Una Grande Pagoda tra i capannoni

Una Grande Pagoda tra i capannoni
- Giulia Lo Giudice, ROMA,03.04.2013
Inchiesta. Aperto a Roma il nuovo tempio dei buddhisti d’Italia, finanziato dagli immigrati cinesi. E
una storica intesa con lo Stato su diritti e 8 per mille. E con la ratifica dell’accordo le forze di polizia
non possono entrare, se non in casi estremi
Seminascosta tra i capannoni, in un angolo di cemento e lamiere tra il Grande raccordo anulare e la
via Prenestina, c’è la Grande Pagoda cinese. Se non fosse per l’inconfondibile tetto a falde spioventi
dalle volute arricciate, la si potrebbe scambiare per uno dei tanti magazzini all’ingrosso della zona,
quasi tutti di proprietà cinese: è questo, infatti, il polmone del commercio made in China nella
capitale. Molti imprenditori cinesi hanno iniziato a fare affari qui e, a colpi di offerte d’acquisto
vantaggiose e concorrenza a prezzi bassi, in breve sono riusciti ad espandersi, tanto che oggi un
terzo dei 250 proprietari delle aziende del consorzio parla cinese. È qui che la comunità buddhista
cinese di Roma ha scelto di costruire il suo tempio, il secondo in Italia dopo quello di Prato. È stato
inaugurato il 31 marzo con una cerimonia pubblica, ma era già un luogo di culto attivo aperto a
diversi praticanti.
L’apertura della Grande Pagoda non è l’unica novità. Il primo febbraio è stata una data storica: è
entrata in vigore la prima intesa ufficiale tra lo Stato italiano e l’Unione buddhista italiana (Ubi).
Attraverso questo accordo, simbolicamente importante perché rivolto ad una confessione non
appartenente alla tradizione giudaico-cristiana, viene riconosciuta la libertà di religione per i
buddhisti e legittimata la presenza di ministri di culto, luoghi di preghiera e festività. «È un passo
importante per l’integrazione dei buddhisti in Italia, va nella direzione indicata dall’articolo 8 della
Costituzione che sancisce la libertà di culto – spiega Maria Angela Falà, vice presidente dell’Ubi. È
lei ad accompagnarmi all’interno del tempio. Ad accogliere il visitatore due leoni scolpiti dall’aspetto
terrificante. «Sono i dharmapala, i guardiani del tempio che hanno il compito di difendere il Dharma,
cioè la dottrina – spiega la mia guida -. Prima che il tempio fosse inaugurato i due leoni erano
bendati. Ora hanno aperto gli occhi e sono entrati in servizio». Chen, un ragazzo che incontro nel
cortile, spiega in un italiano dal suono mandarino che «per cinque anni tutti mette soldi e tanti
permessi per costruire ci vuole!».
Il tempio è stato tirato su grazie alle donazioni della comunità immigrata cinese di Roma e con fondi
provenienti da alcuni monasteri cinesi. All’interno ogni oggetto ha un significato e rispecchia la
tradizione del Buddhismo Mahayana Chán, il più diffuso in Cina.
Ogni domenica si svolge la preghiera collettiva: una lunga cerimonia di recitazione di canti di
preghiera scanditi dal suono grave dei tamburi e dal tintinnio argentino delle campanelle. A officiare
il rito è una delle quattro monache taiwanesi che abitano nel tempio: è lei che dà il via ai mantra dal
ritmo sempre più veloce che i fedeli seguono salmodiando a voce alta con un tono quasi ipnotico.
Tutti indossano una lunga tunica nera in segno di sobrietà e di uniformità, ad eccezione della
monaca. «Lei indossa il kesa, un mantello color zafferano che anticamente era composto di pezzi di
stoffa rimediati qua e là grazie alle offerte dei fedeli e cuciti insieme – precisa Falà -. I monaci
osservano il voto di povertà e, nella tradizione, era consentito loro possedere solo una ciotola per il
cibo e le elemosine».
Momento culminante della preghiera, che oltre ai canti prevede ben 88 genuflessioni, è l’offerta di
incenso al Buddha Sakyamuni, la cui statua dorata si erge al centro dell’altare. Intorno, in tante
piccole teche rotonde, ci sono delle statuine: «Sono le guanyin, l’aspetto femminile del bodhisattva
della compassione. Spesso sono raffigurate anche con un bambino in braccio spiega ancora Falà –
tanto che i primi missionari cristiani in Cina, come Matteo Ricci, le hanno associate alla figura della
Madonna con il bambino». Il culto delle guanyin è molto popolare in Cina. «Tutte familia mette una»,
spiega Chen. La guanyin è una divinità protettrice del nucleo familiare: le famiglie che hanno dato
qualcosa per la costruzione del tempio hanno il diritto e l’onore di potervi custodire la propria
statuina votiva.
Luoghi sacri da tutelare
Con la ratifica dell’intesa templi come questo vengono riconosciuti luoghi di culto a tutti gli effetti:
luoghi sacri da tutelare con il divieto di requisizione, occupazione, esproprio e demolizione e in cui le
forze di polizia non possono entrare, se non in casi estremi.
«Ci è voluto un lungo iter burocratico, durato quasi quindici anni, prima di arrivare alla ratifica»,
prosegue la vice presidente dell’Ubi. I lavori iniziarono nel 2000 quando venne fissato un primo
accordo con il governo D’Alema ma, fino al 2012 non si è mai arrivati all’approvazione finale in
Parlamento. Una situazione cosi a lungo in stallo che nel 2008 l’Ubi, assieme ad altre comunità
religiose minori, fondò la Coalizione per le Intese Religiose allo scopo di sollevare la questione del
mancato completamento dei processi di ratifica. «Perché il problema non è tanto il riconoscimento
del Buddhismo o di un’altra confessione, ma il fatto che in Italia manca una legge vera e propria
sulla libertà di religione e, per le religioni diverse da quella cristiana, ancora si fa riferimento alle
leggi fasciste sui culti ammessi», spiega Falà. La discussione sulla legge dell’intesa riprese nel 2011
con il governo Berlusconi registrando un consenso generale fra le varie forze politiche, ad eccezione
della Lega Nord che presentò una raffica di emendamenti per sottoporre a controllo parlamentare
l’attività degli enti buddhisti. E tutto si bloccò di nuovo.
Il punto di svolta è arrivato nel 2012, grazie al sostegno dei senatori Stefano Ceccanti e Lucio Malan.
Su loro iniziativa, l’intesa è approdata in Commissione affari costituzionali, prima quella del senato e
poi quella della Camera. «Da questo punto di vista, l’ultima legislatura è stata molto più produttiva
rispetto al passato: le intese ratificate sono passate da sei a undici, coinvolgendo quasi tutte le
principali confessioni spiega Ceccanti -. Il fatto di aver votato la legge in Commissione e non in aula,
ha sicuramente facilitato l’approvazione: un luogo meno scenografico che però ha consentito una
discussione più serena, al riparo da opposizioni dettate dalla teatralità e – prosegue siamo anche
riusciti a far passare l’intesa come materia pattizia, quindi non emendabile. La Lega ha dovuto
ritirare i suoi emendamenti per inammissibilità e il testo è stato approvato all’unanimità». È una
vittoria parziale, però: «Dedicarsi a una legge quadro sulla libertà di religione in Italia –conclude
Ceccanti- dovrebbe essere un impegno per il prossimo governo e credo che qualche risultato si potrà
ottenere se, invece di partire da una definizione astratta di laicità o di libertà religiosa, nozioni non
condivise nel dibattito pubblico, si estendono le garanzie delle intese a una legge di portata
nazionale».
Ma cosa comporta questo riconoscimento? «Equivale a un trattato internazionale – riprende Maria
Angela Falà – e sancisce la piena attribuzione di diritti agli appartenenti all’Ubi», come ad esempio il
diritto all’assistenza spirituale da parte di ministri di culto buddhisti, anche quando il fedele sia un
militare in servizio, una persona ricoverata in ospedale o detenuta in carcere. «È chiaro che per
arrivare al compromesso si è dovuto aprire tutto un processo di confronto interno alle realtà che
compongono l’Unione buddhista per definire cos’è il culto o chi è e cosa fa un ministro di culto. Sono
categorie che storicamente non ci appartengono, spiega ma la cui definizione si è resa necessaria
per il dialogo giuridico con le istituzioni».
Altro aspetto fondamentale è la possibilità di inserire l’insegnamento della religione buddhista nelle
scuole: se alunni e genitori lo richiederanno, l’Ubi potrà incaricare dei propri docenti. Via libera
anche all’istituzione di scuole, università e centri culturali parificati agli istituti statali. E poi il diritto
a scegliere la cerimonia di sepoltura secondo il rito funebre buddhista e la predisposizione di aree
riservate nei cimiteri. Anche le feste religiose verranno riconosciute, al pari della domenica, della
Pasqua o del Natale: chi lo vorrà, senza dover prendere giorni di ferie, potrà osservare la più
importante festa buddhista, il Vesak, che celebra l’illuminazione del Buddha e ricorre ogni anno a
fine maggio.
Rapporti economici e fiscali
Il vero punto caldo dell’intesa riguarda, però, la regolazione dei rapporti economici e fiscali.
Innanzitutto, poiché l’Ubi si finanzia principalmente con i contributi dei fedeli ed è considerato
equivalente ad un ente di beneficenza, lo Stato darà la possibilità di dedurre tutte le donazioni in suo
favore fino a un massimo di 1032,91 euro. Si aprono le porte anche alla ripartizione dell’8 per mille
dell’Irpef, 900 milioni di euro complessivi che ogni anno vengono spartiti tra le varie confessioni
riconosciute. «Includere anche l’UBI tra gli enti che possono beneficiare dell’8 per mille – argomenta
Ceccanti – non fa altro che aumentare le possibilità di scelta per i cittadini. Dare l’8 per mille non
significa automaticamente dichiarare la propria appartenenza religiosa, ma valutare ogni anno a chi
dare un contributo sulla base di quello che ogni organizzazione religiosa ha fatto e promette di
fare». E prosegue: «Andiamo verso una liberalizzazione del mercato religioso. Con l’8 per mille sono
i contribuenti a decidere: aumenta il controllo su come vengono spese queste risorse e le istituzioni
religiose sono spinte ad essere più efficienti e competitive nell’utilizzo di questi fondi». La vice
presidente Falà assicura: «Le somme che riceveremo verranno utilizzate solo per interventi culturali,
assistenziali e umanitari o per il sostegno al culto. Certo il lato economico è importante, ma non è
questo che ci muove, anche perché ne abbiamo sempre fatto a meno. E comunque i primi frutti
dell’8 per mille li vedremo, se va bene, fra un paio d’anni visto che l’intesa economica entrerà in
vigore dall’anno fiscale 2014 e ci vorrà un altro anno per lo stanziamento dei fondi».
In Italia, però, non tutti i buddhisti sono rappresentati dall’Ubi: secondo gli ultimi dati del Cesnur,
dei 230 mila praticanti presenti, solo 80 mila fanno parte dell’Unione. A loro vanno aggiunti i 60 mila
praticanti della Soka Gakkai – la scuola di origine giapponese che, da sola, conta il maggior numero
di fedeli e i 90 mila buddhisti immigrati. «Nelle intenzioni del fondatore dell’Ubi, Vincenzo Piga
spiega la vice presidente già c’era la volontà di creare un ente unico, in grado di porsi come
referente nei confronti dello Stato. L’Unione non rappresenta alcun gruppo particolare, ma si
propone di sostenere l’insieme del movimento italiano. Attualmente sono i 44 centri che aderiscono –
prosegue – di tradizione theravada, zen e vajrayana: il denominatore comune è innanzitutto il
rispetto reciproco di ogni tradizione, nella convinzione che nessuna scuola debba prevalere sulle
altre».
La Soka Gakkai è l’altro polo del buddhismo italiano. Classificata dai sociologi tra i nuovi movimenti
religiosi, è un’organizzazione laica diffusasi in Italia negli anni Settanta, sulla scia dei movimenti
hippie. In passato è stata più volte accusata di essere una vera e propria setta, poi nel 2000 è stata
riconosciuta come ente religioso e oggi anche i suoi membri attendono la ratifica di un’intesa ad hoc
con lo Stato.
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