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Storia contemporanea
Capitolo I
L’Europa e l’Italia alla vigilia del ’48
e la prima guerra d’indipendenza
1. La Rivoluzione Francese
I rivoluzionari francesi coniarono l’espressione Ancien Règime per indicare la società e le istituzioni politiche della Francia prima della rivoluzione. Le caratteristiche fondamentali di questo regime
erano: il sistema feudale nelle campagne; la divisione della società in ordini; l’assolutismo regio.
Nel Settecento circa il 40% delle terre era ancora di proprietà dell’aristocrazia, che imponeva ai contadini una serie di oneri e tributi in natura e danaro. La popolazione francese era divisa in tre ordini:
nobiltà; clero e terzo stato. Le prime due classi oltre a possedere gran parte delle terre, godevano di
molti privilegi; il terzo stato era formato soprattutto da contadini, braccianti, artigiani, bottegai. Il
terzo aspetto dell’Ancien Règime era l’assolutismo: la Francia da Luigi XIV in poi era un perfetto
esempio di monarchia assoluta. Il simbolo di tale assolutismo era la “lettre de cachet”, una lettera
con la quale il sovrano poteva far incarcerare qualsiasi persona in modo arbitrario.
La rivoluzione che scoppiò in Francia nel 1789 fu in gran parte la conseguenza di tensioni accumulate durante il regime antico, che agitavano soprattutto il Terzo Stato. La borghesia francese, che nel
Settecento aveva accresciuto il suo peso economico, non accettava che l’accesso alle cariche pubbliche fosse riservato quasi esclusivamente alla nobiltà. Ancora peggiori erano le condizioni dei contadini gravati da una assai complessa serie di obblighi e di tasse.
Su queste tensioni sociali si innescò una grave crisi economica e finanziaria che colpì la Francia negli anni che precedettero la Rivoluzione. Nel 1788 c’era stato uno dei peggiori raccolti di grano degli ultimi 50 anni: la carestia aveva colpito i contadini, ma anche gli abitanti della città per l’aumento del prezzo del pane. Conseguenza diretta della crisi agricola fu l’aumento della disoccupazione di
artigiani e operai. Alla crisi economica si sommava la crisi finanziaria seguita alla guerra dei Sette
anni. Il paese era uscito sconfitto da questa guerra, e aveva dovuto pagare un altissimo costo finanziario: la conseguenza fu la crescita vertiginosa del debito pubblico.
Il 1789 fu senza dubbio l’anno cruciale della Rivoluzione, il più ricco di avvenimenti, per un rapido
susseguirsi di tre eventi che provocarono il crollo dell’Ancien Règime: una rivoluzione parlamentare, una rivoluzione della popolazione parigina e una rivoluzione contadina.
La prima di queste tre fasi si svolse all’interno degli Stati Generali, inaugurati solennemente a Versailles il 5 maggio del 1789. I delegati della nobiltà e del clero avevano voluto la convocazione degli Stati Generali per imporre al sovrano il mantenimento dei loro privilegi. I delegati del terzo Stato, invece, erano giunti a Versailles muniti di migliaia di documenti approvati dalle assemblee locali, nei quali erano denunciati i privilegi dell’aristocrazia e le condizioni di miseria in cui vivevano
molti abitanti delle campagne. Sin dall’inizio lo scontro tra i deputati dei diversi ordini si concentrò
su di un problema procedurale: la nobiltà e il clero volevano che si votasse per ordini, perché così
avrebbero avuto due voti contro quello unico del Terzo Stato; quest’ultimo invece chiedeva che le
votazioni fossero fatte per testa, essendo in numero pari ai delegati degli altri due ordini. Di fronte
alla noncuranza della nobiltà e del clero alla proposta del terzo stato, fu compiuto il primo atto rivoluzionario: il terzo stato si proclamò Assemblea Nazionale e dichiarò che qualsiasi imposta che non
avesse avuto l’autorizzazione della stessa doveva considerarsi nulla. In pratica nasceva un nuovo potere che si contrapponeva al sovrano. Luigi XVI fece allora chiudere la sala dove si riunivano i rap-
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presentanti del Terzo Stato. Questi allora si trasferirono nella sala della pallacorda e il 20 giugno giurarono di non separarsi mai finchè la costituzione non fosse stabilita. Poiché alcuni esponenti del clero si erano uniti al Terzo Stato il re fu costretto a ordinare il trasferimento dei deputati nell’Assemblea Nazionale. Agli inizi di luglio il re decise di usare la forza contro l’Assemblea Nazionale Costituente facendo affluire le truppe a Versailles. La rivoluzione parlamentare stava per essere soffocata
con la forza delle armi, quando entrò in scena il popolo. Il 13 luglio la folla si impadronì con le armi
della municipalità di Parigi e diede vita ad una Guardia Nazio­nale, per vigilare contro le minacce del
re e degli aristocratici. Il giorno seguente la popolazione parigina diede l’assalto alle carceri della
Bastiglia, che agli occhi del popolo era il simbolo dell’odiato assolutismo regio.
Pochi giorni dopo la presa della Bastiglia si compì la terza rivoluzione nelle campagne scoppiarono
rivolte ed insurrezioni di contadini che assalirono i castelli. Il diffondersi della ribellione contadina
spinse i deputati dell’Assemblea a proclamare, nella notte del 4 agosto, l’uguaglianza fiscale di tutti i cittadini e la soppressione dei privilegi.
Il colpo definitivo all’Ancien Règime fu dato il 26 agosto 1789 con la Dichiara­zione dei diritti dell’uomo e del cittadino, nella quale erano proclamati l’uguaglianza tra i cittadini, le libertà fondamentali,
il riconoscimento della sicurezza della persona e della proprietà.
Dopo aver proclamato solennemente i diritti dell’uomo e del cittadino, l’Assemblea Nazionale si accinse a dare una nuova costituzione che fu elaborata nel 1790-91. La nuova Costituzione, approvata
il 3 settembre del 1791, riservava il diritto di voto ai soli cittadini attivi, cioè a coloro che pagavano
un minimo di imposte. Il potere legislativo era affidato a un’Assemblea Legislativa formata da deputati eletti tra un numero ristretto di cittadini con un reddito abbastanza elevato. Il potere esecutivo
spettava al re che poteva imporre un veto sospensivo sulle leggi approvate dall’assemblea. Lo Stato
francese era suddiviso in 83 dipartimenti dotati di un’amministrazione autonoma. Le cariche amministrative e giudiziarie divennero elettive. Già nel 1791 i sovrani di Austria e Prussia, temendo la diffusione in Europa del contagio rivoluzionario, avevano minacciato di intervenire militarmente contro la Francia. Anche all’interno del paese erano sempre più numerosi coloro che spingevano per un
intervento militare. Nell’aprile del 1792 l’Assemblea Legislativa approvò la dichiarazione di guerra
all’Austria e alla Prussia. Poichè i primi insuccessi furono conseguiti proprio dalla Francia, l’Assemblea Legislativa decise allora l’elezione a suffragio universale di una nuova assemblea, la Convenzione. Il 21 settembre la Convenzione proclamò “la repubblica francese una indivisibile” e il 22 settembre fu posto come inizio dell’anno I della Repubblica. All’interno della nuova assemblea si formarono tre schieramenti politici: la Gironda, che voleva frenare le rivendicazioni della popolazione;
la Montagna, guidata da Robespierre e Saint- Just, che puntava a un’alleanza con il popolo; la Pianura composta per la maggioranza da incerti ed esitanti.
Il primo scontro tra girondini e montagnardi si ebbe a proposito della sorte da destinare al re: i primi tentarono di salvarlo proponendo in alternativa alla pena di morte l’esilio, ma alla fine prevalse
la proposta di condanna a morte avanzata dai Montagnardi. La condanna fu eseguita il 21 gennaio
del 1793. Anche l’evoluzione delle vicende belliche accentuò i contrasti tra girondini e montagnardi. Alla fine del 1792 le vittorie di Valmy e di Jemappes avevano permesso alle armate rivoluzionarie di occupare la Savoia e il Belgio. Nella primavera del 1793, però, la situazione si era complicata, per cui la Convenzione decretò la leva di 300 mila uomini, ma questa decisione provocò una delle più gravi rivolte controrivoluzionarie, quella della Vandea, dando una nuova spinta al processo rivoluzionario. I pericoli interni ed esterni che minacciavano la repubblica convinsero i deputati della
Convenzione a formare due nuove istituzioni: un Tribunale rivoluzionario, al quale venne affidato il
compito di controllare e arrestare chiunque tramasse contro la repubblica e il Comitato di salute pubblica, diretto da Danton. A questa prova di forza dei montagnardi i girondini reagirono favorendo lo
scoppio di rivolte federalistiche nei dipartimenti dell’est e del sud della Francia. Ma intervenne il
movimento popolare dei sanculotti, diretto e sobillato dai gruppi più rivoluzionari e violenti, detti
“arrabbiati”: agli inizi di giugno la folla parigina, appoggiata dalla guardia nazionale, costrinse i deputati girondini a dimettersi. Era la vittoria definitiva dei giacobini e dei montagnardi che governarono la Francia per circa un anno. Le prime importanti decisioni del nuovo governo rivoluzionario
furono la proclamazione della leva di massa, l’imposizione di un maximum sui prezzi e sui salari e
una nuova Costituzione democratica, che prevedeva l’approvazione popolare di ogni legge median-
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te plebisciti; tuttavia questa Costituzione non entrò mai in vigore perché il governo francese decise
di rimanere rivoluzionario fino al raggiungimento della pace. A seguito dell’approvazione della Costituzione, montagnardi e giacobini si trovarono di fronte a due gravi pericoli: gli eserciti stranieri
che minacciavano un’invasione e le rivolte nella Vandea e nelle altre regioni francesi. La minaccia
esterna fu bloccata efficacemente con l’ausilio di un esercito composto da un milione di soldati animati da grande spirito patriottico. Tuttavia i capi giacobini ritenevano che, per difendere la rivoluzione, era necessario colpire i nemici interni, cioè coloro che tramavano con lo straniero. Ebbe così
inizio il periodo più drammatico e violento della rivoluzione, durante il quale venivano arrestati tutti coloro che erano sospettati di essere contrari alla rivoluzione. Per far fronte a questi soprusi si formò un’alleanza tra i giacobini, stanchi del Terrore, e i deputati corrotti, che il 9 termidoro (27 luglio)
1794 fecero arrestare e ghigliottinare senza processo Robespierre e gli altri capi montagnardi. Abolita la Costituzione democratica del 1793, che del resto non era entrata mai in vigore, ne fu approvata una nuova nel settembre del 1795: il potere legislativo era affidato a due camere elette da un numero ristretto di cittadini; il governo venne affidato ad un Direttorio composto da cinque membri. La
rivoluzione francese poteva dirsi terminata.
2. Napoleone e l’Europa
Vincendo l’assedio delle monarchie europee coalizzate, la Francia repubblicana passò al contrattacco. Le armate rivoluzionarie dal 1793 al 1797 respinsero la minaccia della prima coalizione, guidata dall’Inghilterra e dall’Austria, ed estesero i confini francesi con l’annessione dei Paesi Bassi austriaci, di Nizza e della Savoia; inoltre favorirono la nascita delle repubbliche cosiddette “sorelle” in
Olanda (Repubblica Batava), in Svizzera (Repubblica Elvetica) e in Italia (Repubbliche Cisalpina,
Cispadana, Napoletana).
Un ruolo fondamentale in questa espansione militare fu sostenuto dal giovane generale Napoleone
Bonaparte, al quale era stato affidato il compito di intervenire in Italia.
L’ingresso delle truppe napoleoniche in Italia e le vittorie sugli eserciti piemontesi ed austriaci favorirono la nascita di alcune repubbliche ispirate ai principi della rivoluzione francese. Nel dicembre del
1796 le popolazioni di Reggio, Modena e Bologna proclamarono la Repubblica Cispadana, che, tuttavia, ebbe vita breve, in quanto nel luglio del 1797 fu sciolta da Napoleone e accorpata alla Repubblica Cisalpina sorta in Lombardia. Infine nel gennaio del 1799 a Napoli, in seguito alla penetrazione
dell’eser­ci­to napoleonico nell’Italia centrale e meridionale, fu fondata la Repubblica Napoletana. L’arrivo dell’esercito napoleonico era stato accolto non soltanto dall’entusiasmo dei giacobini italiani, ma
anche dallo scoppio di rivolte antifrancesi in diverse zone dell’Italia centro-settentrionale, duramente
represse dalle truppe francesi. Ma nel 1799, dopo il ritorno in Francia di Napoleone, un esercito austro-russo avanzò nella pianura padana mettendo in difficoltà le truppe di occupazione francesi: questo fu l’inizio di una vasta ondata di insurrezioni controrivoluzionarie in tutta l’Italia.
Nel 1802 i territori della Repubblica Cisalpina e della Repubblica di Venezia furono riuniti nella Repubblica italiana sotto la presidenza di Napoleone, mentre il Piemonte fu annesso alla Francia.
Forte dei successi militari ottenuti in Italia, Napoleone nel 1799 attuò un colpo di Stato che gli permise di assumere la carica di primo console. Il compito fondamentale che Napoleone assunse fu quello di mettere fine al periodo rivoluzionario, garantendo ai francesi la pace civile e la sicurezza delle
persone e della proprietà. Per realizzare questo progetto, Napoleone, con la nuova costituzione del
1799, diede alla Francia un’organizzazione politica molto accentrata e autoritaria. Di fatto il potere
legislativo ed esecutivo furono concentrati nelle mani del primo console. I cittadini erano chiamati
a decidere in occasione di alcuni plebisciti e le assemblee locali elette dal popolo furono soppresse
e sostituite da sindaci di nomina governativa. Un altro importante strumento della pacificazione fu il
Concordato firmato tra Stato e Chiesa nel 1801: in base a tale accordo lo Stato garantiva alla Chiesa
libertà di culto, mentre la Chiesa garantiva la sua fedeltà allo Stato attraverso il giuramento dei sacerdoti alla nuova costituzione. Diventato ormai arbitro della vita politica della Francia, Napoleone
giunse a trasformare definitivamente il suo potere personale in un regime assolutista: nel 1802 fu nominato console a vita e nel 1804 fu proclamato imperatore dei francesi. Con il passaggio dal consolato alla monarchia la Francia perse ogni parvenza di repubblica e di democrazia, anche le libertà ci-
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Parte Seconda • Programma d’esame - Prova orale
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vili subirono una drastica limitazione e la polizia divenne uno strumento di controllo della vita pubblica e privata dei cittadini.
Dopo aver rafforzato il suo potere, Napoleone riprese la guerra contro le altre potenze europee. Nel
giro di pochi anni, dal 1800 al 1812, affrontò diverse coalizioni, guidate dall’Austria e dall’Inghilterra, e giunse a conquistare un impero senza precedenti nella storia francese. Successivamente gli
eserciti di Napoleone furono impegnati contro le potenze della seconda e terza coalizione e conseguirono brillanti vittorie a Marengo e Ulma contro gli austriaci e ad Austerlitz contro gli austro-russi. Intanto una flotta inglese con a capo l’ammiraglio Nelson si assicurava il controllo sui mari, battendo i francesi a Trafalgar. Per spezzare questo predominio nel 1806 Napoleone impose il blocco
continentale, ossia il blocco di qualsiasi rapporto commerciale tra l’Europa e l’Inghilterra.
Nel 1812, al culmine della sua potenza, Napoleone dominava gran parte dell’Eu­ropa continentale:
sul trono di alcuni importanti regni europei Napoleone aveva posto suoi parenti; quanto al Regno
d’Italia la corona era stata assunta dallo stesso Napo­leone, che aveva nominato come vicerè il figlio
adottivo Eugenio Beauharnais.
Durante il suo regno Napoleone aveva battuto le potenze continentali dell’Europa costringendole a diventare sue alleate; ma la principale avversaria della Francia, l’Inghilterra, conservava il predominio
sui mari. Proprio per sbloccare questa situazione Napoleone decise di intervenire nella regione iberica, occupando il Portogallo e facendo destituire il re di Spagna Carlo IV per porre al suo posto il fratello Giuseppe, decisione che causò la ribellione degli Spagnoli. Intanto ad Oriente nuove difficoltà si
profilavano per il Bonaparte. Infatti lo zar Alessandro I aveva deciso di riprendere i commerci con
l’Inghilterra e aveva indebolito la sua alleanza con la Francia. La risposta di Napoleone fu la mobilitazione di una “grande armata”, che nel giugno del 1812 iniziò a marciare in territorio russo. Inizialmente le truppe francesi riuscirono a conseguire alcune vittorie, ma Napoleone aveva sottovalutato
l’inverno russo. Privo di rifornimenti e con l’inverno ormai alle porte, l’esercito napoleonico fu costretto a una ritirata che si trasformò in una tremenda catastrofe per la grande armata. Abbandonati i
resti dell’armata di Russia, Napoleone si precipitò a Parigi per prepararsi a fronteggiare la nuova coalizione formata da potenze antifrancesi. In una prima fase riuscì a conseguire alcune vittorie, ma a
Lipsia, nell’ottobre del 1813, gli eserciti della coalizione inflissero una terribile sconfitta alle truppe
francesi. Il 6 aprile 1814 Napoleone fu costretto ad abdicare in favore di Luigi XVIII e a trasferirsi
nell’isola d’Elba concessagli come principato personale. Appena un anno dopo, Napoleone, spinto dal
desiderio di rivincita e dal malcontento suscitato in Francia dalla politica del nuovo re, volle giocare
l’ultima carta. Fuggito dall’isola d’Elba, sbarcò sul suolo francese dove riuscì a raccogliere un nuovo
esercito. Ma le armate anglo-prussiane inflissero una nuova decisiva sconfitta all’esercito napoleonico nella battaglia di Waterloo, il 18 giugno del 1815. Costretto di nuovo ad abdicare, Napoleone fu
esiliato dagli Inglesi sull’isola di Sant’Elena, dove morì il 5 maggio del 1821.
3. Rivoluzione Industriale e Società Contemporanea
Nonostante nella prima metà dell’Ottocento fosse ancora l’agricoltura il settore dominante dell’economia europea (da essa dipendeva la sussistenza delle varie popolazioni), già cominciavano a prendere vita fenomeni innovativi, che si riassunsero presto nella denominazione di “industrializzazione”.
Tra il 1820 e il 1840 la maggiore concentrazione di aree industrializzate si ebbe nelle zone pianeggianti e collinari della Gran Bretagna, del Belgio, della Francia del Nord, della Germania, fino ai confini della Polonia.
Ovviamente, tale sviluppo industriale coincise con l’abolizione totale degli antichi sistemi feudali;
il processo di innovazione variò di Paese in Paese e fu raggiunto prima negli Stati dove l’abbattimento dei vecchi sistemi si era verificato da più tempo.
Rispetto al resto d’Europa, l’Italia ebbe un’industrializzazione più tardiva, che potrebbe datarsi tra
il 1896 e gli inizi del ’900 e il cui processo fu ulteriormente rallentato dal profondo divario economico e sociale esistente fra le regioni del Nord e quelle del Sud.
Tra l’altro l’Italia era priva di un’unità politica che le avrebbe permesso di costituire, come in Francia e in Inghilterra, una seppur minima forma di mercato unificato. Barriere doganali, dazi e da ostacoli di ogni genere limitavano gli scambi tra gli Stati regionali; per un lunghissimo periodo mancò
una valida rete di comunicazione stradale e ferroviaria che facilitasse la circolazione delle merci.
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Ogni singolo Stato operava entro i propri confini mantenendo un sistema di sostanziale autarchia.
Nella struttura della società dell’Ottocento i tradizionali ceti, in base ai quali un uomo era tale solo
se dalla nascita era stato circondato da un contesto di prestigio e antichità nobiliari, vennero sostituiti con le “classi”: la borghesia formata da capitalisti, imprenditori medi e piccoli, professionisti, burocrati; il proletariato, che costituisce la manodopera industriale e i contadini.
In base ai principi del nuovo sistema di produzione industriale, fondato sul lavoro retribuito (salario)
e sulla fabbrica, dovette necessariamente prendere vita una massa di popolazione priva di possibilità di autosostenersi e pertanto disponibile a vendere la propria capacità lavorativa a coloro che disponevano degli strumenti da lavoro.
Tale “classe” si concretizzò nel proletariato, composto da uomini formalmente liberi ma assoggettati ad un
rapporto di lavoro dipendente, che prevedeva l’incondizionata offerta di se stessi sul mercato del lavoro.
Alla complessa formazione del proletariato contribuirono diversi fattori: da un lato la crisi delle tradizionali strutture artigianali che portò alla dipendenza da un unico imprenditore migliaia di piccoli
produttori indipendenti; dall’altro, la recinzione delle terre e l’espulsione dal settore agricolo di tutta la manodopera in eccesso che, in concomitanza col boom demografico verificatosi in quegli anni,
diede luogo ad una consistente massa di vagabondi spinti verso le città industrializzate.
Tra quella moltitudine i primi imprenditori reclutavano gli uomini più adatti al nuovo sistema produttivo, basato essenzialmente sulla manifattura.
La produzione era concentrata nell’attività del proprietario della “bottega”: gli operai dovevano utilizzare al massimo le fonti di energia per far funzionare il rudimentale complesso di macchine. Il proprietario era il coordinatore di tutte le operazioni assegnate ai vari lavoratori, sincronizzate al punto
da poter fornire in fretta il prodotto finito.
Quella “catena di montaggio” era regolata da una lunga serie di doveri (regolamenti di fabbrica) cui
ogni dipendente era subordinato, nonché dagli uniformi e rigidi orari di lavoro nella giornata lavorativa, variante dalle 15 alle 16 ore.
In quasi tutte le cronache sociali tra il XVIII e il XIX secolo vennero palesate le miserabili, quanto
pietose condizioni delle classi lavoratrici e, in particolare, del proletariato urbano di fabbrica. Vi fu
una vera e propria denuncia di tutti gli orrori connessi al periodo dell’industrializzazione e alla vita
nei quartieri poveri delle città industriali.
Queste cronache rivelano un incredibile paradosso: l’aumento della produttività, dei controlli nei luoghi di lavoro, della disciplina tra i vari lavoratori, l’incremento sensibile della ricchezza, l’innovazione dei sistemi di produzione, i vari macchinari, generarono comunque un netto impoverimento di
quella popolazione che contribuiva direttamente al cambiamento.
Le ragioni furono molteplici, ma per lo più questo fenomeno va attribuito alle trasformazioni tecniche e sociali prodotte dalla rivoluzione industriale ed alla modalità con cui il lavoro nelle industrie
veniva svolto.
Non si trattava di metodi di produzione a misura umana; l’uomo veniva sfruttato più di una semplice macchina e la nuova società, il cui obiettivo principale era di produrre al massimo per la maggiore ricchezza, non si curò mai del sempre crescente disagio di coloro che vivevano in condizioni ai limiti dell’umana sopportazione.
In questo periodo si svilupparono in Inghilterra i primi movimenti operai, tra cui va ricordato il “Luddismo” che a partire dal 1811 segnò il passaggio dalla protesta generica e disarticolata alle forme di
organizzazione più moderna dei lavoratori. Successivamente, si sviluppò in Gran Bretagna un nuovo movimento chiamato “Cartismo” dal nome di una pubblicazione, nel maggio 1838, di una “Carta del Popolo” che conteneva sei richieste da parte di uomini del movimento sindacale che speravano di migliorare le condizioni del lavoro operaio. Comunque anche quel movimento, per contrasti
interni, ebbe vita breve e scomparve intorno al 1848.
4. La Restaurazione e le Rivoluzioni Europee degli Anni ’20 e ’30
Congresso di Vienna
I rappresentanti delle grandi potenze riunitisi a Vienna tra l’ottobre 1814 e il giugno 1815 si trovarono di fronte ad un compito molto arduo: dare un nuovo assetto geopolitico all’Europa sconvolta
dalla Rivoluzione Francese e dalle guerre napoleoniche.
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La rivoluzione, infatti, aveva scatenato nuove energie politiche che sarebbe stato impossibile contenere nei vecchi sistemi e aveva fatto emergere nuove forze sociali fino ad allora rimaste ai margini.
D’altro canto la “razionalizzazione delle frontiere” voluta da Napoleone aveva cambiato radicalmente il territorio del continente, sopprimendo una moltitudine di signorie feudali. Anche la rivoluzione
giuridica attuata con il “Codice Napoleone” aveva determinato una drastica trasformazione dei rapporti di proprietà a svantaggio dell’aristocrazia, gettando il seme per la nascita di un nuovo ceto di
ricchi speculatori.
Nonostante tutto ciò si volle a tutti i costi ripristinare l’ordine europeo eliminando ogni residuo legato ai principi della Rivoluzione Francese; questo si poteva concretizzare solo tramite un chiaro richiamo al passato. Di qui la contraddizione tra immobilismo politico e sviluppo sociale da cui sarebbero in seguito derivate le tensioni proprie dell’età della Restaurazione.
La nuova carta geografica d’Europa fu disegnata in modo tale da impedire alla Francia di ritentare
un’ulteriore avventura rivoluzionaria. Servì un accurato lavoro per ridefinire i confini tra i vari Stati
in modo da assicurarne la stabilità e soprattutto fu necessario consolidare il potere nelle mani di governanti legati ideologicamente al passato.
Tra le Nazioni vincitrici partecipanti al Cogresso, l’Inghilterra e la Russia si schierarono su fronti
diametralmente opposti: l’Inghilterra propose un liberalismo innovativo, moderato, mentre la Russia restò fedele ai propri valori di un’aristocrazia ultra-conservatrice e contraria a qualsiasi mobilità.
La Prussia mirava ad espandersi; l’Austria desiderava diventare elemento essenziale di mediazione;
infine la Francia, sconfitta, era certamente incapace di riassumere a breve termine un ruolo egemonico.
I partecipanti al Congresso decisero innanzitutto le sorti della Francia, che mantenne gli stessi territori del 1792 (tranne una parte della Savoia restituita al Piemonte) e i domini coloniali, in virtù del
trattato di Parigi del 30 maggio 1814, ma fu costretta a pagare 700 milioni di indennità di guerra. Ai
suoi confini fu costituita una cintura di Stati indipendenti per scongiurare qualsiasi tentativo da parte francese di nuova espansione: a nord il Regno dei Paesi Bassi - Belgio e Olanda; a sud-est il regno di Sardegna e la Confederazione svizzera (comprendente 22 cantoni) dichiarata neutra; ad est
gli Stati tedeschi (Confederazione germanica) e la Prussia che riuscì ad ottenere la Pomerania svedese e la Vestfalia. Grazie all’abilità del suo rappresentante, Talleyrand, comunque, la Francia sfruttò i contrasti fra vincitori e fece valere a suo vantaggio il principio di legittimità, secondo cui dovevano essere restaurati i diritti “legittimi”, violati dalla rivoluzione e dunque anche quelli dei Borboni di Francia.
Sul versante delle potenze vincitrici, la Russia conservò la Finlandia ed ottenne la Bessarabia; l’Inghilterra rafforzò il suo dominio sui mari mantenendo le isole di Malta (Mediterraneo), di Trinidad,
Tobago e Santa Lucia (Antille), e di Ceylon (Oceano Indiano), del Capo di Buona Speranza e delle
Isole Ionie.
L’Austria, infine, si confermò come impero multinazionale sotto la dinastia degli Asburgo; fu confermato il dominio sui territori dell’Ungheria, Boemia, Bucovina, Galizia e Croazia, nonché la piena egemonia in Italia.
Quest’ultima non ottenne a Vienna alcun risultato positivo, in quanto reputata una semplice “espressione geografica” (come la definì il cancelliere austriaco Metternich), ma fu subordinata alle esigenze egemoniche della potenza asburgica.
Infatti risultò così divisa:
1. Regno di Sardegna, comprendente il Piemonte, la Savoia, Nizza, la Sardegna e la Liguria: fu restituito a Vittorio Emanuele I di Savoia.
2. Regno Lombardo-Veneto, comprendente la Lombardia e il Veneto, governato direttamente dall’Austria.
3. Ducato di Parma, Piacenza e Guastalla: fu affidato a Maria Luisa d’Austria, seconda moglie di
Napoleone.
4. Ducato di Modena e Reggio: fu assegnato a Francesco IV d’Este.
5. Ducato di Massa e Carrara: fu assegnato a Maria Beatrice d’Austria-Este.
6. Ducato di Lucca, fu assegnato ai Borboni di Parma.
7. Granducato di Toscana, fu restituito a Ferdinando III di Lorena.
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8. Stato Pontificio, comprendente il Lazio, l’Umbria, le Marche e la Romagna; fu restituito al Papa
Pio VII.
9. Regno delle Due Sicilie, comprendente la Campania, l’Abruzzo, il Molise, le Puglie, la Basilicata, la Calabria e la Sicilia; fu restituito a Ferdinando IV di Borbone, il quale rinunciò al titolo di
re di Napoli e di Sicilia per assumere quello di Ferdinando I re delle Due Sicilie.
Ad eccezione del Regno di Sardegna e dello Stato Pontificio, tutti gli altri Stati erano governati direttamente o indirettamente dall’Austria e le popolazioni subivano le conseguenze del “clima di reazione” instaurato dai Principi ritornati sui troni.
Il liberalismo e il socialismo utopistico
Nell’età della Restaurazione si formarono, in tutti gli Stati d’Europa, due opposti schieramenti politici ed ideologici, che spesso furono causa di cruenti scontri: i partigiani dell’antico regime, fautori
del principio d’autorità e i liberali e democratici, assertori dei diritti di libertà degli uomini e dei popoli.
Proprio sulle idee di libertà, che si rifacevano al pensiero di Locke e di Montesquieu, si fondò il “liberalismo” che aveva come idee-guida la tolleranza, la libertà di opinione, il principio rappresentativo, la divisione dei poteri, la difesa del singolo contro i soprusi dell’autorità.
In Europa le idee del liberalismo si avvicinarono a quelle della monarchia parlamentare britannica
che tendeva a rispettare i diritti fondamentali del cittadino, quali libertà di pensiero, di stampa e di
associazione, ma anche ad incoraggiare l’iniziativa privata ed il commercio ed auspicava che un numero ristretto di cittadini, realmente interessati all’andamento della cosa pubblica, detenesse il potere centrale. Lo Stato dei liberali si diversificava, dunque, da quello dei democratici, che si basava sul
concetto di sovranità popolare, come governo di tutto il popolo e si riallacciava all’esperienza giacobina della Rivoluzione Francese.
La repubblica era per i democratici la forma di governo ideale ed il voto doveva avvenire attraverso
il suffragio universale, che avrebbe in tal modo garantito la giustizia sociale. Il punto di vista di democratici e liberali era però concorde nella lotta contro i principi assolutisti. Gli obiettivi comuni erano la Costituzione, il Parlamento elettivo e la garanzia delle libertà fondamentali. Inoltre, tutti gli
Stati che si opponevano al vecchio regime avevano come programma l’indipendenza nazionale, considerata un’applicazione del principio di sovranità popolare, una estensione dei diritti fondamentali
del cittadino.
Contrasti e lotte per l’indipendenza e la libertà
Ogni Paese europeo, dopo il Congresso di Vienna, decise di restaurare nuovamente gli antichi regimi aristocratici; tuttavia, l’impresa non fu facile, dato che ancora sussistevano i segni lasciati in campo economico, politico e religioso dal regime napoleonico.
Lo spirito riformista settecentesco, nonché quello rivoluzionario napoleonico avevano dato vita ad
una classe medio-borghese sempre più intenzionata ad assumere totalmente l’amministrazione pubblica; alcuni borghesi si erano appropriati di beni ecclesiastici; conventi e gruppi religiosi erano stati definitivamente soppressi; non esistevano più i privilegi feudali, mentre la mentalità era irrimediabilmente cambiata.
Gli anni napoleonici avevano lasciato il segno e fu questa la situazione che si presentò all’aristocrazia dopo la Restaurazione. Tuttavia, essa riuscì a ristabilire la propria sede nelle grandi corti, nonché
a ricoprire nuovamente le alte cariche dello Stato, dell’esercito, della diplomazia.
La borghesia piccola e media, mercantile ed industriale, subì una brusca frenata, dovuta soprattutto
alla crisi economica dei primi anni della Restaurazione, caratterizzata dall’improvviso aumento dei
prezzi dei prodotti agricoli e dalla diminuzione di quelli industriali; in alcune zone rurali, poi, l’antico sistema feudale riuscì ad instaurare il vecchio rapporto di lavoro (padrone-contadino) con i lavoratori delle terre.
Il periodo della Restaurazione, però, fu segnato anche dai contrasti insorti fra le forze che lo generarono: da un lato, coloro che in Francia erano chiamati ultraroyalistes si batterono per riportare la società al riformismo settecentesco, basato sul potere dell’aristocrazia e sul ridimensionamento del potere della Corona; di contro, vi furono esponenti della classe dirigente e dell’assolutismo illuminato
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Parte Seconda • Programma d’esame - Prova orale
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che, poiché non era possibile eliminare per sempre le tracce lasciate dal periodo precedente, sostennero la conciliazione fra il vecchio e il nuovo.
Tali divergenze finirono per dar nuova forza alla borghesia progressista, fino a quel momento rimasta
nell’ombra, che riprese con vigore la sua ascesa politica ed economica, anche se non priva di ostacoli.
La Chiesa
Nel campo religioso, i fautori della Restaurazione cercarono di conciliare il trono e la Chiesa, dopo
aver capito l’importanza che quest’ultima aveva per la società, ma anche (e soprattutto) dopo aver
assistito al crollo dei valori illuministici e razionalistici, tipici del Settecento.
Il clero, da parte sua, iniziò a staccarsi dallo Stato, divenendo più autonomo ed indipendente, perciò
la Restaurazione non potè pretendere di impadronirsi nuovamente della Chiesa, anche se fu tale principio (giurisdizionalismo) a spingerla ad agire. A tal proposito le forze furono contrastanti, per cui ci
fu chi mirò a formare un’unica istituzione tra lo Stato e la Chiesa e chi credette nell’autonomia di
quest’ultima per la creazione di una nuova concezione teocratica.
Tutti i progetti vennero messi in discussione nel giro di poco tempo e il periodo della Restaurazione
non portò ad alcun cambiamento, né nell’antico né nel nuovo, ma preparò gli uomini all’elaborazione di nuove rivoluzioni indipendentiste.
Il Congresso di Vienna, tra l’altro, aveva imposto condizioni che da molti Paesi europei furono considerate insostenibili, per cui la lotta per la libertà si associò a quella per l’indipendenza nazionale.
In Belgio, in Polonia e in Irlanda divenne, altresì, sempre più forte l’esigenza di conquistare anche
la libertà religiosa.
Le sette segrete
La lotta politica contro i valori imposti dalla Restaurazione non potè essere da tutti intrapresa in modo
palese; negli Stati caratterizzati da forme di governo autoritario si formarono sette segrete che furono immediatamente contrastate da una dura reazione. Le sette diffusesi in numerosi Paesi europei, a
seconda dei loro principi, si differenziarono fra loro, diventando sette indipendentistiche, liberal-costituzionali, o democratico-repubblicane. La loro struttura gerarchica prese spunto dalla Massoneria:
la forte rigidità fra i vari gradi dei componenti impedì a chiunque (persino agli stessi associati) di conoscere i reali scopi che la setta si era prefissata; non solo, grazie a tale gerarchia, ogni setta potè avvalersi di affiliati esterni, che disconoscevano totalmente la sua esistenza, per venire a conoscenza
di fatti a cui non le era mai stato possibile accedere.
Sia le sette democratico-repubblicane che quelle liberal-costituzionali, inoltre, operavano delle rigide selezioni dei propri associati, per raggiungere un alto livello di perfezione della propria organizzazione. La più importante fra le sette democratico-repubblicane fu la Carboneria, inizialmente fondata nel Meridione su principi di indipendenza dallo straniero e successivamente diffusasi nell’Italia centrale, nelle Romagne, fino al Settentrione in Piemonte e Lombardia.
Le sette liberal-costituzionali avevano dei precedenti nel periodo settecentesco e napoleonico e la
loro struttura fu, almeno dal punto di vista organizzativo, uguale a quella delle loro antagoniste, mentre la sostanza (soprattutto nel modo di propagandarsi) ebbe carattere puramente religioso. Infatti,
esse nacquero come laicato cattolico, per appoggiare l’azione della Chiesa, nel pieno rispetto della
S. Sede e del Papa.
Furono, pertanto, all’origine delle associazioni cattoliche dell’Ottocento, nonché della più tarda vera
e propria Azione Cattolica.
Metternich e la Santa Alleanza
Le forze fautrici della Restaurazione ricevettero pieno sostegno dal cancelliere dell’impero austriaco Metternich che, con i suoi metodi in campo di politica interna ed estera, rappresentò un vero e
proprio ostacolo per coloro che si opposero ai modelli di quel periodo.
La Santa Alleanza, nata su iniziativa dello zar Alessandro I, fu un patto in base al quale Austria, Russia e Prussia si impegnarono a prestarsi reciproco soccorso nel caso in cui si fossero verificati, all’interno dei singoli Stati, sconvolgimenti che mettessero in pericolo l’assetto politico stabilito dal Congresso di Vienna.
Storia contemporanea • Capitolo I • L’Europa e l’Italia alla vigilia del ’48 e la prima guerra d’indipendenza
La Santa Alleanza, sul piano europeo, fu lo strumento di cui Metternich si avvalse per assicurare l’integrità dell’assetto territoriale stabilito al Congresso di Vienna. L’alleanza con l’Inghilterra rimase pressoché intatta fino al 1820, cioè fino a quando ciascuno degli Stati membri non stabilì il diritto di intervenire militarmente contro qualsiasi insurrezione che si verificasse in uno di
essi.
Il Metternich, quindi, con l’Inghilterra, la Prussia e la Russia alleate, diede vita ad un ampio schieramento di potenti che poterono avvalersi di valide forze di polizia e di eserciti, contro qualsiasi tentativo esterno o interno di ribellione.
La Rivoluzione Spagnola del 1820 e la concessione dal re della Costituzione
Dopo la deportazione di Napoleone, Ferdinando VII, re di Spagna, tornò in patria ed instaurò il vecchio regime, ristabilendo i privilegi del clero e dell’aristocrazia e revocando immediatamente anche
la Costituzione di Cadice del 1812.
In quello stesso periodo insorsero le colonie spagnole nell’America meridionale, le quali costituivano per il Paese una importante fonte di ricchezza soprattutto per risanare le gravi perdite subite durante il conflitto contro la Francia. La Spagna cercò quindi di frenare i rivoltosi, con l’intervento del
governo che impose il pagamento delle tasse anche al clero e all’aristocrazia. È ovvio che tale provvedimento non riscosse alcun successo, ma servì ad inasprire maggiormente le due classi (soprattutto il clero).
Ai gruppi di borghesi liberali che operavano in segreto nell’ambito delle sette si aggregarono anche
ufficiali mal pagati e delusi dall’ingratitudine del re. Tale associazione portò allo scoppio della rivoluzione di Cadice il 1° gennaio 1820: capeggiata dal giovane ufficiale Raffaele Riego, aveva come
scopo risolutivo il ripristino della Costituzione del 1812. Con l’allargamento della rivolta anche ad
altre regioni del Paese, il re dovette cedere: accettò la costituzione e mediante la convocazione delle Cortes (Parlamento) fece anche abolire l’Inquisizione.
La Santa Alleanza non intervenne, col timore di essere poi coinvolta in un conflitto nazionale grave
quanto quello scatenato dagli spagnoli contro Napoleone.
Come era prevedibile, la rivolta spagnola ebbe risonanza non indifferente anche in altre parti d’Europa: a febbraio fu assassinato l’erede al trono di Francia, il duca di Berry e a luglio ci fu l’insurrezione nel regno delle Due Sicilie.
La Costituzione anche nel Regno delle Due Sicilie
Nella notte fra il 1° e il 2 luglio 1820 alcuni carbonari e un gruppo di soldati di cavalleria diedero il
via alla rivoluzione del Regno delle Due Sicilie.
Molti dei soldati inviati contro di loro, sostenendo pienamente le idee di libertà dei rivoltosi, finirono per allearvisi, finché l’intervento di Guglielmo Pepe (noto patriota militare) che prese le redini
della sommossa, capeggiando la rivolta diede una svolta decisiva alla situazione. Ferdinando I, a quel
punto, fu costretto a cedere, promettendo una costituzione e nominando vicario del regno suo figlio
Francesco, Duca di Calabria. Successivamente, quest’ultimo, pressato dai carbonari, fu costretto a
concedere la costituzione di Spagna.
A Palermo, fra il 15 e il 16 luglio scoppiò una rivolta di artigiani e operai, che reclamavano l’indipendenza da Napoli e la costituzione spagnola.
Allorché l’insurrezione si propagò anche ad altre città della Sicilia, il governo di Napoli vi inviò il
generale Florestano Pepe (fratello di Guglielmo) il quale firmò con il governo palermitano l’accordo di Termini Imerese. Esso prevedeva che l’elezione di un governo e di un parlamento propri della
Sicilia spettasse ad una giunta di deputati da eleggere in tutta l’isola. A quel punto il popolo, viste
tradite le sue aspirazioni di indipendenza proprio dalla borghesia e dalla nobiltà, insorse nuovamente, ed impose alla nuova giunta di firmare un trattato che, sebbene desse ai rivoltosi qualche concessione, ribadiva nella sostanza l’accordo di Termini Imerese.
Il governo napoletano si oppose con forza a tale decisione e, al posto di Pepe, inviò in Sicilia il generale Pietro Colletta il quale impose ai rivoltosi di sottostare ad un unico governo centrale, ma così
facendo contribuì ad inasprire maggiormente i contrasti tra le forze indipendentistiche opposte.
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Parte Seconda • Programma d’esame - Prova orale
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Le insurrezioni nel Regno di Sardegna
L’insurrezione di Palermo fomentò anche gli indipendentisti del Piemonte e della Lombardia. In fermento già da qualche tempo, la Carboneria e i Federati si accordarono per provocare un’ampia rivoluzione, che coinvolgesse tutto il Settentrione.
I Federati piemontesi, sostenuti dal conte Santorre di Santarosa, miravano ad ottenere, con i Federati lombardi di Confalonieri, la realizzazione di un regno dell’Alta Italia sotto i Savoia. Ovviamente,
entrambi i gruppi credevano di avere dalla loro anche il principe Carlo Alberto, che da un po’ di tempo dimostrava apprezzamento per le idee liberali di giovani aristocratici. All’inizio il principe, quando il conte Santorre di Santarosa lo informò dei piani insurrezionali in corso sia in Lombardia che in
Piemonte, si mostrò pienamente d’accordo ma poi, corroso da timori e scrupoli, si tirò indietro svelando le intenzioni dei Federati.
Il moto rivoluzionario scoppiò ugualmente ad Alessandria, il 10 marzo, propagandosi poi anche a
Torino. Vittorio Emanuele I abdicò in favore del fratello Carlo Felice che, trovandosi momentaneamente a Modena, affidò a Carlo Alberto la reggenza. Questi, a seguito delle continue e forti pressioni dei democratici, concesse la costituzione spagnola il 14 marzo 1821, mentre i patrioti lombardi,
appoggiati dal Santa­rosa, invitavano Carlo Alberto a muoversi contro l’Austria. Carlo Felice, apprese le notizie di quel nuovo clima, dichiarò nulli tutti gli atti compiuti da Carlo Alberto fino a quel momento e lo chiamò immediatamente a Novara. Carlo Alberto aveva acconsentito alla guerra antiaustriaca, ma proprio quel giorno stesso partì per Novara. Carlo Felice, intanto, chiese alle forze della
Santa Alleanza di intervenire, mentre già gli Austriaci attraversavano il Ticino. La rivolta fallì l’8
aprile 1821 con il successo delle truppe regie a Novara, dopo di che entrarono a Torino. Il Santarosa e altri patrioti fuggirono in Grecia, dove combatterono per l’indipendenza di quel Paese.
Moti indipendentistici in America Latina
Nel periodo tra la dominazione napoleonica e i moti del 1820–21 erano nati in America Latina numerosi gruppi indipendentistici appoggiati dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti. Furono i coloni, consapevoli dell’importanza che la loro ricchezza rivestiva per l’America Latina, ingiustamente sfruttata dagli Spagnoli, i principali fautori dei moti rivoluzionari e la loro lotta all’indipendenza portò, infatti, alla creazione di nuovi Stati: Venezuela, Cile, Bolivia, Brasile, Perù, Argentina.
Nel 1823 il presidente degli USA emise una dichiarazione con la quale vietava alle potenze europee
di penetrare, con le proprie idee e i propri metodi, nel continente americano. In sostanza la Santa Alleanza non riuscì a condizionare in alcun modo l’America Latina con i vecchi sistemi spagnoli, anzi
determinò una reazione contraria che spingeva di più verso l’indipendenza e la libertà promosse dalle ideologie inglesi.
5. La svolta liberale nel 1830 in Francia e in Italia
In Francia, l’ascesa al trono del conte di Artois, con il nome di Carlo X, fu la spinta decisiva all’insurrezione. Con l’appoggio del principe di Polignac, allora capo del governo, Carlo X tentò di abolire le libertà politiche di cui godevano i borghesi liberali, provocando però la violenta reazione di
Parigi nel luglio 1830. A quel punto il re fu cacciato e la corona venne ceduta a Luigi Filippo, il quale promise di mantenere sempre fede alla costituzione. Anche il Belgio ottenne la costituzione, la
quale divenne il modello di tutte le correnti liberali d’Europa. In Polonia ci fu un tentativo di rivolta il 29 novembre 1830, duramente represso dalla Russia.
Mentre la Spagna ottenne dalla regina Maria Cristina un regime costituzionale, nel 1834 l’Inghilterra, la Francia, la Spagna e il Portogallo strinsero un patto in netta contrapposizione all’alleanza di
Austria, Prussia e Russia.
L’insurrezione parigina propagò la sua eco anche in Italia, tanto che nel luglio 1830 ebbe luogo un’insurrezione nel ducato di Modena. Capo della rivolta fu Ciro Menotti, che fino all’ultimo credette
nell’appoggio del duca Francesco IV e nelle truppe francesi, ma da nessuna delle due parti ricevette
sostegno. Le truppe austriache intervennero con immediatezza, stroncarono duramente la rivolta e
condannarono a morte Ciro Menotti.
Storia contemporanea • Capitolo I • L’Europa e l’Italia alla vigilia del ’48 e la prima guerra d’indipendenza
Giuseppe Mazzini e l’unità nazionale
La convinzione che i metodi fino a quel momento usati per risolvere la situazione dei popoli oppressi dall’aristocrazia e dal clero fossero stati del tutto inidonei ed infruttuosi, divenne ancora più forte
dopo il fallimento dei moti del 1830–31.
Colui che trasformò l’ideale nazionale in un fatto religioso fu Giuseppe Mazzini, i cui principi si fondarono sulla religione e sulla missione.
Egli non credette che gli ideali che avevano mosso la rivoluzione francese potessero, in qualche
modo, dare una spinta all’Italia per raggiungere l’indipendenza e l’unità da sempre anelate.
Secondo Mazzini era il momento di costruire l’umanità, al di sopra dell’individualismo, dando finalmente inizio ad un’era completamente nuova. A quel punto era la fede che poteva muovere l’unità
verso un comune scopo, un dovere che tutti insieme gli uomini avrebbero dovuto adempiere.
Mazzini sosteneva ideali repubblicani, mentre manteneva le distanze invece dalle ideologie socialiste che volevano fare del popolo (proletariato) un’arma contro le classi padronali, trasformando la
lotta per l’unità e l’indipendenza in lotta di classe.
L’esistenza di una “questione sociale” non fu ignorata da Mazzini, secondo cui la sua risoluzione poteva trovarsi nella formazione di associazioni autonome (i primi sindacati) che non rivendicassero
soltanto il “materiale”, ma credessero maggiormente negli ideali della rivoluzione nazionale.
L’unità nazionale fu il fine primario a cui ogni altra esigenza doveva essere subordinata. Per poter
raggiungere l’unità in cui credeva, Mazzini era consapevole di dover anzitutto raggiungere l’unità
del popolo superando le profonde differenze fra i vari popoli che, sicuramente, avrebbero creato non
poche difficoltà alla creazione di una sola entità nazionale.
I primi fallimenti della Giovine Italia
La Giovine Italia, fondata da Mazzini nel 1831 a Marsiglia, non aveva alcuna attinenza con le sette
segrete del periodo precedente né si prefiggeva i loro obiettivi.
Fu un’associazione aperta a tutti coloro che avevano gli ideali patriottici del suo fondatore, nonché
la stessa voglia di lottare per la libertà.
Furono reclutati molti giovani intellettuali delle città, professori ed artigiani soprattutto in Piemonte, a Genova ed in Sicilia, in concomitanza con l’ascesa al trono di Sardegna del principe Carlo Alberto.
Mazzini non aveva alcuna fiducia in colui che aveva tradito le aspettative dei liberali, tuttavia tentò
di coinvolgerlo nella sua battaglia, purtroppo con esito negativo, come era prevedibile.
L’organizzazione della Giovine Italia fu scoperta a Genova nel 1833 e ciò comportò numerosi arresti e condanne a morte.
Mazzini successivamente organizzò una spedizione di esuli in Savoia, che fallì miseramente, come
il secondo tentativo col quale cercò di far insorgere Genova. A quest’ultimo moto insurrezionale partecipò anche Giuseppe Garibaldi, che trovò scampo in esilio.
Mazzini intentò successivamente altre insurrezioni in Sicilia, in Toscana, nel Lombardo Veneto e negli Abruzzi, ma tutte con esito negativo.
Esiliato a Berna, Mazzini fondò nel 1834 la Giovine Europa, ma tre anni più tardi dovette abbandonare la città e rifugiarsi a Londra. Continuò la sua lotta con maggior vigore e promosse insurrezioni
importanti nel 1843 in Romagna e nel 1845 nello Stato Pontificio, ma ancora una volta senza successo.
Altro atto funesto fu il tentativo dei fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, i quali sbarcati in Calabria
nel 1844, con la convinzione di far insorgere il popolo contro i Borboni, furono immediatamente fermati e catturati dalle forze borboniche.
La loro fucilazione nel vallone di Rovito, vicino a Cosenza, insieme ad altri sette compagni, sollevò
una grande polemica attorno alla Giovine Italia, i cui metodi furono messi sotto accusa.
Il pensiero del Gioberti e del Cattaneo
L’insurrezione popolare sostenuta ed attuata da Mazzini ebbe ideali non bene accetti dai borghesi
dell’epoca, convinti che non era con le manifestazioni di piazza, con la condanna degli aristocratici,
con la lotta contro la Chiesa, che si sarebbe raggiunta l’unità del Paese. A queste conclusioni giunse
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Parte Seconda • Programma d’esame - Prova orale
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anche Vincenzo Gioberti, un intellettuale torinese che aveva aderito alla Giovine Italia. Egli era convinto che per costruire un’unità reale, sia politica che economica, la presenza della Chiesa (alla quale di fatto apparteneva quel tipo di religione che Mazzini avrebbe voluto inculcare negli uomini) fosse preminente per la diffusione di certe ideologie mazziniane. Inoltre c’erano forze molto potenti alle
quali affidarsi per realizzare l’unità d’Italia, ed erano le stesse che Mazzini avrebbe voluto abbattere: i prìncipi.
Gioberti credeva in una confederazione di prìncipi con a capo il Papa; soltanto in quel modo l’Italia
avrebbe potuto difendersi contro lo straniero, ampliare i suoi commerci e quindi migliorare la sua
posizione nell’economia europea. Tale confederazione avrebbe conseguentemente impedito qualsiasi altro tentativo di sommossa da parte del popolo; si sarebbe trattato in sostanza di una nuova organizzazione che avrebbe comunque assicurato l’ordine costituito e mantenuto inalterato il sistema vigente.
Le principali obiezioni al programma del Gioberti riguardavano soprattutto il fatto che il papato
avrebbe, in tal modo, ottenuto un ruolo troppo preminente. Il federalismo propugnato da Carlo Cattaneo consisteva invece in una reale riforma economica del Paese, il cui sviluppo fosse collegato
all’autogoverno locale.
6. Le rivoluzioni del 1848 e la Prima Guerra d’Indipendenza in Italia
La situazione europea prima del 1848
I Paesi europei, negli anni precedenti al 1848, benché diversi fra loro per strutture politiche, economiche e sociali, furono caratterizzati da un comune senso di disagio, che presagiva eventi i quali in
futuro avrebbero portato dei significativi cambiamenti.
L’elemento che avrebbe poi inciso sulle successive evoluzioni storiche di ogni Paese fu il proletariato urbano, le cui condizioni sociali si mostrarono via via sempre più difficili.
La grande borghesia che deteneva il potere economico si preoccupava di produrre sempre nuovo capitale, di ottenere strutture più efficienti e mezzi di produzione più celeri, ma non si curò mai dei lavoratori che, sfruttati al massimo e privi persino di una minima tutela legislativa, versavano in condizioni disumane, ai limiti della sopravvivenza.
La nuova società industrializzata, tipica soprattutto dell’Europa occidentale, non portò vantaggio alcuno alle masse proletarie, le quali, considerate soltanto macchine da lavoro per la produzione, cominciarono ad avvicinarsi sempre di più alle ideologie socialiste.
Il socialismo operò in nome dell’umanitarismo e dell’unità nazionale, dando agli uomini almeno la
sottile speranza di futuri cambiamenti della loro precaria condizione sociale.
Il problema sociale si avvertiva soprattutto nei paesi dell’Europa occidentale, dove la sfrenata corsa
alla produzione e al consumismo aveva dato vita al proletariato urbano; dove, invece, l’economia era
ancora di tipo rurale e semifeudale, si sviluppò l’idea di libertà e di indipendenza dal sistema politico vigente.
La grande ondata di rivoluzioni del 1848 fu generata da alcune gravi crisi economiche che, ovviamente, andarono a colpire i ceti più bassi.
Tra il ’45 ed il ’47 i cattivi raccolti fecero elevare in modo esorbitante i prezzi delle derrate alimentari portando, conseguentemente, ad una notevole diminuzione dei consumi. A ciò si associarono epidemie di tifo e colera che colpirono in modo particolare i più poveri.
Durante il 1847 la situazione parve tornare a livelli normali, grazie alla migliore qualità dei raccolti, ma fu il settore economico-finanziario a subire un grave, durissimo colpo.
La rapidità con cui si erano evolute, nel corso degli anni, l’economia e la produzione industriale aveva generato un’euforia quasi frenetica negli ambienti borsistici e bancari, da cui scaturì una folle corsa all’investimento da parte di piccoli e medi risparmiatori.
Le ingenti somme investite in tutti i settori dell’industria non fruttarono alcuna rendita nell’immediato, cosa di cui troppo tardi tutti si resero conto; di conseguenza, sempre con la crisi agricola in
corso, fu impossibile raccogliere altro capitale per continuare nelle opere intraprese, sproporzionate
rispetto alle capacità reali degli investimenti effettuati.
Perciò nel 1847 una inesorabile serie di crolli di borsa e fallimenti di banche ed imprese determinò
un’ondata di disoccupazione e di impoverimento non soltanto fra i ceti bassi, ma anche fra i picco-
Storia contemporanea • Capitolo I • L’Europa e l’Italia alla vigilia del ’48 e la prima guerra d’indipendenza
lo-medi borghesi che avevano investito i loro capitali in quelle imprese e in quei titoli ormai falliti.
Il generale scontento e soprattutto la crescente frustrazione del proletariato ben presto sfociò in vera
e propria rivolta.
La rivolta francese e la nascita della Seconda Repubblica
La situazione politico–sociale in Francia, nei primi periodi del 1848, fu caratterizzata da un clima di
tensione tra i piccoli risparmiatori (i cui investimenti erano andati perduti nei precedenti crolli di borsa e fallimenti) e i ceti proletari, costretti alla fame dal rialzo dei prezzi.
Proprio in quel periodo i primi teorici del socialismo proposero alcune soluzioni per sconfiggere il
male della disoccupazione; fra essi il più significativo fu senza dubbio il tedesco Karl Marx che, con
la collaborazione di Friedrich Engels, pubblicò il Manifesto del Partito Comunista. Con esso egli
esortò il popolo alla lotta di classe per abbattere il capitalismo il quale, secondo Marx, era l’unico
motivo per cui il proletariato versava in così gravi condizioni. A peggiorare le cose fu l’esasperato
autoritarismo del re Luigi Filippo d’Orleans e le idee conservatrici del ministro Guizot, non adatti ai
tempi e ai problemi dei ceti più vasti della popolazione. Persino le classi più elevate, visti gli effetti
dell’affarismo senza sosta di quegli anni e, temendo una sempre più probabile rivolta sociale, finirono per isolare il re.
Durante l’estate del 1847 si susseguirono grandiose riunioni di tutte le opposizioni del Paese non rappresentate in Parlamento (per via della politica discriminatoria del re), in cui si discusse soprattutto
dei problemi e delle esigenze del proletariato. Nel febbraio 1848 una di quelle riunioni venne proibita e, nei quartieri popolari per i quali tale azione era stata una vera e propria provocazione, scoppiò una rivolta che coinvolse persino la Guardia Nazionale che avrebbe dovuto reprimerla.
Il 24 febbraio Luigi Filippo abbandonò Parigi, decretando il definitivo crollo della monarchia orleanista. Immediatamente si formarono due schieramenti: da un lato i repubblicani moderati e i liberali conservatori, che avrebbero preferito alla guida della nuova repubblica i tradizionali ceti dominanti; dall’altro i repubblicani social-democratici che, invece, avrebbero voluto una repubblica molto
più attenta alle esigenze del proletariato e dei ceti bassi. Tuttavia, pur tra tanti contrasti, si dette vita
ad un Governo provvisorio in cui le due fazioni si ritrovarono coalizzate. I primi provvedimenti adottati ridussero, anzitutto, il disumano orario di lavoro degli operai e crearono gli opifici nazionali, dipendenti dallo Stato e tendenti ad eliminare la disoccupazione. Successivamente vennero indette le
elezioni per votare a suffragio universale un’Assemblea Costituente che gettasse le basi per la nuova Costituzione.
Le idee differenti delle due fazioni artificiosamente coalizzate non poterono però consolidarsi, soprattutto perchè da parte dei moderati fu sempre più crescente il timore nei confronti dei socialisti,
la cui forza si sarebbe mostrata nell’immediato futuro. L’unico strumento di cui avvalersi per poter
frenare i socialisti fu quello di ottenere le elezioni per l’Assemblea Costituente alla fine di aprile di
quell’anno, mentre essi le avrebbero volute per l’anno successivo, proprio per avere più tempo per
far sentire gli effetti della rivolta di febbraio anche ai contadini delle campagne.
L’Assemblea votata nelle elezioni di aprile ebbe carattere decisamente conservatore ed il risultato fu
che, su 900 deputati, i rappresentanti del popolo furono soltanto 200. A quel punto la situazione era in
procinto di crollare definitivamente, mentre l’Europa e il resto della Francia continuavano ad essere
sconvolte da continue rivoluzioni. I socialisti chiesero allora all’Assemblea di intraprendere una politica estera in favore dei rivoltosi, convinti che solo in quel modo avrebbero potuto contrastare ovunque le forze conservatrici. Il 15 maggio 1848 i socialisti insorsero, nell’intento di imporre con la forza tale linea politica, ma la borghesia con l’appoggio della Guardia Nazionale intervenne con altrettanta violenza costringendo alcuni deputati reazionari ad abbandonare il governo. Da ciò ebbe inizio
la controrivoluzione, che caratterizzò in modo inequivocabile la Seconda Repubblica di Francia.
Le riforme
Alla morte del papa Gregorio XVI, fiero avversario del liberalismo e di ogni riforma politica, il Conclave si riunì per la scelta del nuovo pontefice. Le tendenze erano opposte: quella conservatrice sosteneva il Cardinale Lambruschini e quella neo-guelfa era favorevole all’elezione del cardinale Gizzi. Tra la sorpresa generale fu invece eletto il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti, che il 16 giu-
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Parte Seconda • Programma d’esame - Prova orale
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gno 1846 assunse il nome di Pio IX. Il più sorpreso fu lo stesso Mastai che, non avendo un programma ben definito, si abbandonò alla propria istintiva bontà, che faceva di lui uno spirito liberale per
natura, non certo per convinzione politica o dottrinale.
Pio IX, seguendo l’impulso dettato dal cuore, il 16 luglio 1846 emanò l’editto del perdono, con il
quale accordava ai condannati politici un’amnistia generale ed agli esiliati la possibilità di far ritorno in Patria.
Tale gesto oltrepassò le stesse intenzioni del Papa e segnò l’inizio delle manifestazioni popolari in
tutta l’Italia. Il Pontefice si trovò così costretto a ulteriori concessioni: «una limitata libertà di stampa», una «consulta di Stato» composta da autorevoli cittadini perché suggerissero utili riforme. Costituì la «guardia civica», polizia di volontari, che assunse il compito di mantenere l’ordine, sostituendosi all’odiata polizia di mestiere.
In Toscana il Granduca Leopoldo II concedeva la «Guardia Civica e una certa libertà di stampa» avviando contemporaneamente la riforma dei codici civile e penale.
In Piemonte, Carlo Alberto, che aveva già attuato importanti riforme amministrative, tra cui la revisione del sistema tributario e doganale e l’ammodernamento dell’esercito, cercò la collaborazione
dei patrioti e manifestò un’aperta avversione all’Austria. Concesse ampia libertà di stampa e contribuì alla formazione della lega doganale con il Papa e il Granduca di Toscana.
In Sicilia erano scoppiate varie sommosse popolari per cui il re aveva richiesto l’intervento delle
truppe austriache; tuttavia, a causa del diniego del Papa di far passare i soldati sul territorio pontificio, Ferdinando II fu costretto a promettere la Costituzione nel Regno delle Due Sicilie il 29 gennaio 1848. Analoghe concessioni fecero l’11 febbraio Leopoldo II in Toscana, il 4 marzo Carlo Alberto in Piemonte, il 14 marzo Pio IX a Roma.
Quasi tutta l’Italia era diventata «costituzionale», sebbene le costituzioni non esprimessero la diretta volontà popolare, ma fossero solamente frutto di un atto di liberalità compiuto dai sovrani e caratterizzato da molte limitazioni e restrizioni.
Le costituzioni segnarono comunque una svolta decisiva verso un regime liberale, tanto che ben presto scoppiarono numerosi moti insurrezionali.
Le insurrezioni italiane del 1848-49. La Prima Guerra d’Indipendenza
I moti insurrezionali scoppiati nel Lombardo–Veneto furono soltanto l’inizio di quella che diventò in
seguito la guerra di tutti gli Stati italiani contro l’Austria. A Venezia, con una dimostrazione, la popolazione cercò di ottenere alcune concessioni dalle autorità dell’impero; il 18 marzo 1848 a Milano, invece, un’insurrezione popolare mise in seria difficoltà gli austriaci del maresciallo Radetzky. Tale insurrezione, guidata in modo esemplare da Carlo Cattaneo, si protrasse per 5 giorni consecutivi (le celebri “Cinque Giornate di Milano”), costringendo alla fine il maresciallo Radetzky a ritirarsi nelle fortezze del Quadrilatero: Mantova, Legnago, Verona e Peschiera. Il 22 marzo anche Venezia, sotto la
guida di Daniele Manin, riuscì a cacciare gli Austriaci e a instaurare la Repubblica di S. Marco.
Intanto le forze liberali piemontesi e i nobili ed i moderati milanesi premevano per l’intervento di
Carlo Alberto.
Il re sabaudo intervenne tardi perché temeva che appoggiando le forze popolari di Milano avrebbe
favorito la creazione di una repubblica simile a quella francese, mentre in Piemonte avrebbe rinvigorito le forze moderate. Egli dichiarò guerra all’Austria soltanto il 23 marzo 1848: alle popolazioni del Lombardo-Veneto comunicò di essere pieno sostenitore della loro causa; alle potenze lombarde dichiarò che il suo intervento avrebbe impedito la formazione di una repubblica democratica secondo lui minacciosa per l’assetto politico del Paese.
I contingenti a Milano arrivarono tre giorni dopo, per cui la popolazione cominciò a diffidare del sovrano; tuttavia la campagna antiaustriaca di Carlo Alberto ebbe inizio ugualmente ed il suo esercito
ottenne qualche modesto successo a Goito, Valeggio e Monzambano.
Da ogni parte d’Italia sopraggiunsero interi plotoni di volontari e ogni sovrano del Paese venne incitato ad appoggiare il re nella sua lotta contro l’Austria.
All’inizio della guerra parve che le idee giobertiane sulla Confederazione di Stati si fossero concretizzate; Pio IX, il Granduca di Toscana e persino Ferdinando II di Napoli inviarono volontari a sostenere le truppe piemontesi.
Storia contemporanea • Capitolo I • L’Europa e l’Italia alla vigilia del ’48 e la prima guerra d’indipendenza
Dopo un altro successo a Pastrengo, alla fine di aprile Carlo Alberto cominciò ad esitare; di ciò approfittò il maresciallo Radetzky che sconfisse a Santa Lucia e poi a Cornuda le truppe federali del
sovrano, comandate dal generale pontificio Durando.
Il 29 aprile Pio IX dichiarò il ritiro delle sue truppe dalla guerra al Collegio cardinalizio, col pretesto di non poter più appoggiare, data la sua posizione spirituale, un conflitto fra Stati cattolici come
quello in corso, pertanto ordinò al generale Durando di rientrare nei confini. La realtà, tuttavia, era
un’altra: Pio IX temeva che, per rivalsa, gli Austriaci una volta riprese le redini del conflitto avrebbero provocato un profondo scisma religioso in tutti i Paesi cattolici appartenenti all’Impero.
Ben presto anche il Granduca di Toscana e Ferdinando II decisero di ritirarsi dalla guerra, ma gran
parte dei loro eserciti continuò a lottare sia a Vicenza che a Venezia.
Nonostante il rafforzamento degli eserciti asburgici, Carlo Alberto riuscì ad ottenere l’annessione
della Lombardia al Piemonte, mentre le sue truppe vinsero a Goito e piegarono la difesa della fortezza di Peschiera.
Radetzky passò al contrattacco e in giugno, battuti tutti i volontari a Vicenza, riuscì a riconquistare
tutte le città del Veneto tranne Venezia. A luglio, mentre Carlo Alberto era in trattative con Vienna
per avere definitivamente la Lombardia, l’esercito austriaco piegò i Piemontesi a Custoza, costringendoli a ritirarsi a Milano. Là in molti reclamarono la difesa ad oltranza, magari anche con l’intervento dell’esercito francese.
Temendo che da ciò potesse derivare la rivalsa dei democratici repubblicani, Carlo Alberto prese tempo; il 4 agosto abbozzò una debole difesa alla periferia di Milano, ma il giorno dopo si accordò con
Radetzky per il ritiro delle truppe piemontesi. Per sfuggire al tumulto della popolazione infuriata, affidò il compito di firmare l’armistizio al generale Salasco, il 9 agosto 1848.
In base a tale accordo i due eserciti furono confinati l’uno in Piemonte, l’altro in Lombardia, secondo il vecchio assetto geografico e Carlo Alberto giustificò l’evento con una promessa che a tutti suonò poco veritiera: la causa dell’indipendenza d’Italia non è ancora perduta.
Le costituzioni emanate fino a quel momento si ispiravano al modello francese ma Carlo Alberto promulgò il cosiddetto Statuto Albertino che divenne la legge fondamentale del regno; prevedeva una
Camera dei Deputati, un Senato di nomina regia e una stretta dipendenza del governo dal sovrano.
Restò in vigore fino al 1° gennaio 1948 quando fu sostituito dall’attuale Costituzione repubblicana.
La resistenza dei popolari a Roma e a Venezia
Gli eventi di Milano diedero nuovo vigore alle forze democratico–popolari di Firenze e di Roma.
Mentre Napoli veniva sconvolta da una violenta reazione, da Firenze il Granduca Leopoldo II fuggì
a Gaeta ed il governo fu assunto da Montanelli, Mazzoni e Guerrazzi, i quali lo detennero fino al
1849.
A Roma, il tentativo di Pio IX di creare con Mamiani prima e Pellegrino Rossi poi un governo moderato, fallì miseramente con l’assassinio di quest’ultimo ed il Papa fu costretto a fuggire a Gaeta. Il
governo provvisorio proclamò la repubblica e la fine del potere papale il 9 febbraio 1849. Mazzini,
con Saffi ed Armellini costituirono il triumvirato che guidò la neo Repubblica Romana.
Tra il ’48-’49 Gioberti si alleò con i democratici ed assunse il governo in Piemonte, ma quando i suoi
alleati capirono che aveva intenzione di frenare la riforma politica di Roma e Firenze, lo abbandonarono e lo costrinsero a dimettersi.
Dopo aver atteso invano un aiuto da parte della Francia, Carlo Alberto si decise a riprendere ugualmente le ostilità contro l’Austria ma, nonostante l’impegno dell’esercito piemontese, gli austriaci
vinsero definitivamente a Novara il 23 marzo. Carlo Alberto abdicò allora in favore del figlio Vittorio Emanuele II e si rifugiò esule in Portogallo dove morì qualche tempo dopo.
Il nuovo re firmò con Radetzky l’armistizio di Vignale. L’Austria non impose al neo re sanzioni pesanti, anzi propose di appoggiarlo contro i democratici, che avrebbero voluto continuare la guerra.
A sua volta Vittorio Emanuele II promise all’Austria che avrebbe frenato i suoi avversari politici con
qualsiasi mezzo.
Nel frattempo a Roma intervennero le truppe francesi, chiamate dal pontefice, (ancora a Gaeta) per
frenare la politica mazziniana. Nell’estate del ‘48 le forze conservatrici francesi avevano avuto il sopravvento e nel dicembre era stato eletto presidente della Repubblica Luigi Napoleone Bonaparte.
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Parte Seconda • Programma d’esame - Prova orale
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Egli, per ingraziarsi il pontefice, inviò a Roma un esercito, guidato dal generale Oudinot, che si ritrovò di fronte l’esercito dei Garibaldini, capeggiato proprio dallo stesso Garibaldi in difesa della Repubblica Romana. Quest’ultimo sconfisse dapprima i Francesi a Roma, il 30 aprile e successivamente le truppe borboniche (a loro volta intervenute nel conflitto con i Francesi) a Velletri il 9 maggio.
Una volta ottenuti i massimi consensi clerico–conservatori, dopo le ultime elezioni, Bonaparte ordinò al generale Oudinot un nuovo attacco contro la Repubblica Romana. I Francesi bombardarono
Roma dal Gianicolo, senza nessuna pietà, ma i Garibaldini continuarono a lottare.
Dopo l’ultimo sanguinoso attacco delle truppe del Bonaparte, che provocò più di 400 morti tra le file
garibaldine, il governo fu costretto ad arrendersi; l’Assemblea, intanto, approvò il 1° luglio la Costituzione della Repubblica e il giorno dopo Garibaldi lasciò la città. Il suo tentativo di far insorgere la
Toscana ormai occupata dalle truppe austriache fallì, per cui Garibaldi tentò di raggiungere Venezia,
ancora in guerra, ma fu braccato dalle forze imperiali che lo costrinsero a ritirarsi nella zona di Comacchio. Grazie all’aiuto di alcuni patrioti, raggiunse la costa tirrenica, nel grossetano, da dove potè
imbarcarsi.
Nell’agosto 1849 la lotta contro l’Austria continuava soltanto nella città di Venezia, in cui erano presenti numerosi patrioti di ogni parte d’Italia, tra i quali anche Guglielmo Pepe. Il governo, in quel
periodo, fu nelle mani dello stimato Manin. Purtroppo un violento bombardamento da parte degli austriaci costrinse alla resa la città. Le condizioni degli Austriaci non furono però pesanti; ciò portò alla
conclusione tutte le lotte della resistenza (26 agosto) in ogni focolaio d’Italia, ma lasciò ai patrioti la
speranza di una non impossibile rivincita.
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