maurizi,
Tempo, tragicità e mito nell‟opera di Luciano Sampaoli; P. Paioni, Accenti; G. Quiriconi, Da
“Canto cupo” a “Squilla”. Tensioni percettive della recente poesia luziana; S. Verdino, Appunti
metrici su Luzi).
S.G. Bonsera (a cura di), Luzi tra noi, Ermes, Potenza 1999 (contiene: Lettera di Luzi, in
facsimile; In Lucania in facsimile; L.Piccioni, I traguardi di Luzi; C. Marabini, Al di là
del presente; G.Ravasi, Il bulbo della speranza).
V. Tiberia (a cura di), Fede e Poesia. Omaggio a Mario Luzi, Ediart, Todi 1999 (contiene:
V. Tiberia, Una fede nella poesia; P. Paupard, Il fare artistico fra ascolto, concretezza e creatività; V. Tiberia, Mario Luzi; M. Luzi, Fede e poesia; L. Luisi, La fede nel viaggio di poesia di
Luzi; M. Luzi, Poesie).
S. Verdino (a cura di), Omaggio a Mario Luzi, in «Resine», XXI, 80, aprile-giugno 1999
(contiene: M. Luzi, Poesie inedite; Le vie del ritorno a Dante. Colloquio con Mario Luzi a cura di Lorenza Gattamorta; L. Fenga, L‟opera di Luzi; F. Bianchi, Il libro di Ipazia; A.
Sansa, Spazio, stelle, voce).
R. Cardini, M. Regoliosi (a cura di), Gli intellettuali italiani e la poesia di Mario Luzi, Bulzoni, Roma 2001.
D.M. Pegorari (a cura di), Mario Luzi da Ebe a Constant. Studi e testi, Stamperia
dell‟Arancio, Grottammare 2002 (contiene: D.M. Pegorari, Vita di Mario Luzi; G.
Quiriconi, Ripensare Luzi; M.A. Abenante, L‟opera teatrale di Mario Luzi; E. Solonovič,
La poesia immersa nel tempo: il poeta italiano visto dal suo traduttore russo; D.M. Pegorari,
Lettura del “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini; V. Moretti, La “Via Crucis” e la
problematica religiosa in Mario Luzi; D.M. Pegorari, Una proposta antologica tra naturalezza
e gnoseologia; segue l‟edizione integrale di Biografia a Ebe, con commento di D.M. Pegorari, una selezione di testi lirici e teatrali di Luzi, nonché i suoi saggi L‟inferno e il
limbo e Nella poesia e nel pensiero una necessaria rifondazione).
147
S. Verdino (a cura di), Mario Luzi cantore della luce, Cittadella, Assisi 2003.
R. Donati (a cura di), Il testimone discreto. Per Mario Luzi in occasione dei novant‟anni. Con un
intervento di Mario Luzi, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2004.
M. Froncillo Nicosia (a cura di), Mario Luzi 90 anni. Chi esce vede segni inaspettati…, Mazzotta, Castelvetrano 2004.
G. Singh, G., Barfoot, Luzi a Belfast, Campanotto, Pasian di Prato 2006.
M. Leombruno (a cura di), Mario Luzi. Quando sarò rinato?, atti annuali del Premio internazionale Mario Luzi 2010, Fondazione Mario Luzi, Roma 2010.
E. Ventura (a cura di), Mario Luzi. Seminario sul teatro, incontro con il poeta, Fondazione
Mario Luzi, Roma 2012.
P. Baioni, D. Savio (a cura di), Mario Luzi. Un viaggio terrestre e celeste. Con un‟appendice di
scritti dispersi, Storia e letteratura, Roma 2014.
M. Carocci, I. Lombardi (a cura di), Mario Luzi: l‟uomo e il poeta, Poetikanten, Cosenza
2015.
G. Devoto, B. Manzitti, S. Verdino (a cura di), Mario Luzi (1914-2014). Mostra bibliografica, San Marco dei Giustiniani, Genova 2015.
P. Baioni, G. Langella, C. Mezzasalma, Mario Luzi. L‟umanesimo della poesia, Città ideale,
Prato 2016.
IX. Principali contributi sul teatro
Oltre ai capitoli e ai saggi relativi al teatro, presenti nei volumi su citati (in partic. quelli
di S. Mecatti, S. Pautasso, A. Panicali, L. Rizzoli-G.C. Morelli, A. Serrao, A. Ulivi, S.
Bernasconi, M. Modesti e L. Piazza), e ai materiali critici che solitamente accompagnano le edizioni teatrali di Luzi (su tutti G. Quiriconi, Scene dal grande patema. Elementi
per il teatro di Mario Luzi, in M. Luzi, Teatro cit., pp. 497-520), si vedano i seguenti contributi apparsi su rivista:
G. Poli, L‟avvento drammatico di Mario Luzi, in «Letture», 10, ottobre 1976, pp. 605-624.
A. Rossi, Dialogo su “Rosales”, con un‟esplicazione del teatro luziano, in «Poliorama», I, 1, ottobre 1982, pp. 186-203.
K. Migliori, Hystrio: il teatro, memoria di vta. Conversazione con Mario Luzi, in AA.VV.,
Studi per Eliana Cardone, Università di Urbino, 1989, pp. 307-314; poi in «Lengua»,
10, 1990; infine in AA.VV., Voci di scrittori italiani. Lettere, letture, conversazioni dalla rivista Lengua (1982-1994), Artemisia, Helsinki 1997, pp. 271-279.
G. Taffon, Metateatro e rapporto teatro-vita: una lettura di Hystrio di Mario Luzi, in «Critica
letteraria», XVIII, 68, 1990, pp. 587-597.
C. Arbizzoni, Le riflessioni sul tragico nel teatro di Mario Luzi, in «Vita e Pensiero»,
LXXIII, 1, gennaio 1990, pp. 65-78.
G. Pianigiani, Persona e personaggio nel teatro luziano: “Hystrio” e “Io, Paola, la commediante”,
in «Allegoria», n.s., VI, 16, 1994, pp. 172-181.
M. Fabbri, Stare a Sinesio come Sinesio sta a Ipazia, in «Critica letteraria», XXIV, 91-92,
1996, pp. 569-585 (si tratta del vol. III: Letteratura contemporanea di un numero speciale di studi critici in onore di P. Giannantonio).
M.A. Abenante, Il «tempo turbato» del teatro di Mario Luzi, in «Hortus», 21, giugno 1998,
pp. 39-60.
Ead., Finzione e realtà nel teatro di Mario Luzi, in «Linee», I, 1, marzo-maggio 1999, pp.
17-19.
Ead., L‟opera teatrale di Mario Luzi, in D.M. Pegorari (a cura di), Mario Luzi da Ebe a
Constant, cit., pp. 47-77.
148
X. Sul dantismo di Luzi
Vista la crescente importanza dell‟orientamento critico transtestuale, e soprattutto intertestuale, e assodata la centralità che il recupero del modello dantesco assume
all‟interno della poetica luziana – argomento che è stato oggetto di numerose osservazioni in queste pagine –, si ritiene opportuno ricordare al lettore la bibliografia su
questo specifico argomento.
G. Zagarrio, Luzi, La Nuova Italia, Firenze 1969, passim (ma soprattutto pp. 134-135).
M. Musti, Rinnovato dantismo nella lirica di Mario Luzi, in «Il Veltro», XV, 5-6, 1971, pp.
642-647.
A. Noferi, Dante e il Novecento, in «Studi danteschi», XLVIII, 1971, pp. 185-209.
G. Barberi Squarotti, L‟ultimo trentennio, in AA.VV., Dante nella letteratura italiana del Novecento, Atti del convegno di Roma, 6-7 maggio 1977, Bonacci, Roma 1979, pp. 247254.
M. Petrucciani, Due paragrafi per Dante e il Novecento. I. Tra le due guerre: dalla «Ronda»
all‟ermetismo, ivi, pp. 179-181.
S. Ramat, Purgatorio e inesistenza in due testi poetici medionovecenteschi (M. Luzi, La notte lava
la mente - V. Sereni, La spiaggia), in «Paradigma», 3, 1980, pp. 383-403.
A. Dolfi, Dante e i poeti del Novecento, in «Studi danteschi», LVIII, 1986, pp. 307-342; poi
ripubblicato in Le parole dell‟assenza. Diacronie sul Novecento, Bulzoni, Roma 1996, pp.
5-53.
Ead., Dante e la poesia italiana del Novecento tra III e IV generazione, in AA.VV., Dantismo
russo e cornice europea, Atti dei convegni di Alghero-Gressoney (1987), vol. II, Olschki,
Firenze 1989, pp. 137-154.
L. Scorrano, Luzi: trame dantesche, in AA.VV., Filologia e critica dantesca. Studi offerti a Aldo
vallone, Olschki, Firenze 1989, pp. 601-622.
G. Costa, Luzi e la lirica dantesca, in «Sipario», XLV, 499, maggio 1990, pp. 17-18.
S. Crespi, Purgatorio, cantica del soffrire, in «Il Sole-24 Ore», 23 dicembre 1990, p. 17.
A. Mango, Somnio ergo sum, programma di sala, in Divina Commedia, s.e., Bari 1991.
F. Tiezzi, La fisica dell‟assenza: per una regia del Purgatorio, in I magazzini: Il Purgatorio, s.e.,
Bari 1991.
G. Gramigna, Planetari piranha, in «Corriere della Sera», 19 luglio 1992.
S. Verdino, Vis-à-vis, in M. Luzi, Dante e Leopardi cit., pp. 143-148.
L. Scorrano, La scena dell‟aldilà (Su una „trilogia‟ dantesca), in «Ariel», VII, 1, gennaioaprile 1992, pp. 15-30.
Id., Luzi, in Presenza verbale di Dante nella letteratura italiana del Novecento, Longo, Ravenna
1994, pp. 165-170.
L. Gattamorta (a cura di), Le vie del ritorno a Dante. Colloquio con Mario Luzi, in «Resine»,
XXI, 80, aprile-giugno 1999, pp. 9-20.
D.M. Pegorari, Vocabolario dantesco della lirica del Novecento, Palomar, Bari 2000, pp. 497555 (ma si vedano anche i numerosi riferimenti nel corso del primo capitolo della
Presentazione, pp. VII-LXX).
M.S.Titone, Cantiche del Novecento. Dante nell‟opera di Luzi e Pasolini, pres. di Giorgio Luti,
intr. di Marco Marchi, Olschki, Firenze 2001, pp. 41-68; 137-192; 195-202.
L. Gattamorta, La memoria delle parole. Luzi tra Eliot e Dante, Il Mulino, Bologna 2002.
A. Caiaffa, Anime lungo la cornice. Dante nell‟opera di Mario Luzi, Stilo, Bari 2008.
D.M. Pegorari, Città infernali e ispezioni celesti in Mario Luzi, in Id., Il codice Dante. Cruces
della „Commedia‟ e intertestualità novecentesche, Stilo, Bari 2012, pp. 173-246.
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