congressi e convegni - Ordine Avvocati Milano

La Rivista del Consiglio
Congressi e convegni
n. 3/2013
CONGRESSI E CONVEGNI
CONTRATTO ALIENO, ARBITRATO, DIRITTO
EUROPEO DEI CONTRATTI
19 aprile 2013, Aula Magna del Palazzo di Giustizia, Milano
(report a cura del prof. Marco De Benito, Università di Madrid)
Mi sembra innanzitutto rilevante precisare cos’è e cosa non è il contratto
alieno, un termine molto recente coniato dal grande civilista milanese Professor Giorgio De Nova.
Non è un contratto alieno ogni contratto che possa risultare più o meno
strano a noi avvocati di tradizione continentale. Non è un contratto alieno
ogni contratto di origine anglosassone. Contratti di quest’ultimo tipo sono onnipresenti oggi nella nostra vita quotidiana: guardiamo ad esempio i contratti
usati per scaricare un’app nell iPhone, o di autorizzazione a Facebook per usare
i nostri dati personali. Di contratti come questi ce ne sono tantissimi, e ciò
soltanto riflette magari il maggior dinamismo e carattere tecnicamente innovativo della società americana nel mondo.
Quelli che De Nova ha denominato contratti alieni sono qualcosa di diverso, o per meglio dire qualcosa di più specifico: si tratta di quei contratti che,
oltre ad avere una struttura tipicamente anglosassone, sono stati sottoposti al
diritto italiano, o al diritto francese o tedesco o spagnolo; ad un diritto continentale, insomma.
Sono questi contratti - spesso ma non necessariamente scritti in inglese che, pur mantenendo una struttura tipica anglosassone, nella clausola del contratto ove si accenna il diritto applicabile scelgono il diritto italiano. Se non
hanno questa clausola, saranno forse qualcos’altro, ma non contratti alieni.
Il contratto con Facebook non è un contratto alieno poiché, sebbene sia stato tra l’altro redatto da un avvocato americano alla maniera propria di quelle
parti, non è sottoposto al diritto italiano, ma al diritto dello stato della California. E non ci si porrà quindi alcun problema particolare di struttura o interpretazione in questo caso: si tratta di un contratto americano interpretato in
base alla legge americana.
L’autentico contratto alieno è invece quello che si redige alla maniera americana, ma che per differenti ragioni - ragioni che possono essere variatissime 53
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si sottomette alla legge italiana, o francese o tedesca; un contratto pensato e
scritto in conformità ad un modello diverso da quello praticato nel diritto italiano, che però indica come legge applicabile il diritto italiano.
Il fenomeno non è nuovo, ma sta assumendo un’intensità sempre maggiore.
Quando avviene? Quando si stipula un contratto in Italia con una parte italiana che ha forza contrattuale sufficiente per imporre come legge applicabile il
diritto italiano; quando la controparte contrattuale della parte italiana è a sua
volta una parte italiana ma controllata da una compagnia transnazionale non
italiana; o quando la casa madre statunitense della multinazionale impone alla
società figlia di diritto italiano, operante in Italia, di utilizzare contratti standard elaborati negli Stati Uniti e tradotti letteralmente in italiano, o neppure
tradotti, bensı̀ lasciati in inglese.
Il fenomeno è inarrestabile perché nei dipartimenti legali delle grandi società
non europee (continentali), o di quelle europee però con un focus molto internazionale, vengono molto spesso seguiti modelli americani, e si presta molta
attenzione che tutte le infinite clausole di questi modelli siano incluse nei contratti.
E nemmeno si tratta soltanto di quei contratti inizialmente atipici, che non
hanno una disciplina specifica all’interno dei nostri codici, dato che non esistevano prima che gli avvocati americani li inventassero, come il factoring, il leasing, e via dicendo. No, il fenomeno dei contratti alieni è più ampio. Troviamo sempre più spesso contratti tipicissimi nei nostri codici - ad esempio la
vendita, la cessione di azienda o il patto di non concorrenza - che invece rimangono in tal modo contratti alieni perché essi sono pensati, costruiti, scritti
in funzione del diritto statunitense; ed ignorano deliberatamente il diritto italiano, anche quando esso prevede norme potenzialmente applicabili.
Gli studi di avvocati angloamericani - in Europa continentale per esempio
gli studi BigLaw del Magic Circle londinense o quei più globalizzati del Charmed Circle newyorkese - esportano spesso il loro stile contrattuale anche ai
paesi non-angloamericani dove operano, inizialmente solo nei livelli superiori
del mercato legale (cross-border transactions, etc.), ma sempre più anche negli
livelli intermedi.
Questo tipo di contratti, che circolano oggi dapertutto in Europa, non avevano un nome. De Nova è riuscito a raccogliere e battezzare quest’orfanello,
con cui tutti parlavamo, ma di cui nessuno si faceva carico.
E non si deve pensare che gli avvocati americani non siano coscienti degli
aspetti a volte negativi della loro forma di redigere i contratti. Nel 2004 due
giuristi americani si chiedevano ‘‘How Do German Contracts Do As Much With
Fewer Words?’’. In quest’articolo gli autori arrivavano alla conclusione che la
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pratica contrattuale continentale raggiunge gli stessi o migliori risultati della
pratica americana.
Perché non si tratta tanto di un problema di diritto, quanto di un problema
di prassi. Negli Stati Uniti gli avvocati, volendo prevedere tutte le possibili
manovre opportunistiche della controparte, cominciano una corsa agli armamenti, con il risultato tipico delle corse agli armamenti, cioè una correlazione
di forze simile a quella precedente, ma con molte più armi sul tavolo: nei contratti fanno lo stesso, e raggiungono il nostro stesso risultato, ma con molte
più clausole, e clausole molto più lunghe e complicate.
Vorrei fare qualche esempio. Una clausola semplice, quella di scelta della
competenza territoriale. Se da noi si è sempre usata una forma semplice quale:
«Sono competenti i tribunali di Milano»,
la clausola americana tipica sarebbe più o meno cosı̀:
«The exclusive forum for the resolution of any dispute under or arising out of
this agreement shall be the courts of general jurisdiction of Milan, and both parties
submit to the jurisdiction of such courts, with exclusion of any other jurisdiction.
The parties waive all objections to such forum based on forum non conveniens.».
Racconta quell’articolo un aneddoto riguardante un incidente successo nel
1962. Una società americana ed una belga volevano fare un’operazione di cessione di azioni. La parte americana ha inviato una bozza di diecimila parole.
La parte belga, scioccata dalla lunghezza del contratto, ha rifiutato di continuare la negoziazione in assenza di una nuova bozza del contratto. La bozza aveva
mille quattrocento parole, e la parte americana ritenne che includeva tutta la
sostanza di cui c’era bisogno. Il contratto alla fine fu stato firmato ed eseguito
con soddisfazione delle parti.
Purtroppo, dal 1962 ad oggi non tutti abbiamo avuto tanto buon senso.
Ma torniamo al tema fondamentale: quei prolissi contratti, oggi abituali,
non sono sempre compatibili col diritto italiano, o col diritto spagnolo, o francese, o tedesco. Poi vedremo alcuni esempi.
Le ragioni di questo scontro sono molto diverse e hanno radici storiche
molto profonde. Parafrasando Jhering, lo spirito del common law e lo spirito
del ius commune sono molto diversi.
Una differenza consiste nel fatto che gli anglosassoni hanno sempre concepito il diritto come un ars, come un ufficio, mentre da noi la giurisprudenza è
stata concepita come una scientia, anche se una scienza pratica, destinata sempre ad essere applicata.
Qui in Italia, quasi un millennio fa un gruppetto di giovanni curiosi hanno
inventato il metodo scolastico, per capire e risolvere le contraddizioni di un libro chiamato Digesto che, essenzialmente, non veniva mai applicato al mondo
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reale. L’avvocato si occupava poi dei problemi del modo reale, ma lo faceva
usando gli strumenti intellettuali della scienza del diritto, imparati all’Università.
Quell’inseguimento di una ratio più o meno universale, è rimasto, ritengo,
nel nostro DNA.
Molto diversa è invece l’evoluzione del diritto in Inghilterra e poi negi Stati
Uniti. Quando lo ius civile viene recepito in tutta Europa, in Inghilterra hanno già sviluppato un sistema proprio basato sulle consuetudini normanne, sui
writs emanati dal re, sui giurati popolari... Quindi, quando lo ius civile arriva
in quelle terre, i baroni inglesi reagiscono contro quella novità che era a loro
estranea e pronunciano quella frase: nolumus leges Angliae mutari, non vogliamo cambiare le leggi dell’Anglia. Cosı̀, nei secoli successivi si vieta, in un momento o nell’altro, lo studio sia del diritto civile che del diritto canonico, i
due pilastri del ius commune europeo.
Anche se con numerose eccezioni (Oxford, Cambridge), la realtà è che un
giovane inglese non impara il common law nelle aule universitarie, ma presso
un’Inn of Court con un barrister o solicitor con cui fa il tirocinio sulla base del
Blackstone, dei modelli e della quotidiana prassi giudiziale.
Consideriamo un dato molto eloquente. Le prestigiossissime Università di
Harvard e di Yale vengono fondate rispettivamente nel 1636 e 1701; ma non
vengono offerti studi di diritto fino al 1817 ad Harvard e 1824 a Yale. Allo
stesso modo, quelle law schools hanno mantenuto una marcata autonomia all’interno delle rispettive Università, un’autonomia che soltanto si spiega - fino
ai primi decenni del novecento - con il loro carattere professionale, non autenticamente universitario, com’erano, invece, la filosofia, la filologia, le liberal
arts insomma, ritenute l’unico oggetto genuino dei lavori universitari.
Il diritto è, insomma, cosa dei practitioners. E questi practitioners, con una
ingenuità ammirabile, professano una solida fede nelle capacità umane per anticipare tutto quello che può accadere nel corso del rapporto giuridico. Fuori
del contratto, ci sono cases, sentenze, ma bisognerà che il caso che sorge nel
corso di quel rapporto che si sta negoziando abbia lo stesso factual pattern; in
caso contrario, la debolezza di principi di qualche livello di astrazione, come la
buona fede, fanno sı̀ che sia preferibile lasciare tutto chiaro all’interno del documento.
E tutto questo è rimasto, mi sembra, nel DNA degli avvocati statunitensi.
Il loro orientamento è dunque pratico; il nostro, almeno tendenzialmente
scientifico. Loro, come dicevo, si sono abituati a prevedere tutto nei loro contratti; noi, magari più scettici di loro nelle capacità umane, ci siamo forse abituati a trascurare un po’ la stesura dei contratti, poiché alla fine il contratto
dovrà rispettare comunque le regole generali.
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Occorre che oggi le due tradizioni si interrelazionino molto più di quello
che facevano un secolo fa, o addirittura trenta o quarant’anni fa.
Pensiamo cosa accade, ad esempio, quando quei contratti alieni, contratti
modellati su base americana ma sottoposti ad un diritto continentale, danno
luogo ad una controversia, che si deve risolvere nel foro oggi quasi naturale
del commercio internazionale, l’arbitrato.
Vediamo un po’ come si guardano in quest’ambito i contratti alieni. L’arbitrato più usato è quello amministrato dalla Camera di Commercio Internazionale, l’ICC.
La prima constatazione che si deve fare è che ovviamente il Regolamento di
Arbitrato dell’ICC non prevede niente di specifico in relazione a questo tema.
Gli articoli più rilevanti a questi effetti sono l’articolo 13, ‘‘Nomina e conferma degli arbitri’’, e l’articolo 21, ‘‘Regole di diritto applicabili’’.
L’articolo 13 stabilisce le seguenti disposizioni:
«1. Nel confermare o nominare gli arbitri, la Corte tiene conto della loro
nazionalità e residenza, e degli altri rapporti con gli Stati di cui le parti o gli
altri arbitri hanno la nazionalità.
5. L’arbitro unico o il presidente del tribunale arbitrale deve avere nazionalità diversa da quella delle parti.»
Vediamo come, al fine di garantire al meglio la neutralità, gli arbitri sono
quasi sempre di nazionalità diversa rispetto a quella delle parti, e quindi probabilmente diversa anche da quella della legge applicabile. Se il diritto applicabile
è quello italiano, si nominerà forse un arbitro (o almeno un presidente del collegio arbitrale) svizzero, belga, tedesco, spagnolo, o di qualsiasi nazionalità che
non sia quella italiana.
Perciò, il loro contatto con il diritto che applicano tende necessariamente a
prodursi di più attraverso principi e regole generali che attraverso l’applicazione rigida del black-letter law o delle norme di diritto di quel paese, con cui,
per definizione, non hanno familiarità.
Infatti, un arbitro spagnolo può più facilmente capire il diritto, la giurisprudenza, la dottrina italiana, se esse fanno riferimento ad una regola o principio
vigente anche da noi, anche se l’articolo o le sentenze arrivano ad un risultato
leggermente diverso.
Ma guardate: l’articolo, le sentenze, la dottrina... I materiali con cui io, arbitro spagnolo, dovrò lavorare nello scrivere il lodo li capisco intuitivamente,
posso capire facilmente il modo in cui fanno parte del sistema giuridico italiano.
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Nazionalità degli arbitri, diciamo, nell’articolo 13 del Regolamento di Arbitrato dell’ICC; e l’altro articolo rilevante in tema di contratti alieni sarebbe
l’articolo 21, titolato ‘‘Regole di diritto applicabili’’, e che dispone quanto segue:
«1. Le parti sono libere di pattuire le regole di diritto che il tribunale arbitrale deve applicare al merito della controversia. (...)
2. Il tribunale arbitrale tiene conto delle eventuali disposizioni contrattuali
convenute dalle parti e degli eventuali usi del commercio pertinenti.»
Vediamo quindi che le parti scelgono il diritto applicabile, nel nostro caso
quello italiano. Ma gli arbitri, oltre a non conoscere quello specifico diritto nazionale, si allontanano da quello ancora di più attraverso due elementi: dovranno sempre accordare particolare importanza alle ‘‘disposizioni contrattuali’’
e agli ‘‘usi del commercio’’.
In relazione ai contratti alieni, potrebbe sembrare che queste due regole vadano in direzioni opposte: nel caso in cui accordiamo maggior importanza alle
disposizioni contrattuali, tenderemo a sottolineare l’importanza delle espressioni letterali di questi contratti nello stile americano; se invece accordiamo maggior importanza agli usi del commercio, tenderemo a includerli nel contesto
interpretativo degli usi del commercio, che ovviamente sono più generali rispetto alle espressioni letterali.
Quale di queste due direzioni contrarie sta prevalendo? In base alla mia
esperienza, senz’altro la seconda. Con questo referimento agli usi del commercio, e con l’essere spesso di nazionalità diversa di quella del diritto applicato, i
tribunali arbitrali presso l’ICC stanno standardizzando una serie di principi,
regole, metodi, che vanno applicati con indipendenza del diritto applicabile
sensu stricto.
E quali sono queste regole e questi principi? La buona fede, la ricerca del
senso commerciale di un patto, la sua funzione nell’economia dell’operazione
... Tutti i principi presenti nei codici che sono sia d’ispirazione francese che
tedesca; come quello italiano, che reca l’influenza d’entrambi. E appunto tutti
i principi che sono stati raccolti nei cosidetti principi del diritto europeo dei
contratti.
***
In effetti, negli ultimi decenni lo scenario giuridico europeo è stato caratterizzato da un processo di sistematica armonizzazione o uniformazione del diritto dei contratti. Essa viene considerata, dagli organi dell’Unione Europea, di
importanza strategica per il funzionamento del mercato unico interno europeo.
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In questo contesto si sono inquadrati i lavori per la creazione di un ‘‘quadro
comune di riferimento’’ nel campo del diritto contrattuale, finalmente pubblicato come Draft Common Frame of Reference, ‘‘DCFR’’.
Uno dei problemi più difficili dell’integrazione giuridica europea, che questo
progetto ha dovuto affrontare, è stata la diversa struttura del civil law ed il
common law. È evidente che vi siano divergenze significative anche all’interno
degli ordinamenti di civil law; ed è altresı̀ vero che in molti casi lo stesso problema viene risolto in maniera molto simile dai vari ordinamenti, a qualunque
famiglia essi appartengano: ma restano senz’altro differenze fondamentali tra
gli ordinamenti di civil law e quelli di common law quanto a struttura del sistema e modelli di ragionamento, terminologia, concetti fondamentali, classificazioni e politica del diritto.
Il DCFR, ossia il quadro comune di riferimento, aspira a diventare un ponte tra queste due tradizioni. Ed in prospettiva più ampia, il DCFR potrebbe
costituire il fondamento di un eventuale futuro strumento particolarmente
adatto ai contratti transfrontalieri, nell’ambito del mercato interno, per professionisti, grandi imprese, piccole e medie imprese e consumatori; tutti i soggetti, insomma, che usano i contratti alieni quotidianamente.
Il DCFR dovrebbe contribuire anche alla costruzione di una scienza giuridica sovranazionale, qualcosa da molti considerata irrinunciabile per lo sviluppo
di un diritto privato europeo, ed alla sua maturazione e diffusione. E accade
che questa scienza giuridica sovranazionale, con l’appoggio di uno strumento
codificato come questo, e anche se cerca di essere un ponte tra civil law e common law, si approssima molto di più ai primi, ai sistemi continentali. Il nuovo
diritto europeo dei contratti sembra in effetti seguire principalmente gli schemi
classici di civil law.
***
Il risultato - se si può generalizzare in una materia multiforme come questa
- può essere molto scoraggiante per i transactional lawyers (cioè coloro che redigono i contratti) che coscienziosamente disegnano i loro interminabili contratti con l’aspirazione di renderli autosufficienti, onnicomprensivi.
Vediamo tre esempi che che ho avuto l’occasione di esaminare di recente
in un arbitrato ICC con sede a Londra e col diritto italiano come legge applicabile.
Si trattava di una controversia su un contratto di appalto redatto in inglese
sulla base di un modello FIDIC, e dunque abbastanza standardizzato. Da un
lato c’era una compagnia spagnola, e dall’altro una americana; ma c’erano connessioni con l’Italia e il contratto era sottoposto al diritto italiano. Contratto
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internazionale standard, in inglese; foro, l’ICC, legge applicabile, il diritto italiano. Un contratto alieno da manuale.
In questo contratto, le parti avevano stipulato una clausola risolutiva espressa. Gli americani hanno fatto affidamento, durante tutto lo svolgimento dell’appalto e anche nell’arbitrato, sul fatto che la risoluzione sarebbe stata automatica a discrezione del creditore, sempre che la parte spagnola si trovasse nella situazione che era stata stipulata come causa di risoluzione.
Nel common law, questo sarebbe incontestabile. Ma nel diritto italiano, in
base a quanto ho imparato - ed è come in diritto spagnolo -, il fatto che ci sia
una clausola risolutiva espressa non permette di risolvere il contratto se si può
provare che la vera causa della risoluzione è un’altra: si è entrati cosı̀ nella discussione se la risoluzione è stata in buona o mala fede, se l’inadempimento
della compagnia spagnola era un inadempimento sufficientemente rilevante
per giustificare la risoluzione ... E in effetti, gran parte della discussione nel lodo si è occupata di esaminare l’operatività della clausola alla stregua dei requisiti generali della buona fede, limitando di fatto in tal modo l’arbitrio della
parte che l’aveva invocata.
Un secondo aspetto in cui ho potuto testare il contratto alieno nella pratica
di un tribunale ICC: il contratto specificava che il debitore, la società spagnola, doveva fornire al creditore, la società americana, una stand-by letter. Tuttavia, le banche italiane, seguendo l’opinione dei loro dipartimenti legali interni,
si sono rifiutate di emettere quel tipo di garanzia, offrendo solamente di fornire invece una garanzia autonoma a prima richiesta.
Dal punto di vista degli avvocati americani che insistevano nel chiedere la
stand-by letter che era per loro più familiare, questo costituiva un motivo sufficiente per risolvere il contratto: volevano il tipo di garanzia stipulata nel contratto, e non ne accettavano un’altra.
Cos’abbiamo detto noi, o meglio che hanno detto gli avvocati italiani con
cui abbiamo lavorato in questo arbitrato? Che la funzione commerciale delle
due forme di garanzia era identica, e dunque gli americani non potevano validamente risolvere il contratto. Se la funzione economica della garanzia offerta
dal nostro cliente era la stessa, il rifiuto degli americani era ingiustificato, anche se il contratto diceva in modo chiaro e specifico che era una stand-by letter
che si doveva fornire.
Il lodo ha riconosciuto che la clausola non era stata rispettata, ma non ha ritenuto la risoluzione giustificata. Ecco un altro esempio di contratto alieno,
lungo e prolisso allo stile americano, interpretato però in base al diritto italiano, con i suoi principi e le sue regole: il contratto dev’essere eseguito e inter60
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pretato secondo buona fede; non è giustificata la risoluzione per inadempimenti di scarsa importanza ...
Ed infine un terzo esempio, questo trovato da me in questo arbitrato e in
alcuni altri. Il contratto limitava la responsabilità ad alcuni o ad altri danni, diretti, indiretti, oppure quelli chiamati consequential damages ... Ciò ha senso
poiché nel common law esistono tali distinzioni, ossia esiste veramente un concetto di consequential damages, una distinzione precisa tra direct e indirect damages. Il testo della clausola era una riproduzione esatta di quella corrispondente del modello FIDIC:
«Neither Party shall be liable to the other Party for loss of use of any Works, loss
of profit, loss of any contract or for any indirect or consequential loss or damage
which may be suffered by the other Party in connection with the Contract, other
than as specifically provided in Sub-Clause 8.7 [Delay Damages]; Sub-Clause
11.2 [Cost of Remedying Defects ]; Sub-Clause 15.4 [Payment after Termination]; Sub-Clause 16.4 [Payment on Termination]; Sub-Clause 17.1 [Indemnities]; Sub-Clause 17.4(b) [Consequences of Employer’s Risks] and Sub-Clause 17.5
[Intellectual and Industrial Property Rights].
The total liability of the Contractor to the Employer, under or in connection
with the Contract other than under Sub-Clause 4.19 [Electricity, Water and
Gas], Sub-Clause 4.20 [Employer’s Equipment and Free-Issue Materials], SubClause 17.1 [Indemnities] and Sub-Clause 17.5 [Intellectual and Industrial Property Rights], shall not exceed the sum resulting from the application of a multiplier (less or greater than one) to the Accepted Contract Amount, as stated in the
Contract Data, or (if such multiplier or other sum is not so stated), the Accepted
Contract Amount.
This Sub-Clause shall not limit liability in any case of fraud, deliberate default
or reckless misconduct by the defaulting Party.»
Gli avvocati americani hanno fatto un lodevole sforzo per provare che alcuni
dei danni subiti non erano né indirect né consequential, e che quindi dovevano
essere oggetto di risarcimento. La nostra posizione è stata quella per cui nel diritto italiano l’unico criterio valido è quello del danno emergente o del lucro
cessante o mancato guadagno, siano questi più o meno diretti, indiretti o consequential.
Anche in questo abbiamo avuto fortuna: lo studio nel lodo in tema di danni
si è limitato a qualificare i danni come danno emergente o lucro cessante.
Come si può immaginare, un risultato di questo tipo è assolutamente inaspettato e potrebbe sembrare del tutto ingiusto e contrario alla volontà delle
parti espressa all’interno delle diverse clausole contrattuali. Ma, in realtà, non
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è che il risultato di un’altra clausola che essi stessi hanno voluto includere nel
contratto: la sottomissione alla legge italiana.
Questo è appunto il rischio del contratto alieno, del contratto non disegnato
per funzionare in maniera coordinata nel contesto di un sistema giuridico. E
questo ci deve insegnare che attraverso l’adozione cieca di modelli contrattuali
alieni, non stiamo prestando un buon servizio ai nostri clienti, anche se americani
o multinazionali. Quello che dovremmo fare sarebbe invece confrontare criticamente i modelli contrattuali alieni alla luce del diritto italiano.
***
Si possono menzionare molti altri esempi di questa potenziale e rischiosa disfunzionalità inerente al contratto alieno.
Come accenna De Nova, il contratto alieno solleva problemi di struttura.
Ad esempio, noi siamo abituati alla sequenza trattativa-contratto preliminarecontratto definitivo, il contratto alieno invece ci mette di fronte a sequenze come quella che caratterizza la vendita di partecipazioni sociali qualificate: letter
of intent-due diligence-sale and purchase agreement-closing.
Queste sequenze fanno sorgere, in relazione al diritto continentale applicabile, tutta una serie di quesiti se non inediti, di certo nuovi nella prospettiva. La
letter of intent, vincola le parti? Le clausole che escludono che dalla conclusione della letter of intent possa sorgere una responsabilità precontrattuale, sono
valide?
Sono queste domande che aprono dibattiti molto interessanti, ma che vorremmo vedere lontani dai nostri casi, data l’incertezza delle possibili risposte.
I contratti alieni sollevano anche gravi problemi d’interpretazione. Questi
contratti - quelli, in particolare, che mirano all’autosufficienza - si aprono con
premesse, poi continuano con definizioni dei principali termini utilizzati nel
contratto, e infine includono clausole del seguente tenore:
«This agreement signed by both parties and so initialed by both parties in the
margin opposite this paragraph constitutes a final written expression of all the
terms of this agreement and is a complete and exclusive statement of those terms.»
Viene detto, insomma, che nel contratto c’è tutto quello di cui si ha bisogno, e che al di fuori del contratto non dobbiamo andarci mai. E questo va
bene, ma che accade allora nel caso in cui al di fuori del contratto succede
qualcosa d’importante? Dobbiamo applicare il contratto ed ignorare volutamente quell’elemento extratestuale? O dobbiamo invece applicare le regole del
diritto italiano in base alle quali gli atti simultanei o posteriori sono anche criteri ermeneutici da tenere in considerazione?
Si può validamente concordare attraverso specifiche clausole che il contratto
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debba essere interpretato solo in base al senso letterale delle parole, anziché in
base alla volontà dei contraenti, quando in realtà sappiamo che il principio voluntas spectanda è il canone fondamentale di tutte le norme d’interpretazione
dei contratti?
Noi abbiamo sempre pensato che soltanto in claris non fit interpretatio; ma
nei contratti alieni ci sono cosı̀ tanti vocaboli e cosı̀ complicati, che in claris
non siamo mai ...!
***
Una riflessione finale. L’inglese costituisce sempre più - e non credo che ci
sia modo di tornare indietro -la lingua franca del commercio internazionale.
Ma di quale inglese stiamo parlando? Può darsi che la vera lingua franca non
sia l’inglese nativo, che è necessariamente locale, ma un inglese adattato appunto al suo uso internazionale.
Prendiamo ad esempio i principi del diritto europeo dei contratti, il DCFR.
Il DCFR è in inglese, e la sua versione francese, anche quella ufficiale, è solo
una traduzione del testo inglese. I gruppi paneuropei di studiosi, compresi
quelli italiani più attivi, come quelli coordinati dai Proff. Alpa o Castronovo,
hanno lavorato quasi interamente in inglese.
Ma si tratta - e questo è il punto interessante - di un inglese declinato alla
continentale. Ad esempio:
Si parla di ‘‘juridical act’’, un’astrazione che significa ben poco nel common law.
Non si parla di contracts e torts, ma di ‘‘obligations’’, e tra queste si distingue
tra ‘‘contractual’’ e ‘‘non-contractual obligations’’; questa divisione essenziale,
che risale alla compilazione giustinianea, risponde interamente ai canoni continentali.
Non si parla di joint e joint and several obligations, ma di ‘‘solidary’’ and ‘‘divided’’ obligations; di nuovo, credo che solidary in inglese possa magari significare
essere comprensivo e generoso con coloro che sono meno fortunati di noi, ma
non vuol dire sicuramente che la banca possa richiedere a noi i debiti altrui.
Non si parla di gift, come si dice correttamente in common law, ma di ‘‘donation’’.
Non si parla di time limits o di statute of limitations, come si fa in maniera
corretta in common law, ma di ‘‘period of prescription’’.
Mancherebbe solo tradurlo tutto in latino...
Senza aspirare ad avere il dono della profezia, penso si possa ragionevolmente
pensare che, fra qualche decennio, gli avvocati più colti e consapevoli di entrambe le sponde dell’Atlantico raggiungeranno un punto d’incontro: noi diventeremo anglossassoni nella lingua, e loro diventeranno continentali nei concetti.
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N.B. (su richiesta dell’Autore): questa pubblicazione si inquadra nell’ambito
del Modulo europeo Jean Monnet ‘‘Verso un comune diritto privato per l’Europa’’ di IE University, finanziato con il sostegno della Comunità Europea.
L’Autore è il solo responsabile di questa pubblicazione e la Commissione declina ogni responsabilità sull’uso che potrà essere fatto delle informazioni in essa contenute.
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LEGGE PROFESSIONALE E PREVIDENZA FORENSE:
NUOVE OPPORTUNITÀ, PARI OPPORTUNITÀ.
PANORAMICA E PROSPETTIVE PER LE AVVOCATE
E I GIOVANI AVVOCATI
15 luglio 2013, Aula Magna del Palazzo di Giustizia, Milano
(report a cura del Comitato pari opportunità Ordine Milano)
In data 25 giugno 2013 si è tenuto, presso l’Aula Magna del Tribunale di
Milano, l’incontro, organizzato dal Comitato Pari Opportunità dell’Ordine
Avvocati di Milano, dal titolo ‘‘Legge Professionale e previdenza forense - nuove opportunità, pari opportunità. Panoramica e prospettive per le avvocate e i
giovani avvocati’’.
Dopo i saluti del Presidente del Consiglio dell’Ordine di Milano, avv. Paolo
Giuggioli, sono iniziati gli interventi, coordinati dall’avv. Ilaria Li Vigni, presidente del Comitato Pari Opportunità dell’Ordine.
L’avv. Lucia Taormina, consigliera di amministrazione di Cassa Forense, ha
trattato la tematica de ‘‘i nuovi regolamenti e il welfare attivo’’, sottolineando
che, tra gli avvocati iscritti agli albi al 31 dicembre 2012, un numero preoccupante, ben 56000, è senza copertura previdenziale con Cassa Forense, in ragione di un reddito inferiore ai minimi previsti per l’iscrizione obbligatoria.
L’avv. Taormina ha reso nota l’identità di questi colleghi, sottolineando che
oltre il 60% sono giovani ‘‘under 40’’ -con maggioranza femminile-, il 76% è
iscritto all’albo da meno di dieci anni, con punte molto elevate in regioni a
notevole decrescita economica, quale Calabria, Puglia e Sicilia.
Sono stati esposti numeri preoccupanti anche per quanto concerne la discriminazione di genere, considerando che i dati statistici del 2011 hanno evidenziato come le avvocate dichiarino un reddito, in media, del 50% in meno rispetto ai colleghi uomini.
L’avv. Taormina ha posto particolare attenzione alla problematica, legata indubbiamente all’eccesso di numero di avvocati rispetto alle esigenze del mercato, di gap reddituale tra giovani e meno giovani e fra uomini e donne che influisce sullo sviluppo della carriere e sulla valorizzazione delle professionalità.
Ragionando sulle possibili soluzioni a tale disparità, l’avv. Taormina ha fatto
riferimento a progetti concreti di sostegno al reddito, alla formazione, al welfare ed alla partecipazione.
Solo con tali concrete ‘‘azioni positive’’ tali problematiche potranno, almeno
nel lungo periodo, essere risolte.
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L’avv. Mauro Rotunno, delegato della Cassa Forense, è intervenuto sull’‘‘obbligo di iscrizione alla Cassa e modalità operative’’, con riferimento all’importante novità contenuta nell’art. 21, comma VIII della Legge 247/2012 (Riforma Forense) che sancisce che ’’l’iscrizione agli Albi comporta la contestuale
iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza Forense‘‘.
Tale norma potrebbe configurare una penalizzazione aggiuntiva per i giovani
avvocati che si troveranno gravati di ulteriori oneri economici, ma deve essere
vista nel suo aspetto positivo, ovvero con il delinearsi per il singolo professionista di un futuro previdenziale concreto.
Il Regolamento attuativo della Riforma, con particolare riferimento all’iscrizione obbligatoria alla Cassa, dovrebbe prevedere aliquote progressive per tutti
gli scaglioni, escludendo ogni forma di contributo minimo per permettere ai
giovani con redditi bassi di versare una contribuzione equamente determinata
in relazione al reddito reale.
Ma occorre conoscere tempi e modalità di approvazione di tale Regolamento
per avere chiaro il quadro normativo entro cui ci si muoverà.
L’avv. Rotunno ha posto alcune riflessioni conclusive al suo intervento, sottolineando in particolare come occorra un’attività di trasparenza ed informazione sull’attività ed il futuro di Cassa Forense che deve entrare a far parte di un
bagaglio previdenziale ed assistenziale ora obbligatorio per l’Avvocatura.
L’avv. Maria Grazia Monegat, Consigliera dell’Ordine degli Avvocati di Milano ha analizzato ‘‘la situazione milanese a pochi mesi dalla riforma’’, sottolineando l’importanza dell’impatto della norma di iscrizione obbligatoria alla
Cassa Forense sull’avvocatura, in particolare quella femminile, auspicando una
pronta redazione dei regolamenti attuativi e dando conto di un’importante
azione positiva dal 2009 in vigore presso il Consiglio dell’Ordine di Milano.
L’iniziativa consiste nella possibilità, per gli avvocati che abbiano fino a 40
anni di età, di ottenere un finanziamento chirografario per l’attività professionale o un finanziamento per uso personale a condizioni particolarmente vantaggiose.
Tale finanziamento ha avuto un buon successo a Milano e ci si augura che
questo progetto venga preso ad esempio nei Fori Italiani, quale concreto aiuto
per i giovani professionisti per l’apertura dell’attività in tempi difficili quali
quelli che stiamo vivendo.
A conclusione Tatiana Biagioni, avvocata e Consigliera di Parità della Provincia di Milano, ha parlato di ‘‘progetti a sostegno delle donne e dei giovani
nelle libere professioni’’, chiarendo il ruolo da lei ricoperto quale Consigliera
di Parità della Provincia di Milano.
Nel mercato del lavoro e soprattutto nelle libere professioni gli elementi di
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discriminazione diretta ed indiretta sono ancora moltissimi ed occorre, da parte di tutti gli Enti preposti, un attento monitoraggio.
Numerose sono le segnalazioni che l’Ufficio della Consigliera di Parità riceve
ogni anno circa varie forme di discriminazione sul territorio ed occorre implementare maggiormente la coesione con gli Enti Locali ed i relativi organismi
di parità per arrivare a garantire un’effettiva tutela a tutte le lavoratrici nei vari
contesti professionali e produttivi.
L’incontro ha messo in luce interessanti spunti di riflessione che il Comitato
Pari Opportunità dell’Ordine di Milano coltiverà nei prossimi mesi, facendosi
parte diligente nell’organizzazione di attività formative ed informative contro
le discriminazioni di genere nel mondo delle Istituzioni Forensi.
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IL SEGRETO
22 giugno 2013, manifestazione ‘‘La Milanesiana’’, Milano
Relazioni di Laura Hoesch, Cesare Rimini e Franco Toffoletto
Il Palazzo di Giustizia si erge in Milano in un’architettura che nel dopoguerra faceva orrore perché il Movimento Moderno, di cui il palazzo è espressione,
era marcato come esempio di un’architettura fascista mentre, in realtà, era
espressione di rinnovamento del concetto stesso di architettura. Anche se per
la verità l’arch. Piacentini era effettivamente vicino al regime.
Il palazzo quindi, malgrado la sua novità nello stile, evocava un’immagine
storica molto negativa per me e per quelli che, come me, erano piccolissimi
durante l’ultima guerra e avevano vissuto poi il fascismo come l’orrore, anche
nella forma architettonica del palazzo.
Il segreto è che lı̀ dentro si è svolta una vita diversa da quel tremendo vissuto,
forse più corrispondente al Movimento Moderno nella sua funzione di rinnovamento che non nella sua identificazione con un periodo storico inaccettabile.
In altri termini, il rinnovamento ha prevalso perché lui stesso (il palazzo),
visto con il senno del poi, ha custodito in sé le complesse vite di molti e, tra
quelle, la mia; e ciò, malgrado il cittadino viva quel palazzo come luogo di potere e di oppressione.
Lı̀ ci sono quelle che io chiamo le gabbie di condanna, gli scranni del giudizio, le toghe degli accusatori e dei difensori. Lı̀ si celebra il processo che è una
rappresentazione intrisa di simbologia fondata sulla ‘colpa’. Lı̀ si viene sempre,
per definizione, giudicati ed io, proprio lı̀, ho imparato a non giudicare; o,
meglio, ho imparato che non si deve giudicare perché il pensiero dovrebbe
crescere libero e giudicare spesso non è un giudizio ma è un pregiudizio.
Non giudicare, in quel palazzo, è un’avventura ma la giustizia, proprio nei
palazzi in cui si svolge, dovrebbe ‘giudicare senza giudicare’: non è un paradosso, è la sua funzione quando le viene delegato il compito di decidere chi ha ragione e chi ha torto.
Il compito istituzionale è la decisione ma quella decisione deve essere frutto
di una enorme libertà di pensiero. Dico ‘enorme’ perché più la funzione è giudicante più la libertà di pensiero deve essere grande.
E lı̀, in quel palazzo, noi donne abbiamo cercato di coltivare la nostra personale libertà di pensiero: negli anni 70, quando il femminismo governava le nostre menti, ci riunivamo proprio lı̀ per discutere se quella fosse vita, se potesse
essere vita quella vissuta in un luogo cosı̀ opprimente dove si pronunciavano
sentenze a volte stracolme di stereotipi e di pregiudizi, dove passavano nei cor68
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ridoi persone in manette controllate dalla polizia penitenziaria, dove noi, all’epoca giovani donne, affrontavamo il mondo assolutamente maschile lamentando il nostro disagio nell’essere vittime di un pensiero dominante che non ci
apparteneva. Li il diritto governava il nostro pensiero sul piano dei principi generali di parità e uguaglianza. La Costituzione era la nostra vita.
Avvocati, giudici e cancellieri maschi da millenni governavano quel mondo.
Noi donne, a quel tempo, eravamo pochissime e le ‘quote rosa’, oggi già superate, allora non costituivano neppure un’idea.
Erano quasi i primordi della ‘nostra’ umanità.
E proprio lı̀ si formava via via la nostra visione di un mondo professionale
femminile nuovo: fondato più sul dialogo e sulla relazione, che non sul potere.
Essere difensore è un lavoro difficile perché essere difensore non è solo un
lavoro tecnico ma è anche un lavoro di vita; le vite nostre e dei nostri clienti
si accomunano e noi, per difendere, abbiamo dovuto imparare a non identificarci con loro perché il difensore deve vedere le cose da lontano e va lontano
nel suo progetto difensivo.
Abbiamo iniziato il nostro mestiere senza neppure una fotocopiatrice, che
non era ancora stata inventata, e alcuni di noi lo continuano dopo che ci hanno dato la medaglia d’oro per i cinquant’anni di professione.
In quel luogo ho avuto compagni di vita, a volte quasi sconosciuti e a volte
veri amici; con tutti ho condiviso i passi della mia storia sul piano professionale e sociale. Perché in quel luogo ad alcuni di noi è venuta voglia di usare il
diritto al servizio del cittadino, non solo al servizio del proprio studio.
Raccontavo un giorno che essere una donna, in quel mondo, era una costante occasione di contraddizioni. Si tradiva sempre qualcosa: se adottavi il
modello maschile ti sembrava di tradire te stessa, se adottavi quello femminile
ti sembrava di non essere all’altezza. Quella era la cultura. Ed io ho messo insieme tutte le parti di me sparse per i meandri di quella vita, quando ho finalmente avuto il coraggio di far giocare i miei figli nel mio studio e attrezzare
per loro un cassetto di giochi nella mia scrivania.
Il femminile e il maschile si erano unificati. Allora ero davvero divenuta una
donna avvocato. Un’avvocata come si dice ‘dalle nostre parti’, che non si voleva più omologare al maschile e che finalmente poteva svolgere la professione
secondo le modalità proprie del suo genere femminile.
E proprio lı̀, in quel palazzo, è nato tra noi giovani tormentati dalle contraddizioni un sentimento di solidarietà e condivisione. Il più bel sentimento
della vita per crescere nel rispetto degli altri ed in compagnia degli altri.
Il giorno della medaglia su 47 presenti noi donne eravamo 4; vuol dire che
50 anni prima erano entrate in quel mondo solo 4 donne o poco più.
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In quel numero ho evocato il lontano passato. Le donne allora erano pochissime e nella magistratura non hanno potuto nemmeno entrare fino al 1963.
È per dire che abbiamo potuto votare nel 1946 e abbiamo potuto fare i giudici nel 1963, che siamo diventate pari agli uomini nella famiglia nel 1975,
che abbiamo cominciato a diventare ‘pari’ nel lavoro nel 1977 e un po’ più
pari nel 1991.
Ora, il principio di parità e di non discriminazione, in base alle direttive comunitarie recepite nell’ordinamento italiano si estende, oltre che al genere, alla
razza, all’origine etnica, alla religione, alle condizioni personali, all’età, all’orientamento sessuale.
Ora siamo tutti pari nella forma ma nei fatti ci vuole ancora molto perché
oggi, ad esempio, affrontiamo il tema del femminicidio che è la prova del travisamento della parità e del disequilibribrio tra il maschile e il femminile.
Quell’equilibrio si deve trovare perché, proprio nel mio lavoro difendendo i
lavoratori, donne e uomini, e i coniugi, donne e uomini, ho imparato che essere donna e uomo sono due importanti ‘contenitori’ di valori esistenziali; e per
questo li ho difesi entrambi cercando di trasmettere, a loro e a me, quell’importante visione del mondo contenuta in una stupenda poesia di Antonio Machado, poeta spagnolo nato a Siviglia nel 1874 e morto in Francia nel 1939
(dopo essere sfuggito a Franco) intitolata ‘Caminantes’ in cui si dice, molto
meglio di come lo sto dicendo io, che il cammino non esiste, che la meta è
dentro di noi e non fuori, che il cammino lo tracciamo noi camminando.
Il segreto è che nel luogo dell’oppressione e del giudizio, dove tutti pensano
che il cuore cessi di battere, io e molti altri abbiamo imparato a ‘camminare’
in compagnia della legge.
[‘‘caminante, no hay camino, se hace camino al andar (viandante, non sei
su una strada, la strada la fai tu andando).
Viandante, sono le tue orme
La strada, nient’altro;
Viandante, non sei su una strada,
la strada la fai tu andando.
Mentre vai, si fa la strada
e girandoti indietro
vedrai il sentiero che mai
più calpesterai.
Viandante, non hai una strada,
ma solo scie nel mare]
Laura Hoesch
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Per fortuna penso del mio lavoro quello che ciascuno dovrebbe pensare del
proprio. Penso cioè che il mestiere di fare l’avvocato di diritto di famiglia sia il
meno noioso del mondo.
Le storie che vedi, le storie che senti sono uno spaccato della vita delle persone e dei loro figli e uno spaccato, una radiografia della società.
Per questo quando Elisabetta Sgarbi mi ha chiesto di scrivere, come diciamo
noi dei giornali, quattromila battute sulla mia esperienza di avvocato per guardare gli aspetti nascosti della realtà e mi ha detto: ‘‘ci terrei molto’’, le ho risposto: ‘‘ci tengo molto anch’io’’.
E voglio dire, per prima cosa, i debiti, la gratitudine che ho nei confronti
del mio lavoro:
1) chi fa il mio lavoro e conosce il sentimento dell’invidia, uno dei vizi e dei
peccati più bassi, vuol dire che è soprattutto uno stupido. Facendo il mio lavoro
tu non vedi la vita degli altri dal buco della serratura, tu la vedi nella intimità
vera, tu sai di quella donna e di quell’uomo cose che non sa la sua migliore
amica o il suo migliore amico e soprattutto hai l’occasione di vivere le giornate
di persone invidiate per il successo, per la ricchezza, talora non disgiunta dalla
ostentazione, e di vedere che sotto la crosta non c’è niente da invidiare, né ai
poveri, né - bisogna dirlo - ai ricchi. E poi guai a quell’avvocato che ha solo
clienti ricchi, diventa fatalmente un pessimo avvocato, scollato dalla realtà.
2) E il segreto non è un vincolo, è un piacere: sentire le persone ‘‘in società’’ che parlano, parlano credendo di sapere tutto con la gioia del gossip ... e
non sanno niente. Il segreto è un privilegio.
3) Se l’avvocato che si occupa di diritto di famiglia non è distratto, non resta troppo concentrato sulla causa che deve discutere, sul processo che deve
studiare, ha un punto di osservazione che gli permette di vedere che cosa è
successo negli anni, quali modifiche ci sono state nella società e nella legge
che dovrebbe - talora in ritardo - recepire quello che succede nella vita. Forse
è quasi divertente leggere alcune norme che non ci sono più. La dote ‘‘consiste
in quei beni che la moglie, o altri per essa apporta espressamente a questo titolo, al marito per sostenere i pesi del matrimonio’’. E di seguito viene il pensiero ai matrimoni combinati, nelle Corti di tutta Europa ed anche nelle nostre
campagne ... matrimoni che, molte volte, avevano più successo dei matrimoni
d’amore.
I casi di dichiarazione giudiziale di paternità che era consentita se c’era ‘‘una
non equivoca dichiarazione scritta di colui al quale si attribuisce la paternità
...’’.
La pena della reclusione per l’adulterio della moglie, fino a un anno... con
la stessa pena è punito il correo dell’adultera. L’adulterio del marito non puni71
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to quando episodico, mentre è punito il concubinato ‘‘quando il marito tiene
una concubina nella casa coniugale o notoriamente altrove’’. (Esempio: Il medico di Mantova che andava a fare la spesa con due sporte).
L’aborto di donna consenziente punito con la reclusione da due a cinque
anni.
E poi tutta la evoluzione della legge sul divorzio e la non evoluzione del
progetto di legge sulla famiglia di fatto e sulle unioni omosessuali. I giovani
che fanno il mio lavoro avranno il privilegio di vedere quello che succederà.
Poche sere fa alla Scala si è tenuto un concerto della Filarmonica per i cento
anni dalla nascita di Benjamin Britten e cosı̀ ho imparato che ci fu il primo
caso in cui, alla morte del grande compositore inglese, la Regina Elisabetta
mandò un telegramma di condoglianze a Peter Pears, il tenore legato a Britten
per tutta la vita.
Ma anche guardando al passato si fanno scoperte.
Pochi giorni fa sono stati pubblicati a cinquecentocinquanta anni di distanza, due piccoli Intercenales di Leon Battista Alberti ‘‘Uxoria - Maritus’’. L’Alberti si inserisce in una lunga e molto antica corrente misogina: odio per la
donna e argomentata avversione per il matrimonio, per la tenerezza e passione
amorosa, una ‘‘ripugnanza’’ per la diversità, inferiorità e prepotenza della donna e un ‘‘ribrezzo’’ del piacere sessuale. Eros sottrae il giovane, che si sta formando intellettualmente e socialmente per inserirsi nella vita sociale e politica
della sua città, ai suoi compiti ‘‘politici’’. Innamorato senza accorgersene si
rimpicciolisce e si effemmina.
Mi è venuto il sospetto, forse infondato, che Leon Battista Alberti, il grandissimo architetto, volesse prendere in giro i suoi commensali.
Cesare Rimini
***
Ieri sera Calasso, in un meraviglioso percorso della storia della casa editrice
Adelfi, ha citato Guenon che in un capitolo intitolato ‘‘L’odio per il segreto’’
dice: «Il mondo pubblico sarebbe un disastro».
Ha fatto anche cenno alla «impronta dell’editore», come un patrimonio importante di conoscenza. Da preservare.
Il latino secretum traduce il greco myste´rion dal verbo my´o che significa
«chiudo», soprattutto «la bocca». Un segreto è, quindi, qualcosa che non si deve rivelare (se non agli iniziati).
Ma è corretto quanto riportato, sempre ieri sera, da Bosio: segreto ha molti
significati, anche negativi. Un significato riportato da Bosio è interessante:
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qualcosa che si vuole tenere celato per interesse o per prudenza. Ma indubbiamente «segreto» vuol dire anche «occulto».
Nell’antichità, è tipica la prassi del segreto, è la normativa dei cosiddetti
thı´asoi, ossia le «società segrete» che pullularono prima in Grecia, poi anche a
Roma, dopo le prime disastrose sconfitte subı́te da Annibale.
Aristotele distinse le opere «essoteriche» ossia rivolte al vasto pubblico, da
quelle «esoteriche» o «acroamatiche» riservate ai soli suoi discepoli, che costituivano il vero e proprio thı´asos qual era il suo «Liceo».
Tutti gli artigiani - da quelli dell’Antico Egitto a quelli Romani, Medievali e
sino al ‘700 - tennero scrupolosamente segrete le loro tecniche e le loro scoperte.
Ma molte sono le storie affascinanti relative al furto di segreti industriali ed
anche ai metodi per preservarli. Alcuni esempi, tra tanti.
Innanzitutto, è opportuno ricordare che tutti i trattati di alchimia (che poi è
l’antenato della chimica) erano scritti in un linguaggio segreto, come tale infarcito di simboli e di frasi incomprensibili per un profano, cosı̀ da preservare il
segreto della ricerca: la trasmutazione dei metalli vili in oro o argento.
Ancora nel XV secolo, Antonello da Messina ‘‘rubò’’ ai suoi maestri fiamminghi il segreto della pittura ad olio. Fu inseguito da tutte le polizie, riuscı̀ a
rientrare in Italia ed inaugurò la grande era della pittura a olio italiana che caratterizzò tutta l’arte figurativa dei secoli successivi.
Singolare, poi, la vicenda dell’invenzione della stampa. Gütemberg la inventa nel 1455 e avrebbe voluto tenerla segreta: ma fu impossibile. Da un lato
perché l’invenzione era nell’aria: c’erano stati vari tentativi e quindi non mancavano artigiani capaci di afferrare ed applicare rapidamente la nuova tecnica.
Ma soprattutto perché non vi era modo di costringere al silenzio i molti operai
addetti ai torchi e alle varie fasi della lavorazione. Infatti, nel 1459 la stampa è
a Strasburgo, nel 1460 a Bamberga, nel 1463 a Bondeno, vicino a Ferrara, nel
1464 a Colonia. A Roma nel 1466. A Venezia nel 1469 un decreto del Collegio dei Savi prende atto che l’ars imprimendi libros è stata introdotta nella città
e dichiara che il magister Giovanni da Spira ha il diritto in esclusiva di esercitare l’arte per 5 anni! Ma muore subito, l’anno dopo, e non riesce ad utilizzare
questo incredibile ed enorme privilegio che gli era stato concesso.
E cosı̀ l’uso della stampa cresce esponenzialmente, perché in un libero mercato. Nel ‘500 Venezia produceva il 60% dei libri di diritto stampati in Europa ed il 25% delle edizioni scientifiche (circa 900 volumi, di cui la metà di argomento medico uscirono dai torchi veneziani).
Ma dura poco perché l’Inquisizione romana fondata nel 1542 da Paolo III,
brucia i libri e emana l’indice dei libri proibiti!
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Un altro esempio lo fornisce la storia della medicina. Ancora nel ‘700 la
grande stirpe di litotomisti (cioè gli operatori del taglio perineale per l’estrazione dei calcoli dalla vescica) del francese Tolet mantenne scrupolosissimamente
segreta la tecnica operatoria, al punto che i loro colleghi litotomisti giunsero a
praticare un buco sul tetto della sala operatoria per carpirne il segreto!
Quindi il segreto è essenziale alle arti e alle professioni, ma lo è (paradossalmente) anche la sua violazione.
Nel mondo attuale preservare i segreti in azienda è diventato sempre più
difficile. Ovviamente ci sono delle norme nel nostro ordinamento, civili e penali, la tutela del brevetto ecc. In particolare l’art. 2104 (Diligenza del prestatore di lavoro), è interessante notare, sottolinea «l’interesse dell’impresa e quello superiore della produzione nazionale». Il successivo 2105 (Obbligo di fedeltà) vieta al prestatore di lavoro di trattare affari, per conto proprio o di terzi,
in concorrenza con l’imprenditore, e di divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o di farne uso in modo da poter
recare ad essa pregiudizio.
Da porre attenzione sul fatto che per la norma civilistica è sufficiente la divulgazione, a prescindere dagli effetti che essa determina, anche inesistenti:
mentre la relativa norma penale (622 c.p. Rivelazione di segreto professionale)
richiede il verificarsi di un nocumento per la sussistenza del reato.
Ma certamente gli attuali sistemi di comunicazione rendono molto più facile
trafugare documenti anche molto complessi al di fuori dell’azienda. Ed è molto più difficile, parallelamente, controllare. La violazione di segreti delle imprese può determinare danni seri e gravi: annientare, in un attimo, pensieri e ricerche di anni ed investimenti colossali.
I casi dei tre americani che hanno rivelato segreti di stato sono i più eclatanti: comincia nel 1969 con tale Elsberg. Poi nel 2010 Wikileaks. E recentemente Snowden.
Un giudice americano ha detto: la luce del sole è il miglior disinfettante.
Ma è proprio cosı̀? Negli USA e UK da tempo esiste una normativa di protezione per i c.d whistleblowers, cioè coloro i quali all’interno di un’azienda denunciano comportamenti scorretti in violazione della legge.
Ha una sua logica ma è fonte anche di guai perché è spesso difficile distinguere tra corretta denuncia di comportamenti illeciti e strumentalizzazione o
falsità. Il tema è alquanto delicato.
Forse il segreto è come il colesterolo: esiste quello buono e quello cattivo.
Franco Toffoletto
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NOTA SU ‘‘LA MILANESIANA’’
E SUL CONVEGNO DEDICATO A ‘‘IL SEGRETO’’
di Laura Hoesch
‘‘La Milanesiana’’ è una manifestazione culturale nata nel 1999 con la direzione artistica di Elisabetta Sgarbi, Direttrice editoriale della Bompiani, e la
collaborazione della Provincia di Milano.
Si svolge in periodo estivo su vari ed eterogenei argomenti culturali in tema
di letteratura, di teatro, di cinema, di musica, di tecnologie e di scienze, mettendo a confronto personalità ed artisti italiani ed internazionali.
Da qualche tempo i confini hanno cominciato ad allargarsi e la manifestazione ad uscire da Milano: negli ultimi tempi ad esempio ci sono stati interventi anche a Torino.
Ogni edizione annuale è dedicata ad un approfondimento e quella relativa
al 14º anno, il 2013, era dedicata al ‘segreto’.
La manifestazione è iniziata il 12 giugno ed è terminata il 9 luglio. Gli interventi hanno avuto ad oggetto le molte facce del segreto: i segreti nella psiche, il segreto nella natura, il segreto nella musica, nel teatro e nel cinema, il
segreto nella scrittura e i romanzi scritti in segreto o intessuti di menzogne, i
segreti della matematica e delle arti, il segreto della voce e quello poetico.
A noi avvocati è stato chiesto di trattare, con brevi interventi, il tema del segreto nella legge.
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PROCESSO PENALE E MASS MEDIA.
QUALI REGOLE PER QUALI SOGGETTI.
20 settembre 2013, Aula Magna, Palazzo di Giustizia, Milano
Intervento del Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano
Avv. Paolo Giuggioli
Saluto e ringrazio in particolare il Presidente della Camera Penale di Milano,
Salvatore Scuto, per questa nuova opportunità di confronto e approfondimento su un tema estremamente rilevante non solo dal punto di vista giuridico,
ma anche sociale e politico.
Infatti, il rapporto tra giustizia e mass media rappresenta uno degli snodi
nevralgici che più profondamente condizionano l’assetto e il funzionamento
delle democrazie contemporanee.
Anche in sedi autorevoli (per esempio, in occasione dell’Inaugurazione dell’anno giudiziario) si è espressa preoccupazione per i rischi di una crescente
‘‘spettacolarizzazione’’ della giustizia, che sovente giunge a ledere alcuni diritti
fondamentali: le Carte dei diritti, nazionali e sovranazionali, garantiscono il diritto al giusto ed equo processo come diritto fondamentale o inviolabile della
persona, ma il cosiddetto processo ‘‘mediatico’’ rappresenta un problema che il
diritto riesce a disciplinare con difficoltà.
A riguardo, occorre anche dare atto dell’ormai diffusa consapevolezza dell’insufficienza della tecnica penalistica quale unico strumento di regolazione dei
rapporti tra giustizia e informazione, per cui da più parti si invoca un approccio articolato e multidimensionale al problema dei processi ‘‘mediatici’’. Si parla propriamente di ‘‘strategia giuridica integrativa’’ per fare riferimento alla
combinazione tra gli strumenti penalistici e quelli privati (questi ultimi, in particolare, operano attraverso la tutela multilivello dei diritti fondamentali).
Nell’ambito della suddetta strategia svolgono un ruolo importante le tecniche, i soggetti e le istituzioni capaci di operare un controllo o, meglio, un
auto-controllo dell’interazione tra giustizia e mass media. Vengono cioè in rilievo le esperienze di auto-regolamentazione, come ad esempio quella dell’Ordine degli Avvocati e del Consiglio Nazionale Forense che si sono confrontati
in alcune occasioni con il problema dei rapporti con la stampa, elaborando un
interessante corpo di princı̀pi e regole di comportamento.
Come premessa di ordine generale va sottolineato che l’attività dell’avvocato,
per la funzione da esso svolta nel sistema giustizia, esige una cultura tecnica
completa e profonda, una dignità e un decoro particolarmente qualificati.
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L’avvocato deve inoltre possedere doti fondamentali: cultura generale e specifica, attitudine alla logica e all’oratoria, probità e correttezza sia nei rapporti con
i clienti, sia nei rapporti con i colleghi e i magistrati, sia infine nei rapporti
con la stampa.
In particolare, secondo il dettato dell’articolo 18 del codice deontologico forense, ‘‘nei rapporti con la stampa e gli altri mezzi di diffusione l’avvocato deve ispirarsi a criteri di equilibrio e misura nel rilasciare interviste, per il rispetto
dei doveri di discrezione e riservatezza’’.
Di conseguenza, l’abuso mediatico da parte degli avvocati viene valutato
principalmente in termini di rilevante carenza sul piano deontologico, poiché
attraverso il corretto rapporto con gli organi di stampa ci si propone di preservare la peculiarità della professione forense, come è agevole dedurre dalla lettura di un paio di significative sentenze del Consiglio Nazionale Forense.
Ad esempio, nella sentenza numero 139 del 6 dicembre 2006, il CNF (rigettando il ricorso avverso decisione C.d.O. di Vicenza che infliggeva la sanzione disciplinare della censura) ha evidenziato che viola il dovere di riservatezza proprio della professione forense (art. 9 c.d.f.), nonché il divieto di sollecitare articoli di stampa o interviste su organi di informazione, spendendo il nome
dei propri clienti (art.18 c.d.f.), il professionista che, attraverso le pagine di un
quotidiano locale, divulghi il contenuto di una sua lettera inviata alla controparte per conto dei propri assistiti.
Integra, altresı̀, violazione dei principi di correttezza e riservatezza, nonché
del divieto di pubblicità, proprı̂ della professione forense, il professionista che,
in ordine al contenuto della predetta missiva, renda ad un giornalista dichiarazioni poi pubblicate su un quotidiano locale, al fine di pubblicizzare la propria
attività professionale, utilizzando in tal modo, per la tutela degli interessi dei
propri assistiti, strumenti diversi da quelli previsti dall’ordinamento, quali la
divulgazione alla stampa di censure e critiche al comportamento della controparte.
Questa sentenza ci mostra chiaramente, da un lato, che le problematiche etiche investono diversi aspetti dell’attività professionale, dall’altro che la strumentalizzazione della campagna di stampa riguardante una pratica è ‘‘un comportamento disdicevole per un professionista forense, al quale è demandata la
funzione di difesa nel rispetto dei princı̀pi e delle regole dell’ordinamento giuridico’’.
Il secondo esempio è rinvenibile nella sentenza numero 150 del 30 settembre 2011, con cui il CNF (respingendo il ricorso avverso il C.d.O. di Pordenone che aveva inflitto la sanzione disciplinare dell’avvertimento) ha stabilito
che ‘‘in materia di corretto rapporto tra il professionista e gli organi di stampa,
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pone in essere un comportamento contrario agli obblighi imposti dalla normativa deontologica il professionista che intrattenga con la stampa un costante
rapporto, consentendo la divulgazione di notizie relative al mandato difensivo
conferito dal cliente’’.
Inoltre, il dovere di discrezione richiamato dal canone deontologico impone
un atteggiamento generale di distacco fra l’evento pubblicizzato e la persona,
per cui l’avvocato dovrebbe tenere un ‘‘comportamento negativo di chiusura’’
coi giornalisti proprio per impedire che la notizia venga diffusa e pubblicata.
Il CNF chiarisce peraltro che l’interesse della parte assistita va anteposto a
qualunque altro, dal momento che ‘‘il corretto operare del professionista deve
sempre ispirarsi, nell’interesse della collettività, prima ancora che di quello personale o di categoria, alla salvaguardia della dignità, del decoro e della probità’’.
È agevole concludere che la deontologia forense ha uno dei suoi pilastri fondamentali nella tutela della riservatezza del rapporto avvocato - cliente, che impone al primo il vincolo di tenere riservata la stessa esistenza del rapporto, con
particolare riguardo alla trattazione/esternazione dell’oggetto del mandato difensivo. Il rispetto di tale vincolo da parte dell’avvocato costituisce condizione
imprescindibile per la realizzazione del diritto costituzionale del cittadino a difendersi.
Un ulteriore esempio chiarificatore dell’attualità e della delicatezza del problema dei rapporti dell’avvocato con la stampa è ravvisabile in una recentissima delibera di archiviazione operata dall’Ordine degli Avvocati di Milano nel
mese di luglio 2013: precisamente, l’Ordine ha deliberato l’archiviazione di un
esposto inoltrato a carico di un iscritto che aveva riferito ad un giornalista che
la morte del detenuto da lui assistito non era stata comunicata né ai figli né a
lui stesso nella qualità di difensore. Ma ciò avvenne, come peraltro riferito al
difensore medesimo, poiché al momento dell’ingresso nella struttura carceraria
il deceduto non aveva inteso riferire alcun recapito dei propri familiari con
conseguente impossibilità per le autorità carcerarie di avvertirli tempestivamente dell’avvenuto decesso.
L’Ordine, tramite comunicazione dell’avvenuta archiviazione, ha però evidenziato la necessità che siano assunte precise informazioni prima di effettuare
interventi presso la stampa che possano incidere negativamente sulla reputazione di altri soggetti e, nella specie, di una struttura istituzionale.
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Nell’avviarmi alla conclusione, desidero aggiungere che il tema di cui si discuterà oggi pone in rilievo due importanti questioni sulle quali è opportuno
riflettere: in primo luogo, emerge la necessità di preservare la reciproca autono78
La Rivista del Consiglio
Congressi e convegni
n. 3/2013
mia della procedura giudiziaria, con le sue regole, il suo rito e le sue metodologie, da un lato, e del contesto dell’informazione mediatica, con le sue esigenze e i suoi tempi, dall’altro: nessuno dei due elementi può soccombere all’altro, poiché entrambi devono coesistere, entrando in raccordo alla luce di un
reciproco rispetto.
A margine di ciò si consideri che il processo che diventa processo ‘‘mediatico’’ può presentare aspetti deleteri per quanto riguarda la genuinità della valutazione giudiziale circa la responsabilità dell’imputato, ma da questo punto di
vista potrebbe venire in rilievo anche una maggiore collaborazione tra giudici e
avvocati cosı̀ da evitare pericolose speculazioni tendenti alla spettacolarizzazione del caso giudiziario.
In secondo luogo, occorre richiamare tutti gli attori coinvolti (avvocati, giudici, pubblici ministeri, giornalisti) al rispetto delle regole deontologiche e dare
opportuno risalto all’esigenza che sia garantito un elevato grado di professionalità: dal momento che è impensabile che la disciplina positiva sia realmente
esaustiva, il richiamo alla deontologia professionale realizza la ‘‘chiusura’’ del
sistema e garantisce contemporaneamente la necessaria fluidità capace di gestire
e risolvere le imprevedibili peculiarità di ciascun specifico caso.
In definitiva, l’equilibrio ottimale tra uno svolgimento imparziale della funzione giurisdizionale e un esercizio responsabile della libertà di informazione
esige uno sforzo partecipe e convinto di tutti gli operatori del settore.
Ebbene io credo anche che uno dei presupposti per il raggiungimento di tale equilibrio possa essere individuato nell’opportunità di investire seriamente
nella cultura e nella formazione professionale dei soggetti coinvolti.
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