Sul linguaggio materno di Daniela Padoan Paola racconta di una genealogia femminile: la sua. Un giorno di venticinque anni fa sua figlia, ancora piccola, torna a casa chiedendole di chiamarla Stella, “perché la nonna mi chiama così”. Adesso che la figlia è grande e che ha avuto a sua volta una bambina, Stella è diventata la piccola. “Quella della stella” dice Paola “è stata l’immagine attorno alla quale si sono addensate le mie fantasie quando è nata mia nipote, un po’ come un viatico: una stella è una cosa libera, nuova, una soggettività che si va raggrumando.” Attraverso la stella, Paola fa un racconto per immagini della relazione materna e di quel meraviglioso viaggio a due che è l’acquisizione del linguaggio. Basta guardare una mamma chinata sul figlio ad ascoltare le poche sillabe stentate e incomprensibili con le quali il bimbo designa con caparbietà un oggetto, per capire che le madri non solo insegnano a parlare ai figli, ma che insieme a loro inventano un linguaggio tutto speciale, una specie di codice segreto spesso incomprensibile agli altri. Il piccolo articola un grumo di sillabe, poi le ripete, le scaglia nel mondo e, quando la mamma non capisce, le ripete con più forza, a volte con un’intensità tale da rendere evidente che, in quell’apparente capriccio, si sta giocando qualcosa di fondamentale. La mamma prova a ridire l’invenzione del piccolo, a farla propria restituendogliela in un assestamento di senso, a trovare la strada per cui tra i due il grumo di sillabe vorrà dire proprio qualcosa, alluderà a un oggetto e a una situazione, e a tutto il contesto affettivo senza il quale non c’è né oggetto né situazione. Il linguaggio tra madre e figlio è un continuo rimandare dall’uno all’altro, e la prepotenza del rimando è paritaria, vitale. Da questo scambio nasce una sorta di grammelot empatico, di dialetto inventato dai due, in cui entra tutto il mondo, e nasce una contrattazione affettiva, in cui c’è potere reciproco. Il bambino, pur nella sua condizione di disparità, non è in posizione di debolezza nei confronti della madre. Ha un potere, che è quello di ridare il mondo ricevuto. Il racconto per immagini di questa avventura, non più giocata in prima persona ma osservata attraverso la discendenza materna, si dipana in un’esplosione di lettere disorganizzate che si radunano verso un centro - la stellina - o che vengono scagliate verso l’esterno, il mondo, in un flusso che è gioco e segno da reinventare continuamente nel suo farsi ordine simbolico. Domandarsi quali sono i contenuti linguistici e affettivi che, più o meno consapevolmente, si trasferiscono al figlio con quella che Winnicott chiama la “poppata teorica”, significa fare una sorta di inventario della vita, un po’ come guardare nella valigia che ci si è portati appresso per un lungo viaggio. Così Paola guarda sua figlia, e riflette, nel doppio significato del termine, inserendosi in quella linea materna che dalla bisnonna va alla nipotina, passando per quattro generazioni di donne. La stella che la giovane mamma si disegna sul pancione in cui ancora abita la bimba, le stelle di un firmamento-mondo, le stelle natalizie appese in una vetrina, la stella del basco del Che, la stella di un murale metropolitano, la stella di un’architettura araba, la stella di uno dei tanti ciondoli che vengono amorevolmente donati a Liliana Segre, in ricordo di quella stella che cercava ogni notte nel cielo durante la prigionia ad Auschwitz, per aggrapparsi ancora alla vita. Tutto questo, dono e scambio, a tessere i fili di un continuo dare e restituire. E a ricordarci che, come dice Luisa Muraro ne L’ordine simbolico della madre, veniamo al mondo impotenti, muti, bisognosi di tutto, e che è la relazione materna a metterci in condizione di esistere e di parlare, di scambiare significati. Tutto questo è il mondo che va verso la stellina, ma da quel centro che cosa viene restituito alla madre, nell’esplosione di letterine? Uno spiazzamento, una possibilità di guardare se stesse e la propria vita attraverso gli occhi di quel nuovo essere che deve riorganizzare tutti i significati, sperimentarli, dare nome al mondo e, riconoscendolo, farsene riconoscere. Uno scambio affettivo in cui si apprende e si insegna riuscendo a coniugare l’invenzione con la necessità di appartenenza sociale e con la consapevolezza del diritto all’affermazione di sé anche per chi è posto in condizione di disparità. In questo chinarsi sul figlio mettendo in gioco le proprie capacità affettive e intellettive, in una tensione che privilegia lo scambio, c’è un protagonismo femminile che, giocato anche al di fuori del ruolo propriamente materno, può mutarsi in un grande potere di comunicazione politica. Un sapere dell’altro che sa accogliere la disparità senza farla diventare sopraffazione, che cerca lo spiazzamento dato dallo sguardo dell’altro come un ampliamento di percezione e di intelligenza. Ma, se la madre sa insegnare ordine simbolico, il legame tra cosa e parola, la fiducia nella mediazione del linguaggio, da che le viene questa facoltà? E ne perde l’uso, la pratica, la legittimazione, quando i figli si staccano per consegnarsi all’ordine patriarcale? Quando, secondo Lacan, con l’accettazione del nome del padre, il bambino divenuto soggetto entra contemporaneamente nell’ordine del simbolo e del linguaggio? Che ne è, fuori dalla possibilità di dirsi, di questo sapere del simbolico, di tutti i pappa/gatto/carota, della “lingua della nutrice” come già la chiama Dante, del “linguaggio psicotico” come lo definisce Jakobson, che si instaura tra madre e figlio? Che fine fa questa competenza non più agita – o mai agita, per chi non ha avuto figli – quando, come ogni talento reso muto, viene ributtata nell’indifferenziato? C’è un uso politico della competenza materna che si trova nella storia e nella testimonianza delle Madri argentine di Plaza de Mayo, visibile nella forza che è venuta loro dal parlare a nome di un figlio scomparso, di una pluralità di figli rivendicati alla vita. In loro c’è un desiderio di parlare per dare voce all’altro, un prendere la parola per mettere l’altro in condizione di essere. Questa idea del materno come invenzione politica si sta facendo strada in molte parti del mondo: tra le madri Saharawi, nella posizione delle madri israeliane, così come nella lettera inviata da un gruppo di madri napoletane alla mamma di Carlo Giuliani, che si concludeva con una frase di Luce Irigaray: "Noi mettiamo al mondo qualcosa di diverso dai figli, generiamo qualcosa che non è il bambino, ma amore, desiderio, linguaggio, arte, società, politica, religione.” Di Daniela Padoan tratto da: Paola Mattioli -Tre storie a cura di Antonio Ria Edizioni Le Ricerche, Lugano 2003