LE IMMAGINI DELLA MUSICA N. 7 Collana diretta da Nicoletta Guidobaldi e Elio Matassi Comitato scientifico Enrico Fubini (Università di Torino), F. Alberto Gallo (Alma Mater Studiorum-Università di Bologna) Enrica Lisciani Petrini (Università degli Studi di Salerno) Tilman Seebass (Innsbruck Universität) Tutti gli articoli del presente volume sono sottoposti a una procedura di peer review LA MUSICA COME BENE COMUNE Ontologia ed etica a cura di Ludovica Malknecht MIMESIS Le immagini della musica Volume pubblicato con il contributo del Prin 2008: Soglie dell'umano. Ontologia ed etica. Università degli Studi di Roma Tre, del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo. Atti del Convegno internazionale Roma, 12-13 aprile 2012 © 2013 – Mimesis Edizioni (Milano – Udine) Collana: Le immagini della musica n. 7 Isbn: 9788857518473 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected] INDICE Elio Matassi e Ludovica Malknecht Prefazione 7 Luca Aversano L’idea di “musica classica” tra scuola e mercato 11 Gisella Belgeri Musicisti e collettività 19 Giuseppe Grilli - Luisa A. Messina Fajardo La musica classica nel progetto Abreu: tra formazione ed esecuzione 25 Giuseppina La Face Bianconi La Musica d’arte: patrimonio d’Europa e strumento d’inclusione 31 Ludovica Malknecht “Il definitivo appagamento dell’essere”: musica e istanza etica in Hermann Broch 37 Quirino Principe La delegittimazione della musica come bene comune. La responsabilità della cultura cattolica 45 Elizabeth Sombart Pour que les sons deviennent musique 67 Claudio Stirnati Tre modalità di approccio alla Musica: Meditazione, Riflessione, Deduzione 73 7 Elio Matassi e Ludovica Malknecht PREFAZIONE Pensare la musica come un bene comune significa, in primo luogo, considerarla come un patrimonio condiviso e condivisibile da ognuno, un linguaggio universale capace di coinvolgere significativamente una comunità di ascoltatori, che non può essere pregiudizialmente de-limitata da appartenenze specifiche. Un linguaggio, dunque, sempre inclusivo, in grado di creare partecipazione, armonia, condivisione. È con questo spirito che si è svolta a Roma, il 12 e il 13 aprile 2012, la V edizione del Convegno internazionale di studi Il fondamento filosofico del fare musica tutti nel sistema formativo, contrassegnata dal titolo Musica e bene comune, cui ha dato vita il Comitato Nazionale per l’apprendimento pratico della musica – un progetto che assume lo scopo di riabilitare lo studio e le pratiche musicali all’interno del sistema formativo. La musica vi è concepita quale elemento essenziale di una Bildung caratterizzata da una forte dimensione relazionale, intersoggettiva ed espressiva, che la musica è propriamente in grado di restituire. Il Convegno ha visto la partecipazione di musicologi, filosofi, musicisti, artisti e studiosi che hanno contribuito a rafforzare il fondamento di tale progetto con apporti di diverso genere, da quelli filosofico-fondativi a quelli specificamente musicologici; particolarmente rilevante, per le finalità del Convegno, è stata anche la condivisione di esperienze, come quelle della Federazione Cemat, del Progetto Abreu, della Fondation Résonnance, diverse nelle loro finalità, ma nelle quali la musica come ‘bene comune’ trova compiuta espressione e realizzazione. I paradigmi concettuali a sostegno della valorizzazione della musica sono certamente in controtendenza rispetto all’orientamento dominante in ambito economico e politico, in cui è possibile riscontrare una “implosione sul presente” o “presentificazione della realtà” devastante rispetto alla spesa per il sostegno dei beni comuni, quali i beni culturali e quelli del sistema scolastico e universitario, che non rispondono a obiettivi, per così 8 La musica come bene comune dire, a breve periodo, pur assolvendo una funzione determinante per lo sviluppo attuale. La ricerca di un fondamento filosofico volto al riconoscimento della musica nel suo valore deve, inoltre, fare i conti con una tendenza diffusa proprio nella storia del pensiero, che tende a marginalizzare o a espungere intenzionalmente la dimensione musicale in nome di istanze considerate superiori, incompatibili o del tutto estranee alla musica stessa. Si tratta di una tendenza che assume tratti distintivi già nella filosofia platonica. È nota la diffidenza di Platone nei confronti della musica e dei suoi incantamenti seduttivi: passioni e istinti sollecitati dalla musica possono essere dominati solo facendo ricorso alla razionalità del linguaggio verbale, alla luce apollinea del Logos che si afferma contro le sonorità caotiche del dionisismo. La minaccia costituita dalla musica assume carattere politico nella Repubblica, dove Platone afferma il primato regolativo del Logos sul ritmo e sull’armonia.1 Il sogno di Socrate nel Fedone costituisce un momento paradigmatico di questa tendenza – la definizione della filosofia quale «musica altissima»2 e l’identificazione della pratica filosofica con quella musicale tradiscono l’impostazione logocentrica del discorso. Anche all’interno di una prospettiva filosofica, come quella di Schopenhauer, che ha assegnato alla musica una posizione del tutto privilegiata, sia rispetto alle altre arti, sia nel suo assetto teorico generale, l’identificazione della musica con il principio metafisico della volontà, nel Mondo come volontà e rappresentazione, colloca la musica all’interno di uno schema di pensiero già costituitosi a prescindere dalla dall’esperienza musicale. Tuttavia, è proprio nell’ambito del romanticismo tedesco che viene sancito il riconoscimento di un primato e di un valore della musica fondati sulla sua autonomia. Tale riconoscimento proviene da figure come quelle di E.Th.A. Hoffmann, Novalis, Tieck, Wackenroder, che esaltarono le proprietà metafisiche della musica “pura”, della musica non subordinata né al linguaggio verbale né ad altri elementi di natura “extramusicale”. La musica diventa, in tale contesto, il luogo privilegiato di esperienze metafisiche, mistiche, spirituali altrimenti inattingibili. In questo clima culturale vengono poste le premesse per ripensare anche il rapporto tra la musica e il pensiero filosofico, per concepire una filosofia in grado di aprirsi, di porsi veramente in ascolto della musica, riconoscendone il valore autonomo. Accogliendo questa eredità e trasfondendo la propria esperienza di musicista nell’elaborazione di un pensiero filosofico che trae dalla musica linfa 1 2 Cfr. Platone, Repubblica, 398 d. Cfr. Platone, Fedone, 60-61 a. E. Matassi, L. Malknecht - Prefazione9 vitale, Nietzsche, a partire dalla Nascita della tragedia e in tutto l’arco di sviluppo del suo pensiero, instaura con la musica un confronto costante. La categoria del dionisiaco, la percezione della rinascita e della decadenza attraverso il filtro dell’opera e della figura di Richard Wagner, il rapporto tra la parola come espressione della razionalità teoretica e la musica sono indicativi della portata assunta dall’esperienza musicale nella filosofia nietzschiana. Nel Novecento, Th. W. Adorno costituisce il caso più emblematico dell’elaborazione di categorie specificamente filosofiche mutuate dalla musica e dall’esperienza compositiva. La nozione portante del pensiero di Adorno, la dialettica negativa3, trova il paradigma della sua realizzazione nella composizione musicale, nella concezione di una dialettica “contrappuntistica” nella quale la tensione tra elementi giustapposti non è destinata a risolversi nell’identità. La musica, dunque, come luogo privilegiato dell’interrogazione filosofica si impone nel pensiero del Novecento quale elemento di frattura sia rispetto a una concezione in un certo senso “autarchica” della filosofia, come la metafisica identitaria cui la dialettica negativa di Adorno si contrappone direttamente, sia rispetto a una sorta di rassegnazione all’immanenza che presuppone una realtà depauperata del suo carattere pluridimensionale. In una direzione per molti aspetti analoga, l’afflato utopico-redentivo della filosofia di Ernst Bloch, assumendo la musica come dimensione della speranza, offre una «metafisica del presagio e dell’utopia»4 che è anche un pellegrinaggio nelle profondità del Sé e del Noi. È infatti nella dimensione dell’ascolto musicale come ascolto interiore che diventa possibile riscoprire se stessi nell’appartenenza a una comunità, poiché è nell’ascolto che si instaura una comunione, cui corrisponde la forma più alta di Gemeinschaft. In questa prospettiva, la musica come bene comune acquisisce un significato ulteriore: la musica è un bene non solo condivisibile e condiviso, ‘in comune’, ma il bene capace di porsi esso stesso come fondamento di un sentire comunitario inclusivo e universale. 3 4 Cfr. Th. W. Adorno, Dialettica negativa, tr. it. di P. Lauro, Einaudi, Torino 2004. E. Bloch, Spirito dell’utopia, tr. it. di V. Bertolino e F. Coppellotti, Rizzoli, Milano 2009, p. 196. Il Convegno è stato trasmesso in live streaming su www.radiocemat.org 11 Luca Aversano L’IDEA DI “MUSICA CLASSICA” TRA SCUOLA E MERCATO L’espressione “musica classica” è oggi in disuso nel lessico tecnico di musicologi, musicisti e conoscitori, che preferiscono dizioni alternative quali “musica d’arte” o “musica colta”. Nella lingua generica essa conserva tuttavia ampia diffusione, motivo per cui scelgo di utilizzarla in epigrafe, a richiamare la particolare prospettiva dei rapporti che la categoria, appunto, di musica classica intrattiene con il mondo del mercato e della scuola. Ma cosa vuol dire esattamente “musica classica”? Per arrivare a una definizione convincente è necessario partire da un excursus storico-terminologico.1 L’aggettivo “classico”, dal latino classicus, contrassegna originariamente “ciò che s’insegna nelle classi”. In letteratura il termine compare inizialmente cristallizzato nel sintagma “classici autori”, una forma che ritroviamo nelle prime attestazioni di carattere specificamente musicale. Così, ad esempio, nel trattato Musico testore di Zaccaria Tevo, 1706: «Vedute le specie della Fuga sciolta con i loro essempii cavati da classici Auttori [sic], dateremo al nostro Musico Testore alcune regolette per la loro formatione».2 Il contesto fa riferimento alla discussione di regole, canoni, modelli per il giusto apprendimento della composizione musicale, sulla li1 Sulla storia di “classico” e “classicismo” nelle letterature occidentali cfr. R. Wellek, Das Wort und der Begriff «Klassizismus» in der Literaturgeschichte, «Schweizerische Monatshefte», 45, 1965-66, pp. 154-173 (versione tedesca di The Term and Concept of ‘Classicism’ in Literary History, in Aspects of the Eighteenth Century, The Johns Hopkins Press, Baltimore 1965, pp. 105-128) e P. Trovato, Per la storia di «classico», in L’ideale classico a Ferrara e in Italia, a c. di P. Castelli, Olschki, Firenze 1998, pp. 3-39. Per quanto riguarda, invece, l’impiego della terminologia in ambito musicale e musicologico, si vedano L. Finscher, Zum Begriff der Klassik in der Musik, «Deutsches Jahrbuch der Musikwissenschaft», XI, 1967, pp. 9-34 e L. Aversano, ‘Classico’ e ‘classicismo’ nella letteratura musicale tra Sette e Ottocento, «Il Saggiatore musicale», IV, 1999, pp. 91-117, ai quali si rimanda per ulteriori approfondimenti. 2Z. Tevo, Il musico testore, Bortoli, Venezia 1706, p. 315. I «classici auttori» citati da Tevo sono l’Artusi dell’Arte del contraponto (G. Vincenti, Venezia 1598), il 12 La musica come bene comune nea della tradizione latino-umanistica, secondo cui l’attributo “classico” va attribuito ad autori che, per l’eccellenza delle loro opere, restano attuali e sono capaci di fare scuola, divenendo cioè esemplari. All’anno 1706 il classico in musica è pertanto un concetto metastorico dalla forte impronta pedagogica: ciò che garantisce il perpetuarsi della corretta grammatica del contrappunto; che, per la sua validità nel tempo, prescinde dallo stile del momento e fornisce agli aspiranti musicisti la migliore palestra per l’esercizio compositivo. Nel secondo Settecento le testimonianze ricorrono con maggiore frequenza, anzitutto in area tedesca,3 dove l’influsso del Neoumanesimo favorisce la diffusione del termine negli scritti estetico-letterari e, di riflesso, anche in quelli a carattere musicale. Parallelamente l’attributo si emancipa dall’unico tipo di sostantivo col quale per regola faceva coppia (autore, musicista, compositore, ecc.). Ad esempio, nel 1779 Forkel stima «so gründliches und classisches Werk» la Kunst des reinen Satzes di Kirnberger.4 Il segno della classicità, prima riservato al solo creatore, si estende così anche alle creazioni. Le opere chiamate in causa sono tuttavia manualistiche: non composizioni musicali, ma trattati e saggi a carattere didattico. Nell’ultimo quarto del Settecento la qualifica di “classico” viene dunque riservata a testi teorici, e quindi pur sempre letterari. Bisogna attendere l’inizio del XIX secolo perché essa si estenda anche ai veri e propri pezzi di musica. Proprio al 1800 risale la prima occorrenza: in una copia manoscritta alcune opere di Graun sono affiancate dall’annotazione «klassisch».5 Le successive testimonianze si trovano in due annunci editoriali di Breitkopf & Härtel sulla «Vossische Zeitung» (1801). Uno dei tre elementi fondamentali della classicità, vale a dire la durevolezza nel tempo, comincia d’altronde solo ora, con l’affermazione dell’idea di repertorio, a essere garantito dall’opera musicale. Per questo motivo, fino all’inizio del XIX secolo, l’etichetta si dava unicamente a saggi teorici. Costituiti di pa- 3 4 5 Piovesana delle Misure harmoniche regolate (Gardano, Venezia 1627), il Bononcini del Musico Prattico (Monti, Bologna 1673). Gli unici riscontri su testi italiani nel detto periodo provengono dal trattato di Galeazzi, dove il termine ricorre più di una volta: «Altro non minor vantaggio del Contrappuntista, si è quello di non uscir d’armonia nel diminuire, e rivestire specialmente i Larghi, come pur troppo accade a molti anche classici Professori [di violino]» (F. Galeazzi, Elementi teorico-pratici di musica, I, Pilucchi Cracas, Roma 1791, p. 61). J. N. Forkel, Musikalisch-kritische Bibliothek, III, Ettinger, Gotha 1779, p. 193. Berlin, Stiftung Preußischer Kulturbesitz, Sammlungen der ehemaligen Preußischen Staatsbibliothek, Mus. ms. 30444 (cit. da L. Finscher, Zum Begriff der Klassik, cit., p. 32, nota 42). L. Aversano - L’idea di “musica classica” tra scuola e mercato 13 role scritte, essi potevano restare vivi nella memoria dei lettori, al contrario della musica, soggetta ad essere consumata e rapidamente dimenticata. Sono dunque tre, finora, gli elementi fondamentali della classicità, e tra loro interconnessi: la qualità eccellente, l’esemplarità in fase didattica, la durevolezza nel tempo. La nascita dell’espressione “musica classica”, pur partendo dai citati, medesimi princìpi costitutivi, porta con sé alcune significative variazioni semantiche. Il primo esempio di quello che diverrà un celeberrimo sintagma non è però reperibile in area germanica. Piuttosto a Londra, dove due musicisti italiani, Cianchettini e Sperati, aprono nel 1805 un negozio di musica dal nome emblematico: «Classical Music-Warehouse». Nel 1807 i due decidono di pubblicare le sinfonie di Haydn, quelle maggiormente amate di Mozart (insieme con le ouvertures più note) e le tre sinfonie di Beethoven fino ad allora conosciute. Ecco alcuni passaggi del testo stampato quale invito alla sottoscrizione: Cianchettini and Sperati, Publishers and Importers of classical Music, have the honour to acquaint the Nobility, Gentry, and Amateurs of Music, that they have undertaken to publish in Score all the universally admired Symphonies of Haydn, Mozart and Beethoven. The Names of those celebrated Composers they conceive is more than sufficient to give credit to this invaluable undertaking... The respect that every Amateur of Classical Music must entertain for the Symphonies of these wonderful Masters, persuades the Publishers, that a general anxiety to possess a Collection so precious to the Musical World, will afford ample encouragement to a Publication honoured with the immediate Patronage of His Royal Highness the Prince of Wales, who has most graciously condescended to sanction it, by accepting the Dedication.6 L’attestazione ha un’importanza notevole. Le sinfonie di Haydn, Mozart e Beethoven sono riunite per la prima volta sotto l’etichetta di “musica classica”7 (che ciò avvenga in Inghilterra, e per opera di due imprenditori italiani, costituisce un dato singolare). L’accostamento prospetta una nuova accezione di “classico”, dovuta a un fatto di fondamentale importanza: 6 7 Cit. da G. Kinsky, Eine frühe Partitur-Ausgabe von Symphonien Haydns, Mozarts und Beethovens, «Acta Musicologica», XIII, 1941, p. 78-84: 80. Di solo due anni precedente è la prima testimonianza conosciuta dell’accostamento delle sinfonie di Haydn, Mozart e Beethoven (C. F. Michaelis, Über das Erhabene in der Musik, «Berlinische Musikalische Zeitung», 1, 1805, p. 180; cfr. A. Forchert, “Klassisch” und “romantisch” in der Musikliteratur des frühen 19. Jahrhunderts, «Die Musikforschung», XXXI, 1978, pp. 405-425: 411), in cui però la parola “classico” non viene adoperata e le opere dei tre musicisti non sono citate da sole, ma menzionate insieme con quelle di altri musicisti. 14 La musica come bene comune è cambiato il genere di testo in cui il termine viene adoperato. Ai primi dell’Ottocento la grande maggioranza delle attestazioni rinvenute proviene da annunci pubblicitari di editori musicali,8 il cui destinatario è un vasto pubblico di amatori e di dilettanti di musica che comprano spartiti e partiture non per apprendere le giuste regole del comporre, ma per praticare l’esercizio strumentale o per collezionismo. In tale contesto la valenza di esemplarità didattica propria della vecchia accezione finisce per atrofizzarsi. Il legame tra concetto di classico e idea di esemplarità s’era d’altra parte già indebolito sotto i colpi dell’estetica romantica, tendente a sostituire la poetica dell’imitazione del modello autorizzato con quella dell’originalità del genio creatore. La cifra primaria della classicità non consiste più nell’esemplarità della composizione, quanto nella sua eccellenza qualitativa, e nella conseguente, immutabile validità nel tempo, oltre l’effimero della moda. Sullo spostamento del baricentro semantico influisce in maniera determinante l’assunzione del termine nel mercato e nella lingua della pubblicità editoriale, dove si trovano le prime frequenze di un uso riferito a composizioni musicali. Gli editori tendono a sfruttare commercialmente l’uso della parola, alla stregua di uno slogan o di un certificato di qualità a garanzia del prodotto sul mercato. “Classico” viene così a qualificare un’opera degna, per la sua eccellenza e la sua dottrina, di essere sempre apprezzata, ricordata, e dunque acquistata. In altre parole, l’idea di classico trasmigra dall’ambito della composizione a quello della produzione/ricezione. La variazione di senso subìta dalle antiche metafore s’intreccia in maniera complessa con la formazione dell’idea di repertorio e con la conseguente politica delle case editrici: dunque anche con lo sviluppo del mercato musicale. Tutto questo avviene primariamente in area tedesca. In Italia la diffusione della nuova accezione di “classico” segue il passo dei tentativi di organizzare la nostra attività concertistica secondo i modelli dei più avanzati paesi europei, dove la programmazione di musica da camera, sinfonica e vocale dei migliori autori di un passato più o meno recente era ormai, in pieno XIX secolo, un fatto acquisito. Il quotidiano delle realtà italiane consisteva invece in accademie vocali-strumentali strutturate secondo il principio del mosaico di brani differenti e contrastanti: fantasie, trascrizioni, variazioni su arie di moda, pezzi brillanti e caratteristici dal baule del virtuoso di passaggio, e così via. Il tutto in ossequio al pubblico desidero8 Anche in ambito letterario, negli stessi anni, “classico“ compare spesso in forma sostantivata nel significato di ‘eccellente’ sui frontespizi di repertori prestigiosi o nei nomi di collane e società editoriali (cfr. P. Trovato, Per la storia di «classico», cit., p. 141). L. Aversano - L’idea di “musica classica” tra scuola e mercato 15 so di novità non troppo difficili per l’orecchio. Questa musica, oggi quasi completamente dimenticata, costituiva il vero contraltare della classicità. Quando prendono corpo i primi movimenti per una riforma della vita musicale italiana, nella polemica tra araldi del nuovo e fautori dello status quo, legati alla tradizione teatrale, proprio la terminologia in questione diviene strumento di dibattito. Vale la pena citare un passaggio tratto dalla critica di Francesco Maria Albini a un concerto bolognese del 1853: Nella sera dell’8 corrente la nostra Accademia-Filarmonica inaugurava le ristaurate sale della sua residenza, ed in tale occasione offriva un Esercizio di musica classico-florida (così il programma), il quale infine non era che un bello e buon Concerto, od Accademia, se meglio vi piace, la cui buona distribuzione è riuscita tanto gradita allo scelto uditorio intervenutovi che crediamo prezzo dell’opera il farne parola. Rossini, Beethoven, Mozart e Stradella facevano gli onori della serata agli egregi artisti signora Boccabadati e signor Crivelli per la parte vocale, il signor Masini e madamigella Mariani per la strumentale [...]. La nostra maggiore gratitudine è però dovuta ai compilatori di questo Esercizio, per averne procurata l’esecuzione di due pezzi, veramente modelli di musica classica. Uno di questi, la celebrata preghiera di Alessandro Stradella (cantore e compositore, che fioriva in Italia nel XVII secolo) veniva bravamente interpretata dal Crivelli [...]. L’altro era il magnifico settimino strumentale (opera 20) del grande compositore di Bonna [...]. Ci si dice non essere stato questo Esercizio che il preludio di vari altri, che dovrebbero a questo seguire Ora più che mai l’arte n’ha d’uopo, dacché in Italia si è assolutamente protestato contro ogni altro genere di musica, che non sia teatrale. Addio musica da camera, o da accademia, addio musica sacra. Riduzioni teatrali di ogni specie (non escluse le più grottesche e ridicole) tengono il luogo della prima: posti da parte gl’inimitabili trio, quartetti, quintetti degli Haydn, Beethoven e mille altri, e quasi perfin dimenticati i loro venerandi nomi. A proposito di riduzioni, non ha molto che m’è toccato vedere la Tempesta del Rigoletto ridotta per flauto solo! Risum teneatis... Ecco una delle principali ragioni perché è fatta si breve la durata anche delle migliori e più recenti produzioni teatrali, che pochi anni bastano a farle collocare fra le cose viete e fuor d’uso. Non volge ancora un anno dacché Verdi donava all’Italia il Trovatore, partizione tanto pregevole e di già tanto riprodotta ed applaudita: ebbene, in poco d’ora (come di pratica) ridotta e sbranata in tutte guise: fantasie, souvenirs, valzer, polke, quadriglie e simili impertinenze, le quali faranno che in breve anche il Trovatore sia riposto qual cosa già sentita [...]. Spetterebbe dunque a queste Accademie o società filarmoniche, provvedere ai bisogni dell’arte, per eccitarne lo studio ed i progressi: spetterebbe loro, dico, mettersi a capo affin che venga propagandata e diffusa la buona e classica musica […].9 9 «L’Arpa», 14.12.1853 (cit. da T. Gotti, Beethoven a Bologna nell’Ottocento, II, «Nuova Rivista Musicale Italiana», VII, 1973, pp. 352-387: 353-354). 16 La musica come bene comune Nel resoconto di Albini l’antinomia musica classica-musica di veloce consumo emerge con grande chiarezza.10 Sulla base di tale contrasto si possono azzardare le definizioni di “pezzo classico” e “musica classica”: rispettivamente ‘composizione universalmente riconosciuta quale capolavoro che, degna di memoria per il suo primato di bellezza e di dottrina, sopravvive al mutare della moda ed entra a far parte del repertorio’ e ‘categoria costituita dai pezzi classici’. La qualifica di classico è d’altra parte indipendente dalla struttura e dal genere della composizione. È necessario piuttosto che sia trascorso un periodo di tempo più o meno lungo, che ne decreti il valore e la capacità di restare in repertorio. L’essenza della classicità non è dunque legata a precipui caratteri stilistici e formali, ma ad un pesato giudizio di valore. Il classicismo musicale diviene ‘l’insieme degli autori e delle composizioni entrati in repertorio’. La definizione trae conforto da un passo del napoletano Michele Ruta, in cui è anche evidente un recupero della dimensione pedagogica del concetto di classicità, seppur rivolta non tanto ai compositori, quanto al pubblico e alle sue abitudini d’ascolto: La musica classica Corale, Orchestrale, del Quartetto e di Concerto da noi è poco conosciuta; o meglio la generalità ne ignora il bello. Dicendo la generalità non riguardo solo il pubblico più o meno eletto, ma gli stessi musicisti, i quali spesso ignorano quei lavori musicali, che sono glorioso monumento della potenza dell’arte, e del genio. E qui non intendo parlare di quei pochi che sono veri sacerdoti dell’arte, e che per essa professano quel culto che si adopera con indefessi studi: questi, tra cui è da annoverare alcuni valorosi dilettanti, sono strenui cultori del classicismo, e ne mantengono alta la bandiera; conservando sempre vivo il sacro fuoco musicale. Ma l’arte di un popolo deve giudicarsi dal suo movimento generale, e non già da specchiate individualità [...]. Il campo adatto per seminare il culto del classicismo musicale è la sala di Concerto nel Conservatorio: dallo studio, e dall’audizione che può farsi in essa, io mi aspetto il vero progresso: perché essendo gran parte de’ capolavori scritti nel genere di quartetto, sinfonico e di concerto, ne segue di necessità il bisogno di 10 Così anche in un articolo della «Nazione» di Firenze, n. 62 del 1862: «I concerti si dividono in due categorie ... quelli della prima sono i concerti classici, dove si eseguisce la musica dei grandi insieme per istudio e vero amore per l’arte; quelli della seconda sono le serate più o meno musicali che danno gli artisti più o meno virtuosi, che vengono a sfruttare la piazza e a darci prova della loro girovaga celebrità» (cit. da P. Paolini, Beethoven a Firenze nell’Ottocento, II, «Nuova Rivista Musicale Italiana», V, 1971, pp. 973-1002: 973-974). Affondano qui le radici dell’odierna contrapposizione fra “musica classica” e “musica leggera”. L. Aversano - L’idea di “musica classica” tra scuola e mercato 17 un locale adatto per la coltura di tal sorta di musica [...]. I capolavori non sono per restare polverosi negli scaffali d’un archivio [...].11 Oggi, a ben vedere, si ripropone una situazione simile a quella ottocentesca. La corrente percezione di musica classica, identificabile – prima che nella musica d’arte occidentale – in ciò che si contrappone alla “musica leggera”, proviene dal parlato musicale ottocentesco, che indugia spesso sul contrasto tra i pezzi di repertorio (detti appunto “classici”) e le musiche di facile consumo. Tutto ciò nel contesto di un mercato non più soltanto editoriale, ma anche discografico, che continua a costruire le sue fortune sul tradizionale doppio binario di vendita: da un lato i pezzi classici, che durano nel tempo; dall’altro quelli di moda, più effimeri, che potremmo definire “senti e getta”. Come si diceva, per ragioni diverse il linguaggio degli specialisti preferisce oggi locuzioni quali “musica d’arte” e “musica colta”. Queste ultime soddisfano l’esigenza di una maggiore precisione semantica, ma lasciano aperto il problema del rapporto con sensibilità diverse, anche estranee alla tradizione della musica occidentale. Di fatto tutti e tre i modi di dire (musica classica, musica colta, musica d’arte) contengono un implicito giudizio di valore che discerne i repertori in base a caratteristiche precise. Sul piano, per così dire, del politically correct, l’espressione musica classica è forse la meno problematica, giacché distingue solo in ragione della qualità, e non in ragione di altri fattori, quali stile, forma, genere, contenuti estetici. Infatti, proprio in virtù di questa genetica flessibilità della categoria concettuale, il crisma della classicità può benedire qualsiasi tipo di musica: tanto che esistono i classici del jazz, del pop, del rock e così via. Se poi volessimo usare una terminologia più circostanziata, e allo stesso tempo più “ecumenica”, l’odierna pluralità del fenomeno musica andrebbe connotata attraverso l’impiego dell’espressione “musiche classiche”, purché sia fatta salva l’eccellenza del “prodotto” sul mercato globale. Resta aperta la questione, se sia possibile raggiungere l’eccellenza senza l’apporto di determinati elementi di natura estetica, stilistica e formale. A questo punto è doveroso aggiungere che, in una visione aperta al mondo della scuola, la divisa della correttezza politica non può rimuovere, tanto più nella sede di un convegno ministeriale, l’urgenza della seguente domanda: è possibile trascurare il fattore “qualità del materiale prescelto”, al momento di seguire princìpi di buona pedagogia e didattica? Come abbia11 M. Ruta, Storia critica della musica in Italia, Detken e Rocholl, Napoli 1877, pp. 111-112. 18 La musica come bene comune mo visto nella storia della terminologia, è in base all’eccellenza che le musiche classiche sono considerate esemplari. Per la loro alta qualità esse sono degne di essere insegnate nelle scuole e di fungere da modello per le generazioni a venire: non solo per l’apprendimento tradizionale, ma anche per lo stesso sviluppo della creatività e dell’esercizio pratico. Chiudo con una considerazione di ordine generale. Se agli inizi dell’Ottocento, come abbiamo visto, il concetto di classico migra semanticamente dall’ambito pedagogico della scuola a quello economico del mercato, oggi pare sia in corso il fenomeno contrario. Dal campo giuridico-economico-finanziario mutuiamo cioè le parole per contrassegnare i concetti relativi all’àmbito della cultura e della scuola: bene, eredità, patrimonio, e così via. Si tratta, in fondo, di un processo semantico a ritroso, giacché in origine il termine latino classis stava a indicare ciascuna delle cinque categorie basate sul patrimonio fondiario in cui la popolazione romana era stata divisa dal re Servio Tullio. Ciò ad attestare il profondo, genetico legame tra il concetto di classico e il concetto di patrimonio.12 La circostanza induce a riflettere sul rapporto tra ricchezza materiale e immateriale: in una società equilibrata, la misura del raggio delle possibilità economiche dovrebbe avvicinarsi più possibile a quella della ricchezza dello spirito. In tal senso, il contributo di una formazione musicale “classica”, nel suo senso più ampio e allo stesso tempo più profondo, appare del tutto irrinunciabile. 12 Si veda, sul concetto di patrimonio in musica, l’intervento di Guseppina La Face, pubblicato in questo stesso volume. 19 Gisella Belgeri MUSICISTI E COLLETTIVITÀ La Federazione CEMAT è il soggetto che da anni si preoccupa della promozione della musica contemporanea in Italia. Nessuna arte si accontenta di guardarsi alle spalle, pur se piena di ammirazione e di riconoscenza. Abbiamo bisogno di tutto il supporto dei nostri musicisti, compositori e interpreti. L’Italia deve coltivare lo sviluppo della creatività ed è necessario rendere disponibili gli strumenti necessari, perché è indispensabile trasferire ai giovani – e fin dalle scuole per i più piccoli – il know how necessario, perché è da lì che si deve cominciare. E la complicità degli artisti è necessaria. Da anni si cerca in tutti i modi di facilitare un lavoro per far musica tutti, – e lo sforzo in tal senso del Comitato Nazionale per l’apprendimento pratico della musica nelle scuole e di Luigi Berlinguer è a dir poco eroico – ma si viaggia sul minimale quasi scusandosi del fatto che si vuole dare musica. La musica oggi è un elemento indispensabile per la vita perché dà benessere, perché chi fa musica riesce ad esprimere una sua propria creatività ed esce da quel vuoto impotente nel realizzare se stessi, che si avverte così spesso nei nostri adolescenti. Aiutiamoli a crescere e a valorizzarsi finalmente. È ora di dare alla musica uno spazio preciso, delle risorse precise, con i tempi che occorrono, con le competenze che occorrono perché è evidente che debbano esserci le persone giuste ai posti giusti; troppe volte abbiamo assistito a situazioni critiche, precipitate solo perché mancavano all’appello le persone preparate a risolvere i problemi in modo confacente, senza illudersi che un volontarismo seppur meritorio potesse sostituire le capacità professionali. Affrontiamo la realtà. Il nostro paese deve ormai relazionarsi con una apposita legge che preveda un patto consapevole tra politica, istruzione e artisti, capace di inserirsi in quel quadro di sviluppo fin qui evocato, co- 20 La musica come bene comune niugando il peso delle risorse necessarie con i risultati raggiungibili, in termini sociali, formativi e culturali, elemento certo di non secondaria importanza. Parliamo un momento del Comitato. Lo stesso sforzo veramente immane compiuto in questi anni da questo soggetto, preposto al rapporto tra musica e formazione viene immiserito appena si alza la testa, con controbilanciamenti e decisioni esterne che spesso poco hanno a che fare con la giusta pretesa di ottenere risultati concreti. Non mi pare che la politica abbia di che vantarsene, non importa chi sia al governo. Si tratta di analizzare il costo/benefici di attività scolastiche capaci di dare ai giovani anche una capacità di realizzarsi, di confrontarsi, e di esser gratificati, in una parola anche di esprimersi anche tramite un linguaggio universalmente percepito. Possibile che non si arrivi a comprenderne l’utilità? I motivi ci saranno stati tutti ma adesso li sappiamo, la storia insegna, cambiamo pagina. Un altro problema da considerare: lo spazio che la musica richiede alle scuole è certo a volte difficile da digerire nella compagine scolastica. Le regole per una buona formazione impongono silenzio, producono suono, movimentano la normale postazione dietro i banchi, richiedono strumenti adeguati e spazi compatibili. Richiedono spesso mobilità tra le classi e quindi una elasticità a volte difficile da attuare. Non si tratta di elementi di poco conto ma la scuola deve trovare il modo di favorire questa flessibilità. Poi si arriva al tema portante: chi si pone di fronte alla musica e ai ragazzi deve conoscere bene il suo mestiere. La musica certo non è un elemento “femmineo” come arrivava a sostenere appunto anche un grandissimo intellettuale e politico come De Sanctis, cosa che oggi ci scandalizza, ma ancor meno è materia di facile trasmissione come knowhow. Non bastano i pur meritevoli tentativi di far quadrare i cerchi. Se ci si aspetta, come è ovvio, che la musica serva al benessere interiore dei ragazzi deve essere posta loro sapientemente. Ho letto con attenzione le reazioni di alcuni autorevoli esperti del Comitato stesso che lamentano da anni, e giustamente, queste incongruenze. Sono però dell’avviso che sono trasmesse all’indirizzo sbagliato. Il Comitato, per avere successo nelle sue rivendicazioni ha bisogno di spalle larghe e di sostegno per reagire alle formule, diciamo di comodo o anche di annacquamento dei suoi obiettivi. I passi di lato, i distinguo sono proficui al momento del lavoro, non nelle esternazioni pubbliche che non tengono in giusto conto il peso delle ostilità al disegno complessivo, che anzi si avvantaggiano di G. Belgeri - Musicisti e collettività21 ogni debolezza interna. Due sono i casi: o non si accetta il gioco, e ci si dimette tutti, o bisogna agire sulle convinzioni e sulle pressioni che possiamo fornire. È evidente che i compromessi vanno a pesare in misura diversa se diversa è la pressione collettiva. Se ci si riduce a premere sui lati sbagliati, beh, diventa un castello di carta, chiaro. Ora, c’è anche un aspetto pratico fondamentalmente, come fare a coniugare la presenza della musica a scuola con gli orari da metterle a disposizione, nello spazio curriculare o in spazi temporali che siano concretamente sostenuti e gestiti? E, di conserva, procedere poi alla riapertura di bandi seri, molto seri e rigorosi, che introducano questa materia a pieno titolo. Costerà, è vero, e oggi non ci sono le risorse. Ma vogliamo almeno provare a fare un ragionamento complessivo dei do ut des nel cresciItalia? Chi può credere che sia uno sforzo inutile? Quanti sono i vantaggi di un tipo di formazione che tiene i ragazzi lontano dal vuoto torricelliano in cui navigano? Ascoltiamo ad ogni convegno, incontro, riunioni scolastiche una miriade di esempi di come la musica ha cambiato radicalmente l’interesse dei ragazzi anche nelle altre materie, di come acquisiscano subito un modo diverso di comportarsi tramite le regole dettate normalmente dalla musica che sono disciplina, rigore, ascolto dell’altro. Quante sono per esempio le forze esterne che sarebbero pronte a favorire un sistema musicale nelle scuole che spinga alla creatività i ragazzi? Esistono al Ministero gli Accordi di programma già in essere, emanare qualche decreto ad hoc non sarebbe impossibile, destinare anche alcune risorse a fronte di un obiettivo ambizioso e durevole non dovrebbe esser così peregrino. Pur in momento di crisi così feroce ne vediamo tanti di sprechi immotivati. Last but not least, negli anni recenti ci accorgiamo che i musicisti, e specialmente i più giovani, che non vedono grandi aperture nel loro futuro, si guardano attorno per capire come, al di là delle situazioni di carriera canoniche in orchestre, teatro, insegnamento strumentale, si intravedano degli spazi dove esercitare la loro musica a favore di altri contesti. E badate bene, non è solo una ricerca di lavoro perché spesso non lo è in termini compensativi, è una esigenza irrinunciabile di esprimersi e di relazionarsi. Attenzione, questo è un bene da coltivare con cura. La quantità di musica nel sociale si è decuplicata negli ultimi due o tre anni, e lo vediamo chiaramente in molte nostre associazioni musicali, ad esempio nei soci dell’AIAM o nelle attività collaterali dell’Orchestra Mozart. Voglio citare l’iniziativa Crescendo, che rappresenta uno sforzo certo fuori norma, realizzato da una grande Orchestra Sinfonica, che si traduce soddisfazione da anni in 22 La musica come bene comune centinaia di incontri, concerti e dibattiti con i bambini di Milano e provincia. Ma gli esempi sarebbero davvero tanti, articolati e che registrano risultati insospettati. A livello internazionale ci sono tante iniziative cui riferirsi, spesso basate anche su regole facili da seguire, semplici e fattive. Ne cito solo una. Negli Stati Uniti l’iniziativa di un solo compositore, John Duffy, tramite Meet the Composer, dal 1974 ha permesso di contare 45.000.000 di presenze di artisti in tutti i 50 States, facendo ospitare in forma di residenze privilegiate in numerosissime città ben 6500 compositori e musicisti di tutti i generi musicali. Tramite loro sono state istituite orchestre sinfoniche tra i giovani, hanno composto per e con loro migliaia di pezzi, intervenendo ovunque, e hanno infine esportato questa iniziativa in oltre 30 paesi. Questo sistema, che prevede un lavoro di parecchi mesi per i singoli artisti impegnati e che tocca una molteplicità di scuole e di altri ambiti veramente impressionanti (reparti ospedalieri, centri di disagio, centri di integrazione sociale, attività di culto, celebrazioni cittadine, formazione di artisti locali, decentramenti culturali, ecc...) costa solo 4 milioni di dollari di fondi che potremmo definire risorse pubbliche, in termini nazionali e federali, per tutti gli States e le collettività coinvolte. In sostanza e a conclusione dobbiamo operare per invertire la rotta politica sul discorso della musica nelle scuole, con argomentazioni comprovate e forte compattezza tra mondo artistico, mondo scolastico e società civile, in particolare coinvolgendo i genitori e i nonni che sono i primi a capire quanto importante sia la frequentazione di questa arte nella vita dei loro giovani rampolli. E rappresentando con forza l’esigenza di non mollare sulla necessità di pretendere professionalità di ottimo livello, – che spesso già sono presenti nelle scuole ma in misura assolutamente non bastevole – perché questa è la chiave di volta del successo formativo tramite la musica. 23 Paolo Damiani 25 Giuseppe Grilli, Luisa A. Messina Fajardo LA MUSICA CLASSICA NEL PROGETTO ABREU: TRA FORMAZIONE ED ESECUZIONE*1 Innanzitutto, desideriamo manifestare il nostro ringraziamento per l’invito a partecipare a questa bellissima iniziativa, in cui la musica si presenta nella duplice veste di espressione estetica e di funzione pedagogica. Il nostro intervento in questo contesto si avvale di un riferimento assai nobile e riuscito in entrambi gli aspetti allusi, in quanto si riferisce all’esperienza pluriennale del Progetto Abreu. Dobbiamo perciò confessare che il nostro è un compito facile: basterà dare qualche indicazione di massima per rendere esplicito il proposito di appoggiare l’idea di fondo che è alla base del Convegno, cioè quella di valorizzare la musica, o per meglio dire, l’esecuzione musicale quale strumento pedagogico finalizzato non solo all’acquisizione di un linguaggio specifico. Un linguaggio, quello musicale, dalla peculiarità di essere un linguaggio universale che supera le fratture dei linguaggi verbali e persino di altri linguaggi artistici, in quanto sostanzialmente sganciato da alfabeti, previamente acquisiti dall’ascoltatore, che fissano e esplicitano delle frontiere. In un mondo globale, la musica è un supporto eccezionale che, basandosi sull’evidenza della forza dell’estetica, rende possibile immediatamente il desiderio umano di dialogo, di comunicazione e di solidarietà che è alla base dell’ispirazione di ogni progresso vero. Vorremmo iniziare col chiarire chi è Abreu. Il maestro José Antonio Abreu, è un grande musicista venezuelano che nel 1975 ha creato una rete d’istruzione musicale che coinvolge oggi oltre 250 mila ragazzi, la maggior parte proveniente da ambienti familiari popolari. È grazie a questo programma che, attualmente, la musica in Venezuela, e ormai non solo in Venezuela perché la rete si sta estendendo a livello mondiale, rappresenta una via di riscatto esistenziale per i ragazzi dei quartieri più degradati e poveri. * Il contributo è stato pensato da entrambi gli autori; tuttavia, la prima parte è redatta da Luisa A. Messina Fajardo, la seconda da Giuseppe Grilli. 26 La musica come bene comune Il Maestro José Antonio Abreu è, infatti, colui che per primo ha ideato e realizzato una straordinaria utopia musicale di massa, operante soprattutto nelle realtà del disagio urbano e dei piccoli centri rurali. L’esperimento è consistito nella captazione, negli stessi ambienti familiari e di quartiere, di bambini e giovani di ogni condizione sociale per indirizzarli a una formazione musicale che si propone l’obiettivo del raggiungimento di una competenza strumentale e culturale completa ed adeguata anche a grandi imprese concertistiche. Da questo tessuto scaturiscono le orchestre che, a diversi livelli, fino a quello massimo dell’Orchestra nazionale, si propongono l’esecuzione di un repertorio sinfonico di qualità. Ma in ogni stadio del progetto non si abbandona mai lo spirito Abreu: fare della musica il linguaggio universale, quindi anche del riscatto sociale e personale, il linguaggio della solidarietà e del dialogo. Vogliamo celebrare qui il talento dell’orchestra sinfonica venezuelana, dei suoi valori e dei suoi principi ispiratori. L’Orchestra Sinfónica de la Juventud Venezolana Simón Bolívar è significativamente intitolata al libertador: fondatore della identità venezuelana e propugnatore della libertà ispanoamericana, punto fermo di quanto ogni venezuelano sente, al di là delle diverse opinioni politiche contingenti. La musica, dunque, si lega istituzionalmente in Venezuela all’idea di lotta di emancipazione per la libertà, per l’uguaglianza, per la cultura, appunto, nel nome evocato di Simón Bolívar. Egli, tra tutti i protagonisti della storia latinoamericana, si caratterizza, non a caso, come idealista, utopista, uomo d’azione proteso al riscatto in una lotta per conquistare nuovi spazi per l’uomo, per tutti gli uomini. In tal senso è straordinariamente veritiero, nella sostanza, il ritratto che ne tracciò Gabriel García Márquez nel romanzo significativamente intitolato El General en su Labirinto, che assume, come proprio arco temporale di sviluppo narrativo, la fase finale della vita del Libertador, in realtà ne riassume i caratteri essenziali e permanenti. La straordinaria esperienza proposta dal maestro Abreu con il movimento della educazione musicale di massa dei ragazzi e dei giovani venezuelani è anche per questi motivi e fondamenti storici un progetto di cultura, contemporaneamente è anche un progetto di lotta per il riscatto spirituale, per l’emancipazione sociale, per l’identità venezuelana. Tutto il programma complesso e articolato è sintetizzato nel binomio Tocar y luchar, binomio che coniuga la vocazione musicale (tocar) con quella sociale (luchar). Proprio questo riferimento alla duplice identità del programma Abreu ha dato il titolo a uno straordinario film-documentario su cui torneremo i dettaglio più avanti. G. Grilli, Luisa A. Messina Fajardo - La musica classica nel progetto Abreu: 27 Questo straordinario movimento collettivo, la rivoluzione spirituale e la armonia musicale che lo sorreggono, in un gigantesco sforzo di coesione sociale, ha una storia e un’origine. Tutto è incominciato non da un proposito collettivo o da un ordine calato dall’alto del potere politico, ma è stato originato da un’intuizione e una volontà individuali: è stato uno straordinario musicista, un innovatore e rivoluzionario della tecnica e della trasmissione delle tecniche musicali, dell’educazione musicale, a dar vita all’utopia. Una utopia di futuro, ma anche una utopia che si fa pratica del presente. Sono trascorsi ormai più di trent’anni da quando José Antonio Abreu ha dato vita al movimento delle orchestre infantili e giovanili. In questo movimento o “Sistema” (come viene chiamato) non c’è stata nessuna improvvisazione, nessun cedimento al dilettantismo, al folclorismo. La diffusione delle scuole di musica o “nucleos” tra i bambini e i giovani oggi ha raggiunto ogni angolo della geografia del Venezuela, ogni strato sociale, ogni segmento umano senza esclusioni di alcun genere, coinvolge persino i non vedenti o i non udenti nel “coro de las manos blancas”. Ma ciò che è ancora più importante è stata la formazione di nuove generazioni di maestri di musica, che ha permesso la moltiplicazione e proliferazione delle orchestre e il raggiungimento del duplice obiettivo al quale ci siamo riferiti come simbolo e sintesi del progetto: tocar y luchar. C’è una profonda differenza tra l’identità nazionale e popolare della musica di Abreu, e delle migliaia dei suoi seguaci giovani, giovanissimi e meno giovani, e altri movimenti musicali di ripresa e di valorizzazione dell’identità musicale dei popoli. In tal senso è emblematico il confronto con il nazionalismo musicale che l’Europa ha conosciuto nel XIX secolo. In questo senso si può parlare dell’esperienza venezuelana come di un’avanguardia, anzi dell’avanguardia di oggi. Infatti non si tratta solo di inserire elementi della musicalità locale e popolare nel sistema armonico della strumentazione classica, come nella fioritura ottocentesca delle musicalità nazionali, ma di utilizzare la cultura classica, le tecniche, gli stessi strumenti da musica per dare voce, dar vita all’identità. L’identità nazionale che viene esaltata allora non è l’espressione di famelici e violenti egoismi, ma l’integrazione personale degli individui in un corpo sociale solidale. La società si modella, si specchia (o almeno dovrebbe, potrebbe farlo) in una orchestra in cui suonano, fanno musica decine e decine, centinaia di strumenti e di giovani, mentre chi ascolta e partecipa all’evento sente “invisibile”, come la definisce Abreu, la musica che stanno suonando i musicisti. Che tutto questo di cui abbiamo parlato si sia svolto e si svolga negli anni convulsi della trasformazione del Venezuela degli ultimi decenni è il vero miracolo. È anche il grande paradosso; infatti, il movimento delle or- 28 La musica come bene comune chestre infantili e giovanili, la diffusione di massa della cultura musicale alta si sono sviluppati in un periodo storico in cui il paese è stato sconvolto da trasformazioni economiche, sociali e politiche caratterizzate da profondi rivolgimenti. Dalla crisi dei prezzi del petrolio (alla fine degli anni settanta), al collasso della moneta nazionale, il bolívar (per effetto del debito pubblico); dal crollo del sistema di partiti in alternanza: Acción democrática, partecipe dell’Internazionale socialista e socialdemocratica, e Copei, d’ispirazione democristiana (anche se con un orientamento di centrosinistra, come spesso è per quei movimenti in America Latina), fino all’avvento al potere di Hugo Chávez Frías, per arrivare poi alla formazione della Repubblica Bolivariana del Venezuela (esperienza controversa, imputata di derive caudilliste, ma vitale anche nelle urne). Il Paese, proprio negli anni dell’esperimento Abreu, non ha avuto un momento di tregua. Lo stress sociale ha coinvolto tutte le generazioni, tutti gli stati sociali. Il tema della “insicurezza” (inseguridad o carenza dell’ordine pubblico) è diventato progressivamente non solo una minaccia, ma una ossessione nella vita quotidiana. In questo quadro, alla violenza della miseria, della mancanza di prospettive di crescita, alla piaga del narcotraffico che coinvolge drammaticamente la vita dei giovani, e persino dell’infanzia, una delle poche risposte efficaci e vere è stata quella offerta dal movimento di espansione solidale della cultura musicale e della creazione di orchestre infantili e giovanili, a tappeto, in tutti gli stati della repubblica. *** Tocar y luchar è il titolo del film-documentario di Alberto Arvelo girato a Caracas. Il tema di cui ci parla è quel modo nuovo e originale di approssimarsi alla musica e alla cultura, ma soprattutto è un modo nuovo di promuovere, organizzare e praticare il riscatto sociale insito nel progetto Abreu attraverso il linguaggio cinematografico. Un montaggio accattivante offre allo spettatore un’emozione immediata e forte. In quasi due ore di spettacolo assistiamo a un “gloria al bravo pueblo, que el yugo lanzó”. Possiamo allora pensare a un inno alla lotta per un riscatto, una vita nuova, un vivere in armonia in una società di tutti e per tutti. È un inno che in ogni nota racchiude integro lo stato d’animo di un popolo che mette insieme le speranze e le volontà di tutti quei bambini e adolescenti, che amano la musica e che, solo grazie al sistema Abreu, hanno avuto la possibilità di “tocar”, di suonare uno strumento musicale, e al tempo stesso di “luchar”, di battersi per una vita migliore. Tocar y luchar film racchiude e racconta questa straordinaria esperienza musicale, cantando un “aleluya” (beethove- G. Grilli, Luisa A. Messina Fajardo - La musica classica nel progetto Abreu: 29 niano) alla vita, una vita senza frontiere, una vita che non ti priva dei tuoi sogni ancora prima di nascere. È una forma di liberazione, “la ley respetando, la virtud y honor”. È un “abajos cadenas”, che evoca lo straordinario quadro di Goya, reso attuale con un “giù le catene” della droga, della delinquenza, della prostituzione, della dipendenza che grida un popolo, il popolo venezuelano. Come hanno riconosciuto alcuni tra i più grandi musicisti e interpreti, che nel film Tocar y Luchar hanno un ruolo di testimoni emozionati e insieme rigorosi, tra cui il maestro Abbado, il tenore Placido Domingo, il direttore Vittorio Sinopoli, e tanti altri, il primo risultato che presenta il sistema delle orchestre giovanili del Venezuela è quello della qualità. Si tratta, infatti, di giovani musicisti che possono interpretare nei più grandi teatri, nei più grandi saloni per concerto del mondo; sono dei giovani in grado di competere con le orchestre professionali più accreditate; ricordiamo qui Gustavo Dudamel e Diego Matheuz, entrambi ormai conosciuti in tutto il mondo e direttori alla Scala o al Teatro la Fenice di Venezia. Nelle loro esecuzioni, tuttavia, troviamo un valore aggiunto, oltre che musicale e sociale, vi leggiamo infatti anche un riscatto spirituale, pertanto un riscatto integrale. Nel film documentario c’è una frase di uno straordinario bambino musicista, un bambino miracolo di bravura tecnica, che però va ben al di là del virtuosismo con cui suona il violino, quando parla di sé e della musica come possibilità di rappresentazione. E allora vive l’idea di musica come l’idea di Dio, e viceversa. Il valore gnoseologico e quello etico possiamo leggerli perfettamente fusi nell’immagine fotografica dei suoi occhi neri e profondissimi: in essi si esprime quella spiritualità riscattata oltre ogni devastazione, il ritorno naturale al divino, al significato. Ma il fascino di questo film va oltre il suo stesso valore di essere sintesi di un’esperienza d’eccezione. Crediamo, infatti, che si tratti di un vero e proprio atto di creazione. Un esempio di trasposizione del discorso e del sentimento in una forma originale. In realtà il cinema non è nuovo alla realizzazione di forme di musicalità e narrazione unite in un unico testo, ciò accade quasi dai suoi primordi. Naturalmente, distinguiamo quello che è la trasposizione o ripresa cinematografica di un discorso musicale rispetto al film integrale in cui l’evento musicale si fonde con il linguaggio cinematografico vero e proprio. Particolarmente insistente è stato il ricorso al film-opera, con esempi discontinui, ma in genere ben accolti dal pubblico e non disprezzati dalla critica. Ricordiamo qui solo due esempi, per altro diversissimi: il Don Giovanni di Losey e la Carmen di Francesco Rosi. Sono film comunque significativi per la volontà di essere rispettosi di due esigenze che non sem- 30 La musica come bene comune pre possono essere perfettamente amalgamate. Ci riferiamo all’istanza narrativo/spettacolare e a quella dell’esecuzione musicale, senza incorrere in semplificazioni e banalizzazioni. Ma si sono dati esempi anche diversi di contaminazione tra una autentica struttura mista di racconto filmico e di antologia di brani musicali. Un esempio paradigmatico di questa seconda opzione è costituito dal Mozart di Milos Forman. Il racconto di una vita esemplare, e il parallelo organizzarsi del confronto tra due musicisti (Mozart stesso e l’amico-rivale Salieri) e due modi di intendere la musica, si intreccia con le esecuzioni di opere ben note al pubblico e di esse si offre, di conseguenze, un’interpretazione sostanzialmente biografica, o contestuale. Di primo acchito potremmo ascrivere Tocar y luchar alla seconda delle modalità indicate. L’alternanza di brani squisitamente narrativi e saggistici nella linea del film inchiesta si combina infatti con autentiche e suggestive esecuzioni in cui spesso interagiscono i giovani musicisti della scuola popolare creata da Abreu, spesso supportati dall’intervento commosso di famosissimi direttori d’orchestra. Parimenti lo scenario di grandi teatri costituisce di per sé una tratto distintivo, musicalmente distintivo, dell’esecuzione, ben al di là della bellezza esibita della location. Tuttavia il criterio per cui il testo di Tocar y luchar possa essere ricondotto (e ridotto) a un’antologia o saggio di quanto funzioni, sul piano della formazione di qualità, il sistema Abreu, ci pare insufficiente. Crediamo, piuttosto, che il film proponga una più complessa struttura e costituisca un risultato maggiore. Se dovessimo con una comparazione definire un elemento di confronto e, in quanto tale, di ermeneutica, diremmo che ricorda la tipica mescolanza che si realizza nel teatro musicale dell’opera buffa e poi in certe sue evoluzioni nell’Opéra Comique. Il racconto, o recitativo, infatti, quasi privo di sottofondo musicale, è parte integrante di un’unità successiva in cui la musica è non ornato, ma sostanza inseparabile di un tutt’uno omogeneo. Se questa ipotesi ha una sua validità, potremmo concludere che Arevalo si è dimostrato con questo “documentario di creazione” un allievo che ha capito e introiettato in profondità il disegno di Abreu: fare della musica qualcosa di più che un piacevole intrattenimento, senza perdere nessuno dei suoi tratti distintivi. La musica come comunicazione del bello, ma anche come messa in discussione di pregiudizi, frasi fatte, preconcetti estetici ed etici. E con ciò troviamo anche la difesa dell’idea – tutt’altro che scontata – che l’esecuzione musicale è sempre una ricreazione e una trasformazione della partitura (sceneggiatura) da cui in origine si è partiti. È così che il documento si trasforma in creazione. 31 Giuseppina La Face Bianconi LA MUSICA D’ARTE: PATRIMONIO D’EUROPA E STRUMENTO D’INCLUSIONE Nel linguaggio comune parliamo correntemente di ‘musica’. In realtà, non esiste la musica, esistono le musiche: tante musiche diverse per genere, tradizione, provenienza, funzione. Molte sono le musiche del mondo, e tutte, in quanto espressione di culture disparate, chiedono di essere comprese, rispettate, amate.1 Se comprese, esse diventano patrimonio comune, bene comune. L’Europa, e con essa l’Occidente, ha un patrimonio musicale particolare: la ‘musica d’arte’. È una musica di tradizione scritta che, se non si esaurisce certo nella scrittura, non può tuttavia farne a meno. La scrittura delle note musicali è stata escogitata quando si trattò di trasmettere il canto cosiddetto gregoriano da un capo all’altro d’Europa: in altre parole, nasce insieme con la prima idea di Europa storicamente concretatasi, l’impero carolingio. Da lì, attraverso i secoli, la scrittura musicale è evoluta ed è giunta fino a noi.2 Il patrimonio musicale d’Europa ha essenzialmente due componenti: un patrimonio materiale e un patrimonio immateriale. Il primo, il patrimonio materiale, è fatto di oggetti: strumenti, partiture, trattati, documenti, edifici adibiti alla musica. Il secondo, quello immateriale, si lascia a sua volta distinguere in due categorie: (a) il patrimonio estetico, costituito da opere ed eventi, ossia dai brani musicali composti, eseguiti e ascoltati; (b) il patrimonio intellettuale, che comprende i testi musicali in quanto testi, gli scritti sulla musica, i saperi sia teorici sia pratici, le tecniche esecutive. Un esempio concreto: La traviata di Verdi è patrimonio materiale se alludiamo all’autografo di Verdi, o ai suoi abbozzi; è patrimonio intellettuale se ci si riferisce all’edi1 2 Cfr. L. Bianconi, La musica al plurale, in Musica, ricerca e didattica. Profili culturali e competenza musicale, a cura di A. Nuzzaci e G. Pagannone, Pensa Multimedia, Lecce 2008, pp. 23-32. Cfr. M. H. Schmid, La scrittura musicale come prerogativa della composizione musicale in Occidente, in «Musica Docta», II, 2012 (<http://musicadocta.unibo. it/article/view/3325/2701>; accesso 30 novembre 2012). 32 La musica come bene comune zione critica curata da Fabrizio Della Seta, oppure al testo musicale in quanto testo storicamente concepito e da studiare nelle sue componenti; è patrimonio estetico se si pensa alla Traviata eseguita con canto e suono alla Scala o in altro teatro, o registrata su un disco audio o video.3 Il patrimonio materiale, ossia quello costituito da supporti cartacei, strumentali, architettonici, andrà tutelato, conosciuto, conservato, valorizzato; il patrimonio immateriale va coltivato e trasmesso. In ogni caso occorre essere consapevoli che la musica occidentale non esiste soltanto immaterialmente – come musica da eseguire e da ascoltare – ma lascia importanti tracce materiali: le quali sono indispensabili alla sua conoscenza come fatto storico poliedrico, e alla sua conservazione e trasmissione come fatto estetico. Oggi mi soffermerò solo di sfuggita, e in chiusura di relazione, sul variegato mondo del patrimonio musicale materiale: se volessi parlarne a fondo dovrei aprire un lungo discorso sul concetto di ‘bene musicale’,4 e di conseguenza sulle problematiche delle biblioteche, degli archivi, dei musei musicali, degli edifici destinati alla musica. Focalizzo invece l’intervento sul patrimonio immateriale, in particolare sulla musica suonata, cantata e ascoltata: in altre parole, sulle opere d’arte musicali. Enuncio subito un concetto di base. Quasi tutta la musica occidentale, nel corso dei secoli, è stata concepita per gli ascoltatori (che sono poi anche, nel contempo, degli spettatori): ciò vale per le Sinfonie di Beethoven, per Les Noces di Stravinskij, per Kontrapunkte di Stockhausen, per l’Orfeo di Monteverdi. C’è invero qualche eccezione: p.es. il madrigale del Cinquecento, in cui il gioco sottilissimo che si instaura fra testo letterario, musica e grafia è rivolto in primis agli esecutori stessi, che leggono e cantano dai loro libri-parte.5 Ciò non esclude peraltro il piacere dell’ascolto per gli eventuali uditori. Il patrimonio musicale d’Europa è dunque costituito primariamente da musica che ‘si esegue perché qualcuno la ascolti’: se vogliamo che questo patrimonio venga conosciuto e trasmesso, dovremo for3 4 5 Cfr. L. Bianconi, Musica come bene culturale, in «Il Saggiatore musicale», IV, 1997, pp. 499-506: 502. Cfr. la tavola rotonda I beni musicali: verso una definizione, in «Il Saggiatore musicale», XI, 2004, pp. 157-180. E si tengano presenti anche le implicazioni estetologiche discusse in A. Serravezza, L’educazione estetica alla musica, in Educazione musicale e Formazione, a cura di G. La Face Bianconi e F. Frabboni, FrancoAngeli, Milano 2008, pp. 121-139. Cfr. G. La Face Bianconi, Testo e musica: leggere, guardare, ascoltare, in «Pedagogia più Didattica», IV, n. 1, gennaio 2011, pp. 111-131; anche in «Musica Docta», II, 2012 (<http://musicadocta.unibo.it/article/view/3239/2622>; accesso 18 novembre 2012). G. La Face Bianconi - La Musica d’arte: patrimonio d’Europa 33 mare allora tanto gli esecutori quanto gli ascoltatori. Per quali vie possiamo raggiungere l’obiettivo? Certo, non potrà essere la scuola di base a formare ‘esecutori’ agguerriti che affrontino opere d’arte proibitive come una Sinfonia di Beethoven o il Lohengrin di Wagner. A questo tipo di formazione provvedono i Conservatori e gli Istituti musicali, ossia istituti specifici, professionalizzanti. La scuola può nondimeno porsi l’obiettivo, realistico, di spingere gli studenti all’apprendimento dei congegni tecnici di base, essenziali per comprendere il funzionamento del linguaggio musicale: per farlo, può promuovere orchestre e cori e proporre brani importanti, di qualità, anche in trascrizione facilitata. Essa può poi incidere molto di più nel territorio dell’ascolto. In che modo? Ponendo lo studente a confronto diretto con l’opera d’arte musicale e stimolandolo a un ‘ascolto riflessivo’: ossia a un tipo di ascolto che consenta di impadronirsi della struttura del pezzo, di focalizzarne i punti di aggancio e di snodo, di costruirsene una mappa mentale. Dal brano individuato come punto di partenza, attraverso rimandi costanti alla contestualizzazione storica, il discente potrà essere indotto a ristrutturare incessantemente i propri apprendimenti per giungere, alla fine del percorso, alla comprensione semantica dell’opera; e per approfondirla ogni qualvolta le si accosterà di nuovo. Questo sapere, al quale si perviene per gradi e per scoperte successive, non ha nulla a che spartire con il raccontino nozionistico e banalizzante, con l’aneddoto, col riferimento semplicistico al dato biografico. Si basa invece sulla ‘lettura’ del testo musicale attraverso l’ascolto, su una decodifica e ricodifica che coglie a livello cognitivo-emotivo suggestive e ramificate implicazioni culturali: né più né meno di quanto avviene nelle altre discipline, ad esempio per un canto di Dante, un dialogo di Shakespeare, un’architettura del Borromini, un dipinto di Rembrandt. L’ascolto riflessivo implica nel discente un atteggiamento attivo: è anch’esso un ‘fare’, è una vera e propria ‘esperienza’ (nel senso di John Dewey) che al tempo stesso produce conoscenza e ne è il prodotto. Esso contribuisce altresì al processo generale della formazione, giacché sviluppa cognitività e metacognitività, sollecita l’atteggiamento critico, raffina la sensibilità e il gusto, favorisce la partecipazione emotiva e nel contempo il controllo delle emozioni, rafforza il senso di appartenenza a una tradizione ma stimola anche il rispetto per le altre culture. Insomma, promuove democrazia.6 6 Cfr. G. La Face Bianconi, La musica e le insidie delle antinomie, in La musica tra conoscere e fare, a cura di G. La Face Bianconi e A. Scalfaro, FrancoAngeli, Milano 2011, pp. 11-18. 34 La musica come bene comune La disciplina scolastica denominata ‘musica’ ha dunque bisogno tanto dell’‘ascoltare’ quanto del ‘fare’: la pratica dello strumento e del coro va perciò sempre congiunta all’ascolto di opere musicali di qualità e alla riflessione critico-storica, in un circuito continuo che dall’‘eseguire’ porti all’‘ascoltare’ e viceversa; entrambi conducono al ‘conoscere’. Così concepito, l’insegnamento di ‘musica’ esercita funzioni formative importanti (cognitivo-culturale; critico-estetica; linguistico-comunicativa; emotivoaffettiva; relazionale; identitaria e interculturale).7 La cultura musicale – intesa come ‘conoscenza’ – interagisce peraltro con quella linguistico-letteraria, artistica, storico-filosofica, logico-matematica, divenendo strumento di connessione fra le varie aree del sapere. La conoscenza del patrimonio musicale europeo (European Musical Heritage), intesa come una chiave per connettere le varie aree del sapere, comporta un corollario decisivo: diventa anche un poderoso strumento d’inclusione. Per almeno tre motivi. (a) Perché permette ai cittadini dell’Unione, che appartengono a tradizioni culturali molto diverse fra loro – Cipro non è la Svezia, la Polonia è diversa dal Portogallo – di riconoscersi in una tradizione musicale, e dunque culturale, comune: appunto quella della musica d’arte. Se da un lato la chance dell’Unione Europea risiede, per definizione, nel binomio ‘unità nella diversità’, dall’altro è evidente che, per quante tradizioni musicali popolino le culture dei 27 paesi dell’Unione – e a tutti i livelli, elitario e popolare, urbano e rurale –, la musica d’arte offre una cornice ideale potenzialmente unitaria, concordemente coltivata e praticata su tutta l’estensione territoriale del continente: il messaggio della musica d’arte – non facile né corrivo, e però seducente – ha un’ineguagliata capacità d’irradiazione. In tal senso esso può dare una forte spinta verso la costruzione di una vigorosa identità europea. Una buona educazione musicale contribuisce pertanto a creare una società più coesa e partecipativa. (b) La conoscenza della musica d’arte può favorire una società più inclusiva, giacché attraverso la musica – forse più immediatamente e intensamente che attraverso altre espressioni culturali, dato l’alto potenziale emotivo sprigionato da quest’arte – i cittadini provenienti da Paesi lontani 7 Sulle funzioni formative della musica come le enunciano le Indicazioni per il curricolo per la scuola dell’infanzia e per il primo ciclo dell’istruzione emanate dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca nel 2007 (p. 64 sg.), cfr. l’ampia ricognizione concettuale e storica svolta in G. Pagannone, Le funzioni formative della musica, in Musica, ricerca e didattica, cit., pp. 113-156. Le Indicazioni ministeriali sono state rivedute nel 2012, ma l’enunciazione delle funzioni formative è rimasta sostanzialmente intatta rispetto al testo precedente. G. La Face Bianconi - La Musica d’arte: patrimonio d’Europa 35 come la Cina, la Corea, la Malesia, che in Europa vengono a studiare, possono meglio comprendere la cultura occidentale e abbracciarla nella sua ampiezza. (c) La musica d’arte fornisce infine una chiave di comprensione anche ai gruppi extra-europei che in Europa si trasferiscono non per ragioni di studio bensì di sopravvivenza: una buona educazione musicale rivolta ai bambini immigrati dà loro strumenti di base per acclimatarsi e partecipare attivamente a una civiltà distante da quella d’origine, nella quale però devono imparare a vivere e agire. Una buona educazione musicale corrobora dunque il senso di appartenenza a una determinata tradizione culturale nella sua multiforme varietà, e nel contempo dà strumenti per «il confronto, la conoscenza e il rispetto di altre tradizioni culturali».8 Rafforza il senso di ‘cittadinanza’ negli europei e dona a chi viene in Europa strumenti di comprensione della cultura occidentale. E ciò beninteso nel rispetto delle differenze e della specificità delle tradizioni musicali che ciascun cittadino immigrato – alla stessa stregua di ciascun cittadino comunitario – porta con sé. Dico ‘rispetto’ ma in realtà intendo qualcosa di più impegnativo: è importante che a loro volta i cittadini europei si sforzino di conoscere le culture musicali dei gruppi che migrano verso l’Europa. Ma attenzione: questa conoscenza, se vuol essere vera e reale, esige serietà e non improvvisazione, approfondimento e non superficialità. Non possiamo ridurre la mediazione interculturale a una faccenda di ‘buon cuore’, di spensierata ‘accoglienza del diverso’: occorre conoscere per comprendere, cogliere le differenze per impostare una sintesi. All’Etnomusicologia – allo studio scientifico delle culture musicali di tradizione orale e della loro irriducibile varietà – spetta in tal senso un compito nevralgico nella relazione tra culture diverse.9 Se il patrimonio immateriale, ossia la musica suonata e ascoltata, è un mezzo potente per l’inclusione, la stessa funzione può svolgere anche il patrimonio materiale. Con minor forza di suggestione, ma forse con una marcia in più. Perché il patrimonio materiale – partiture, strumenti, teatri – rivela nel concreto il processo costruttivo, il ‘fare’, l’‘agire’, l’‘operare’ dell’uomo in campo musicale. Un flauto, un manoscritto, una stampa svelano tangibilmente come si produce il suono, come si organizza la scrittura, come la si distribuisce sulla pagina. Un teatro mostra in maniera esplicita il rapporto fra l’edificio e la sonorità, dunque fra architettura e acustica. 8 9 G. Pagannone, Le funzioni, cit., p. 132. Cfr. N. Staiti, «Tutto è zuppa»? Musica interculturalità, educazione: una prospettiva etnomusicologica, in «Il Saggiatore musicale», X, 2003, pp. 135-149. 36 La musica come bene comune Così per uno studente, per un bambino, il fatto musicale diventa esplicito, si fa materia da osservare, da toccare, da padroneggiare con gli occhi, col tatto, oltre che con l’udito. In questo senso il museo della musica – che certo non attira le orde di visitatori che affollano le grandi pinacoteche – ha un compito fondamentale.10 Esso si pone come strumento didattico d’eccellenza, in quanto mostra e spiega processi artistici e culturali complessi, che hanno condotto la società occidentale, in secoli e secoli di civiltà, a sviluppare tradizioni musicali specifiche. E i segni concreti che esse hanno lasciato svelano il senso profondo della cultura che le ha prodotte, alla quale apparteniamo e alla quale tutti siamo chiamati a partecipare. Il museo musicale diventa dunque lo spazio per un’esperienza formativa;11 fattasi oggetto, la musica corrobora il senso storico, fondamentale in ogni processo d’inclusione socio-politico che voglia essere efficace. Sono convinta che nei prossimi anni l’attenzione alla musica d’arte d’Europa – intesa come patrimonio sia materiale sia immateriale – potrà sviluppare, assieme ad aspetti della cultura artistica e letteraria, il senso culturale e politico dell’Europa unita, il quale non può certo costituirsi soltanto attraverso una moneta unica, più o meno forte, e comunque preda di un mercato sempre più aggressivo e oscillante. È dunque importante che il Parlamento d’Europa e la Commissione europea colgano i processi culturali in atto e diano spazio e impulso a forme di cultura capaci di costruire davvero un’Europa consapevole della propria tradizione e della propria forza intellettuale, e perciò premurosa di quel ‘bene comune’ che consiste nella musica d’arte. 10 Cfr. E. Pasquini, Quale didattica museale per i Beni musicali?, in La musica tra conoscere e fare, cit., pp. 81-88. 11 Così E. Nardi, citata in E. Pasquini, ivi, p. 85. 37 Ludovica Malknecht “IL DEFINITIVO APPAGAMENTO DELL’ESSERE”: MUSICA E ISTANZA ETICA IN HERMANN BROCH L’esigenza – particolarmente avvertita nei periodi di crisi o di transizione – di affermare il primato di questioni di ordine etico-politico, volte alla ricostruzione del tessuto sociale o alla promozione del bene comune, può investire la funzione dell’arte in modo che le sue condizioni di possibilità vengano ripensate a partire dalla loro incidenza o meno all’interno di un più vasto sistema di valori e conoscenze, oppure, che alle produzioni artistiche e culturali vengano implicitamente rivolti interrogativi orientati a metterne in discussione o a rifondarne la legittimità. Si tratta di problemi che si sono imposti in modo urgente e drammatico alla cultura europea del Novecento, in particolare in ambito germanico, con l’esperienza delle due guerre, quando tali problemi si caricavano di ulteriore gravità a causa della percezione sempre più nitida del nesso tra simbolizzazione culturale e catastrofe storica, dando luogo a una profonda assunzione critica del patrimonio intellettuale. In questo contesto si colloca la figura di Hermann Broch, il quale presenta il problema dell’arte e della sua legittimità morale come una questione specificamente legata alla contemporaneità ed è per questo che le sue considerazioni in ambito estetico sono spesso declinate in rapporto a una specifica filosofia della storia o presentate nei termini di una diagnosi epocale, in cui la musica – come si potrà osservare – assume un ruolo tutt’altro che marginale. Il contributo richiesto per l’almanacco in commemorazione di Arnold Schönberg, pubblicato da Simon Fischer nel 1934, diede occasione a Broch di dedicare alla musica una specifica riflessione teorica: le Riflessioni sul problema della conoscenza in musica.1 Ricondurre l’argomento musicale a problemi di natura gnoseologica significava già, per Broch, sottoporre il discorso sulla musica all’istanza etica che procede dal fatto estetico e collocare quest’arte, come era stato fatto con la poesia, nella dimensione di 1 H. Broch, Riflessioni sul problema della conoscenza in musica, in Id., Azione e conoscenza, tr. it. di S. Vertone, Lerici, Milano 1966, pp. 101-112. 38 La musica come bene comune senso di quelli che sono stati definiti i «tre vertici»2 del pensiero e dell’esperienza brochiani: poesia, conoscenza e azione. Per Broch, infatti, le diverse arti falliscono il proprio obiettivo nel momento in cui non esprimono conoscenza, diventano autoreferenziali e svincolate da una prassi connotata eticamente, prive di una finalità pratica. Questa finalità pratica, che Broch si assunse tanto nelle elaborazioni teoriche, nell’attività poetica, quanto nella propria esperienza umana, trova compiuta espressione nel tema dell’‘aiuto’, dell’effettivo bene, cui ogni uomo ha diritto e che ogni uomo ha il dovere di perseguire. Come sottolinea Hannah Arendt, nella Prefazione alla raccolta dei saggi brochiani,3 la questione basilare che orientava tanto l’indagine teorica quanto l’esigenza pratica di Broch, era la domanda sul ‘che fare’,4 una domanda che non poteva fare a meno di cimentarsi con il tratto specifico dell’epoca ma anche con il problema dell’uomo in generale, determinante per il senso della sua esistenza, del suo conoscere e del suo agire. È così che la domanda sul ‘che fare’ si radicalizza di fronte al limite estremo dell’esistenza umana, assumendo come problema fondamentale il problema della morte: La risposta a questa domanda [al ‘che cosa dobbiamo fare’] doveva quindi riferirsi non soltanto alla nostra epoca ma al fenomeno della morte in se stesso. L’interrogativo poteva bensì scaturire dai problemi del nostro tempo, ma al di là di questi, almeno nell’interpretazione datane da Broch, esso era pur sempre una interrogazione sulla possibilità di superare la morte nel mondo. E la risposta, per essere all’altezza del problema della morte, doveva perciò possedere lo stesso carattere di inevitabilità, la stessa inesorabile necessità della morte.5 Almeno in una fase più matura del suo pensiero, Broch nega alla poesia (ovvero alla propria attività), e alla conoscenza che essa dischiude, questo «carattere assoluto e necessitante che – spiega Arendt, sintetizzando le argomentazioni brochiane – in una salda immagine religiosa del mondo spetta al mito di cui [la poesia] è ancella».6 Questa insufficienza della poesia a 2 3 4 5 6 H. Arendt, Prefazione, in H. Broch, Poesia e conoscenza, tr. it. di S. Vertone, Lerici, Milano 1965, pp. 9-49: 9. H. Arendt, Prefazione, cit. Domanda cui Broch dà particolare rilievo nel saggio su Il male nel sistema dei valori dell’arte, in Id., Poesia e conoscenza, cit., pp. 395-441: 397: «L’umanità si è venuta via via estraniando dalla propria coscienza e, ciò malgrado, ha cominciato a sentir ritornare nella propria anima, sempre più insistente e oppressiva la domanda sul ‘che fare’». H. Arendt, Prefazione, cit., p. 17. Ivi, p. 16. L. Malknecht - “Il definitivo appagamento dell’essere”39 generare conoscenza presenta una precisa connotazione epocale: la poesia vede minacciata, quando non espressamente negata, la propria legittimità, perché non più capace di rappresentare in modo unitario la totalità dell’epoca che ha perduto anch’essa la salda unità del fondamento dei valori e della conoscenza. Il fascino che la nozione di totalità esercita sul pensiero brochiano non può essere svincolato dall’esigenza di un’autentica comprensione della realtà come condizione per la partecipazione alla vita (nel saggio sulla musica Broch parla espressamente di un «sapere attivo»7). Il riferimento costante alla totalità permette di elevare lo sguardo dell’uomo oltre l’apparenza degli elementi isolati per farlo penetrare nell’orizzonte (totale) del senso e di aderire effettivamente alle cose che, all’interno di questo orizzonte, possono essere colte nella loro verità. Il senso e il sentimento della totalità si rivelano allora precondizione di ogni conoscenza, in cui ogni particolare viene sottratto alla contingenza e compreso secondo la «legge che lo lega a tutte le cose».8 Una simile comprensione del mondo è quella in grado di porsi come un orientamento alla prassi, proprio perché in grado di sostenere la relazione tra il “proprio essere” e la totalità. Nel saggio del 1934, è la musica a presentare i requisiti di rigore e unità che, tra le diverse arti, l’arte musicale condivide in maniera specifica con l’architettura.9 L’architettura, infatti, è l’arte che reca in sé, nel modo più essenziale e costitutivo, l’impronta dello stile, in cui l’unità dello Zeitgeist, lo ‘spirito dell’epoca’, viene portata a espressione. Nello stile architettonico emerge l’elemento unitario che rimanda all’orizzonte della totalità, l’orizzonte del Logos. «Lo ‘stile architettonico’ è logica»10 – afferma Broch –, la stessa logica che sostiene ogni singolo elemento del reale e che prende corpo nella spazialità dell’architettura. La sua specificità formale emerge alla luce del primato valoriale attribuito da Broch alla spazialità rispetto alla tempora7 H. Broch, Riflessioni sul problema della conoscenza in musica, cit., p. 106. La conoscenza del Logos si configura come un «sapere attivo» che pervade l’uomo mediante il sentimento (Gefühl) con cui egli percepisce se stesso e i singoli fenomeni del reale all’interno della totalità, all’interno di quella «logica delle cose» (ivi, p. 103) presiedute e sostenute, appunto, dal Logos. Questo sentimento è, per l’uomo, «[…] il più prezioso della sua vita. E’ appunto questo sentimento [che] permette all’uomo sinceramente legato alla vita di comprenderne i fenomeni e di farsi afferrare dal mondo; è questo sentimento che lo spinge a tendere incessantemente l’arco che unisce il fenomeno singolo alla totalità del reale e quella del proprio essere». (Ivi, p. 106). 8 H. Broch, La Morte di Virgilio, tr. it. di A. Ciacchi, Feltrinelli, Milano 2010³, p. 374. 9 Cfr. H. Broch, La disgregazione dei valori, in Id., Azione e conoscenza, cit., pp. 7-49, in particolare, pp. 7-17. 10 Ivi, p. 12. 40 La musica come bene comune lità, a partire da una concezione dello ‘stile’ che diventa paradigmatica nello stile architettonico. Dietro il fenomeno dello stile Broch intravede […] il problema fondamentale di ogni filosofia, l’unico che sia in grado di legittimare la filosofia stessa: l’angoscia davanti al nulla, l’angoscia per il tempo che ci trascina verso la morte. E l’inquietudine che suscita in me la cattiva architettura […] forse non è altro che questa angoscia. Perché tutto quello che facciamo, lo facciamo per annullare, per superare il tempo; e questo superamento si chiama spazio. Persino la musica che pur si muove unicamente nel tempo e che lo realizza, trasforma il tempo in spazio.11 La musica, dunque, determinando più di ogni altra arte la spazializzazione del tempo realizza compiutamente il principio della forma architettonica. In altre parole, se la connotazione essenziale del tempo è quella di essere proiettato e, dunque, di proiettare verso la morte, ogni attività umana che si opponga a questa tendenza dovrà intendersi come produzione di spazio, ossia – nella terminologia di Broch – creazione, produzione di valore. La musica si afferma allora come attività propriamente razionale, ‘logica’, assumendo un ruolo del tutto peculiare, che investe il fondamento della vita umana e della sua destinazione ultima. Nelle Riflessioni sul problema della conoscenza in musica la prospettiva brochiana assume un’ulteriore specificazione e sfumatura: il superamento del tempo «lanciato verso la morte» avviene solamente mediante la comprensione della morte all’interno della totalità, in modo tale che la cognizione della morte si rivela come il vero e proprio «fulcro gnoseologico» dell’assetto architettonico-musicale: È questo il fulcro gnoseologico della musica. L’organizzazione architettonica del decorso temporale attuata dalla musica, questo immediato superamento del tempo lanciato verso la morte, è infatti anche immediato superamento della morte nella coscienza dell’umanità. Ogni vera conoscenza è volta verso la morte, serve a far sì che la cognizione di essa permei di sé la vita; né esiste una totalità del mondo che non racchiuda in sé la morte. Per questo la musica ha il compito di realizzare, in ogni conoscenza che esprime,un atto di liberazione, un atto irrazionale e mistico e pur tuttavia dotato di convincente rigore, un atto di conoscenza che in una sola opera faccia emergere la totalità del modo: specchio monadico di un processo infinito.12 11 Ivi, p. 13. 12 H. Broch, Riflessioni sul problema della conoscenza in musica, cit., pp. 110-111. L. Malknecht - “Il definitivo appagamento dell’essere”41 La musica ‘conosce’ la morte perché ‘conosce’ il tempo che essa pur realizza e trasforma in spazio. Ma conosce anche la vita perché solo la conoscenza della morte svela la totalità, l’unità nella quale i singoli elementi del reale possono essere conosciuti nella loro verità, nella «perenne unità del significato», che la conoscenza della sola vita non può esaurire.13 Per considerare la portata che questa tematica assume nel panorama più vasto della produzione brochiana si tenga presente come nella Morte di Virgilio (1945) la conoscenza della morte sia il fine che il poema virgiliano avrebbe dovuto perseguire e il cui fallimento esige dal poeta l’estremo sacrificio. Nel romanzo, l’assetto musicale-sinfonico e il continuo approssimarsi della parola alla musica nello slancio mistico-lirico della narrazione corrispondono al sacrificio stesso della parola e, soprattutto, al sacrificio della parola poetica. Dove la parola fallisce il contenuto, dove l’arte è impossibilitata a esprimere l’inesprimibile e a dire l’indicibile, la musica riempie delle proprie forme il vuoto del significato che la poesia non riesce più a mediare, mantenendo il rinvio alla totalità che, se non è la parola definitiva che svela il mistero,14 è pur sempre un indicare, un alludere alla vera meta, un lambire il segreto e un approssimarsi a esso. Se un simile superamento della parola corrisponde a in qualche modo al suo annullamento e all’annullamento stesso della realtà da cui la parola procede,15 la forma 13 Cfr. H. Broch, La morte di Virgilio, cit., p. 374: «[…] la conoscenza della vita, terrenamente legata alla terra, non potrà mai innalzarsi al di là dell’oggetto conosciuto e donargli l’unità, la perenne unità del significato, in forza del quale la vita esiste come creazione e nella sua eterna esistenza viene eternamente ricordata. Solo colui, che in virtù della sua conoscenza della morte è consapevole dell’infinito, è in grado di fermare la creazione, la singola cosa nella creazione, come l’intera creazione in ogni singola cosa. Perché il particolare non si lascia cogliere in sé; solo nel suo rapporto, solo nella legge che lo lega a tutte le cose, esso è durevole». 14 Si tratta della parola celebrata nella parte conclusiva della Morte di Virgilio, della parola «al di là dell’esprimibile e dell’inesprimibile», «al di là del linguaggio», corrispondente alla musica che «era più che canto, più che tocco, più che nota, più che voce perché era tutto questo ad un tempo e prorompeva dal nulla e dal tutto come intesa più alta di ogni intendimento, come significato, più alto di ogni comprensione, come la pura parola che era, sublime, al di là di ogni comunicazione e di ogni significato» (ivi, p. 539). Cfr., inoltre, G. Schiavoni, Hermann Broch, La Nuova Italia, Firenze 1976, pp. 67-72. 15 Cfr. L. Mittner, Storia della letteratura tedesca. Dal realismo alla sperimentazione, Einaudi, Torino 1977 (2002), p. 1477: «Si può ammirare l’ampio respiro delle parti innodiche del romanzo Der Tod des Vergil, in cui il periodare stesso sembra voler creare un senso d’infinito allargandosi all’infinito nella sequenza di anafore, parallelismo amplificazioni; ma tale estremo rafforzamento di certi aspetti esteriori dei salmi non crea affatto una nuova e grande poesia. Qui è il primo pericolo in- 42 La musica come bene comune musicale sembra colmare della propria spaziale temporalità lo spazio vuoto e l’attesa generati da questo annullamento, effettiva cognizione e utopico superamento del vuoto e della morte. Conoscere la morte, nella fase più matura della pensiero brochiano, significa negarla come assoluto, sia pur come assoluto disvalore, poiché la conoscenza della morte implica la proiezione della vita in quell’assoluto che è già sempre oltre morte, attestando la possibilità del suo superamento. Ecco allora che la conoscenza offerta dalla musica manifesta pienamente la propria valenza etica, indicando all’uomo la dimensione di senso nella possibilità stessa di trascendere la morte. Il continuum delle sue forme consente alla musica di instaurare la stabile razionalità del Logos, secondo una dinamica che Broch spiega con queste parole: La tendenza ad equilibrare una situazione o ad instaurare l’equilibrio della “verità” copre sempre l’aspirazione a trasformare la corsa precipitosa della vita in una situazione statica, in uno stato di riposo che, come approssimazione al definitivo, sia in grado di fornire l’illusione del superamento del tempo e del superamento della morte. Se tutti i contenuti del mondo potessero essere portati ad una condizione di equilibrio, se il mondo potesse essere concretamente formato e trasformato in un sistema della totalità, in un sistema in cui ogni parte condiziona e sostiene l’altra, se questa situazione (che la scienza persegue nell’ambito strettamente razionale) potesse realmente instaurarsi, si instaurerebbe allora anche il definitivo appagamento dell’essere, la liberazione del mondo cui tende qualsiasi aspirazione metafisica e religiosa dell’umanità.16 Il «definitivo appagamento dell’essere» e la «liberazione del mondo» dovrebbero passare per la sua perfetta trasformazione in un «sistema della totalità» di cui Broch percepisce il carattere, più che utopico, illusorio, senza però rinunciare all’anelito effettivamente utopico che procede dalla formulazione stessa di quest’ipotesi. La configurazione specifica della conoscenza musicale può dunque offrire all’esigenza unitaria della teoria brochiana un paradigma significativo dello stato di equilibrio cui il mondo anelerebbe e che viene ammantato di proprietà mistico-redentive. La coscienza della crisi, lo sguardo critico e tragico che Broch rivolge al proprio tempo si rendono percepibili nella vocazione unitaria della sua prospettiva e dietro il misticismo nostalgico delle sue aspirazioni coscientesito nell’arte di Broch; pericolo permanente, ineliminabile, perché derivante dal più profondo impulso dello scrittore che, teso sempre verso l’estremo sacrificio, anela a distruggere la realtà concreta e, con essa, la parola umana, la parola della poesia». 16 H. Broch, Riflessioni sul problema della conoscenza in musica, cit., p. 109. L. Malknecht - “Il definitivo appagamento dell’essere”43 mente inappagabili. La necessità di una trasformazione, che non concerna solamente l’assetto politico e sociale della realtà, ma che ne investa il più profondo ordine strutturale e lo statuto metafisico, si impone alla concezione brochiana, in cui l’aspirazione alla totalità coincide con la ricerca o, meglio, con la nostalgia del fondamento ultimo e universale. Solo tale fondamento potrebbe ricomporre la frantumazione che Broch riscontra in ogni ambito del reale, nella specializzazione dei saperi come dei valori, nell’«atomizzazione di ciò che una volta era stata la totalità».17 Di fronte alla disgregazione dei valori, all’atomizzazione del reale e alla caduta del senso, il potere creativo e costruttivo della musica si configura come il miracolo inatteso capace di spezzare il mutismo del mondo reificato: Erompendo dalla forza indomabile che tende alla formazione dello spazio e malgrado la terribile astrazione della vita della nostra epoca, malgrado la sua palese impotenza a creare valori, è infine giunta a noi come un dono di Dio (e proprio nel momento in cui la fede in Lui si stava spegnendo e il mondo diveniva muto) la musica, una lingua astratta del silenzio che copre il rumore delle macchine ponendole al suo servizio. Il mondo fruisce oggi di una musica, anzi di una pratica musicale prima inaudita, nel senso letterale del termine; coprendo il silenzio questa lingua rimane, almeno come potenzialità strutturale, musica, e cioè la più astratta forma di strutturazione dello spazio, ultima o forse prima realizzazione di valore della nostra epoca.18 17 Cfr. H. Broch, La disgregazione dei valori, cit., p. 29. 18 H. Broch, Logica di un mondo in declino, in Id., Azione e conoscenza, cit., pp. 5168: 67-68. 45 Quirino Principe LA DELEGITTIMAZIONE DELLA MUSICA COME BENE COMUNE. LA RESPONSABILITÀ DELLA CULTURA CATTOLICA in te, lucifer, speravi portae inferi praevalebunt Simulacra diaboli Christus perfregit.. Iulius Firmicus Maternus, De errore profanarum religionum, 8 edidit Konrat Ziegler, Teubner, Leipzig 1907 …squalet lucifugis insula plena viris; ipsi monachos Graio cognomine dicunt… Claudius Rutilius Namatianus, De reditu suo, I, 440-441 La qualità di “bene comune” che noi riconosciamo alla musica ha significato soltanto a una condizione irrinunciabile: che si distingua tra musica forte e musica debole. I due termini di distinzione devono essere intesi non come contrari e incompatibili, tali che l’uno escluda l’altro, bensì come estremi di un’unica scala dinamica e perciò axiologica, ossia come due poli opposti e sovente contrapposti di ciò che intendiamo come “energia musicale” graduata. Do per scontato che oramai si conosca ciò che intendo con gli ag- 46 La musica come bene comune gettivi “forte” e “debole” applicati alla nozione di “musica”, e che sia noto il mio richiamo alla possibilità della musica forte di degradare in musica debole, e della musica debole di rinvigorirsi in musica forte, e alla conseguente esistenza di infiniti gradi dinamici intermedii. Tale “Wertungsforschung” finalizzata alla musica implica la scelta di una “Gestalt”, in armonia con un orientamento dello schema mentale immediato cui adattiamo la nostra immagine dell’universo. La suddetta scala dinamica e axiologica, che essendo graduata lungo infiniti gradi è propriamente una “gamma”, non si adagia su un piano orizzontale, bensì ascende o discende in direzione verticale. Musica forte e musica debole non sono “di qua” o “di là”, a destra o a sinistra o in mezzo, bensì “su” e “giù”, in alto o in basso a media quota. La direzione verticale, che dev’essere guida immediata della “Anschauung” se vogliamo anche soltanto tentare un malcerto avvicinamento all’essenza della musica, una volta messa a fuoco e considerata con attenzione si rivela come “symbolische Form”. Tale forma altamente, anticamente e nobilmente simbolica è la piramide, attraverso la quale traspare, luminosa, la tetraktýs pitagorica. In basso, gli infiniti punti che giacciono alla base della piramide sono lontani, indifferenti, ossessivamente monotoni, di una monotonia erroneamente chiamata “uguaglianza”, e raramente solidali, poiché data la loro condizione e collocazione la morte dell’uno non trae con sé di necessità la morte dell’altro. Se li consideriamo una metafora della società, essi sono figura di una tendenziale disorganicità, di una debolezza sociale, di un disfacimento “ab aeterno” in cui la coesione è una parola d’ordine illusoria e ideologica. A mano a mano che si sale lungo un qualsiasi spigolo della piramide, la fatica dell’ascesa ci ricompensa con l’avvicinarsi progressivo dei punti, sempre più legati organicamente l’uno con l’altro, fino a raggiungere il vertice che tutto lega in prossimità dell’Uno. In prossimità, così come il ramo discendente dell’iperbole si avvicina infinitesimamente all’asìntoto: l’Uno assoluto, “inesteso” secondo la definizione euclidea, è invisibile, inconcepibile, irraggiungibile. La musica forte è tanto più forte quanto più è vicina al vertice della piramide: ed è appunto Nuper rosarun flores di Dufay o la Matthäuspassion di Bach o Tristan und Isolde di Wagner o la Rhapsody in blue di Gershwin o Lux aeterna di Ligeti. La musica debole è tanto più debole quanto più scende lungo uno spigolo, e diventa mero e monotono impulso ridotto al minimo quando si adagia alla base: ed è appunto l’adagiarsi di quel ripetitivo e mai variato “Viagra acustico” che è il ritmico gracidìo imposto dai DJ nelle discoteche. La visione verticale è dunque obbligatoria, se vogliamo orientarci fra i diversi aspetti (e “tra” i diversi aspetti) della fenomenologia musicale. È un Q. Principe - La delegittimazione della musica come bene comune 47 errore l’abitudine a considerare i diversi gradi di energia, di nobiltà, di rango e di potenza semantica e intellettiva, connotanti, in quanto gradazioni in più o in meno (più forte, meno forte, più ampio nel respiro, più soffocato, traumatizzante, sedativo, irritante, noioso, esaltante, monotono…), diverse qualità di musica, sì, è un errore volerli considerare come “generi”, ciascuno con lo stesso grado di legittimità e di funzionalità intellettuale, formativa, sociale: tutto sullo stesso piano orizzontale, tutto allo stesso livello in nome della “democrazia”, qua la “classica”, là dietro San Remo, un po’ di lato il rock, alla terza a sinistra c’è il “metal”, ancora cento metri ed ecco il New Age… No, ciò che definisco “musica debole” non è qualcosa di “diverso”, non è, come si usava dire alla maniera sessantottina, “un altro tipo di discorso”, qualcosa che si collochi “da un’altra parte”. No, è semplicemente una cosa fatta da qualcuno che ha pochi mezzi e poche idee, che è tecnicamente inferiore poiché è sprovveduto, poiché non ha studiato né imparato abbastanza, poiché è un orecchiante. Non è qualcosa di peccaminoso né di sovversivo né di scandaloso né di “proibito” (magari lo fosse!): è una cosa fatta così così, o addirittura mal fatta, fatta rozzamente e dilettantescamente, con poveri mezzi, ai quali la petulante iterazione (obbligatoria, altrimenti quella tal cosa si arresterebbe dopo due battute, dopo una manciata di suoni… o di “sounds”…) non toglie la noiosità né la stucchevolezza. Alle Olimpiadi, gli atleti si misurano in diversi sport, ciascuno articolato in diverse specialità. Fra queste, per esempio, si corrono i 200 metri piani. Se un atleta in competizione è costretto a fermarsi a poco meno della metà del percorso di gara, se non ce la fa o inciampa e zoppica, ciò non significa che si debba legittimare e ufficializzare la “specialità olimpica” dei 97 metri e 03 centimetri piani con crampo e azzoppamento con obbligo di fiatone. È, semplicemente, una sconfitta, un flop. Se, in una gara per aspiranti cuochi con l’obiettivo di diventare chef all’Hotel Astoria di Nimmermehr sul Niemand, un concorrente non sa preparare la maionese e il soufflé gli riesce simile a un blocco di gesso per stuccatori, non per questo le nuove edizioni dei trattati di Anthelme Brillat-Savarin o di Pellegrino Artusi registreranno, fra le nuove specialità gastronomiche, la mayonnaise tournée à la Sainte-Lady-Gaga e il soufflé à la Sainte-Pierre. Oh, non che poi si debbano gettare subito nella spazzatura: andranno sempre bene per il fox terrier di casa. No, ciò che abbiamo definito “musiche deboli”, senza alcuno sprezzo elitario, si badi, ma con una persistente fedeltà al criterio dell’«unicuique suum», non sono quartieri della stessa città, agevolmente comunicanti, bensì stazioni di un’ascesa in alta montagna. Si tratta di qualità, di altezza crescente, di aria sempre più sottile e ravvivante. Mercoledì 4 aprile 2012, 48 La musica come bene comune sul “primo e più importante quotidiano d’Italia” (quello in cui un cronista musicale da anni scrive “kappelmeister” con due “P”, una “L” e l’iniziale minuscola, in luogo del corretto “Kapellmeister” con una “P”, due “L” e l’iniziale doverosamente maiuscola trattandosi di parola tedesca), apparve un articolo in cui si esprimevano considerazioni sul prossimo spettacolo di tale Vasco Rossi al Teatro alla Scala, e si aggiungeva che era quello, “finalmente”, il tentativo di “abbattere le barriere tra il rock e la musica classica”. Affermazione ridicola, ma anche il riso alla fine non diverte. A parte la stolida abitudine d’insistere in quella sciagurata terminologia, “musica classica”, che una buona volta DEVE essere sostituita irreversibilmente con “musica forte”, non merita commenti l’immagine della “barriera”, scelta ad evocare visivamente il presunto “contrasto”. Non c’è alcun “contrasto”, né sussiste alcuna “barriera”. Contrasto e barriera presupporrebbero una contiguità e una collocazione sullo stesso piano del terreno. C’è, invece, lontananza vertiginosa, né può aver luogo alcuno scontro: la tigre non può lottare contro una zanzara. La nozione di bene comune è soltanto in apparenza appartenente alla sfera dell’avere, e soltanto in forza di linguaggio figurato sembra alludere a qualcosa di simile a un possesso. In realtà, essa attiene alla sfera dell’essere, e si riferisce piuttosto a una qualità cui si adatta una valutazione axiologica. Soltanto ciò che ha una pienezza di significato è un “bene”, ed è significativo che esso sia di comune partecipazione. Ciò che ha un significato debole o non ne ha affatto non merita neppure d’essere considerato in termini di axiologia. Perciò, quando parliamo di musica come bene comune sottintendiamo sempre che si assuma come oggetto la musica forte, non la musica debole: e do per scontato che oramai sia nota questa terminologia, che ho proposto alcuni anni fa in luogo dei termini impropri se non addirittura errati come “musica classica”, “musica leggera”, “musica colta”, “musica d’arte”, “musica di consumo”, eccetera, e delle quanto mai improprie se non errate contrapposizioni che ne derivano. La nozione di musica come bene comune dev’essere libera da qualsiasi sottinteso ideologico, dal momento che ogni ideologia si ritaglia il suo spazio nella sfera dell’avere, ed è assolutamente estranea alla sfera dell’essere. Se le ideologie riconoscessero la propria collocazione nella sfera dell’avere, sarebbero tollerabili, così come lo sono sempre i nemici leali che si presentino con le proprie autentiche generalità. Le ideologie, invece, sono tali per definizione proprio poiché si presentano come verità pertinenti la sfera dell’essere. Le ideologie sono fondate, per definizione, sulla menzogna. Fra le ideologie, le più spudoratamente fondate sulla menzogna sono le religioni caratterizzate da un Libro e da una presunta “rivelazione” elar- Q. Principe - La delegittimazione della musica come bene comune 49 gita da un presunto “Dio”. Una religione “rivelata” è una menzogna perfetta. Infatti, essa diffonde con spirito di conquista (e di rapina) la “parola di Dio”, e per far ciò spinge l’atto del mentire a un grado supremo di virtuosismo, riconoscendo apertamente che lo spazio di diffusione della “parola di Dio” è la sfera dell’avere. Non altro se non la sfera dell’avere è il promesso Aldilà, il premio concesso da Dio alla fede e alle opere poste al servizio di Dio (ossia, di una Chiesa e particolarmente di una gerarchia o consorteria ecclesiastica e sacerdotale costituita in gruppo di potere e di dominio sui deboli e sugli illusi). Ma, con somma astuzia, quella stessa religione decreta che la sfera dell’avere così intesa è una sfera trascendente, ontologicamente superiore, e perciò coincide con la sfera dell’essere. Uno degli argomenti con cui l’ipocrita arroganza di cui il cristianesimo da sempre si nutre pretende d’istituire un legame organico tra la propria esistenza storica e le ragioni della musica (in generale, delle arti), è il noto invito ad apprezzare l’immensa quantità e l’altissima qualità delle opere d’arte visiva, di poesia, di musica nate dal terreno della cultura cristiana. L’argomento vorrebbe essere schiacciante quando si esercita in ambito propriamente cattolico, dal momento che nei paesi cattolici d’Europa le arti visive, nel vasto orizzonte storico, sembrano avere raggiunto il massimo grado di densità, di doviziosa inventiva e di qualità. Il primato, sempre nella considerazione d’insieme e in un vasto orizzonte, non può non essere riconosciuto alla Primavera di Botticelli che è opera laica su commissione laica ma è consanguinea alla Scuola d’Atene di Raffaello, opera sublime in sede vaticana; alla cattedrale fiorentina di Santa Maria del Fiore, ideata da Brunelleschi più agnostico che religioso cui si associò, nel comporre un mottetto sacro di consacrazione qual è Nuper rosarum flores in cui le misure proporzionali della cattedrale si riproducono in musica, il credente e devoto Dufay; alla Commedia dantesca, volta a rappresentare la soprannatura e l’aldilà; a Machault, Ockegem, Palestrina, Gesualdo, Monteverdi, Vivaldi (e allo stesso Johann Sebastian Bach, luterano certamente ma capace di assorbire l’intera tradizione anche cattolica della musica sacra occidentale). Ma in realtà tutti quei capolavori devono assai poco ai dogmi cattolici e meno ancora alla cosiddetta “morale” cattolica: essi sono nati malgrado se non addirittura contro le condizioni materiali, economiche e politiche – dominate dalle gerarchie ecclesiastiche – in cui esse, in quanto opere d’arte in sé e non in quanto gesto polemico o criptico o allusivo e eventuale oggetto di “do ut des”, nacquero. In particolare, le gerarchie cattoliche hanno esercitato un mecenatismo soltanto apparente, mentito: per esse, l’arte come oggetto di riflessione pseudo-teologica (nessuna delle tre religioni abramiche ha prodotto una riflessione teologica che si possa ra- 50 La musica come bene comune gionevolmente prendere sul serio…, come invece è accaduto in altri ambiti religiosi della civilizzazione umana, e basti l’esempio dell’induismo), gli artisti, le opere d’arte da essi create, sono “possessi”, fanno parte della sfera dell’Avere, così come le biblioteche, gli strumenti musicali. In origine, il cristianesimo cominciò a costruire una dogmatica involontariamente comica rubando e scopiazzando concetti e idee (si pensi anche soltanto al λόγος, alla nascita di un Redentore, ai fedeli che “mangiamo” il corpo del loro dio…). Rapina di idee che è divenuta rapina di parole, rapina linguistica; quest’ultima, a sua volta, è divenuta rapina di cose, di beni culturali, di attribuzioni e di meriti storici. Il cristianesimo, e particolarmente il cristianesimo di confessione cattolica, subordina a tale obiettivo trascendente (mascheramento di obiettivi tangibilmente terreni) qualsiasi linguaggio, con un occhio di riguardo per i linguaggi delle diverse arti: fra esse, la musica ha la posizione di rilievo che conosciamo. Nella tradizione cattolica, la musica, apparentemente fiorita con il conforto e la benedizione della Chiesa, in realtà è stata ripetutamente umiliata e ridotta a strumento della liturgia, del proselitismo e della laudatio Dei. La concezione della musica come “instrumentum imperii” è divenuta accentuatamente cinica e impudente negli ultimi cento anni, e più che mai negli ultimi decenni, da quando la Chiesa cattolica,1 desiderosa di 1 So perfettamente quale sia, da parte cattolica, l’immancabile bacchettatura “correttiva” nei confronti di chi, come me, addita le responsabilità dell’apparato di potere definito, con legittima espressione linguistica, “Chiesa cattolica”. Con supponenza, con derisione, con volgari insulti, ci si replica che la Chiesa cattolica è “l’insieme di tutti noi fedeli cattolici” intesi come ”popolo di Dio” (sinistra, ripugnante espressione!), come ”corpo e sangue nella comunione dei santi [!]” e come “Chiesa vivente”. Insomma, un Leviathan, un odioso monarca fatto di milioni di corpi miserandi, e per giunta lagnoso, baciapile, litaniante e salmodiante. È inutile ogni commento: questa ipocrita definizione di “Chiesa cattolica” non riesce a nascondere la vera natura di un potere oligarchico, feroce, fondato su una gigantesca bugia cui credono i gonzi, illiberale nel midollo, animato da spirito di rapina. Analogamente, la speculare e complementare menzogna da parte della gerarchia di potere di un preteso Stato “laico” (?), secondo cui “lo Stato siamo tutti noi cittadini”, non riesce a nascondere la vera natura di ciò che lo Stato è de facto: una consorteria o corporazione di potenti corrotti e analfabeti, arroccati al vertice dei tre poteri idealizzati come “indipendenti” da Locke, da Montesquieu, da Tocqueville, e in realtà sovente in contrasto tra essi stessi, ma solidali nel perseguitare i cittadini, nel trasformarli in sudditi, nel privarli gradualmente delle fondamentali libertà, nel saccheggiare e distruggere i loro beni mediante l’ignominia fiscale. Nella condotta criminale della Chiesa e dello Stato, quest’uso nominalistico e falsificante delle parole “Stato” e “Chiesa” e la corruzione del rapporto tra significato e significante sono forse i crimini più osceni. Q. Principe - La delegittimazione della musica come bene comune 51 vendicarsi di un Occidente secolarizzato e delle sue laiche e “pagane” concezioni estetiche, ha dato un calcio alla cultura occidentale, investendo i propri sforzi di proselitismo, o almeno di sopravvivenza là dove una conquista (a causa dell’aggressiva invadenza dell’Islam) è impossibile, nelle culture asiatiche, africane, sudamericane. Così la Chiesa cattolica ha gettato la maschera, e anche nei confronti della musica forte, verso la quale inclinano paradossalmente, in grande numero, le migliori intelligenze musicali del mondo non occidentale, essa ha smesso di fingere simpatia e rispetto. Non soltanto ha smesso di fingere. Mentre quella colossale pagliacciata che fu il Concilio Vaticano II, prova generale delle grottesche farse giovanpaoline, gonfiava le sue vele, la Chiesa cattolica già elaborava dichiarazioni sprezzanti e ostili nei confronti dei più “strategici” e connotativi fra i supremi beni culturali d’Occidente. Ha immediata evidenza l’immane opera di distruzione perpetrata dal cristianesimo, con violenza e con frode, con assassinio, ricatto, intimidazione, terrore, plagio, corruzione, ipocriti appelli alla “compassione” e alla “solidarietà”, sul corpo vivo di grandi e civilissime culture: l’antica egizia trasfusa nell’ellenismo alessandrino (un crimine che superò la frontiera del descrivibile con l’uccisione e lo scempio di Ipazia il cui mandante o forse anche autore in prima persona fu “san” Cirillo patriarca di Alessandria), l’ispano-islamica felicemente eretica, i sassoni pagani sterminati da Carlo cosiddetto Magno, i catari albigesi di Provenza ridotti in cenere dalla crociata bandita da Innocenzo III, i fedeli a Wotan e Freia e agli altri culti odinici nell’area scandinava e baltica,2 le civiltà azteca e maya. Ma è vicenda antica. I cosiddetti “apologeti” (bel coraggio, adottare questo termine per una banda di aggressori rotti a qualsiasi efferatezza!), i 2 Quale respiro di gioia improvvisa ci esce dal petto quando, ascoltando il wagneriano Lohengrin, udiamo Ortrud esclamare (atto II, versi 532-537): «Entweihte Götter! Helft jetzt meiner Rache! […] Wodan! Dich Starken rufe ich! Freia! Erhab’ne, höre mich!» (“Dèi profanati! Ora, aiutate la mia vendetta! […] Wotan! Te, forte dio, invoco! Freia! Dea sublime, ascoltami!”; tr. it. di Q. Principe). Ma consumerei le mie mani nello sforzo di ricordare tutto l’orrore che il cristianesimo ha introdotto nella Storia. Testimonianza oggi di prima linea è il gigantesco lavoro storiografico di K. Deschner, Kriminalgeschichte des Christentums (10 volumi originariamente progettati), Rohwolt, Reinbek (Hamburg)-Berlin; tr. it. di C. Colotto, edizione italiana a c. di C. Pauer Modesti, Storia criminale del Cristianesimo, Edizioni Ariele, Milano 2000. In alternativa, si legga dello stesso Deschner un libro agile e denso, Opus Diaboli, Rowohlt, Reinbek (Hamburg) 1987; tr. it. di F. Pigliapoco, Opus Diaboli. Dieci implacabili saggi sul lavoro nella vigna del Signore, introduzione di Q. Principe, Liberilibri, Macerata 1996. 52 La musica come bene comune piissimi Padri della Chiesa (se tali furono i genitori, come chiameremo la prole?), elaborarono un vastissimo progetto di demolizione e di distruzione, sia delle strutture civili (i pubblici doveri, il servizio militare, la lealtà verso Roma, verso lo Stato che mai fu tanto degno di questo nome quanto lo fu al tempo dei “persecutori”, ossia di quei prìncipi che operarono per dare agli esseri umani a loro affidati dal destino la massima felicità (la minima infelicità) possibile: Traiano, Adriano, Antonino Pio, Marco Aurelio, Alessandro Severo, Aureliano, Diocleziano, più tardi il sublime e anomalo costantinide Giuliano. (Aggiungerei al novero una figura che ho sempre molto amato, quella di Nerone, che molti segni, sopravvissuti ai tentativi di cancellazione, lasciano intuire “optimus princeps”, malgrado gli sforzi di una storiografia a lui ostile, pagana e insieme cristiana, questa volta). Mentre i vescovi cristiani consigliavano di educare le bambine “al Bene” impedendo alla piccole sventurate di vedere un qualsiasi strumento musicale e anche soltanto di sapere che cosa fosse la musica, mentre “san” Girolamo, l’illirico traduttore della Bibbia in latino, impiegava energie per imporre il celibato ai sacerdoti cristiani ponendo così le basi della loro tormentosa infelicità e dei loro vizi segreti, il siracusano Firmico Materno, nel suo De errore profanarum religionum (scritto tra il 346 e il 350 d. C.), si esaltava dinanzi alla visione delle statue e dei templi pagani distrutti “da Cristo”: così egli scriveva trionfante. Il De errore profanarum religionum, quello scritto infame quanto il Mein Kampf hitleriano o i Protocolli dei savi anziani di Sion o la Circolare con cui Stalin ordinò l’operazione m. 00447 nel luglio 1937, fu un vero e proprio manifesto programmatico della persecuzione contro i pagani messa in atto dalle orde cristiane vogliose di sangue e frementi di orgasmo all’idea di veder crollare in polvere le opere d’arte, le mirabili architetture, le biblioteche, e di dare alle fiamme i libri della cultura pagana, della filosofia, della scienza, della poesia, comprese le opere di teoria e filosofia della musica. Il De errore di Firmico fu uno scoperto e ostentato invito a spogliare i pagani di ogni loro bene e di ogni loro possibilità di vita, e, infine, a ucciderli, a sterminarli, a radere al suolo le loro case, i loro borghi e villaggi, i loro templi, le loro memorie familiari. Con spirito, almeno sotto l’aspetto della feroce violenza, degno della Torah e dei suoi capitoli e versetti più immondi, lo scritto di Firmico invita a incrudelire soprattutto contro donne, vecchi e bambini. Non a caso, il De errore fu dedicato a due assassini sanguinari e fratricidi nonché ipocriti bigotti e pavidi lacchè delle gerarchie ecclesiastiche cristiane: ai due imperatori costantinidi Costanzo II, “Augustus partis Orientis” (337-361), ariano, e Costante, “Augustus pars Occidentis” (337-350), niceno-costantinopolitano. Firmico Materno, nel suo “opus maius”, insinua nel suo odio mortale per la Q. Principe - La delegittimazione della musica come bene comune 53 musica una motivazione che a noi italiani dovrebbe suonare non ignota, anzi, familiare. Parlando dei sacerdoti pagani addetti a culti “femminili” come quelli di Cibele e di Iside, osserva che il loro canto rituale li rende simili a femmine, poiché la musica e il canto sono pratiche svirilizzanti, quindi oscene e corrotte da un elemento di sessualità, perciò empie. Il passo, nel capitolo IV, recita: «…cum sic se alienos a viris fecerint, adimpleti tibiarum cantu, vocant Deam suam. […] Quod hoc monstrum est, quodque prodigium? Negant se viros esse, et sunt…».3 Traduciamo questo coacervo di sessuofobia e omofobia e maschilismo idiota in termini secolarizzati, e otteniamo il movente dell’eliminazione della musica (“materia per educande, per signorine di buona famiglia”) dall’ordinamento didattico del sistema scolastico dell’Italia unita nel 1861, ad opera di Francesco De Sanctis4. Interessante, vero? A parziale e mascherata difesa della funzione assunta dal cristianesimo sul terreno delle arti, si osserva spesso che il pensiero cristiano ha introdotto il Brutto nell’arte, e soprattutto nell’arte da soggetto sacro, o religioso, o “spirituale”, o incline a tradurre in figura, in suono, o in immagini poetiche e drammatiche, le narrazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento: mostri del Male e dell’abisso, suggestioni diaboliche, apparizioni infernali, démoni che «urla como luvi e baia como can» nel De Babilonia civitate infernali di Giacomino da Verona, il Diavolo in pieno assetto di guerra con muso di lupo, corpo scaglioso di coccodrillo, corna, coda di lucertolone, ali di pipistrello, zanne (e qui talvolta sfioriamo il comico, come nel celebre dipinto di Michael Pacher in cui Satana è costretto a reggere il messale a Sankt Wolfgang), ferite, chiodi che perforano il corpo di Cristo, teste mozze con 3 4 Mi riferisco all’edizione di Kjøbenhavn (Kopenhagen) del 1826: Julii Firmici Materni, De errore profanarum religionum, edidit Christianus Karolus Henricus Fridericus Münter, episcopus Selandiae, Havniae anno Ecclesiae danicae millesimo, MDCCCXXVI, sumtibus C. A. Reitzel, typis excudebat Fabritius de Tengnagel, p. 15. Di questa stolida visione della musica come “attività femminile”, propria della classe dirigente dell’Italia unita in data 1861, ho già parlato con la debita derisione nel mio saggio: Q. Principe, I nemici della musica, in AA.VV., Musica e Bildung, a cura di E. Matassi e C. Guetti, Mimesis, Milano-Udine 2010 (uscito come numero monografico di «Babelonline/print», n. 8, anno 2010), pp. 103-118, che è poi il testo del mio intervento di uguale titolo al convegno «Musica per tutti: il fondamento filosofico dell’apprendimento musicale nel sistema scolastico» (Roma, Teatro dell’Opera, 22-23 aprile 2008). Alle mie considerazioni sul tema sono parallele, nel medesimo convegno e nel medesimo volume (pp. 19-24), quelle forti e penetranti di L. Aversano, L’esercizio della musica nelle scuole e nelle università italiane: presente, passato, futuro. 54 La musica come bene comune penduli segmenti di vasi sanguigni troncati, spade grondanti sangue, dannati che ci contorcono in fiamme, orrendi supplizi nella Commedia di Dante, urla laceranti al punto giusto e grida di terrore nelle varie versioni musicali del Dies Irae. Tutto questo non infirma la bellezza dell’arte: anzi, la arricchisce, e lascia intendere che il Brutto o il Bello non hanno le loro radici nella natura del soggetto rappresentato, bensì nell’evidenza, nella potenza semantica, nella forza., nell’energia, ossia nell’essenza del cosmo. Per questo, oggetti terrificanti e distruttivi come una stella (il Sole, per esempio), un oceano in tempesta, un pauroso strapiombo, sono spaventosamente belli, sia nella loro realtà naturale, sia nei seducenti tratti di un’inquietante opera d’arte. Ma si riconosca, dopo venti secoli di esistenza del cristianesimo e dopo millesettecento anni del suo funesto trionfo terreno (313-2013), che l’invasione del Brutto nelle arti, con esibizione delle “sacre orripilanze” divenute uno fra gli strumenti di spicco del “Kunstwollen”, ha finito per ritorcersi contro quell’ibrido imbastardito che voleva essere, in origine, la miserabile “estetica penitenziale” imposta dal pensatoio cristiano sin dai tempi della pura demenza tertullianea. L’irruzione del Brutto nelle arti ebbe in origine una finalità puerile e canagliesca: spaventare, incutere nelle plebi cristiane il terrore del castigo divino, grazie al quale le gerarchie ecclesiastiche potevano dominare meglio le coscienze e i”pastori” riuscivano ad assicurarsi l’ubbidienza e la servitù del “gregge”, obbligando i “credenti” a riconoscere nei latrati rabbiosi di vescovi, parroci e arcidiaconi la presunta parola di Dio (la più odiosa e gigantesca menzogna su cui si fondano le religioni cosiddette “rivelate”). Una finalità intermedia e strumentale fu l’educazione antiedonistica: delegittimare, umiliare demonizzare il piacere, tutti i piaceri terreni, quelli dell’intelletto e della fantasia non meno che i piaceri corporei. Ma in Occidente, la metamorfosi del linguaggi artistici, degli stili e dei gusti, ha fatto sì che i fruitori delle arti traggano piacere proprio dalla rappresentazione del Brutto, del Terribile, del Pauroso, del Mostruoso, nella pittura (Bosch, Arcimboldi, Füssli, Ensor…),5 nella poesia e nella narrativa (Dante, Villon, fino a Heine, Baudelaire, Lautréamont, Poe, Lovecraft, Montague Rhodes James…), nella musica (con esempi concentrati in determinate epoche, ten5 Si veda in merito l’immensa fenomenologia offerta, alla luce di un’inconfutabile filosofia delle arti, da un cattolico intransigente, libero e chiaroveggente quale fu l’austriaco Sedlmayr (H. Sedlmayr, Der Tod des Lichtes. Übergangene Perspektiven zur modernen Kunst, Otto Müller Verlag, Salzburg 1964; tr. it. di M. Guarducci, La morte della luce. L’arte nell’epoca della secolarizzazione, introduzione di Q. Principe, Rusconi, Milano 1970. Q. Principe - La delegittimazione della musica come bene comune 55 denze di gusto, personalità d’autori, opere: la Sonata n. 2 di Chopin, alcune pagine di Musorgskij, Satie, Prokof’ev… sono tutte esperienze di visione, di lettura, di ascolto, in cui, con giusta nemesi, il brutto è bello, offre delizie e fremiti, suscita ammirazione. Quale meravigliosa vendetta a danno dell’antiedonismo cristiano! Ma, appunto, l’irruzione del Brutto nell’arte e la sua riqualificazione nella categoria del Bello, sia pure originata a un movente losco ossia dall’intento di terrorizzare e di svalutare la natura corporea, è stata una conquista: a beneficio dell’esperienza artistica, della ricchezza stilistica, del piacere intellettuale. L’infamia balza agli occhi se consideriamo l’azione censoria e persecutoria di chi ha voluto umiliare e demolire la bellezza delegittimandola nella sfera dell’Essere,6 per poi impadronirsene nella sfera dell’Avere. Un esempio parallelo, o forse coincidente come caso particolare, è quello della lingua latina, che la Chiesa cattolica, nella sua incommensurabile imbecillità e nella sua ottusa criminalità culturale, abolì nell’uso liturgico a partire dal 1963, in armonia con il sullodato Concilio Vaticano II. Da quell’atto distruttivo (probabilmente, per la Chiesa cattolica, anche un atto suicida in lunga prospettiva… ce lo auguriamo!) derivò in Italia, in quello stesso 1963, l’abolizione del latino nella fascia superiore (scuola media) della scuola dell’obbligo. Tale scelta legislativa, voluta con isterica insistenza (chi scrive ne fu testimone diretto e polemicamente coinvolto in opposizione) dalle forze politiche di stretta osservanza cattolica allora dominanti in Italia, ha avuto e ha tuttora esiti disastrosi (prevedibilissimi) nella qualità della preparazione scolastica dei cittadini italiani (di ciò, chi scrive è testimone oggi). Il pretesto, dichiarato con petulanza dai cattolici sia ecclesiastici che laici, era la natura poco “popolare” e troppo elitaria del latino studiato a scuola. Il vero movente era invece la piena consapevolezza dell’incalcolabile utilità del conoscere il latino e il greco e di quanto l’educazione alla libertà e al senso critico sia implicita nelle lingua classiche, e la conseguente volontà di deprimere il più possibile il livello culturale degli italiani, al fine di renderli addomesticabili e docili alla volontà di dominio dei “pastori” e di quelle mosche cocchiere della gerarchia cattolica che si voleva fossero (e che in gran parte erano e sono) i pubblici poteri dello Stato. Ma, non appena gli adolescenti italiani tra gli 11 e i 14 anni furono defraudati e derubati della possibilità di conoscere uno strumento essenziale di memoria storica e di esercizio dell’intelligenza, la maggioranza delle 6 Esempio eminente di tale delegittimazione è l’esclusione del Bello dal novero dei trascendentali (l’Uno, il Vero, il Bene) da parte dei filosofi della Scolastica, o, almeno, dalla maggioranza di essi. 56 La musica come bene comune scuole private cattoliche, fra le proprie offerte pubblicitarie, inserì la spudorata promessa: «Nella scuola media del nostro Istituto si studia il latino». Come dire: «Venite a studiare da noi: con una modica spesa in più, vi eleverete dalla massa!». Ed ecco subito l’analogia con l’uso e l’abuso della musica. Nelle chiese cattoliche, la messa, il battesimo, il matrimonio, le funzioni serali, hanno una colonna sonora banale, melensa, triviale, modellata sulle canzonette da festival di Sanremo o da canto pseudo-montanaro intonato stonatamente e sguaiatamente in rozzo unisono da reclute in uniforme vecchia maniera, oppure su ritmi da balera caribica o romagnola-balneare. L’inestimabile eredità di musica sacra, di cui la Chiesa cattolica è immeritevole detentrice, sembra essere stata vittima di una sistematica rottamazione. Oh, ma c’è sempre la chiesetta un po’ snob, c’è sempre la “messa degli artisti”, c’è sempre l’abbazia di Vattelapesca in Valle, dove le suore di clausura cantano il gregoriano (eh, già, il “gregoriano”… Perché non Palestrina, o Monteverdi, o i mottetti del cattolicissimo Bruckner?). Anche qui, santa madre Chiesa offre sempre a chi lo desideri la possibilità di gustare una vera musica “spirituale”. Rimane così un’attenzione residuale, che si traduce in archiviazione, ostentatamente connotata da giudizi riduttivi, sprezzanti e meramente strumentali nei confronti della musica forte d’Occidente. La strumentalità si unisce a una dichiarata volontà di appropriazione: come a dire, “la musica serve soltanto alla fede, alla religione e alla liturgia, e perciò appartiene soltanto alla cultura cristiana, cattolica, confessionale”. L’appropriazione si traduce in un’arrogante delegittimazione della musica come bene comune, e ciò è parallelo alla dichiarazione ideologica di un noto “movimento ecclesiale”, secondo cui anche la morale esiste soltanto se è “morale cattolica”, sicché soltanto un cattolico credente può avere una propria vita morale. In maniera analoga, soltanto chi sia cattolico credente può intendere l’essenza della musica, o tradurre, per esempio, i testi delle Cantate sacre di Johann Sebastian Bach. (Ma Bach non era luterano?...) Alla luce di queste considerazioni, potremmo esaminare una fenomenologia quanto mai varia. Varia, ma anche deprimente, e alla fine abbastanza nota. Basta offrire a chi legge questa nota un filo conduttore. Ho scelto un solo esempio, più che eloquente. Ne traggo citazioni testuali: esse sono oggetto, ciascuna, di un mio breve commento. «Un catalogo egli è che ho fatt’io: osservate, leggete con me». Questo aureo florilegio musical-teologico-pastorale lo raccolgo, per ora, da due libri. Il primo, sul quale mi soffermo rapidamente poiché si tratta di Q. Principe - La delegittimazione della musica come bene comune 57 enunciati d’obbligo in ambito cattolico, è di un autore oramai santificato, don Luigi Giussani, storico fondatore del movimento “ecclesiale” (?) definito, con denominazione un po’ pesante e soprattutto lievemente strascicata, Comunione e Liberazione. Pochi conoscono, però, un dettaglio: eh, sì, poiché se è vero che il povero Claudio Chieffo e lo pseudo-frate Giuseppe Cionfoli detto “il cantautore di Dio” sono per eccellenza i compositori dell’oceanico esercito comandato (come?... ma sì, va bene: “presieduto”…) da Julián Carrón, è altrettanto inconfutabile che don Giussani (definito dal parroco ciellino di Brugherio in provincia di Milano, durante un’omelia pronunciata nel febbraio 2011, “il nostro Padre che è nei cieli”), oltre ad essere una specie di Messia, sia anche per eccellenza il musicologo e il filosofo della musica nell’ambito della “fraternità” ciellina: insomma, una mente universale. «Niun mi tema!»: dal libro di Giussani voglio cogliere soltanto due o tre fiori. Prima, però, mi concedo una specie di nota in calce, solo che la colloco qui, nel testo, poiché non è un’osservazione marginale. Un particolare curioso: in quella “paella” ideologica che è il mondo cattolico, Comunione e Liberazione è una massa di manovra attivata da un fondamentalismo impudico. A una domanda da noi rivolta qualche mese fa a un esponente del Movimento, molto in “alto” nella gerarchia: «Ma che cos’è che soprattutto contraddistingue, oggi, la morale cattolica?», la risposta brusca e scostante fu: «Vede, Lei già pone la domanda in forma completamente errata. Non ha senso parlare di “morale cattolica”: è un pleonasmo. La morale non può essere altro se non cattolica. La morale, di conseguenza, o è cattolica, o non è». A difesa di questa “Weltanschauung”, molto rispettosa, come si vede, della libertà e della dignità altrui, è impegnata a fondo la pedagogia ciellina, a partire dalle scuole private che il Movimento controlla e amministra. Su tale pedagogia si modella, in misura maggioritaria e in stile bulgaro, l’atteggiamento comune agli aderenti, ed è atteggiamento omologato almeno ufficialmente, e se lo è ufficialmente è ciò che conta come immagine all’esterno. È un esempio forte, poiché una delle caratteristiche segrete dell’uomo occidentale, dialettica rispetto all’individualismo faustiano, è la strana attitudine a subire il fascino di tutto ciò che nega la libertà. Ciò si aggrava, quando agisca sul cervello anche quella droga mortifera che è la religione. È nota la docilità con cui il militante di Comunione e Liberazione, glorificando sé stesso, si vanti di far parte di un Movimento in cui tutti, a forza di stare sempre insieme sia negli incontri di natura religiosa, sia nel tempo libero, sia (ahinoi!) nel lavoro e negli affari, improvvisamente «si accorgono con gioia che la pensano allo stesso modo, e questa è una cosa bella!». Tanto è disciplinato l’esercito ciellino, da non poter neppure con- 58 La musica come bene comune cepire l’idea di dissentire, neppure su controversie minime, dalla gerarchia ecclesiastica. Com’è noto, c’è un’aspra contrapposizione tra il cardinale Angelo Scola, arcivescovo di Milano, ed Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose e oramai in odore di eresia. Bene: il militante di Comunione e Liberazione non ha dubbi: si colloca dalla parte di Scola, contro Bianchi, accusato ora di criptocomunismo (???), ora di snobismo laicizzante. Non molto diverso è lo spirito che regna nell’altro movimento cattolico fondamentalistico, l’Opus Dei, sicché può avvenire oggi (!!!) di veder pubblicato nella rivista «Studi cattolici» un ampio articolo in lode di Luigi Gedda, implacabile persecutore di Giuseppe Dossetti, o una ricerca storiografica in omaggio ai gesuiti di «Civiltà cattolica», cacciatori di taglie che decretarono la morte civile del povero e grande Ernesto Buonaiuti. Nella cultura cattolica, e non soltanto in Italia (quella parte di Spagna che demonizzò Zapatero a causa della legislazione civilissima, laica e illuminata da lui promossa in favore dei diritti umani e della libertà di scelta sessuale, avrebbe qualcosa di detestabile da preannunciare agli altri europei), si sta affermando un pensiero unico, tutto appiattito sui “valori” della morale cosiddetta tradizionale. Odiosa parola, “tradizione”, così come odiosi sono gli aggettivi “popolare”, “pacifico”, “positivo”, “ottimistico”, o l’aggettivo “stragrande” applicato al sostantivo “maggioranza”! Il pensiero laico, ammesso che ancora esista, è ipnotizzato e pronto alla resa, come ai tempi del sadico assassino, il patriarca Cirillo d’Alessandria, detto anche, con macabro umorismo, “san” Cirillo. Che cosa ci annuncia don Luigi Giussani? Qual è la sua buona novella? Quali orizzonti apre alla musica il fondatore del “Popolo di Dio” (sembra incredibile, ma i credenti e militanti nella Compagnia delle Opere chiamano sovente così “Comunione e Liberazione”)? Avvertiamo che il titolo del libro ha un’origine altolocata: Spirto gentil, tolto di peso da Francesco Petrarca. Nella bimillenaria tradizione cristiana, lo scippo di parole e di concetti, di atti rituali e di festività, il rivestirsi delle spoglie di civiltà distrutte o di altre religioni tramontate, è un esercizio fra i prediletti. Peccato che la canzone di Petrarca, Spirto gentil che quelle membra reggi, sia un testo talvolta inteso come appello a Cola di Rienzo, invocante la purificazione di Roma dal malgoverno ecclesiastico dei papi e dalla tracotanza dei nobili Orsini e Colonna, famiglie detentrici di autentici poteri di natura mafiosa, e folte, nei loro ranghi, di cardinali di Santa Romana Chiesa e di altri eccelsi prelati. Secondo altre interpretazioni (quella di Giosué Carducci, per esempio), il destinatario sarebbe Bosone de’ Raffaelli da Gubbio, ma gli ideali etici e politici di quest’ultimo furono simili a quelli di Rienzi, poiché entrambi lottarono come leoni contro ciò che Dante definì «una puttana Q. Principe - La delegittimazione della musica come bene comune 59 sciolta» (Purgatorio, XXXII, 149), e Petrarca chiamò «fontana di dolore, albergo d’ira» (Rime, ed. Carducci, 138, 1), «scola d’errori e templo d’eresia» (ivi, 2), «putta sfacciata» (ivi, 11), «nido di tradimenti, in cui si cova/ quanto mal per lo mondo oggi si spande» (136, 5-6), «di vin serva, di letti e di vivande/ in cui lussuria fa l’ultima prova» (ivi, 7-8): ossia, la curia pontificia, l’entourage di ciò che allora era il palazzo papale di Avignone e oggi è il Vaticano. Un curioso infortunio, quel titolo: la “gaffe” è di quelle grosse, vistose. Fra l’altro, il santo predecessore di quel geniale protagonista della cultura che è Julián Carrón ha frainteso il significato che Petrarca diede all’aggettivo e al sostantivo. Nella canzone petrarchesca, “spirto gentil” significa “intelletto nobile”; nel titolo giussaniano, è un colaticcio lezioso. Le interpretazioni concettuali di varie musiche celeberrime, evidentemente molto amate da Giussani (quell’amore sincero ci rende meno pessimisti sul destino escatologico della sua anima), non si vale mai di osservazioni formali, che attingano alla “filosofia delle arti”: sono sempre epidermiche (il che non significa “non vere”…), iper-affettive, formulate a mani giunte, riscaldate dall’irradiazione di ciò che Adrian Leverkühn, protagonista di Doktor Faustus di Thomas Mann,7 definiva, in passo del capitolo VIII, «Kuhwärme» (“calore di mucca”). “His fretus”, don Luigi Giussani dà per dimostrato che la sequenza del temporale prolungata fino all’episodio successivo della Sesta Sinfonia di Beethoven un avvicinamento a Gesù, che il II tempo della Terza Sinfonia “Eroica” è una palese meditazione sulla passione e morte di Cristo, che il Quartetto op. 132 del medesimo autore è manifestazione di ascesi mistica (garantito!), che nel Quintetto per archi in Do maggiore D. 956 è evidente la colonna sonora che offre il clima giusto alla penetrazione del supremo Mistero teologico.8 Oh, intendiamoci! In quest’ultimo esempio interpretativo c’è un fondo di verosimiglianza, ma comunque non si tratterebbe di teologia della musica, bensì del raggiungimento di una sapienza estetica ottenuta con la rinuncia goethiana che si dichiara in un terribile passo del Faust («Entbehren mußt du! Mußt entbehren!») e con la magia che Novalis conobbe. 7 8 Ne approfitto per invitare chi mi legge a percorrere con cura due libri molto diversi tra loro ma dedicati a un tema ad essi comune, qui da me richiamato: quello di S. Zurletti (Le dodici note del Diavolo, ideologia, struttura e musica nel “Doktor Faustus” di Thomas Mann, Bibliopolis, Napoli 2011), e quello di L. Malknecht (Un’etica di suoni. Musica, morale e metafisica in Thomas Mann, Mimesis, Milano-Udine 2010). L. Giussani, Spirto gentil, antologia di scritti con commenti e postille, Rizzoli, Milano 2011. Le citazioni collocate nel testo di questa pagina si trovano, nell’ordine, alle pp. 106, 126, 175, 231. 60 La musica come bene comune Ma sì: è innegabile che la musica innalzi lo spirito verso idee, pensieri, intuizioni intellettive, stati d’animo visionari, al livello del Sublime. Ma tutto ciò non può ridursi alla deprimente realtà disciplinare e penitenziale delle religioni, soprattutto delle religioni “rivelate” e abramiche, nelle quali fatalmente l’etica è più importante dell’estetica. Si possono affermare mezze verità. La cui incompiutezza e parzialità si converte nell’affermazione del falso. Ci soccorre ancora Goethe: «Der eigentliche Obskurantismus ist nicht, daß man die Ausbreitung des Wahren, Klaren, Nützlichen hindert, daß man das Falsche in Kurs bringt», ossia: «Il vero oscurantismo consiste non già nell’ostacolare la diffusione del vero, del chiaro e dell’utile, bensì nel mettere in circolazione il falso».9 Il pregiudizio religioso cattolico, secondo cui la musica è usata nella maniera giusta (e quindi “posseduta” in modo strategico nella sfera dell’Avere) soltanto se è un inno in lode dell’Altissimo, è parallelo e simmetrico al pregiudizio dello Stato sedicente “laico” (?), e in realtà squallidamente moralistico, secondo cui la musica “serve” a formare il buon governante e il buon cittadino. Lo stile e lo spirito con cui questa affermazione è presente in Platone (Politeia, III, 397 d – 404 b) o in Quintiliano (De institutione oratoria, I, 9-33), sono radicalmente diversi: nella cultura antica precristiana, la musica è arte degli déi, ed è il fine della παιδεία, mentre nella visione post-classica alla musica è riconosciuto un “alto valore formativo”, ma sempre in funzione di uno stato d’animo devoto e disposto alla preghiera (di una “educazione cristiana”), oppure, sul versante laico, in vista di un’educazione all’ordine, all’armonia nei rapporti tra governanti e governati, ma sempre come mezzo, non come fine. Sfugge interamente e miserevolmente alla pedagogia post-classica (e ciò è dovuto essenzialmente all’inquinamento prodotto dall’infiltrazione del cristianesimo nella civiltà del λόγος) una verità profonda, più volte dichiarata a metà del secolo scorso, curiosa nemesi, dal quasi cattolico Thomas Stearns Eliot nei suoi scritti sull’educazione: per ottenere, con strumenti nobili e preziosi quali la poesia e la musica, un esito educativo che sia vivo e dia frutti, quell’esito non dev’essere dichiarato né perseguito come primario, pena il fallimento. Deve fiorire e crescere da sé, come acquisizione affidata al destino individuale di ciascuno (all’angeloFortuna di Dante, Inferno VII, 61-96), a fianco di un’azione che alla poesia e alla musica, e ad esse soltanto, deve mirare.10 9 J. W. von Goethe, Aus den Maximen und Reflexionen: ein Brevier, a c. e con traduzione italiana di G. Zamboni a fronte, Breviario di massime e riflessioni, Fussi, Firenze 1950, pp. 30-31. 10 Questa consapevolezza circola negli ultimi versi del poeta anglo-cattolico, in particolare nei Four Quartets: in Burnt Norton, V, 1-22; The Dry Salvages, III, 26-39; Q. Principe - La delegittimazione della musica come bene comune 61 Questa lenta e amara vicenda, che ha radici filosofiche e si è consumata sul terreno pratico e utilitaristico del dare e dell’avere (la musica come un “bene” da strappare ad altri e di cui impadronirsi) è all’origine di uno scempio culturale, di cui Stato e Chiesa sono corresponsabili. In particolare, l’Italia offre di una condizione culturalmente depressa, grazie all’eliminazione della musica dall’insegnamento nei normali settori e gradi dell’istruzione, perpetrata dalla classe cosiddetta dirigente che dal 1861 sovrintese ai destini dell’Italia unita.11 C’è una sinistra simmetria, un desolante parallelo: nella visione dello Stato, la musica (s’intende; la musica forte) può essere, nella più generosa delle valutazioni, un “modo per elevarsi dalla massa” (sì, come la conoscenza del latino: una delle formule ideologiche più ottuse, più idiote, più mortifere per una società!), un intrattenimento, un hobby un po’ snobistico, ma non è lavoro, e per giunta le è stata strappata la qualità dell’essere cultura. Nella visione della Chiesa cattolica, la musica può essere preghiera, elevazione (ancora!!!) della spirito in vista di un ravvivamento della fede, ma le sue qualità estetiche non interessano la “musicologia” ecclesiastica. Le è stata strappata la bellezza. E proprio considerando l’immensità di questa devastazione concettuale e culturale vorrei concludere con due passi significativi tratti dall’altro libro cui alludevo, insieme con quello di Luigi Giussani. Qui l’idea guida, la marginalizzazione e infine la cancellazione del concetto di bellezza, velata e cautamente implicita nei passi giussaniani citati, è invece esplicita e spudorata. Si tratta degli Atti di un convegno: del “Primo Seminario Internazionale sulla Musica Liturgica”, che ha avuto luogo sabato 2 ottobre 2010 presso la Fiera di Cremona (Sala Stradivari) nell’ambito del “Salone CreLittle Gidding, I, 21-55. Ma la formulazione non metaforica è in tre fondamentali saggi: Tradition and the individual talent (1917), Modern education and the classics (1932), Religion and literature (1935), tutti e tre in: Th. S. Eliot, Selected Essays, Faber and Faber, London 19513. È evidente che non sia difficile al lettore italiano trovare questi saggi in edizione originale. Tuttavia, essi sono qualcosa di cui la media cultura italiana è stata per così dire “derubata”. La casa editrice Rusconi, negli anni ’70, aveva più volte chiesto a Bompiani, che deteneva e tuttora detiene l’opzione e i diritti per la traduzione e la pubblicazione di Eliot in Italia, di concedere la disponibilità dei tre saggi, per farne un piccolo libro intitolato: T. S. Eliot, Scritti sull’educazione e sulla scuola. La richiesta si fondava, oltre che sulla presunzione di buon vicinato e di buona educazione, sul fatto che Bompiani, dopo molti anni d’opzione attiva, mostrava un interesse assolutamente nullo per quei saggi, che erano così “congelati”… e si poteva capire perché, dato il clima di quegli anni e la temperatura arroventata che accompagnava qualsiasi libro dedicato ai problemi dell’educazione e dell’istruzione. Alla richiesta fu opposto un diniego. 11 Si veda ancora: Q. Principe, I nemici della musica, cit. 62 La musica come bene comune mona Mondomusica”. Il volume è aperto dall’intervento di monsignor Valentino Donella, nato a Verona nel 1937, direttore del «Bollettino Ceciliano» (dal 1997) e della Cappella Musicale di Santa Maria Maggiore a Bergamo. L’uomo è certamente autorevole, nel mondo della liturgia e dei suoi princìpii ispiratori che provengono sempre “dall’alto”. La Cappella Musicale è a sua volta un luogo d’osservazione e di manifestazione di un pensiero cui va attribuita molta “auctoritas” storica e artistica. Attiva a Bergamo dal 1480, fondata, pare, dal presbitero Giovanni, ha avuto fra i suoi Maestri ecclesiastici e laici Franchino Gaffurio (1483), Guglielmo di Burgundia, Tarquinio Merula, Pietro Andrea Ziani, Johann Simon Mayr, Alessandro Nini, Amilcare Ponchielli, Guglielmo Mattioli (1900-1909) che attuò le riforme di Pio X.12 C’è da essere travolti da questa schiera di nomi illustri che attraversano secoli di storia. L’intervento di Valentino Donella è: Musica sacra del III millennio in Italia e nel mondo cattolico. Non voglio complicare né allungare il mio discorso con una riflessione sul termine “musica sacra”. La musica sacra non è tale in forza di un testo”sacro” o di un referente religioso o “spirituale” (orrendo aggettivo!!!). È sacra se è bella, e se è mediocre è profana, e se è brutta è sconcezza. Sacro l’Ordo virtutum di Hildegard von Bingen, sacro è il mottetto Nuper rosarum flores di 12 Ah, le riforme di Pio X! Domenica 22 novembre, Giuseppe Sarto divulgò il breve Inter sollicitudines, in cui la musica era definita immancabilmente non già come un’arte configurante l’energia cosmica secondo archetipi e forme simboliche (una definizione che rivendico come mia), né come “durch Töne bewegte Form” (“forma mossa da suoni”, secondo Eduard Hanslick), bensì come “mezzo di elevazione dello spirito a Dio” nonché come prezioso aiuto ai fedeli nella “partecipazione attiva ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa” (questa, dunque la musica… meraviglioso!). La musica di chiesa doveva essere sottratta alle influenze del romanticismo e del teatro; questo significa, negli intenti di san Pio X, una sprezzante liquidazione di due capolavori, ossia dei due Requiem cattolici di Giuseppe Verdi e di Antonín Dvořák. Esattamente un secolo dopo, sabato 22 novembre 2003, papa Giovanni Paolo II richiamò all’attualità il breve di Pio X nella Lettera agli artisti. Ritornò sul tema poco dopo, nel chirografo di mercoledì 3 dicembre 2003, ricordando un altro passo qualificante del breve di Pio X: «La speciale attenzione che è doveroso riservare alla musica sacra, ricorda il santo Pontefice, deriva dal fatto che essa, “come parte integrante della solenne Liturgia, ne partecipa il fine generale, che è la gloria di Dio e la santificazione ed edificazione dei fedeli”. Interpretando ed esprimendo il senso profondo del sacro testo a cui è intimamente legata, essa è capace di “aggiungere maggiore efficacia al testo medesimo, affinché i fedeli [...] meglio si dispongano ad accogliere in sé i frutti della grazia, che sono propri della celebrazione dei sacrosanti misteri”. Questa impostazione è stata ripresa dal Concilio Ecumenico Vaticano II nel capitolo VI della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla sacra Liturgia». Q. Principe - La delegittimazione della musica come bene comune 63 Guillaume Dufay, sacra è la Matthäus-Passion di Johann Sebastian Bach, sacro è il Requiem di Gabriel Fauré, ma sacro è anche il Requiem für Mignon di Robert Schumann, sacra è La canzone dei ricordi di Giuseppe Martucci, sacra è la Nona Sinfonia di Gustav Mahler, sacra è la Rhapsody in blue di George Gershwin, sacra è Sophisticated lady di Edward Kennedy “Duke” Ellington. Per le stesse ragioni, il Requiem in Re minore in morte di Mozart composto nel 1791 da František Antonín Rössler, in forza della sua mediocrità confinante con la laidezza, è profano, e addirittura profanatore. La quasi totalità delle musichette bercianti e miagolanti eseguite nelle chiese cattoliche d’Italia (soprattutto quelle in voga nei riti ciellini), sono definibili come “atti osceni in luogo liturgico”. E, visto che un equivoco frequente nel giudicare la musica “sacra” nasce proprio dal suo rapporto con un testo “sacro”, non sarebbe inutile estendere a quest’ultimo la nostra scepsi. Ma, per intendere con quali veleni distillati e diffusi si svolga l’esercizio di demolizione e di cancellazione dell’idea di bellezza, leggiamo le precise parole di monsignor Donella. La Chiesa, quando parla della sua musica, lo fa dall’interno della sua stessa realtà, in una prospettiva che non è solamente estetica, ma primieramente teologica e pastorale, essendo convinta che una eventuale attività musicale (vocale o strumentale) deve servire al bonum animarum, all’opus Dei [ahi, ahi, ahi! – N.d.R.], alla preghiera, al rito (del quale dovrà sempre restare a servizio, in posizione subordinata). Sottolineo questo aspetto, che è fondamentale, perché alla musica di chiesa si può guardare – e si guarda effettivamente – anche dall’esterno, da parte di musicisti o uomini di cultura estranei al fatto liturgico, perfino non credenti, interessati solo all’aspetto estetico o sociologico. Per costoro la musica della Chiesa è bella o brutta, è eseguita bene o male, è interessante o scontata, moderna o antiquata: in altre parole è giudicata come cosa a sé stante (realtà assoluta),13 non come presenza funzionale; i critici esterni non si chiedono se tale musica corrisponda o no alle esigenze dell’assemblea che prega o se aiuti effettivamente la celebrazione del rito. 13 A dire il vero, il testo che appare nel volume dà «a se stante», senza accento acuto, refuso? A meno che monsignor Donella non interpreti “sé stante” alla maniera di “sé stesso”, per la qual forma molto pretendono di imporre le norme della proclisi. Ma, come insegna l’eccellente pedagogia italianistica di Gianfranco Contini, né in “sé stesso” né in “sé stante” il “sé” è proclitico. Non manca, nel testo donelliano, un “perché” il quale dovrebbe essere “poiché”, e un “chiedono” che dovrebbe essere “domandano”: Ma già, suvvia, badiamo alla sostanza, Che cos’è un errore ortografico o lessicale o sintattico di fronte alla salvezza dell’anima? 64 La musica come bene comune Noi, ovviamente, ragioniamo mettendoci all’interno non soltanto del fatto musicale liturgico, ma della stessa realtà grande e complessa della Chiesa (nel suo insieme, nel suo mistero), di cui quello del canto e della musica è un aspetto tutto sommato marginale, non determinante nell’economia di salvezza (solo la grazia di Dio è determinante). Detto questo, però, non è possibile trascurare il fatto che anche la musica di chiesa ha inevitabilmente una sua valenza, positiva o negativa, educatrice o diseducante; anche la musica di chiesa presenta un risvolto sociologico e un a rilevanza storica. Tutti aspetti che non si possono eludere. In particolare la categoria del bello non può essere trascurata, trattandosi di quella musica che è destinata a Colui che è Bello per eccellenza, oltre che Buono e Onnipotente e Misericordioso. Un po’ di storia recente. Senza andare troppo indietro, partiamo da san Pio X; da quel papa che nel 1903 mise un po’ di ordine nella musica di chiesa, sottraendola alle influenze del romanticismo e del teatro…14 A nessuno è sfuggito il diluvio di sostantivi, di pronomi e di aggettivi che indicano presa di possesso, “cosa nostra”, esclusione degli “altri”: “dall’esterno”, “estranei”, “perfino non credenti” [perfino: il colmo dell’abominio – N.d.R.], “costoro” (pronome sprezzante per natura), “critici esterni”, musica come “aspetto tutto sommato marginale”, “non determinante”. Aggiungo un lessico indicante asservimento della musica, intesa come “ancilla” di qualche cosa: “a servizio, in posizione subordinata”, “corrisponda o no alle esigenze”, “funzionale”. Personalmente, sono commosso dalla bontà e dalla generosità di monsignor Donella, che spinge la propria liberalità e chiaroveggenza sino a non “trascurare la categoria del bello”; solo che, alla fine, l’argomentazione risulta ricca di umorismo involontario, con l’attribuzione di tale categoria al Bello per eccellenza, qualificato, con indubbia competenza ed esperienza diretta, come Buono, Onnipotente e Misericordioso… ma non c’è forse un’intonazione lievemente islamica in questa terna di aggettivi? E se poi Dio è “Bello”, perché considerare la Bellezza un connotato marginale? In verità, mi attendevo lo snocciolamento dei Trascendentali, dai quali la tradizione filosofica cristiana, quella prevalente, escluse il Bello, limitandosi all’Uno, al Bene e al Vero. Né Guillaume de Champeaux né Roscellino né Tommaso d’Aquino inclusero mai, fra i Trascendentali dell’Essere, l’Onnipotente e il Misericordioso. Quanto alla benemerenza di Pio X, il sottrarre la musica “sacra” all’influenza del romanticismo e del teatro, ecco serviti a dovere i Requiem di 14 V. Donella, Musica sacra del III millennio in Italia e nel mondo cattolico, in AA.VV., Primo Seminario Internazionale sulla Musica Liturgica, Atti del Convegno, a cura di M. Ruggeri, Edizione Cremona Fiere, Cremona 2011, pp. 7-8. Q. Principe - La delegittimazione della musica come bene comune 65 Giuseppe Verdi e di Antonín Dvořák, e non si salva neppure, a posteriori, il Requiem polacco del cattolicissimo Krzysztof Penderecki. «Ma poiché piene son tutte le carte…», sarebbe l’ora di concludere. Eppure, non posso resistere alla tentazione di citare un passo dalle note al testo donelliano. Qui si valica ogni limite di buon gusto, di lealtà, di misura. Leggiamo. È successo e succede. Tutti i personaggi in vista, di propria iniziativa o perché interpellati, hanno detto la loro, e talvolta sentenziato con una certa sicumera. Si possono ricordare Piero Buscaroli, Salvatore Accardo, Lorenzo Arruga, Riccardo Muti, Giovanni Acciai… Tra [si dovrebbe dire “fra”, poiché qui il significato è di among, unter, parmi, non di between, zwischen, entre… – N.d.R.] le “interferenze” esterne va annoverata anche la lettera-manifesto inviata a Paolo VI nel febbraio 1966 da un gruppo di intellettuali (praticanti e non) allo scopo di ottenere la salvaguardia del latino e del gregoriano nella liturgia cattolica.15 Poche righe, e già si avverte il sentore del veleno, della bassezza, della meschinità. Detestabile è l’abitudine di gettare un’ombra di dispregio su persone nominate a caso, senza documentare, con citazioni precise e verificabili, il proprio atteggiamento. Quanto livore e quale complesso d’inferiorità in quelle parole, «tutti i personaggi in vista…»! Si può essere personaggio in vista essendo un ladro di Stato, un consigliere delegato di qualche azienda pubblica, un “altissimo funzionario” di un’istituzione repressiva che abbia in pugno l’esistenza miseranda di migliaia di infelici sfortunati costretti in dodici in un spazio che può accoglierne al massimo due e ostenti uno stipendio da sceicco del Brunei senza vergognarsene, o un furbastro e megalomane arruffapopoli, o un fotografo imbecille, analfabeta e puttaniere. In tal caso, il nostro disprezzo è più che legittimo, ma non c’è bisogno di monsignor Donella o del papa o della Chiesa cattolica per coltivare tale sentimento. Si può essere in vista per imprese nobilissime nel campo delle arti e in genere della cultura, e allora si merita ammirazione. Ma,… in nome di Lucifero!, né agli uni né agli altri va negata la libertà di “dire la loro”. Sicumera? Questa parola è il miserabile squittìo del topo, il guaìto di chi non abbia altri argomenti in bocca. Nel corso del presente convegno, sì, questo convegno sul tema “Musica e bene comune” in cui sto pronunciando questo mio intervento, un imbecille ha definito “inutili disquisizioni” le mie analisi di natura filosofica sul linguaggio musicale, e la mia distinzione in diversi livelli di linguaggio in alternativa alla sciocchezza secondo 15 V. Donella, Musica sacra del III millennio in Italia e nel mondo cattolico, cit., p. 14. 66 La musica come bene comune cui esisterebbero “le musiche” ossia vari “generi” musicali da porre sullo stesso piano. Siamo sulla stessa lunghezza d’onda della raffinata prosa donelliana. L’abbandono del gregoriano è stato, più che un crimine, un suicidio culturale. L’abbandono del latino è stato la più sesquipedale imbecillità compiuta della Chiesa cattolica. A quei “praticanti e non”, un papa intelligente avrebbe dovuto conferire un’onorificenza. Ma ancora, quale miseria quel “dicono la loro”! Strano che questa meschinità maniacale del “questo è mia competenza” riguardi soltanto la musica; ed è un altro fra gli innumerevoli sintomi di una distruzione di civiltà in cui musica, almeno in Italia, è agonizzante. Chi ha scritto quelle poco felici parole, probabilmente non oserebbe sostenere che i critici e gli storici dell’arte “laici” devano occuparsi soltanto di Van Gogh o di Hayez, o di Bernardo Bellotto o di Gustave Moreau o di Silvestro Lega o di James Ensor o di Balthus, e che, al contrario, soltanto uno storico o un critico d’arte in abito talare o membro dell’Opus Dei possa dare giudizi su Taddeo di Gaddo, Piero della Francesca, Raffaello, Michelangelo. E, soprattutto, quale volgarità. 67 Elizabeth Sombart POUR QUE LES SONS DEVIENNENT MUSIQUE Que les sons puissent devenir musique: telle fut la découverte émerveillée de mon coeur d’enfant et qui n’a cessé d’illuminer mon parcours de musicienne... De cet émerveillement est née la Fondation Resonnance1 et la Pédagogie Resonnance: phénomenologie du son et du geste2 enseignée par les différents professeurs de toutes les filiales Resonnance en Suisse, en Italie, en Espagne, en France, en Belgique, en Roumanie et au Liban. Fruit de plus de 30 années d’expériences, de recherches, de concerts, cette pédagogie a vu le jour grâce à la précieuse collaboration de Jordi Mora, chef d’orchestre et doyen de l’enseignement de la phénoménologie a la Fondation Resonnance et au soutien de tous les professeurs collaborateurs et amis. C’est cette pédagogie de la musique dont témoigne chaque note que je joue et qui nourrit l’esprit dans lequel j’ai enregistré ces Nocturnes de Chopin. La Pédagogie Résonnance est la synthèse intériorisée et vécue jour après jour de l’enseignement que j’ai reçu dans les années 80 de trois maîtres: Sergiù Celibidache, Hilde Langer-Rühl et Maurice Zundel. Tous trois parlaient le même langage, en utilisant des supports différents. Ils étaient à l’avant-garde de ce qui s’enseignait alors. Ces chercheurs de vérité ont ouvert la voie à un savoir qui se décline à l’infini, dont le but est de vivre l’unité par l’apprentissage que nous offre la musique afin de devenir non plus seulement des interprètes, mais avant tout des serviteurs de cet art. A l’école de ces maîtres j’ai appris que la musique «en soi» n’existe pas, au sens où il n’y a musique que lorsque notre conscience met les sons en 1 Résonnance: Fondation créé par Elizabeth Sombart dont la double mission est d’enseigner la phénoménologie du son et du geste et de porter la musique dans les lieux de souffrance (prisons, hôpitaux,…). http://www.resonnance.org. 2La Pédagogie Resonnance a fait l’objet d’un exposé technique rigoureux en trois volumes, base de l’enseignement dispensé à la Fondation. 68 La musica come bene comune relation de telle sorte qu’ils communient entre eux, nous ouvrant à une expérience de l’unité. La phénoménologie du son et du geste est une science rigoureuse qui formule et enseigne les lois qui président à la musique ainsi comprise. Mais cette discipline est avant tout un long chemin de gammes intérieures et extérieures pour vivre l’unité. La démarche musicale engage l’homme dans sa totalité, et cela parce qu’il existe des correspondances essentielles et objectives entre le monde sonore et l’intériorité humaine. La phénoménologie du son étudie la relation directe entre notre conscience, notre monde intérieur, et l’ordre sensible des phénomènes sonores. La musique nous enseigne que le son est un phénomène situé aux confins de deux mondes: le visible, de par sa manifestation auditive immédiate, et l’invisible, de par ses harmoniques.3 Le son est consubstantiel à la nature de l’être humain qui le porte en lui par ses cordes vocales et dont l’oreille reconnaît naturellement les intervalles. La fascination que l’être humain ressent pour le son tient au fait que ce dernier est stable;4 or cette stabilité coïncide avec la tendance naturelle de l’homme à rechercher la paix. Notre musique occidentale est bâtie sur deux modes: le majeur, qui s’identifie à la nature même du son, et le mineur, qui est un majeur en souffrance. Cette musique repose sur la tension créée par l’opposition entre ces deux modes, laquelle correspond en l’homme à la tension entre l’extroversion et l’introversion. Or l’homme, au plus profond de lui-même, aspire à vivre l’unité de sa vraie nature qui est manifestée par le mode majeur: la stabilité et la paix. La relation de l’homme avec le son les lui apporte et lui donne de les vivre dans une complicité réelle, dès lors que la conscience réalise la résolution des tensions dans un geste musical qui réduit la multiplicité des phénomènes sonores à l’unité. De Hilde Langer-Rühl j’ai appris qu’un tel geste musical est la conséquence d’une respiration intérieure mise au service du phrasé: on ne joue pas du piano seulement avec ses doigts mais avec cette force mystérieuse dont la respiration et sa maîtrise sont les clés pour unifier le geste au phrasé. Toutefois, comme le disait Sergiù Celibidache, le geste musical inspiré 3 4 Lorsqu’on se penche sur la nature d’un son, on constate que ce son que l’on croyait unique se divise au moment même de sa manifestation selon une progression numérique et lorsque nous croyons entendre une seule note, en vérité nous entendons simultanément toute une famille de notes. On appelle cela “les harmoniques d’un son”. Bien qu’elles ne soient pas toutes identifiables à l’oreille, elles sont toujours présentes dans le son. Nous parlons ici du son musical, c’est-à-dire à vibration égale. La stabilité du son vient du fait que sa vibration est unique: un Do est un Do. E. Sombart - Pour que les sons deviennent musique69 par le souffle intérieur, et qui donne naissance au phrasé juste, n’est pas le résultat d’une loi phénoménologique même bien appliquée. Il doit se vivre à chaque fois et de manière unique dans la liberté de l’écoute. Bien sûr, la mise en relation des sons par l’interprète et la naissance du phrasé juste supposent une recherche active qui s’effectue au cours de ce que la phénoménologie du son appelle la phase noétique. Dans cette phase l’interprète écoute, équilibre, ajuste les paramètres musicaux qui entrent en jeu au moment de la production des phénomènes sonores et les met en relation afin de les unifier dans un geste juste. Mais l’interprète est encore dans l’analyse, le commentaire, la compréhension, la prise de conscience. Or l’enjeu est de passer de la phase noétique à la phase noémique où le musicien deviant «un» avec les sons, dans la simultanéité des relations sonores unifiées dans un présent qui contient le passé et le futur. Car l’expérience musicale relève d’une temporalité différente de la successivité du temps chronologique. Elle est celle du tempo giusto où seule l’unité de l’oeuvre peut être vécue. Cette «expérience de l’unité dans laquelle la musique se révèle est une expérience qui se vit dans la transcendance du savoir» ne cessait de répéter Celibidache, ce qui signifie justement que l’expérience de l’unité vécue ne résulte pas des seules connaissances nécessaires acquises durant la phase noétique, au moyen de l’activité de la pensée analytique. Il faut passer au-delà pour atteindre à la phase noémique où les sons communient. Dans la phase noémique l’interprète et l’auditeur communient à la vérité musicale dans une expérience que la phénoménologie du son nomme «l’intersubjectivité». L’intersubjectivité est la rencontre des consciences unifiées où la vérité musicale est vécue de manière univoque, non parce qu’elle serait imposée du dehors, mais parce qu’elle s’impose du dedans. Cette expérience de l’intersubjectivité vécue dans la phase noémique nous ouvre au «monde de l’âme de la musique», appelé «fondement commun» par Ernest Ansermet ou «monde de connaissance supérieure» par Beethoven. C’est pourquoi, en pénétrant dans l’univers des sons, nous prenons conscience que le monde n’est pas un cercle fermé, dans la mesure où l’expérience musicale donne accès à une réalité qui transcende les subjectivités particulières. Réalité à laquelle les consciences communient et qu’elles reconnaissent comme vraie. La vérité musicale est elle-même en grande partie indicible, et c’est pourquoi, au plus intime, la musique touche au silence. Etre en mesure d’écouter le silence: voilà l’expérience suprême que nous prodigue la musique. C’est précisément ce vers quoi la Pédagogie Résonnance nous mène: 70 La musica come bene comune apprendre à reconnaître et à écouter les silences avant les sons, dans les sons, après les sons, remettre chaque son dans son écrin de silence dans le geste juste, le geste qui unifie, un geste qui écoute. Entre chacune des notes, et dans chaque note, il y a le silence. Entre chacune des notes il y a la place pour l’intériorité, la contemplation. Aussi chaque interprète devrait-il, avant tout, avoir fait voeu de silence. L’artiste qui chemine avec cette conscience en vient à aimer ce silence intérieur où le mène ce que j’appelle «l’écoute écoutante». La conscience du silence s’accroissant toujours plus, nous pouvons alors vivre l’expérience de «goûter le silence». Au commencement ce sont des instants, puis des minutes, des quarts d’heure, et enfin tout un concert où dure ce silence, comme un office perpétuel du silence dans notre âme qui se poursuit non seulement lorsqu’on joue, mais en tout temps. C’est dans le silence où la respiration prend sa source que l’interprète trouve le chemin de son coeur, celui qui conduit à ce monde de «l’âme de la musique» où «les sons deviennent musique», où ils se vivent non plus dans la successivité mais dans la simultanéité du temps musical. De même que chaque phrase musicale naît du silence pour revenir au silence, de même chaque geste naît du silence et y retourne. C’est ainsi que le silence musical nous permet de renouer avec le silence primordial d’où nous venons et vers lequel nous retournons. Chaque fois qu’une note est ainsi écoutée, nous témoignons de l’origine des temps qui prend sa source dans le silence primordial. Paradoxalement la musique rétablit ce silence grâce auquel nous sommes enfin rendus à la transparence originelle de notre être. Ce n’est que de cette recherche continuelle du silence que pourront naître le geste et le phrasé musical. Chaque geste que nous dessinons sur l’instrument devient alors une offrande où les sons communient à travers nous. S’oublier soi-même pour servir la musique plutôt qu’utiliser la musique pour se servir: telle est la condition sine qua non pour que les sons qui communiquent deviennent des sons qui communient. La musique se dit alors d’elle-même, au bout des doigts, dans le geste épiphanique d’un présent où toutes les craintes secrètes sont dépassées, dans la reconnaissance de l’unité des choses, de notre rapport intime avec elles, de leur rapport les unes avec les autres, dans l’interaction profonde et subtile entre le silence et le son, le fini et l’infini. Le geste musical ainsi vécu et offert reconduit chacun vers sa propre intériorité et révèle qu’il y a en nous plus que nous-mêmes. Il nous ouvre à cette dimension intérieure que Maurice Zundel nomme «la dimension verticale, la dimension spirituelle, la troisième dimension». Mon expérience musicale m’a ouvert à cette dimension, à cet Autre qui nous dit: «toi, tu E. Sombart - Pour que les sons deviennent musique71 joues. Moi, je touche les âmes». Nous pouvons alors découvrir, selon le mot de Rimbaud, que «JE est un autre», que «ce n’est pas moi seul qui ai joué» comme en a témoigné Edwin Fischer. L’ancrage des sons dans l’expérience du silence est ce qui permet d’entrer dans cette «écoute agenouillée» dont parle Maurice Zundel, où la solitude est habitée par une Présence qui joue avec nous, qui écoute avec nous et à qui nous remettons tout naturellement l’hommage reçu. Il «n’est pas nécessaire de nommer cette présence. Ceux qui l’ont éprouvée la reconnaissent, toujours identique et toujours nouvelle. Si nous en parlons comme d’une présence, ce n’est pas pour la définir, mais d’abord pour marquer que par elle le monde s’ouvre à la pensée et lui devient intérieur». 73 Claudio Stirnati TRE MODALITÀ DI APPROCCIO ALLA MUSICA: MEDITAZIONE, RIFLESSIONE, DEDUZIONE Anche l’insegnamento della musica, come accade per la lingua, deve basarsi su un livello equivalente sia a quello grammaticale sia a quello letterario. Ma se il primo aspetto non può non essere praticato nella prima fase degli studi in ambito scolastico, quando si apprende l’alfabeto musicale e il suo funzionamento nella lettura e nell’esecuzione, il compito spettante al docente della fase più avanzata, e che può paragonarsi allo studio della parte letteraria, è assai meno scontato, ben più complesso e la relativa didattica deve quindi svilupparsi in maniera altrettanto ardua e articolata. Indubbiamente non è possibile paragonare direttamente il linguaggio musicale a quello verbale e già il termine di “linguaggio” si presta a equivoci, ma non c’è dubbio che la didattica ha la possibilità di affrontare la materia musicale con strumenti analitici simili a quelli con cui si affronta la letteratura e se l’esegesi della musica non è corrispondente a quella che un tempo si chiamava l’“analisi logica” riferita alla lingua, è comunque caratterizzata da un metodo molto importante e significativo. Naturalmente in nessuna epoca può funzionare efficacemente una didattica che non tenga conto della realtà concreta della fruizione dei beni culturali ed oggi la fruizione della musica è, in ogni caso, molto diversificata a seconda che avvenga a livelli elementari o all’opposto a livelli di alta specializzazione. Cambiano completamente i modi di rapportarsi alla musica in dipendenza dalle diverse e persino opposte mentalità che vi si accostano. Estasi e idolatrie caratterizzano, ad esempio, tipiche forme di approccio del grande pubblico alla realtà musicale intorno a noi, mentre, nel contempo, gli esegeti più attenti stigmatizzano sovente l’utilizzo della musica superficiale e dilettantesco, spinto fino al passatempo e alla distrazione. Altri studiosi, per contro, sono connotati da un impegno cospicuo caratterizzato da coscienza critica profonda e amore sviscerato per la serietà dei risultati conseguiti. Certo la didattica deve tenere conto, qualunque sia la tecnica artistica presa in esame, della prassi esecutiva inerente all’arte oggetto dello studio, e per la musica tale aspetto è determinante e continuamente sottoposto a verifiche. Ci sono, peraltro, in musica differenze sostanziali e grandissime rispetto alla 74 La musica come bene comune didattica della letteratura o delle arti figurative, per restare nel campo umanistico senza invadere in questa fase di discussione i domini dell’ambito scientifico come quello della matematica e della fisica. Nelle arti figurative il docente ha di fronte a sé (per lo più in riproduzione, sia pure, ma riproduzione di cose esistenti) la materialità dei beni oggetto della didattica e della ricerca. Un quadro proposto all’attenzione dei discenti può essere antico quanto si vuole, ma, se sopravvissuto, ha in sé quell’elemento di eterno presente (compatibilmente alle cose umane, beninteso) per cui nella sua materialità è soltanto invecchiato nel passaggio di generazione in generazione ma non è scomparso, anzi è fisicamente presente. Ha in sé una consistenza fisica costante che ne garantisce la storicità e la contemporaneità nel contempo, anche nel caso di danneggiamenti cui appropriati interventi di restauro possono porre almeno temporaneo rimedio. Lo stesso, relativamente al concetto della contemporaneità che si rinnova nel tempo, può dirsi di un testo letterario quando la lingua e la scrittura con le quali è stato originariamente pensato e vergato mantengano una corrispondenza con obbiettive nozioni oggi e sempre riscontrabili sul piano filologico. Anche quando tale riscontro oggettivo manca (si può prendere, in proposito, il caso famosissimo e sempre citato della Divina Commedia di Dante di cui non esiste alcun manoscritto originale) il principio non viene meno conoscendosi una gamma di equivalenti (altri manoscritti poetici del tempo, ad esempio) che garantiscono le nostre conoscenze attuali. Già rispetto alla prassi teatrale, però, questo principio viene in parte meno non essendo sempre sufficienti le testimonianze disponibili per affermare con certezza di poter avere una chiara idea di come fosse effettivamente messo in scena durante l’età classica un dramma di Eschilo, di Sofocle o di Euripide. Questa carenza informativa riguarda la musica in maniera ancor più massiccia. Nulla, o quasi, possiamo insegnare, per restare sul caso fondamentale appena proposto, sulla scrittura e la prassi musicale dell’antica Grecia, dato che le testimonianze pervenute sono labilissime e di difficilissima se non impossibile decifrazione e interpretazione. Ma anche per larga parte dell’età medievale abbiamo enormi difficoltà a ricostruire la prassi di scrittura e le modalità di strumentazione e esecuzione. Tale problema permane in molti altri momenti storici, dall’Umanesimo all’improvvisazione barocca, alla musica aleatoria della seconda metà del Novecento, malgrado l’esistenza in quest’ultimo caso di registrazioni e persino testimonianze scritte e orali di chi partecipò realmente a quelle attività. Ma chi veramente è in grado di spiegare come venisse eseguito effettivamente l’Orfeo di Monteverdi o come venisse realizzato un basso continuo di C. Stirnati - Tre modalità di approccio alla Musica75 determinati strumentisti della seconda metà del Seicento tra Italia, Francia e Germania? Chi è veramente in grado di poter spiegare fino in fondo le intenzioni compositive di gran parte delle opere prodotte nella prima scuola di Darmstadt tra le esperienze di Pousseur, Boulez, Stockhausen? Certamente la parte più vicina a noi è facilmente affrontabile, ma resta l’enorme difficoltà di interpretazione di numerose scritture musicali del secondo Novecento quando l’ambiguo rapporto (presente, a dire il vero, fin dalle origini della storia della musica orientale e occidentale) tra arte figurativa e grafia musicale vera e propria ha prodotto equivoci interpretativi che le pur numerose registrazioni coeve esistenti non sono a volte sufficienti a dirimere. Ancora oggi, del resto, la didattica deve tenere comunque nel massimo conto, dal punto di vista della storia del linguaggio, lo snodo cruciale verificatosi nella teoria e nella prassi musicale a partire dalla rivoluzione francese del 1789. Senza voler attribuire a quella data la funzione di un discrimine assoluto (cosa che non avrebbe senso, come non lo ha per molti altri confini cronologici ferrei), è significativo osservare come l’‘89 generasse, infatti, una serie di fenomeni rivoluzionari nella stessa produzione artistica e nella musica più che mai. Che Beethoven sia in parte figlio ideale della rivoluzione francese, proprio per quel che riguarda la formazione del suo stesso linguaggio, non è teoria priva di senso e tutti concordano nell’individuare in Beethoven uno spartiacque assoluto nella storia della musica, nel senso per l’appunto “napoleonico” secondo la lezione manzoniana quando celebra l’imperatore scomparso nella memorabile poesia del Cinque Maggio, con l’immagine dell’uomo seduto tra due secoli. Questa posizione di “fondatore” è riconosciuta pienamente a Beethoven. In lui, alla fine, gli innegabili influssi subiti, da Mozart a Haydn, non significano nulla per la concretizzazione del suo linguaggio da cui, quindi, è ben possibile marcare un inizio. Che questo inizio sia identificabile con l’idea di Romanticismo musicale in sé è opinione diffusa ma sicuramente imprecisa se non erronea. Ma che da Beethoven nasca un’età nuova da cui nessuno può prescindere e che nessuno può di fatto imitare e riprodurre pedissequamente, sembrerebbe un dato acquisito. A livello didattico un tale criterio assume valore determinante. Non è soltanto una questione inerente all’uso degli strumenti musicali, all’ingresso definitivo del pianoforte nella musica “forte” (come la definisce efficacemente Quirino Principe) fino ad arrivare al lavorio incessante e sublime sulla “forma sonata”. Si tratta, invece, in Beethoven di una sorta di “ripartenza” linguistica per cui i sommi capolavori di chi lo aveva immediata- 76 La musica come bene comune mente preceduto e anche affiancato, prodotti fino a poco prima che egli iniziasse la sua splendida e vincente parabola, entravano subito in una storicizzazione che ancora oggi mantengono. Certo Mozart con le ultime opere liriche italiane, con lo Zauberflöte, con le ultime Sinfonie e con gli ultimi Concerti, tra cui quello stupendo per clarinetto (almeno come tale è oggi catalogato a onta dei dubbi sull’ effettivo strumento cui l’ opera mirabile fu destinata), aveva stabilito un livello creativo, che lo stesso Beethoven forse non poté attingere, di olimpica perfezione e di sublime rovello interiore coinvolgente valori politici, sociali, emotivi, estetici e, si direbbe oggi, psicanalitici. Beethoven è paradossalmente ben più monolitico rispetto alla complessità mozartiana, ma questo non toglie nulla alla rivoluzione totale portata dal genio di Bonn, per cui è lecito parlare di una storia della musica prima e dopo Beethoven, un po’ come è accaduto per la figura del Caravaggio nella pittura, anche egli seduto tra due secoli. Sono questi elementi di analisi storiografica ma anche di caratura didattica, che è necessario assumere come fondamentali se non si vuole perdere il senso profondo di che cosa debba significare, in una rinnovata visione della nostra scuola, la didattica musicale. Non si parla qui di contribuire alla creazione di feticci, come potrebbe essere proprio quello beethoveniano. La funzione della didattica è sempre e comunque rivolta nella direzione opposta. Si tratta però di concentrarne l’attenzione sul formidabile fenomeno della evoluzione del linguaggio musicale secondo le esigenze espressive di intere civiltà che in quel linguaggio hanno concentrato messaggi e concetti altrimenti inesprimibili. Qui potrebbe risiedere la specificità di una didattica della musica che non può essere un fatto esclusivamente grammaticale ma che si concentra sul valore formativo dell’apprendimento di uno strumento, del solfeggio e del canto corale. Sono questi elementi essenziali di formazione sociale dell’individuo, a prescindere dagli specifici contenuti veicolati dalle composizioni musicali oggetto dello studio formativo. L’ insegnamento di qualsivoglia tecnica artistica deve tendere al raggiungimento di ciò che può e deve essere definito come “consapevolezza estetica”. Posto che tutte le arti sono veicolo di consapevolezza e di riconoscimento reciproco tra le persone (con conseguente individuazione dei simili tra di loro e delle differenze ideali e ideologiche su cui si baserà poi tutta l’ attività sociale e lavorativa del giovane una volta uscito dalla scuola), il ruolo della musica potrebbe assumere rilevanza particolare. Arte asemantica che non veicola di per sé significati particolarmente riconoscibili (ferma restando la rilevanza dell’opera lirica, della musica intonata su testi i più disparati, della musica a programma in qualunque epo- C. Stirnati - Tre modalità di approccio alla Musica77 ca e tradizione elaborata), appunto per questo la musica si presta a essere “contenitore” eccelso di elaborazioni di idee e programmi altrimenti non esprimibili con la sola progressione del ragionamento logico e argomentativo. C’è una razionalità profonda della musica, in qualunque forma elaborata, persino in quella “debole”, per seguire ancora una volta la dicitura stabilita da Quirino Principe. Tale razionalità implica da parte del docente un impegno particolare in cui la componente tecnica e quella speculativa del “linguaggio” musicale debbono sempre essere tenute interconnesse, portando a diverse modalità di approccio al testo musicale. Senza dubbio, infatti, la asemanticità della musica implica da parte dell’ascoltatore la necessità di decifrare il testo musicale stesso a vari livelli, tutti legittimi. Tra questi vanno almeno evidenziati gli aspetti meditativi impliciti nella struttura stessa della costruzione del linguaggio musicale, quelli riflessivi implicanti cioè l’elaborazione di vere e proprie categorie peculiari di conoscenza delle cose da cui la musica stessa è scaturita e infine quelli deduttivi tali da trasformare il piacere dell’ascolto in vere e proprie conclusioni logiche inerenti ai fini perseguiti dai compositori nel momento della formulazione dell’opera d’arte. Rifulge qui quell’aspetto meraviglioso di “bene comune” che la musica, tra tutte le tecniche artistiche conosciute, possiede in misura rilevante. Oggi, infatti, siamo abituati a definire “bene culturale” qualunque cosa o azione inerente all’arricchimento delle cognizioni e della dimensione morale dell’individuo. Parliamo adesso di beni culturali sia rispetto alle arti tradizionalmente schedate come tali, dalla pittura, alla scultura, all’architettura, alle arti applicate, al cinema, al teatro, ma anche al patrimonio archivistico, a quello archeologico, a quello bibliotecario (arricchito adesso dagli strumenti e dagli archivi elettronici) fino a arrivare ai patrimoni immateriali come le tradizioni popolari (quando siano tali) e ai risultati della ricerca demoetnoantropologica. La musica è un bene culturale peculiare, facile e difficile a un tempo, più separato rispetto agli altri dalla realtà e dall’obbligo di verosimiglianza dato che la musica in quanto tale non esiste in natura se non come suono o produzione di note generate da fenomeni fisici come il vento o le onde, ma non coordinate in un discorso logico o, appunto, verosimile, ancorché i canti degli uccelli o i suoni emessi da numerosi animali siano certo da interpretare come linguaggi complessi e comunicazionali. Anche se sono poi evidenti gli stacchi tra le varie tradizioni (musica araba, musica cinese, musica giapponese, canti aborigeni, melopee religiose dall’Asia, dall’ Africa, dalle Americhe, dall’ Oceania) resta il fatto che la musica ha meno bisogno di traduzioni di qualunque altra tecnica artistica, a prescindere dalla funzionalità dell’Architettura che è un caso a sé. L’im- 78 La musica come bene comune menso successo di moderne tradizioni musicali specie anglosassoni nel campo della canzone in ogni parte del mondo ha dimostrato come tale successo potesse prescindere in larghissima parte dalla comprensione esatta delle parole pronunciate. È stato sufficiente che un certo clima culturale e una informazione di massima relativa ai contenuti arrivassero al pubblico entusiasta del pianeta intero per consacrare il successo dei Beatles, dei Rolling Stones, dei Pink Floyd (per limitarci ai grandiosi fenomeni che caratterizzarono in tal senso gli anni sessanta del Novecento), persino quando il nome stesso della Band risultasse incomprensibile ai più. La musica, anche quella cantata, è sostanzialmente perspicua di per sé, anche se l’esatta cognizione dei testi può modificare radicalmente la corretta fruizione delle opere relative. Dunque parlare di “bene comune” per la musica è particolarmente giusto e questo fattore deve essere determinante per l’impostazione di una didattica coerente con la rilevanza e l’attualità dell’ argomento. Non si può negare il fatto che la musica possa essere fruita da un minimo a un massimo di impegno speculativo e conoscitivo, anche se un simile principio vale in definitiva per ogni tecnica artistica. Non è mai da escludere la fruizione della musica, almeno da parte di una fascia del potenziale pubblico, in quanto passatempo, ma è altrettanto determinante la analitica comprensione dei rapporti testuali, l’attivazione sentimentale conseguente, la salita verso la meditazione anche secondo i principi della “meditazione trascendentale” (numerose forme di jazz vi fanno sicuro riferimento), fino all’esercizio intellettuale della comprensione delle forme pure (il contrappunto è lo strumento principe in tal senso) e del puro godimento estetico della struttura, nonché della contemplazione di verità e principi inerenti alla morale, alla religione, alla filosofia in sé, e persino al concetto di responsabilità dell’individuo e della società tutta. Ecco allora che il legame tra evoluzione (anche se tale termine è improprio ma didatticamente può rivestire una certa utilità) del linguaggio musicale e svolte rivoluzionarie del linguaggio stesso verso la scoperta di territori fino a quel momento inesplorati (in riferimento alla citata esemplificazione della svolta beethoveniana connessa con la rivoluzione francese) può rivestire un valore didattico incomparabile e stimolante nella formazione dei giovani. Un aspetto determinante dell’ insegnamento in sé, del resto, è la messa in luce delle connessioni tra esperienza sensoriale e esperienza intellettuale. Leggere, scrivere, guardare, ascoltare, creare contatti tra gli individui, vivere consapevolmente le esperienze dello sport, del cibo e del sesso, sono altrettante funzioni determinate dall’esperienza sensoriale che hanno nel contempo una struttura di base istintiva e una necessità altrettanto assoluta C. Stirnati - Tre modalità di approccio alla Musica79 di essere apprese. Questo equilibrio tra istintualità e ragione è il fondamento di qualunque insegnamento e guida l’ essere umano verso le vie delle scienze e dell’umanesimo, ma anche della politica e dell’economia, della morale e dell’aspirazione metafisica. La musica occupa un posto rilevante in questa esercitazione sensoriale e speculativa insieme, che è il fondamento stesso dell’apprendimento scolastico in tutti i suoi livelli, dal più elementare al più eletto. La scuola è il luogo deputato per spiegare come non vi sia opposizione ma continuità tra esperienza sensoriale e esperienza intellettuale. Un corretto “saper ascoltare” proposto ai nostri giovani è dunque lo strumento privilegiato per onorare l’insegnamento della musica allo stesso livello delle altre discipline. Il principio è sempre lo stesso: insegnare come ci si debba porsi di fronte all’opera d’arte e che cosa se ne possa e se ne debba trarre. Molto è stato fatto in tal senso per l’ambito letterario e molto per quello figurativo. Meno per la musica ma questa è passibile esattamente delle stesse procedure didattiche rivolte in quelle direzioni. Insegnare a ascoltare è, peraltro, funzione mirabile dal punto di vista didattico perché è lecito pensare che chi ha imparato meglio a ascoltare la musica sia predisposto al meglio per imparare a “ascoltare” in senso lato, e non c’è cosa migliore per l’individuo e il cittadino di questo tipo di apprendimento. Saper ascoltare significa infatti formare la propria personalità in senso opposto al gretto egoismo e al solipsismo che producono immancabilmente nella dinamica storica i comportamenti più tragici e negativi per la società nel suo complesso. L’ascolto della musica è, in effetti, attivo. Non può essere passivo perché chi ascolta conferisce contestualmente significato a un insieme il cui senso non è preformato a priori essendo costituito non di parole ma di note, anche se intonate su testi. Lo sforzo di conferire significato rende quindi l’ascolto attivo e consapevole, ponendo l’individuo nella migliore condizione per essere a sua volta proponente di tematiche e idee nello scambio necessario con l’altro. Ecco perché Shakespeare fa dire a un suo personaggio nel Mercante di Venezia che bisogna diffidare degli uomini che non ascoltano, non amano e quindi non capiscono la musica. C’è il rischio, dice il sommo poeta, che questi uomini siano falsi e ipocriti, non dialoganti, in altri termini, ma finti e subdoli. Naturalmente è un’espressione estrema che non deve assolutamente invadere il campo del gusto personale. Non è obbligatorio amare l’arte in sé, però è meglio se ciò accade. La didattica può assumere la sentenza shakespeariana come motivo orientatore di un metodo di insegnamento teso prioritariamente a nobilitare l’individuo attraverso la disciplina che si va a spiegare. 80 La musica come bene comune Sotto il profilo didattico è interessante ricordare come appartenga anche alla musica il dominio dell’“esattezza” che ben si può confrontare con le scienze matematiche, ma parimenti vi appartiene pure quello dell’“estro” che ben si può confrontare con la dimensione della Poesia. Il bello è che i due termini, “estro” e “esattezza”, si possono però ribaltare nel momento didattico attribuendo il primo alla matematica e il secondo alla poesia, con altrettanta attendibilità. Le categorie infatti si intrecciano e attraverso tale intreccio, riscontrabile facilmente nel concreto della prassi esecutiva musicale, si perviene direttamente a quel principio del suonare o cantare insieme che sviluppa di per sé, come si è osservato, la capacità di stare organicamente al mondo riconoscendosi reciprocamente. È questa una funzione dell’Arte, ma in musica tale categoria si articola nelle mirabili funzioni dell’eseguire il brano musicale personalmente, nel dirigere l’orchestra o complessi strumentali e vocali, nell’interpretare il testo anche senza eseguirlo materialmente, attraverso la scrittura o il discorso. La musica ha bisogno della figura del “mediatore” (oggi reperibile in tante strutture museali in giro per il mondo) forse più che in qualunque altra arte. Ha dunque particolarmente bisogno della figura dell’insegnante, senza il quale l’intera disciplina resterebbe lettera morta o vuoto orpello. LE IMMAGINI DELLA MUSICA Collana diretta da Nicoletta Guidobaldi e Elio Matassi 1. Nicoletta Guidobaldi, Prospettive di iconografia musicale 2. Silvio Paolini Merlo, Estetica esistenziale. Ricerche sulla filosofia della musica e delle arti sceniche 3. Paolo Gozza, Imago vocis. Storia di Eco 4. Ivano Cavallini (a cura di), Nation and/or homeland. Identity in 19thCentury Music and Literature between Central and Mediterranean Europe 5. Roberto Gigliucci, Tragicomico e melodramma. Studi secenteschi 6. Francesca Bortoletti (a cura di), L’attore del Parnaso. Profili di attorimusici e drammaturgie d’occasione