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Romina Vergari intervista Giuseppe Veltri
Giuseppe Veltri è professore di Filosofia ebraica all’Università di Amburgo, ha
ricoperto la stessa carica per diciassette anni all’Università Martin Luther di HalleWittemberg, dove è stato Direttore del Dipartimento di Studi ebraici, Professore
onorario di Storia delle religioni all’Università di Lipsia, membro dell’Accademia
Pontoniana di Napoli, e dell’Accademia delle Scienze di Magonza. È direttore
dell’European Journal of Jewish Studies e del Maimonides Center for Advanced Studies
ad Amburgo). Attraverso la sua produzione scientifica, ha dato un contributo
importantissimo allo studio della storia della filosofia ebraica dagli inizi al tempo
contemporaneo, del Giudaismo rabbinico; della storia delle scienze e della magia; della
biografia e Wissenschaft des Judentums, della storia del pensiero politico ebraico e della
filosofia e cultura del rinascimento italiano.
Come lei spesso ricorda, la domanda è un elemento centrale nella procedura filosofica
ebraica. Nella tradizione rabbinica, saper porre le giuste domande è un criterio
rivelatore, attraverso il quale il maestro può distinguere fra uno studente (o un figlio, il
termine ebraico talmid è vago quando è usato in questo contesto) saggio ed uno cattivo
o uno sprovveduto. Intervistarla non è quindi il più facile dei compiti ... io vorrei
cominciare da aspetti “definitori”. Cosa significa e cosa designa la parola Ebraismo?
La denominazione Ebraismo significa un’esperienza storica di un popolo che si è
costruito una storia come tutti, si è sentito unito in essa e ha formato un’isola di identità
che ha provocato reazioni limitrofe, volte contro la loro unità, la proclamata identità di
culto e di elezione divina e soprattutto ha fatto di un documento mitico-storico, come la
Torah un testo canonico, cioè valido per la generazioni future.
Filologicamente la parola Ebrei è stata oculatamente (secondo il mio parere) scelta o
accettata per indicare l’esperienza di transito (avar in ebraico), che contraddistingue il
mondo nomadico, il “transire” da terra a terra, da regione a regione, da popolo a popolo.
L’esser errante è un modo, non una essenza, di coloro che si definiscono un “tramite”
tra il divino che è successo, avvenuto, e la storia che è il reale.
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Cosa rende un testo filosofico un testo filosofico “ebraico”: la lingua in cui è scritto, il
suo contenuto, una particolare procedura metodologica, l’identità del suo autore o
cos’altro?
La domanda è difficile anche perché non esiste consenso. Studiando la natura del
pensiero ebraico, lo studioso moderno s’imbatte sempre di più nel principio socratico di
saper di non sapere quale sia l’oggetto e il metodo della filosofia ebraica. L’aggettivo
qualificativo informa il lettore che non si tratta di filosofia analitica, basata su un
sistema di linguaggio e di metodo totalmente esulato dal contingente anche se parte
d’esso; la qualifica di “ebraico” è, infatti, una componente che limita il campo ad una
esperienza storica e culturale, mentre il termine filosofia cerca nello spazio
potenzialmente logico e cognitivo dell’esser e del divenire quella espressione che esula
proprio dal contingente. Anche se lo studioso cerca una risposta all’interrogativo
richiamandosi solo all’appartenenza etnica, geografica e culturale del filosofo, il
problema non è risolto, giacché è difficile includere l’ebraismo in modelli e concetti
prefabbricati senza pena di dover risponder a domande sull’ebraicità di alcune
composizioni come quelle di Isaac Israeli e Shlomo ibn Gavirol nel Medio Evo, Simone
Luzzatto e Benedetto Spinoza nel tempo moderno, oppure ancor più arduo quella del
posto di Karl Marx, Ernst Bloch, Walter Benjamin, e Jacques Derida nella filosofia
(ebraica) moderna, se si può dissociare il loro contributo speciale dal contesto più
generale del pensiero moderno e contemporaneo.
La letteratura del secolo passato ha cercato di risolvere il diverbio sulla natura e
il fine della filosofia ebraica postulando un campo tra la teologia, definita come studio
su un canone già predeterminato, con un pubblico confessionalmente ben preciso, e la
filosofia come ricerca sulla base ed il mezzo della ragione. Caratterizzato generalmente
come religione senza dogmi, l’ebraismo cerca proprio nella natura della legge quel
fondamento che le diviene peculiare e che a sua volta ne fonda l’identità. Le
introduzioni al pensiero ebraico giustificano per lo più il fine intrinseco cercando
paradigmi nel plurale della filosofia, oppure nel campo vicino (ma anche pericoloso)
della teologia (neo)-platonica e poi cristiana. Il ‘900 comincia proprio nel momento in
cui lo storico della cultura ebraica, il berlinese Gerhard e gerosolimitano Gershom
Scholem rifiuta il dogmatismo filosofico concedendo proprio alla Kabbalah quello
spazio di pensiero che gli intellettuali dell’illuminismo tedesco gli avevano decisamente
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negato. Includendo la mistica ebraica si segue quel filone rinascimentale che fa della
filosofia il “totum” che diviene “totem” (citando proprio un’affermazione di Theodor
W. Adorno nella versione entusiasta dello stesso Scholem [cfr. Gershom Gerhard
Scholem, Briefe, vol. 2, ed. Itta Shedletzky (Beck, München), 179]. Il frutto di questo
connubio è certo quella non-definizione dell’oggetto che rischia di far annebbiare e
vanificare ogni tentativo a discernere il la caratteristica del pensiero ebraico. Il risultato
è pienamente visibile proprio nella trattatistica odierna, che sconfina tra esposizioni
come quelle racchiuse nel digesto, tra l’altro molto riuscito, di Irene Kajon, che fanno
del metodo una storia, e quelli del volume miscellaneo di Daniel Frank e Oliver Leaman
che fanno della storia ebraica una filosofia. E anche ciò, paradossalmente, è una parte ed
un metodo del tutto legittimo di filosofia nell’ebraismo
Cosa ha significato per l’Ebraismo la chiusura del Canone delle Scritture? Qual è il
“modello di canonicità” che è stato applicato ai testi che appartengono alla Bibbia
ebraica?
La canonicità è un tema prettamente cristiano. Nell’ebraismo esistono due Torot, l’una
scritta e l’altra orale. L’una è soprattutto racchiusa nei cinque libri che sono la Torah in
senso stretto, il Pentateuco, e l’altra quella orale che è stata messa per iscritto
principalmente nel periodo attorno al II secolo della nostra era. Il modello di canonicità
ebraica è che ci si fonda sul testo, ma esso non racchiude l’interpretazione che è
dominio e materia di discussione.
Spesso, nell’ambito della letteratura rabbinica, quando si discute sulla “canonicità” di
alcuni testi , soprattutto quelli che appartengono al gruppo dei Ketuvim (cioè libri più
tardi e più “lontani” dal fulcro canonico della Torah, come Cantico dei Cantici,
Qohelet, Ruth, Ester, Proverbi, Ezechiele, fino ad arrivare al Siracide) ricorre
l’espressione “testi che contaminano le mani” (e.g. Mishna, Yadayim III, 5:
metamme’im ’et ha-yadayim). Qual è la corretta interpretazione di questa espressione?
Può essere considerata una “marca” del discorso sulla canonicità?
L’espressione “Testi che contaminano mani” viene probabilmente dalla lingua sacrale,
ed esprime il contatto con testi, manoscritti sacri. Dal momento che la lingua della
Torah, l’ebraico biblico, viene denominata “lingua del tempio” (leshon ha-qodesh) si
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può arguire che la contaminazione o meno delle mani (nella lettura) provenga dal grado
di sacralità che le viene concessa. Piú una cosa è sacra più contamina, cioè rende
impuro con la sua purità liturgica, le mani. Ciò è solo un'ipotesi, dal momento che non
abbiamo testi antichi che plausibilmente spiegano il concetto di metamme’im et hayadayim), anche se ha certamente una concessione con la canonicità delle scritture nella
loro valenza liturgica.
Come si esprime il rapporto fra dogma e opinione nello sviluppo del pensiero filosofico
ebraico?
C’è chi ritiene che l’ebraismo non abbia dogmi ed è tutto opinione. Infatti non esiste in
senso stretto una dogmatica, un mondo fatto di idee e di opinioni autoritative che
devono valere per tutti. Questo non è l’opinione di tutti, anche perché nell’ebraismo ciò
che conta è e rimane la prassi. In fin dei conti si dovrebbe parlare di ortoprassi e non di
ortodossia. Si rimane infatti ebrei solo adempiendo i comandamenti pratici, non nel
credere in qualcosa o qualcuno.
Per arrivare a questioni più pratiche. Quali sono le principali differenze fra
l’insegnamento religioso della filosofia ebraica (ad esempio l’insegnamento del Talmud
che si impartisce in una Yeshivah) ed il suo insegnamento accademico?
È facile rispondere. In una Yeshivah (scuola rabbinica) si insegna il talmud e
l’halakhah, i responsa rabbinici. Alla fine dello studio rabbinico c’è generalmente
l’ordinazione rabbinica. La Yeshivah continua tuttavia la sua funzione finché si ci sente
discepoli di un certo maestro. Non si tratta di idee o di storia ebraica, non di testi che
non siano in ebraico o aramaico. L’insegnamento accademico è invece storico e
contempla tutte le esperienze dell’ebraismo sia in ebraico che in altre lingue. Si insegna
filosofia, religione, ma anche storia ebraica.
Come potremmo tradurre efficacemente l’etichetta “Jewish Studies” in italiano? Da un
punto di vista accademico, non esiste oggi in Italia un “contenitore” simile. Perché
secondo lei?
È vero che non esistono studi ebraici in Italia, proprio perché non esistono centri per
l’insegnamento del Talmud per non ebrei oppure per ebrei interessati allo studio e meno
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alla pratica religiosa nello studio. Infatti lo sbocco che si può avere da questo studio non
è diventar rabbini, ma continuare la ricerca accademica. Gli studi ebraici come possibile
traduzione di “Jewish studies” non hanno trovato in Italia un terreno fertile a livello
accademico anche perché lo studio della religione viene visto come dominio della
chiesa. E come parallelo ci si affida ai rabbini. Si ha bisogno di una secolarizzazione
degli studi religiosi.