CORSO GIORNO 2 Col termine “ espressione genica” intendiamo l’attività principale svolta da un gene durante la vita della cellula, cioè il suo ruolo di codifica nella sintesi di proteine. Poiché tale funzione di sintesi è energeticamente costosa per una cellula, essa viene limitata alla sintesi delle sole proteine indispensabili all’attività vitale della cellula in quel preciso momento. Nel caso dei batteri, ad esempio, saranno sintetizzati solo gli enzimi atti a digerire i nutrienti presenti nell’ambiente, mentre i geni che codificano per altri enzimi in quel momento inutili devono essere bloccati. Nelle cellule eucariote la regolazione dell’espressione genica è legata soprattutto alla specializzazione funzionale della cellula stessa: in un neurone, ad esempio, saranno attivi i geni che portano alla sintesi di un neurotrasmettitore ma non quelli per la sintesi della miosina, tipica di una cellula muscolare. Il controllo dell’espressione genica Si tratta ora di capire come fa una cellula a controllare l’attività del proprio DNA. Negli eucarioti il meccanismo è assai complesso ed esula dagli obiettivi di questo corso, perciò ci limiteremo a vedere come fanno i batteri che sono organismi più semplici. Il DNA dei batteri è organizzato, all’interno del loro unico cromosoma ad anello, in gruppi di geni adiacenti che costituiscono un’ unità funzionale detta “operone”. Ogni operone comprende nell’ordine il promotore, una sequenza nucleotidica di avvio sulla quale va a posizionarsi la RNA-polimerasi al momento di trascrivere il messaggero; l’operatore, una sequenza nucleotidica di controllo che permette oppure no l’avanzamento della polimerasi; i geni strutturali, un gruppo di geni che codificano per enzimi coinvolti nello stesso processo biochimico. Un gene che può anche trovarsi distante dall’operone e che è detto gene regolatore codifica per una particolare proteina repressore capace di legarsi in modo stabile sulla sequenza operatore impedendo di fatto alla RNA-polimerasi di trascrivere il messaggero. Il primo operone studiato in dettaglio è stato quello che codifica per la sintesi di un enzima, la β- galattosidasi, necessario ai batteri per la digestione del lattosio. Quando nel terreno di coltura non è presente il lattosio, il repressore tiene bloccati i 3 geni strutturali che presiedono alla sintesi dell’enzima; se però viene aggiunto lattosio per nutrire i batteri, ecco che esso diventa necessario: il lattosio assorbito dal batterio va a legarsi al repressore rendendolo inattivo, lo fa staccare dall’operatore avviando la sintesi di un messaggero che contiene la trascrizione di tutti e tre i geni in un’unica sequenza. Il lattosio ha quindi fatto da induttore per la sintesi dell’enzima che serve alla propria digestione; in questo modo esso verrà ad un certo punto a mancare e quindi il repressore liberato potrà di nuovo legarsi all’operatore e bloccare l’attività dei geni. Tale meccanismo è detto di feed-back negativo. L’ingegneria genetica Vediamo ora come possiamo sfruttare convenientemente i meccanismi naturali di funzionamento del DNA per scopi utili all’uomo, cominciamo cioè ad addentrarci nel campo dell’ingegneria genetica. 1. Gli strumenti Con questo termine intendiamo l’insieme delle procedure che portano a modificare il DNA “selvatico” di un organismo. Per prima cosa vediamo di quali strumenti molecolari si servono i biotecnologi per operare sul DNA degli organismi: si tratta di molecole naturali oppure di prodotti di sintesi fabbricati però copiando quelli naturali. Gli enzimi di restrizione sono proteine naturali che molti batteri possiedono per difendersi dalle infezioni virali. I virus infatti agiscono iniettando il loro genoma nella cellula e inducendola a produrre le proteine virali anziché le proprie e moltissime copie del genoma virale fino a scoppiare. Gli enzimi di restrizione sono delle vere e proprie “forbici chimiche” capaci di tagliare un filamento di DNA in particolari zone dette “siti di restrizione”. Si tratta di sequenze nucleotidiche palindrome, cioè identiche nei due sensi sui due filamenti complementari. Il taglio consiste nell’idrolisi del legame fosfodiestere tra due nucleotidi adiacenti (blunt end) oppure a forma di elle che provoca anche la rottura dei ponti idrogeno tra le basi complementari ( sticky end). Le terminazioni “appiccicose” ( sticky) sono brevi sequenze libere di nucleotidi che possono riappaiarsi se trovano una sticky end complementare su un altro filamento. GAATTC GAATTC Questa possibilità viene sfruttata dai CTTAAG CTTAAG biotecnlogi per creare il DNA ri combinante, cioè una molecola ibrida G AATTC G AATTC CTTAA G CTTAA G ottenuta tagliando con lo stesso enzima di restrizione due DNA di diversa specie GAATTC e mettendoli poi in contatto: le sticky CTTAAG end complementari si riaggregano anche se i due DNA non appartengono al filamento originale. Grazie a questa tecnica sono stati inseriti geni estranei all’interno dei plasmìdi , piccoli anelli di DNA batterico, costituiti da poche decine di geni e quindi poche centinaia di coppie nucleotidiche. Tali molecole sono presenti in natura nei batteri ed ospitano geni codificanti per enzimi digestivi ( fattori nutrizionali) o per enzimi che permettono la resistenza a certi antibiotici ( fattori di resistenza). Al loro interno i geni sono organizzati in operoni. Grazie al processo di coniugazione, i batteri portatori di plasmidi possono trasmetterne una copia a batteri che ne sono privi: questo meccanismo fa dei plasmidi di veri e propri vettori genetici. Il plasmide, o meglio uno dei suoi due filamenti, passa da un batterio all’altro attraverso un “pilo” cioè un tunnel citoplasmatico; men meno che entra nel secondo batterio viene duplicato e ricostituito mentre lo stesso avviene nel batterio donatore. Alla fine del processo, il batterio ricevente avrà acquisito le stesse proprietà del primo. Si tratta di un meccanismo fonte di variabilità genetica nei batteri che altrimenti ne sarebbero privi a causa della loro riproduzione di tipo asessuato. Anche i virus, per il loro naturale comportamento, sono sfruttati dai biotecnologi per veicolare geni estranei all’interno delle cellule infettate artificialmente. Il DNA estraneo andrà ad inserirsi nel genoma della cellula ospite e potrà così essere espresso se la sua allocazione avverrà con successo nel punto desiderato. L’ingegneria genetica Vediamo ora quali sono le procedure in cui enzimi di restrizione e vettori genetici possono essere usati dai biotecnologi, in particolare per quali fini tali procedure vengono applicate. 2. Le applicazioni La sigla OGM sta per Organismi Geneticamente Modificati: si tratta di esseri viventi nel cui genoma è stato inserito un tratto di DNA estraneo che possa conferire all’organismo una caratteristica nuova utile per l’uomo. In particolare in un ceppo di E.coli può essere inserito il gene umano che codifica per l’insulina oppure quello per la somatotropina ( ormone della crescita). Esprimendosi insieme ai geni del batterio, tale sequenza produce in grande quantità e a basso costo un ormone indispensabile ai pazienti diabetici oppure a quelli con problemi di accrescimento. Con la stessa tecnica di trasformazione batterica, oltre agli ormoni si possono produrre proteine adatte alla preparazione di vaccini, enzimi di cui il paziente sia carente come nel caso del fattore VIII della coagulazione. Nell’ambito del mondo vegetale, l’introduzione di geni estranei viene fatta attraverso due tecniche: una è nota come metodo del cannone e consiste nel far aderire a microsferule d’oro il DNA che si vuole introdurre, poi si spara ad altissima velocità queste sferule sulle foglie, il DNA è così veicolato all’interno delle cellule che vengono poste in coltura e lasciate moltiplicare. Esse formeranno plantulae dal DNA modificato. Il secondo metodo, di gran lunga il più diffuso, è detto metodo dell’Agrobacterium tumefaciens e consiste nel permettere ad un batterio che infetta normalmente le piante di entrare nelle cellule dopo aver subito una ricombinazione del proprio plasmide con un gene estraneo. Il plasmide sarà veicolato nella cellula della pianta o nel DNA del cloroplasto e lì potrà esprimersi. Le piante vengono rese OGM per conferire loro particolari proprietà, soprattutto la resistenza alle larve di parassiti naturali: in tal modo si riduce significativamente la necessità di usare pesticidi. Animali transgenici Gene inserito in uno dei pronuclei di ovuli fertilizzati Impianto nella femmina Dal 10 al 30% dei neonati è portatore del gene estraneo Anche alcuni animali possono essere modificati geneticamente ma la tecnica è più complessa. Consiste nell’introdurre il segmento di DNA estraneo nei pronuclei di un ovulo fecondato prima che avvenga la loro fusione e si formi un vero e proprio zigote. Il gene andrà ad inserirsi nel DNA dell’ospite e verrà replicato in tutte le cellule figlie che costituiranno l’embrione prima e l’organismo completo poi. L’uso che è stato fatto a livello sperimentale degli animali OGM è vario: cavie con particolari caratteristiche per studiare malattie umane, produzione di farmaci nel latte delle capre o delle mucche OGM, animali da allevamento capaci di crescita più rapida o resistenti a certe malattie, maiali con organi “umanizzati” da trapiantare per ridurre i rischi di rigetto; in generale il processo è molto costoso e dunque ne è stato fatto un uso solo scientifico e molto limitato; il patrimonio genetico speciale di questi animali ne ha reso utile la clonazione proprio perché costa molto produrli. Per clonare un animale si usa la seguente procedura: si preleva il nucleo da una cellula adulta e lo si inserisce nel citoplasma di un ovulo enucleato della stessa specie prelevato da una femmina donatrice . Si lascia moltiplicare in provetta fino allo stadio di poche cellule ( morula) e poi si impianta nell’utero di un animale ospite per la gestazione. In tal modo è stata creata la famosa Dolly, seguita poi da molti altri vitelli, maialini, rane ecc. La tecnica di clonazione molto probabilmente potrà essere applicata alle cellule umane ma lo scopo non sarebbe certo quello di creare tante copie di un individuo bensì quello di creare cellule staminali di tipo embrionale recanti il patrimonio genetico del paziente donatore al fine di produrre organi o almeno tessuti per un trapianto autologo in malattie gravemente invalidanti come l’infarto del miocardio, il morbo di Parkinson, le lesioni spinali. Le cellule staminali sono infatti cellule indifferenziate in cui i geni non sono stati ancora silenziati dal processo che le porta a specializzarsi. Le cellule della blastocisti , terzo stadio dello sviluppo embrionale, sono infatti totipotenti cioè possono originare qualunque altro tipo di cellula e dare origine addirittura ad un organismo completo; alla terza divisione cellulare già alcuni geni non si esprimono più e ne derivano tre gruppi di staminali pluripotenti, cioè capaci di formare uno dei tre foglietti embrionali ma non un embrione completo; alla quarta serie di divisioni da ogni foglietto si creano staminali multipotenti capaci di differenziarsi in cellule di alcuni organi ma non di altri ; da queste si differenziano poi, per silenziamento selettivo di altri gruppi di geni, cellule unipotenti, capaci di originare un solo tipo di cellula. Una coltura di cellule staminali sarebbe in grado dunque di rigenerare nel corpo del paziente un tessuto danneggiato ripristinandone le funzioni. Ciò è stato realizzato “in vitro” per alcune linee cellulari come ad esempio quelle della pelle, importantissime per trapiantare tessuto sano autologo nei grandi ustionati, ma ancora sono in fase sperimentale altre applicazioni: quella per rigenerare i neuroni umani danneggiati dal morbo di Parkinson terminerà entro 5 anni, quella per ricostituire il midollo spinale lesionato è stata sperimentata nel topo con risultati promettenti. La ricerca sulle staminali ha incontrato difficoltà di tipo etico in quanto queste vengono ricavate dagli embrioni che sono considerati soggetti di diritto e persone a tutti gli effetti. Le staminali “adulte” esistono nell’organismo ma sono scarse, difficili da selezionare e per loro natura meno plastiche delle staminali embrionali. Al momento non esiste un protocollo sicuro che garantisca la possibilità di riportare allo stato di cellula totipotente qualunque cellula adulta; recentissimi studi riferiscono di un tentativo portato a termine con successo su cellule cardiache ma nulla è ancora ufficializzato.