Gli USA e il “fiscal cliff”, per la superpotenza a debito è tempo

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27 novembre 2012
Gli USA e il “fiscal cliff”, per la superpotenza a debito
è tempo di fare i compiti a casa
Davide Borsani(*)
Le campagne elettorali in democrazia sono solite offrire poca sostanza e molta immagine. Quella
recente americana non è stata un’eccezione. Le rivendicazioni keynesiane di Barack Obama e le
promesse reaganiane di Mitt Romney non hanno infatti lasciato spazio al dibattito su come affrontare in modo concreto il cosiddetto “precipizio fiscale”, ovvero la principale questione economica
nell’immediato futuro degli Stati Uniti e che, a conti fatti, ha rappresentato il convitato di pietra per
tutta la campagna.
Il panico tra l’opinione pubblica americana (e non) già serpeggia. La convinzione è che per un paese
sull’orlo di questo precipizio, compiere un ulteriore passo nella direzione già intrapresa per legge
più di un anno fa significherebbe fare un salto nel vuoto, compromettendo il futuro della nazione. I
media usano termini come «minaccia», «paura» e «ansia». Uno stato d’animo che sembra condiviso da molte aziende quotate a Wall Street, se è vero che hanno annunciato ingenti piani di ridimensionamento e di limitati investimenti per il 2013. Anche il Fondo Monetario Internazionale ha
individuato nel “precipizio fiscale” uno dei maggiori rischi per la ripresa economica globale nel breve periodo. Il timore è che l’America cada nuovamente in recessione, trascinando con sé nel baratro l’intera economia internazionale.
L’espressione a effetto “precipizio fiscale” è stata coniata dal presidente della Federal Reserve,
Ben Bernanke, all’inizio del 2012. Essa vede, però, le sue origini nell’estate 2011, quando repubblicani e democratici – infine concordi sull’innalzare il tetto massimo di indebitamento pubblico da
12,4 a 14,3 trilioni di dollari – raggiunsero un accordo secondo cui dal gennaio 2013 sarebbero
scattati tagli automatici alla spesa pubblica (dei quali circa il 50% al budget per la difesa) e la cancellazione degli sgravi fiscali alle classi ricca e media approvati da George W. Bush e dallo stesso
Obama; il tutto per un valore di circa 500 miliardi di dollari nel solo 2013. L’accordo del 2011 non fu
facilmente raggiunto e, a oltre un anno di distanza, il problema dell’indebitamento pubblico è
peggiorato. Nel 2012 il rapporto tra debito pubblico totale e Prodotto interno lordo (Pil) ha infatti
oltrepassato il 104%, un livello mai raggiunto dai tempi di Harry Truman, mentre il deficit medio
durante la prima amministrazione Obama si è attestato al 9% del Pil, mai così alto in tempo di
pace nella storia degli Stati Uniti (durante gli anni del “New Deal” la media fu meno del 3%).
Il Congressional Budget Office (Cbo), organismo indipendente, ha offerto una duplice proiezione
degli effetti (o dei non effetti) del “precipizio fiscale” sulle finanze pubbliche e sull’economia americana in generale. Lo scenario A assume che i tagli e l’aumento delle tasse entrino realmente in
Le opinioni espresse sono strettamente personali e non riflettono necessariamente le posizioni dell’ISPI.
(*)Davide Borsani è PhD Candidate in Storia delle Relazioni e delle Istituzioni Internazionali (Università Cattolica del
Sacro Cuore). Il presente articolo è già stato pubblicato su BloGlobal – Osservatorio di Politica Internazionale
(http://www.bloglobal.net/2012/11/gli-usa-e-il-fiscal-cliff-per-la-superpotenza-a-debito-e-tempo-di-fare-i-.compiti-a-casa.html.
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ISPI - Commentary
vigore nel gennaio 2013; lo scenario B, invece, che il “precipizio” venga evitato con una estensione indefinita degli sgravi fiscali, la rinuncia ai tagli alla spesa pubblica e l’indicizzazione
all’inflazione delle tasse sul reddito.
Scenario A
- 2013. Il deficit federale diminuirebbe di circa 500 miliardi di dollari,
una somma pari al 4% del Pil. Contemporaneamente, però, il paese
cadrebbe in recessione: una drastica diminuzione dei consumi e della
produzione contrarrebbe il Pil reale di circa mezzo punto. Anche il
tasso di disoccupazione aumenterebbe, passando dall’8% attuale al
9% e tornando al livello dell’autunno 2011.
- Oltre il 2013. Un graduale aumento della pressione fiscale a livello
federale, che attualmente è pari al 15,7% del Pil (la media totale è
circa il 25%; in Italia è il 45%), al 21,4% del 2022 causerebbe un calo
del deficit dal 2,4% nel 2014 allo 0,4% del 2018. Con l’aumento delle
tasse e la riduzione della spesa pubblica, importanti effetti vi sarebbero anche sul debito federale netto, che diminuirebbe di circa 20 punti
percentuali nell’arco di 8 anni. Interessante, però, è la proiezione di
una crescita economica ad un ritmo di oltre il 4% annuale nel triennio
2014-2017 e che potrebbe proseguire oltre. A ciò si accompagnerebbe
una drastica diminuzione della disoccupazione dall’8,4% al 5,7%, paragonabile al tasso pre-crisi.
Scenario B
- 2013. Il tasso di crescita si attesterebbe intorno all’1,7%, proseguendo così la sua attuale corsa.
La disoccupazione, invece, resterebbe invariata all’8%. Il deficit federale diminuirebbe di solo un
quinto (100 miliardi di dollari) rispetto a quanto preventivato, elevando ancora una volta
l’indebitamento pubblico.
- Oltre il 2013. Con un prelievo fiscale al 19% e con un deficit medio del 5%, negli anni tra il 2014 e
il 2022 il debito federale netto raggiungerebbe un nuovo picco, lievitando di circa 17 punti percentuali e raggiungendo livelli da tempi di guerra. I tassi di interesse sui titoli di stato sarebbero logicamente in ascesa e parallelamente, con un paese sempre più indebitato, i risparmi privati e gli
investimenti risulterebbero ridotti. E il Pil seguirebbe la stessa strada.
Stando quanto previsto dal Cbo, e contrariamente al diffuso clima tra l’opinione pubblica, il “precipizio” di Bernanke non sembrerebbe insomma affacciarsi su un “baratro”. Certamente, il Cbo non è
– e non è mai stato – un oracolo e già in passato ha commesso importanti errori (come la previsio-
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ISPI - Commentary
ne di un tasso di disoccupazione al di sotto del 7% nel momento in cui l’America fosse andata al
voto). Tuttavia, centrando l’attenzione non sui numeri ma sui trend, si possono trarre interessanti
conclusioni. Se si guarda oltre il 2013, infatti, si nota che il ridimensionamento della spesa pubblica
e quindi del deficit accompagnato da un aumento del prelievo fiscale
medio consentirebbe ai conti pubblici americani (e soprattutto al livello di indebitamento) di transitare verso una maggiore sostenibilità,
seppur in modo contenuto dati i suoi valori assoluti (in particolare,
comparati alla storia americana). Ciò sarebbe nondimeno salutare
non solo per l’economia interna degli Stati Uniti, che inizierebbe a
sgravarsi di un fardello che si appesantisce sempre più e probabilmente tornerebbe a crescere ad un ottimo ritmo, ma anche per ciò
che questa rappresenta nel medio-lungo periodo per l’economia internazionale in genere (non da ultima quella europea).
Un debito insostenibile, infatti, significa prendere a prestito soldi con
tassi di interesse sempre più alti, con l’implicazione che a distanza di
anni sempre più danaro dovrebbe confluire dalle tasche dei debitori
(lo Stato e, quindi, i cittadini) a quelle dei creditori, siano essi nazionali o stranieri. Se nel breve termine ciò potrebbe stimolare la crescita, nel lungo soffocherebbe la vitalità economica del paese. Sarebbe
forse quindi utile ribaltare la prospettiva e considerare il vero “precipizio” come la continuità con il recente passato, ovvero l’attuazione di
politiche economiche che fin qui hanno solo ingigantito il pericolo di
un deficit e di un debito pubblico fuori controllo e che il compromesso
del 2011 ha aggredito solo in parte.
La ricerca ISPI analizza
le dinamiche politiche,
strategiche ed economiche
del sistema internazionale
con il duplice obiettivo di
informare e di orientare
le scelte di policy.
I risultati della ricerca
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internazionali.
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Nella prima conferenza stampa dopo la vittoria alle urne, Obama si è
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dichiarato pronto a trovare una soluzione per risolvere il problema del
“precipizio fiscale”. Ha annunciato che se le tasse devono essere
aumentate – come sembra inevitabile – ciò non sarà fatto in modo «squilibrato». Dato che «non
dobbiamo tenere la classe media in ostaggio», dovrebbe essere quel «2% della popolazione che
guadagna più di 250.000 dollari» all’anno a fare i maggiori sacrifici: «il messaggio dell’elettorato è
stato chiaro». Ma basterà? Lo speaker della House of Representatives, il repubblicano John Boehner, si è già mostrato disponibile a trovare una via d’uscita bipartisan. E le trattative sono partite.
Al di là del “precipizio”, comunque, per la Casa Bianca è necessario intraprendere un cammino che
attenui davvero la pendenza di un declino relativo già da lungo tempo conclamato. Se la prima
superpotenza a debito della storia non vorrà trovarsi a recitare come attore non protagonista in
quello che si prospetta come il Secolo cinese, non potrà esimersi dallo svolgere sin da ora i compiti
d’economia a casa rinunciando a pensare in via esclusiva all’immediato futuro. Insomma, con buona pace di John Maynard Keynes, gli americani farebbero bene a non ritenere che «nel lungo termine saremo tutti morti». E sarebbe un’ottima lezione per i “cugini” oltre Atlantico.
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