Il problema della medicina difensiva

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Centro Studi «Federico Stella» sulla Giustizia penale e la
Politica criminale dell'Università Cattolica del S.C. di Milano
(CSGP)
PROGETTO DI RIFORMA IN MATERIA DI RESPONSABILITÀ PENALE
NELL’AMBITO DELL’ATTIVITÀ SANITARIA E
GESTIONE DEL CONTENZIOSO LEGATO AL RISCHIO CLINICO
Coordinamento generale
PROF. GABRIO FORTI
Direttore del CSGP, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
Coordinamento ricerca empirica sulla medicina difensiva (Fase I)
PROF. MAURIZIO CATINO
Facoltà di Sociologia, Università degli Studi di Milano-Bicocca
Coordinamento ricerca giuridica e comparatistica (Fase II)
PROF. FRANCESCO D’ALESSANDRO
CSGP, Facoltà di Economia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
PROF. FRANCESCO CENTONZE
CSGP, Facoltà di Giurisprudenza, Università del Salento – Lecce
Nucleo progettazione normativa
PROF. FRANCESCO D’ALESSANDRO
CSGP, Facoltà di Economia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
DOTT. GIANLUCA VARRASO
CSGP, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del S.C. di Milano
DOTT.SSA CLAUDIA MAZZUCATO
CSGP, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del S.C. di Piacenza
DOTT. ENRICO MARIA MANCUSO
CSGP, Facoltà di Giurisprudenza, Università Cattolica del S.C. di Milano
Gruppo di ricerca empirica
AVV. PAOLA CATTORINI
CSGP, Università Cattolica del S.C. di Milano
DOTT.SSA CHIARA LOCATELLI
Servizio MCQ, Ospedale Niguarda Cà Granda - Milano
Gruppo di ricerca giuridica e comparatistica
DOTT.SSA LUCIA DELLA TORRE
CSGP, Università Cattolica del S.C. di Milano
DOTT. PIERPAOLO ASTORINA
CSGP, Università Cattolica del S.C. di Milano
DOTT. ALESSANDRO PROVERA
CSGP, Università Cattolica del S.C. di Milano
DOTT. MICHELE COSTANTINO MATERNI
CSGP, Università Cattolica del S.C. di Milano
INDICE-SOMMARIO
Parte I
LA RICERCA EMPIRICA
Executive summary…………………………………………………………….
p. 5
Introduzione……………………………………………………………………
p. 7
1.
L’errore in medicina e la medicina difensiva…………………………….
1.1. L’errore in medicina, i danni, i costi………………………………...
1.2. L’approccio accusatorio all’errore…………………………………..
1.3. La medicina difensiva……………………………………………….
p. 8
p. 8
p. 10
p. 12
2.
L’indagine quali-quantitativa. Metodologia e risultati…………………...
2.1 Aspetti metodologici………………………………………………..
2.2 Caratteristiche socio-anagrafiche del campione……………………
2.3 I comportamenti di medicina difensiva……………………………..
2.4 Le motivazioni dei comportamenti difensivi……………………….
p. 14
p. 14
p. 15
p. 16
p. 21
3.
Considerazioni conclusive……………………………………………….
p. 25
Bibliografia…………………………………………………………………….
p. 28
Gli autori……………………………………………………………………….
p. 32
Allegati: il questionario e la check list per le interviste……………………….
p. 33
Parte II
LA RELAZIONE DI PRESENTAZIONE
1.
Premessa………………………………………………………………….
p. 38
2.
Titolo I: Principi generali…………………………………………………
p. 40
3.
Titolo II: Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e
alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di
procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n.
271………………………………………………..………………………
3.1 La fattispecie di cui all’art. 2 del Progetto………………………….
3.2 Le modifiche alle disposizioni di attuazioni del codice di procedura
penale di cui all’art. 4 del Progetto…………………………………
4.
Titolo III: Giustizia riparativa…………………………………………….
4.1 La giustizia riparativa nel disegno politico-criminale del Progetto...
4.2 Le ragioni della scelta a favore di un sistema di giustizia riparativa
in ambito sanitario…………………………………………………..
p. 43
p. 44
p. 56
p. 59
p. 59
p. 65
4.3
4.4
4.5
Le norme che compongono il Titolo III del Progetto………………
Principi generali e tipologie di programmi…………………………
Commissione per la giustizia riparativa in ambito sanitario.
Mediatori……………………………………………………………
Funzionamento dei programmi di giustizia riparativa……………...
p. 77
p. 80
Titolo IV: Disposizioni in materia di assicurazione per la responsabilità
civile in ambito sanitario.…………………………………………………
p. 83
4.6
5.
p. 68
p. 72
Parte III
IL PROGETTO DI RIFORMA: L’ARTICOLATO
1. Il Progetto di riforma……………………………………………………..
p. 89
PARTE I
LA RICERCA EMPIRICA
Executive summary
La Medicina Difensiva
La "Medicina Difensiva" – secondo la definizione fornita dal Congresso degli Stati Uniti
d’America – si manifesta allorché il medico ordini esami, procedure o visite, o eviti pazienti a
rischio, o procedure ad alto rischio, principalmente (ma non esclusivamente) per ridurre la propria
esposizione al contenzioso legale. Quando i medici svolgono esami o procedure in eccesso,
praticano la c.d. Medicina difensiva positiva. Quando evitano alcuni pazienti o procedure, praticano
la c.d. Medicina difensiva negativa” (U.S. Congress, 1994). Esistono, perciò, due tipi di
comportamento difensivo: l’uno orientato ad effettuare azioni e procedure in esubero; l’altro
indirizzato ad eludere alcuni trattamenti che possono essere considerati a rischio.
Tale fenomeno è strettamente collegato all’aumento costante delle richieste di risarcimento da
parte dei pazienti, che rivela come – anche in Italia – la categoria degli operatori sanitari sia
particolarmente esposta al rischio di dover affrontare procedimenti giudiziari, tanto in sede civile,
quanto in sede penale.
Per rendersi conto dei termini del problema, è sufficiente ricordare come, nell’arco di dieci
anni, dal 1995 al 2005, il numero dei sinistri denunciati alle imprese di assicurazione in Italia, nel
campo della responsabilità civile nel settore sanitario, sia passato complessivamente da poco più di
17.000 a circa 28.500, facendo registrare un incremento del 65% (Ania, 2007).
La ricerca empirica
Al fine di individuare le soluzioni più efficaci per affrontare, sul terreno giuridico, tale
preoccupante fenomeno, il CSGP (Centro Studi “Federico Stella” sulla Giustizia Penale e la Politica
Criminale) ha innanzi tutto avviato una indagine empirica, diretta dal prof. Maurizio Catino e
condotta con l'
avv. Paola Cattorini e la dott.ssa Chiara Locatelli, volta a definire con precisione i
termini e le dimensioni del problema. Questa prima fase della ricerca, i cui contenuti vengono
sinteticamente presentati qui di seguito, costituisce la premessa indispensabile per l'
impostazione di
una serie di linee di riforma legislative, che i ricercatori del CSGP stanno attualmente sviluppando e
sottoponendo a una validazione preliminare, mediante discussione nell’ambito di focus group,
costituiti da medici, chirurghi e altri operatori sanitari.
L’obiettivo dell’indagine empirica è stato di misurare la frequenza dei comportamenti di
"Medicina Difensiva" e di comprendere quali siano i fattori che spingono gli operatori sanitari a
modificare in tale direzione il proprio comportamento professionale.
Tale fase della ricerca è stata articolata in due parti: una di tipo quantitativo e l’altra di tipo
qualitativo.
Nella componente “quantitativa” è stato costruito un questionario strutturato, somministrato
tramite posta elettronica a 1.000 medici circa appartenenti alla Società Italiana di Chirurgia. Al
questionario hanno risposto 307 medici, generando un tasso di risposta pari al 30%.
Nella componente “qualitativa”, invece, sono state condotte 21 interviste in profondità a
medici di differenti reparti e specializzazioni: pronto soccorso, urologia, pediatria, chirurgia
generale e d’urgenza, anestesia e rianimazione, endocrinologia, patologia della gravidanza,
ginecologia e otorinolaringoiatria. Agli operatori intervistati sono state sottoposte alcune questioni
indirizzate a cogliere l’entità del problema e indagare i fattori che possono favorire certi
comportamenti difensivi.
I principali risultati
I medici intervistati mediante questionario dichiarano che il problema della Medicina
difensiva è sempre più diffuso: il 77,9% ammette di avere adottato almeno un comportamento di
Medicina Difensiva durante l’ultimo mese di lavoro.
Nello specifico:
- l’82,8% dichiara di avere inserito in cartella clinica annotazioni evitabili;
- il 69,8% afferma di aver proposto il ricovero di un paziente in ospedale, nonostante fosse
gestibile ambulatorialmente;
- il 61,3% dichiara di aver prescritto un numero maggiore di esami diagnostici rispetto a
quello necessario;
- il 58,6% dichiara di essere ricorso alla consultazione non necessaria di altri specialisti;
- il 51,5% afferma di aver prescritto farmaci non necessari;
- il 26,2% dichiara di avere escluso pazienti “a rischio” da alcuni trattamenti, oltre le
normali regole di prudenza.
Queste le motivazioni principali dichiarate:
- l’80,4% ha timore di un contenzioso medico-legale;
- il 65,7% risente l’influenza di precedenti esperienze di contenziosi a carico dei propri
colleghi;
- il 59,8% ha timore di ricevere una richiesta di risarcimento;
- il 51,8% è influenzato da precedenti esperienze personali di contenzioso;
- il 43,5% esprime il timore di ricevere una pubblicità negativa da parte dei mass media.
La percezione di una prassi giurisprudenziale particolarmente rigorosa, sul terreno della
responsabilità penale e civile, induce spesso i medici a modificare le proprie condotte professionali:
la tutela della salute del paziente può, così, diventare, per il sanitario, un obiettivo subordinato alla
minimizzazione del rischio legale.
Si segnala dunque come necessario, oltre che opportuno, un intervento di riforma legislativa,
che punti a scongiurare i comportamenti di "Medicina Difensiva", nella ricerca di un equo
bilanciamento tra l’esigenza di salvaguardare gli operatori sanitari da iniziative giudiziarie che
spesso vengono avvertite come arbitrarie e ingiuste e la necessità di tutelare i diritti dei pazienti che
si ritengano danneggiati da episodi di medical malpractice..
Introduzione
La Medicina Difensiva è identificabile in una serie di decisioni attive o omissive, consapevoli
o inconsapevoli, e non specificatamente meditate, che non obbediscono al criterio essenziale del
bene del paziente, bensì all’intento di evitare accuse per non avere effettuato tutte le indagini e tutte
le cure conosciute o, al contrario, per avere effettuato trattamenti gravati da alto rischio di
insuccesso o di complicanze.
Dall’osservazione dei dati a livello internazionale, i medici adottano frequentemente
atteggiamenti di tipo difensivo, prescrivendo esami e terapie non necessarie (c. d. Medicina
difensiva positiva) o evitando pazienti o procedure diagnostiche ad alto rischio (c. d. Medicina
difensiva negativa).
Tale fenomeno origina principalmente dal crescente aumento delle richieste di risarcimento da
parte dei pazienti contro i medici e contro le strutture sanitarie: + 65% in dieci anni (Ania, 2007)1.
Le numerose accuse dei pazienti che si ritengono danneggiati, pertanto, inducono diversi medici ad
attuare una “strategia” utile a scongiurare la possibilità di mettere a rischio la propria professione2.
Questo rapporto presenta i risultati di un’indagine sulla Medicina Difensiva all’interno di uno
studio più generale, promosso dalla Società Italiana di Chirurgia (S.I.C.) e diretto dal Prof. Gabrio
Forti (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano - Centro Studi “Federico Stella” sulla
Giustizia penale e la Politica criminale). Previa ricognizione delle principali soluzioni al problema
rinvenibili negli ordinamenti di altri Paesi, tale studio si propone di esaminare percorsi normativi
idonei a offrire alla responsabilità (specialmente penale) connessa all’attività medico-chirurgica, un
quadro di maggiore razionalità e certezza, ritenuto necessario per assicurare la reale, e dunque più
efficace, tutela della salute dei pazienti.
Il lavoro da noi condotto è strutturato in tre parti: la prima ha lo scopo di presentare i termini
del problema anche con riferimento allo scenario internazionale, evidenziando i costi; la seconda
parte presenta i risultati dell’indagine sul campo che ha coinvolto 307 medici chiamati a rispondere
ad un questionario strutturato ed altri 21 medici intervistati in profondità. L’ultima parte, infine, è
stata dedicata alla formulazione delle considerazioni conclusive necessarie a valutare l’entità del
problema e a proporre alcune soluzioni migliorative.
Quando si verifica un incidente, la tendenza immediata è quella di procedere
nell’individuazione delle singole persone che lo hanno originato, a cui vanno attribuite le colpe. Il
contesto organizzativo è lasciato sullo sfondo e le soluzioni proposte sono principalmente
disciplinari e sanzionatorie. Un contesto giuridico e culturale orientato unicamente alla ricerca delle
responsabilità individuali, costituisce uno dei fattori alla base dei comportamenti difensivi, inibendo
l’apprendimento organizzativo e col rischio di minare la qualità delle attività di cura, aumentandone
i costi.
1
Associazione Nazionale tra le Imprese Assicuratrici.
Atteggiamenti simili sono stati osservati anche in altri ambienti professionali. Ne è un particolare esempio il settore
del controllo del traffico aereo, dove i controllori di volo, in seguito alle vicende legate al disastro avvenuto il 24
febbraio 2004 a Cagliari, si vedono costretti ad adottare alcuni comportamenti tutelativi, malgrado questo possa
comportare un disagio per l’utenza (cfr. www.anacna.it).
2
1.
L’errore in medicina e la Medicina Difensiva
1.1.
L’errore in medicina, i danni, i costi
Il rischio derivante dall’esercizio della professione medica costituisce un problema di
crescente rilievo a livello sociale, economico ed assicurativo. I primi studi su questo tema risalgono
agli inizi degli anni ’90 (Wilson et al., 1993; Leape, 1994). Nel 1991 il New England Journal of
Medicine pubblicò una serie di articoli che facevano parte di un progetto noto come Harvard
Medical Practice Study, uno studio su più di 30.000 casi ospedalieri dello stato di New York. Da
questa ricerca risultava che quasi il 4% dei pazienti soffriva di complicanze dovute ai trattamenti,
che potevano prolungarne la permanenza in ospedale, generare disabilità o provocare la morte. Due
terzi di queste complicazioni erano dovute a errori commessi involontariamente dai medici.
È soprattutto con la pubblicazione del rapporto To err is human (2000) da parte dell’Institute
of Medicine (USA) che il tema dell’errore umano in medicina diventa oggetto di dibattito nella
comunità professionale dei medici. In questo rapporto si denunciava, attraverso un’analisi
dettagliata di alcuni studi, l’inquietante fenomeno delle malpractice e delle morti prevenibili negli
ospedali americani. La commissione che realizzò il rapporto evidenziò, attraverso due precedenti
ricerche condotte in alcuni stati americani (Colorado, Utah e New York), come su 100 pazienti
ricoverati una percentuale tra il 2,9% e il 3,7% incorreva in un evento avverso che, in alcuni casi, ne
causava il decesso. Il 53% di questi eventi poteva essere evitato. Tali tassi, proiettati su 33,6 milioni
di ricoveri/anno negli Stati Uniti, stimavano tra 44.000 e 98.000 il numero di pazienti deceduti per
eventi avversi. Pertanto, in base a questi dati, negli Stati Uniti gli errori in medicina costituivano
l’ottava causa di morte, con un costo di circa 29 miliardi di dollari l’anno.
Eventi avversi sul totale pazienti ricoverati
3-4%
Eventi avversi prevenibili sul totale
53%
Mortalità
6,6%
Costi
$29 miliardi
Tab. 1- Fonte: To err is human, 2000
A seguito del rapporto americano, furono condotte numerose indagini e ricerche in diversi
Stati del mondo occidentale che confermarono, accrescendo in alcuni casi, quanto si stava
scoprendo sulla rischiosità degli errori in medicina.
Eventi avversi
USA
Australia
Nuova
Zelanda
UK
4%
16,6%
12,9%
10,8%
53%
35%
47%
4,9%
15%
8%
Eventi
avversi
prevenibili (sul totale 53%
degli eventi avversi)
Mortalità (sul totale 6,6%
degli eventi avversi)
Tab. 2– Sintesi di alcuni risultati delle ricerche internazionali
All’inizio del mese di settembre 2008, sulla rivista edita dal British Medical Journal, QSHC
(Quality and Safety in Health Care), è stato pubblicato uno studio basato su 8 ricerche riguardanti
74.485 pazienti. Tali lavori sono stati condotti in diversi Paesi, tra cui gli Stati Uniti, l’Australia,
l’Inghilterra, la Nuova Zelanda e il Canada a partire dal 1991 sino al 2006. Da questa analisi è
emerso che il 9,2% dei ricoverati in ospedale subisce danni iatrogeni, di cui il 43% sono prevenibili
e di cui oltre la metà (56,3%) si presentano senza conseguenze particolarmente serie (De Vries et
al., 2008).
In Italia il problema dell’errore in medicina inizia ad essere indagato dal 2001, anche se sono
tuttora assenti analisi sistematiche, precise ed affidabili. Uno studio condotto nel 2004 dal CINEAS,
il Consorzio universitario per l’ingegneria nelle assicurazioni del Politecnico di Milano,
riprendendo i risultati dell’indagine dell’Institute of Medicine americano nel 2000, stima che il
numero delle morti in ospedale per errore in medicina vari tra le 14.000 e le 50.000 l’anno. Il 4%
circa delle 8 milioni di persone ricoverate ogni anno negli ospedali italiani (320.000) andrebbe
incontro ad un danno derivante da un errore imputabile alle strutture sanitarie o agli operatori della
sanità. Questi errori costerebbero annualmente alle strutture ospedaliere almeno 260 milioni di euro
l’anno per il prolungamento dei tempi di degenza dei pazienti.
Le conseguenze dell’errore in medicina non sono costituite soltanto dai danni ai pazienti e
dalle condanne degli operatori sanitari, ma anche dall’impatto che la gestione dei rischi, e dei
relativi risarcimenti per i danni causati dalle cure mediche, ha sul funzionamento e sui costi degli
ospedali.
Una prima conseguenza attiene alla rottura del fragile equilibrio tra assicurazioni e strutture
sanitarie. Una tra le più importanti compagnie assicuratrici per malpractice, la St. Paul Cos (USA),
ha lasciato nel 2001 il mercato a causa delle perdite crescenti. Altre assicurazioni, tra le quali la
Reciprocal of America e la Medical Assurance Company sono in gravi situazioni economiche e
rifiutano di assicurare ulteriori medici. Il fenomeno riguarda anche altri Stati come l’Australia, dove
è fallita la più grande compagnia di assicurazioni mediche, la United Medical Protection, lasciando
senza copertura 32.000 medici.
Una situazione simile sta riguardando l’Italia con il tentativo di alcune compagnie di
assicurazione di uscire dal mercato per i “rischi” e i costi troppo elevati. Nel 2004 l’Ania,
l’Associazione Nazionale tra le Imprese Assicuratrici, rileva che il ramo delle polizze per la
copertura dei rischi sulla responsabilità civile dei medici e delle strutture sanitarie ha chiuso in forte
deficit, con un esborso complessivo per risarcimenti alle strutture sanitarie pari a 413 milioni di
euro.
In base a indagini più recenti (Ania, 2007), emerge che dal 1995 al 2005 il numero dei sinistri
denunciati è passato complessivamente3 da poco più di 17.000 a circa 28.500, con un incremento
del 65%. In particolare, i sinistri denunciati legati alla copertura dei singoli medici hanno fatto
registrare un aumento più sostenuto, passando da 5.798 del 1995 a 12.374 del 2005 (+134%),
mentre i sinistri denunciati legati alla copertura delle strutture sanitarie, sono passati da 11.444 a
16.085, con una crescita del 41%. Di conseguenza, i premi incassati negli anni precedenti la
rilevazione di tali dati (2007) sono risultati insufficienti per pagare i sinistri e ciò ha determinato un
notevole incremento dei premi assicurativi.
3
Nel campo della responsabilità civile nel settore sanitario esistono due coperture, una riguardante le strutture sanitarie
(rientrano in questa categoria tutte le polizze che coprono la responsabilità civile medica della struttura sanitaria sia
1.2.
L’approccio accusatorio all’errore4
Ogni qual volta accade un incidente di rilievo in un’organizzazione, si avvia un procedimento
giudiziario, spesso penale, orientato ad accertare cause e responsabilità dell’evento e a comminare
sanzioni. Questo approccio si focalizza sugli errori e sulle mancanze degli individui, assumendo che
le persone sbaglino perché poco attente al compito. Si adotta un modello causale lineare incentrato
sulla ricerca e sulla rimozione dei responsabili, trascurando il ruolo del contesto organizzativo. Il
fine ultimo è l’assegnazione della colpa, e la ricostruzione della catena causale spesso si ferma
quando viene individuato qualcuno o qualcosa di appropriato a tale colpa. Il risultato è che si
ottengono analisi superficiali, che non consentono miglioramenti tali da prevenire il riaccadere di
eventi simili. Viene attribuita molta importanza a colui che si situa nell’interfaccia dell’incidente e
che di fatto eredita falle e difetti di chi progetta, organizza e gestisce il sistema organizzativo.
L’approccio alla persona (Reason, 1997; Catino, 2008a) si basa su alcune “buone ragioni”,
una serie di ragioni che gli attori ritengono “buone5” in quanto valide per prendere le decisioni ed
effettuare le scelte attuate:
1.
La volontarietà dell’azione. L’attore sceglie volontariamente le azioni da compiere.
Poiché le azioni umane sono percepite come soggette a controllo volontario e sono implicate
nell’80-90% degli incidenti, allora gli incidenti sono causati da negligenza, disattenzione,
incompetenza, incoscienza, ecc. Ne deriva che chi sbaglia viene considerato “negligente”.
2.
La responsabilità è individuale. Il modello basato sulla persona si basa su una
concezione della responsabilità individuale. Come accade nel sistema giudiziario di tipo
penale, l’approccio alla persona è volto a cercare il singolo responsabile dell’errore.
3.
Il rinforzo del senso di giustizia. L’approccio alla persona è emotivamente
soddisfacente: a fronte di un grave errore, o di un disastro, l’individuazione del colpevole
tende ad appagare le persone coinvolte per il danno subito.
4.
La convenienza strumentale. Basarsi sulla responsabilità individuale ha indubbi
vantaggi per le organizzazioni dal punto di vista legale ed economico, perché consente di
mantenere inalterata la struttura organizzativa, le sue regole di funzionamento e il sistema di
potere.
La ricerca delle responsabilità tende a indirizzare l’indagine verso l’individuazione di una o
più persone che hanno commesso un errore e che avevano potere di controllo sulle loro azioni, per
cui devono essere sanzionate. L’indagine è volta a identificare il colpevole, che spesso è individuato
nell’anello finale, nell’interfaccia uomo-macchina che ha attivato l’incidente. In un’analisi
incidentale tesa a individuare le responsabilità, ci si focalizza sugli atti insicuri e sulle omissioni che
pubblica che privata), l’altra riguardante i singoli medici (rientrano in questa categoria tutte le polizze che coprono la
responsabilità civile professionale dei medici a prescindere dalla loro appartenenza a una struttura sanitaria).
4
Per approccio accusatorio all’errore si intende un approccio che, in caso di errori e incidenti, è volto principalmente a
cercare la persona ritenuta responsabile dell’evento per sanzionarla, lasciando in secondo piano i fattori organizzativi
che possono aver contribuito a determinare quel dato comportamento. Ne consegue che, pur sanzionando la persona,
continuano a persistere le condizioni di rischio e di possibile ripetizione dell’evento stesso.
5
Il concetto di buone ragioni non ha valenza valoriale e positiva, come l’aggettivo “buono” potrebbe far credere, ma è
indicativo delle ragioni che gli attori ritengono adatte per giustificare le loro azioni in determinate circostanze. Si tratta
dunque di scelte razionali, anche se questa razionalità appare portatrice di effetti indesiderati che possono contrastare
con parte delle motivazioni che hanno spinto gli attori ad agire secondo un approccio colpevolizzante (Boudon, 1992).
hanno condotto all’incidente. Dall’indagine vengono esclusi o sottostimati quegli eventi relativi ad
aspetti organizzativi decisionali e di progettazione, che potrebbero aver avuto un ruolo decisivo nel
predisporre le condizioni incidentali e che, se non rimossi, mantengono la loro potenziale
pericolosità. È certamente più facile individuare il soggetto a più stretto contatto con il sistema (il
pilota dell’aereo, il medico, l’infermiere, l’operatore al pannello di controllo, il macchinista del
treno, ecc.) quale responsabile dell’accaduto piuttosto che i fattori latenti, di natura organizzativa e
manageriale. Ciò accade per diversi fattori: perché è più facile cognitivamente; perché il sistema
giudiziario penale è basato sulla responsabilità personale; perché talvolta le organizzazioni
coinvolte hanno indubbi vantaggi, legali ed assicurativi, nell’attribuire all’operatore la
responsabilità causale dell’evento. Perché è diffusa una cultura della colpa basata sul capro
espiatorio. Già diversi anni fa, Drabeck e Quarantelli (1967) sostenevano la perfetta razionalità
nell’individuazione dei capri espiatori a seguito dei disastri e l’utilità per i gruppi dirigenti
nell’attribuire le colpe a singole persone: la loro incriminazione, e quindi la loro trasformazione in
capri espiatori, diventa così un espediente per ritardare ed evitare mutamenti strutturali, dal
momento che l’opinione pubblica viene indotta a credere che la punizione esemplare dell’individuo
“colpevole” possa servire come futuro deterrente.
L’approccio accusatorio, tuttavia, comporta una serie di “effetti perversi” o effetti di
composizione (Boudon, 1992). Si tratta di quegli effetti non voluti derivati da azioni intenzionali. In
primo luogo, la ricerca del colpevole non cambia lo stato delle cose e non migliora
l’organizzazione. In secondo luogo, un approccio che guarda al passato, crea un senso di paura per
le sanzioni e le controversie legali, ostacolando il reporting degli errori da parte degli operatori di
front line e inibendo l’apprendimento organizzativo. L’approccio accusatorio, perciò, non consente
di eliminare le condizioni di rischio e non esclude la possibilità che uno stesso evento possa
ripetersi in presenza di altri attori. Tale approccio, infine, si caratterizza per due fattori: l’hindsight
bias6 (Fischhoff, 1975) e il foundamental attribution bias7 (Fiske and Taylor, 1984; Gilbert and
Malone, 1995). Questi fattori rendono difficile la discussione degli errori e la diffusione delle
informazioni, in quanto le persone temono di essere colpevolizzate e gli errori vengono
continuamente attribuiti a tratti indesiderabili della personalità, alla mancanza di competenze e alla
poca intelligenza.
Merry e Smith (2001), con riferimento al sistema sanitario, affermano che lavorare sotto la
minaccia di una controversia legale crea un clima di paura che non conduce al miglior uso delle
persone in un sistema medico. Proprio per questi motivi, i medici tendono a nascondere gli errori e
a promuovere i comportamenti di Medicina Difensiva (sovra-prescrizione di esami e trattamenti,
elusione di procedure rischiose). Il rischio di perdere la faccia è quindi un potente incentivo
all’occultamento degli errori e all’attivazione di comportamenti difensivi. Goffman (1963) afferma
che “perdere la faccia” significa sentirsi fuori posto, provare vergogna. Tale concetto però è
6
L’hindsight bias si caratterizza per due aspetti: 1) l’effetto del “si sapeva bene”, per cui gli analisti enfatizzano ciò che
gli individui avrebbero dovuto sapere e prevedere; 2) l’inconsapevolezza dell’influenza che la conoscenza dei risultati
esercita sulle percezioni dei fatti accaduti. I fatti appaiono quindi più lineari ed evidenti anziché ambigui, contrastanti e
con un senso non definito, come probabilmente sono apparsi prima agli attori di quegli stessi eventi. Etichettare
un’azione passata come erronea è molto spesso un giudizio basato su differenti informazioni disponibili per le persone,
dopo che l’evento è accaduto.
7
Con foundamental attribution bias si intende la tendenza che porta ad attribuire la colpa per i cattivi risultati conseguiti
all’incapacità e all’inadeguatezza di un attore, piuttosto che considerarli come il prodotto di una situazione specifica, o
come il risultato di fattori situazionali al di fuori del controllo di tale attore.
fortemente contestuale, dipende cioè dalle specifiche regole di un’organizzazione e soprattutto
attiene alle regole deontologiche di specifiche professioni. Se l’errore, di per sé involontario, è
considerato come segno di incapacità professionale e fonte di possibili conseguenze legali, aumenta
la propensione a nasconderlo.
La persistenza di una cultura della colpa, rafforzata da un certo tipo di azione giudiziaria,
diviene il primo ostacolo alla creazione di una cultura efficace della sicurezza del paziente. Un
sistema professionale come quello medico, a rischio continuo di indagine penale, non è, quindi,
un sistema più attento e diligente, ma è un sistema che riduce i rischi di chi agisce cercando
maggiori tutele formali, anche a scapito dell’utenza. Da qui l’origine della medicina difensiva.
1.3.
La Medicina Difensiva
“La Medicina Difensiva si verifica quando il medico ordina esami, procedure o visite, o evita
pazienti a rischio, o procedure ad alto rischio, principalmente (ma non esclusivamente) per ridurre
la propria esposizione al contenzioso legale. Quando i medici effettuano esami o procedure in
eccesso, praticano la c.d. Medicina difensiva positiva. Quando evitano alcuni pazienti o procedure,
praticano la c.d. Medicina difensiva negativa” (U.S. Congress, 1994). Esistono, perciò, due tipi di
comportamento difensivo: l’uno orientato ad effettuare azioni e procedure in esubero; l’altro
indirizzato ad eludere alcuni trattamenti che possono essere considerati a rischio.
Il fenomeno della c.d. Medicina Difensiva è sempre più frequente, con implicazioni
potenzialmente gravi per il costo, l’accessibilità e la qualità tecnica ed interpersonale dell’assistenza
sanitaria.
Lo affermano numerosi studi (Passmore and Leung, 2002; Studdert et al, 2005; Hiyama et al.,
2006), in cui viene costantemente osservato che medici operanti nelle specialità ad alto rischio (in
particolare: ostetricia e ginecologia, chirurgia, anestesia e rianimazione) ritengono che l’aumento
del contenzioso costituisca la principale causa della nascita di atteggiamenti difensivi. Secondo
queste indagini, sono sempre in maggior numero gli operatori che modificano i loro modi di agire in
risposta alla preoccupazione di essere denunciati dai pazienti. Una ricerca condotta dal Department
of Health Policy and Management della Harvard Medical School ha dimostrato che la maggioranza
degli specialisti di diverse aree terapeutiche adotta questa strategia professionale (Studdert et al.,
2005). I ricercatori americani hanno analizzato un gruppo di specialisti operanti nelle aree
terapeutiche con maggiore incidenza di cause giudiziarie (medicina d’emergenza, chirurgia
generale, chirurgia ortopedica, neurochirurgia, ostetricia e ginecologia, radiologia). Prendendo in
esame un totale di 824 medici operanti in 6 strutture sanitarie della Pennsylvania, si osserva che il
93% dichiara di praticare Medicina Difensiva. Nello specifico, il 92% afferma di prescrivere con
facilità test e procedure diagnostiche e chiedere consulti, mentre il 43% riferisce di prescrivere
procedure diagnostiche clinicamente non necessarie. Evitare procedure e pazienti che vengono
percepiti come “pericolosi” dal punto di vista giudiziario è un altro comportamento assai diffuso: il
42% degli interpellati ammette di aver volutamente ristretto il proprio campo d’azione professionale
per evitare complicazioni (Studdert et al., 2005).
Risultati simili sono stati ottenuti da una ricerca condotta in Giappone nel 2006 su un gruppo
di 131 gastroenterologi, dove il 98% degli intervistati riporta di aver praticato Medicina Difensiva
ed è stato rilevato che ciò è legato all’incremento della litigation. Secondo i ricercatori, la tendenza
dei medici di effettuare esami in esubero e di evitare procedure rischiose è connessa altresì alla
presenza di un’ansia collettiva, generata dalla sovraesposizione mediatica del problema della
malpractice e dal conseguente atteggiamento circospetto del paziente (Hiyama et al., 2006).
Le precedenti esperienze di contenzioso, a proprio carico e a carico dei colleghi, influenzano
in maniera evidente il comportamento degli operatori sanitari. In un’indagine realizzata in Regno
Unito nel 2002, ad esempio, è stato osservato che il 56% degli operatori sanitari ha ricevuto una
denuncia da parte dei pazienti e che tali accuse paiono avere un importante effetto sul medico a
livello emozionale e relazionale: spesso ad un aumento del contenzioso corrisponde un aumento
della comparsa di atteggiamenti difensivi (Passmore and Leung, 2002).
In altri casi, è stato indagato che l’aumento dell’incertezza diagnostica rappresenta un fattore
di significativa importanza nell’influenzare i comportamenti di Medicina Difensiva. La tecnologia,
di conseguenza, ricopre un ruolo decisivo in quanto gli specialisti ammettono di utilizzarla per
tranquillizzare i pazienti e se stessi. L’uso difensivo della tecnologia, però, ha un effetto-valanga:
più gli specialisti prescrivono procedure diagnostiche inutili o trattamenti aggressivi per condizioni
a basso rischio, più questo tipo di approccio tende a diventare lo standard legale per la pratica
clinica (Studdert et al., 2005).
È evidente come tutto questo abbia un impatto devastante sui costi sanitari a carico del
Servizio Sanitario Nazionale e della collettività.
La Medicina Difensiva può contribuire ad una riduzione della qualità dell’assistenza sanitaria:
procedure diagnostiche invasive (ad esempio biopsie) non necessarie rappresentano inutili rischi per
i pazienti; risultati ambigui o falso-positivi producono inoltre stress emotivi e la necessità di
ulteriori accertamenti diagnostici, innescando un’escalation scarsamente controllabile.
Anche se le pratiche difensive sono state molto studiate negli Stati Uniti (Summerton, 1995),
poche analisi sono state promosse nei Paesi europei e, in particolare, in Italia. Solo di recente
(settembre 2008) è stata pubblicata un’indagine promossa dall’Ordine dei medici della Provincia di
Roma e condotta su 800 medici intervistati mediante un questionario strutturato. Il focus della
ricerca si concentra sul tasso di diffusione della Medicina Difensiva e sui motivi che inducono i
medici ad attivare questo tipo di comportamento. Da questi primi dati si osserva che l’87,6% dei
“camici bianchi” ritiene che il rischio di ricevere un esposto o una denuncia da parte dei pazienti sia
oggi più elevato. Le paure di vedersi citare in tribunale, inoltre, sono tali che l’89,8% dei medici
ritiene molto rischioso affidarsi alla sola analisi clinica e non anche a quella tecnologica per la
formulazione di una diagnosi.
In effetti, l’80% dei chirurghi riceve almeno una richiesta di risarcimento danni e i denunciati
trascorrono 1/3 della loro carriera sotto processo8. Dall’indagine, inoltre, emerge che i medici più
preoccupati di essere citati in giudizio sono gli anestesisti (96,8%), i chirurghi (98,9%) e il totale di
ortopedici e ginecologi. I timori maggiori, rivela lo studio, toccano i giovani medici fino ai 34 anni
e quelli di sesso maschile. Da qui il proliferare di prestazioni mediche e ricoveri, oltre che di ricette
di farmaci, con l’obiettivo di non assumersi troppe responsabilità.
La situazione italiana, pertanto, sembra essere molto simile a quella vista negli altri Paesi.
8
Fonte: www.amami.it (Associazione per i medici accusati di malpractice ingiustamente) Dati da verificare
ulteriormente.
2.
L’indagine quali-quantitativa. Metodologia e risultati
2.1.
Aspetti metodologici
Il focus dell’indagine è orientato a comprendere i fattori che spingono i medici a modificare in
senso difensivo il proprio comportamento professionale.
Rifacendoci agli studi condotti a livello internazionale da Paesi come gli Stati Uniti, il
Canada, il Giappone e il Regno Unito (Passmore and Leung, 2002; Studdert et al., 2005; Hiyama et
al., 2006), ci si è soffermati sull’individuazione dei comportamenti di Medicina Difensiva più
diffusi e sulle motivazioni che inducono i medici ad agire in tal modo.
In particolare, quanto ai comportamenti c.d. difensivi, sono stati selezionati gli atteggiamenti
più frequentemente citati dalla letteratura, facendo attenzione a distinguere quelli caratterizzanti una
Medicina difensiva positiva da quelli tipici di una Medicina difensiva negativa (U. S. Congress,
1994; Studdert et al., 2005).
Quanto alle motivazioni che possono indurre l’operatore sanitario ad agire in senso difensivo,
si è focalizzata l’attenzione principalmente sulle preoccupazioni della classe medica di incorrere in
un contenzioso medico-legale o di subire una richiesta di risarcimento9, nonché di compromettere la
propria carriera, piuttosto che la propria immagine.
Sempre dalla letteratura e dagli studi internazionali emergono le seguenti problematiche:
l’impatto della criminalizzazione mediatica, causato dalla diffusione di messaggi contrastanti offerti
dai mass media, che da un lato esaltano importanti traguardi raggiunti dalla medicina, ma che, allo
stesso tempo, denunciano l’aumento dei casi di malpractice dovuti a gravi errori medici; il forte
sentimento di sfiducia da parte dell’opinione pubblica che ne deriva e che favorisce l’incremento
del contenzioso; i seri danni dal punto di vista morale ed economico che i medici subiscono, a
seguito dei giudizi provenienti dalla stampa e dei controlli della magistratura, nonostante il numero
delle assoluzioni si mantenga su tassi elevati (80% dei procedimenti giudiziari avviati)10.
La ricerca da noi condotta è stata articolata in due parti: una di tipo qualitativo e l’altra di tipo
quantitativo.
Nella fase “qualitativa” sono state condotte 21 interviste in profondità a medici di differenti
reparti e specializzazioni: pronto soccorso, urologia, pediatria, chirurgia generale e d’urgenza,
anestesia e rianimazione, endocrinologia, patologia della gravidanza, ginecologia e
otorinolaringoiatria. Agli operatori intervistati sono state sottoposte nove questioni, indirizzate a
cogliere l’entità del problema e le cause.
1. È a conoscenza del problema della Medicina Difensiva?
2. In base alla sua esperienza, è una pratica diffusa tra i professionisti sanitari?
3. A Suo parere, quali sono i comportamenti di Medicina Difensiva maggiormente adottati?
9
Sotto il profilo concettuale, va chiarito che per timore di una “richiesta di risarcimento danni” si intende l’inizio di
un’azione in sede civile o la richiesta dei danni in sede stragiudiziale, mentre per timore di “un contenzioso medico
legale” si intende il rischio di essere sottoposti a procedimento penale, con o senza richiesta di risarcimento danni ad
esso consequenziale.
10
Fonte: www.amami.it. Dati da verificare ulteriormente
4. Durante l’ultimo mese di lavoro, quali comportamenti di Medicina Difensiva Le è capitato di
osservare o di esserne venuto a conoscenza?
5. Secondo Lei quali sono i motivi che possono spingere ad agire in questo modo?
6. Tra i motivi che mi ha appena indicato, secondo Lei, quale pesa in misura maggiore?
7. Personalmente, si sente minacciata/o dalla possibilità di incorrere in sanzioni disciplinari, qualora si
verificasse un evento avverso?
7.1.... di essere coinvolto/a in un contenzioso di tipo medico-legale?
7.2.... di essere screditato/a professionalmente e pubblicamente (attraverso i mass media)?
8. Secondo Lei, quali azioni migliorative si possono attivare per circoscrivere il problema della
Medicina Difensiva?
9. Dedichiamo l’ultima parte dell’intervista per osservazioni, consigli o per qualsiasi cosa Lei ritenga
utile condividere in merito al tema della Medicina Difensiva.
Tab. 3 – Check-list intervista
Per condurre la fase “quantitativa”, invece, è stato costruito un questionario strutturato (vedi
allegato) composto da nove domande, in parte simili a quelle poste durante le interviste dirette. Gli
item che compongono il documento sono stati suddivisi in tre sessioni, in relazione alle aree da
indagare:
1. i dati socio-anagrafici degli intervistati (età, genere, professione, ruolo, reparto di
appartenenza, anzianità di servizio, tipo di struttura);
2. la tipologia dei comportamenti difensivi maggiormente adottati;
3. le motivazioni che inducono i medici a ricorrere alla Medicina Difensiva.
L’indagine campionaria è stata effettuata tra luglio e novembre 2008 ed ha coinvolto 1.000
medici, a cui è stato inviato il questionario tramite posta elettronica. Al questionario hanno risposto
307 medici, generando un tasso di risposta pari al 30%. I principali risultati verranno presentati
nel paragrafo successivo.
2.2.
Caratteristiche socio-anagrafiche del campione
Con riferimento alle caratteristiche anagrafiche del campione analizzato mediante
questionario, la maggioranza degli intervistati ha un’età compresa tra i 43 - 52 anni (29,6%) e tra i
53 – 62 anni (47,7%). L’anzianità di servizio è medio-alta: da 21 a 30 anni il 31,1% e più di 30 anni
il 43,6%. Il 94,4% è di genere maschile; nell’87,3% dei casi lavora in un ospedale pubblico. Si tratta
per lo più di medici specialisti (97,4%), dirigenti (42,7%) o direttori di presidio/dipartimento
(52,6%).
CARATTERISTICHE SOCIO-ANAGRAFICHE
Genere
% sul totale
Maschio
94,4%
Femmina
5,6%
Totale
100,0%
Età
% sul totale
32-42
8,6%
43-52
29,6%
53-62
47,7%
63-72
14,1%
Totale
100,0%
Anzianità professionale
% sul totale
Fino a 1 anno
0,7%
Da 1 a 5 anni
2,6%
Da 6 a 10 anni
4,3%
Da 11 a 20 anni
17,7%
Da 21 a 30 anni
31,1%
Più di 30 anni
43,6%
Totale
100,0%
Qualifica professionale
% sul totale
Medico strutturato
97,4%
Medico specializzando
2,6%
Totale
100,0%
Ruolo ricoperto
% sul totale
Dirigente medico
42,7%
Direttore di presidio/ dipartimento/
struttura complessa/ struttura semplice 52,6%
Altro
4,6%
Totale
100,0%
Tipo di struttura
% sul totale
Pubblica
87,3%
Privata accreditata
12,7%
Totale
100,0%
Tab. 4- Caratteristiche socio-anagrafiche del campione, presentate attraverso le variabili: genere, età, anzianità professionale,
qualifica professionale, ruolo ricoperto e tipo di struttura.
2.3.
I comportamenti di Medicina Difensiva
I medici intervistati11 dichiarano che il problema della Medicina Difensiva è sempre più
diffuso: frequentemente prescrivono test, trattamenti e visite, od evitano pazienti o procedure ad
alto rischio, principalmente allo scopo di ridurre la propria esposizione alle accuse di malpractice.
Il 77,9% degli operatori intervistati mediante questionario ha adottato almeno un
comportamento di Medicina Difensiva durante l’ultimo mese di lavoro.
11
Ci si riferisce, a tutti i medici interpellati, sia mediante questionario, sia mediante intervista in profondità.
Frequenza di comportamenti di medicina difensiva
durante l’ultimo mese di lavoro
Medici
Mai
Almeno una volta
Totale
22,1%
77,9%
100%
Tab.5- Composizione percentuale della frequenza in cui si verificano comportamenti difensivi. (dati aggregati)
Nel dettaglio, possiamo vedere che i soggetti più propensi ad assumere comportamenti
difensivi presentano un’età anagrafica e un’anzianità di servizio piuttosto basse. Ed infatti il 92,3%
dei soggetti appartenenti alla classe di età “32-42 anni” dichiara di aver commesso comportamenti
di Medicina Difensiva nell’ultimo mese di lavoro, contro il 67,4% dei soggetti appartenenti alla
classe “63-72 anni”.
Frequenza di comportamenti di medicina difensiva
durante l’ultimo mese di lavoro
Mai
Almeno una volta
Totale
32-42
7,7%
92,3%
100,0%
43-52
16,7%
83,3%
100,0%
53-62
24,8%
75,2%
100,0%
63-72
32,6%
67,4%
100,0%
Fino a 1 anno
0,0%
100,0%
100,0%
Da 1 a 5 anni
0,0%
100,0%
100,0%
Da 6 a 10 anni
7,7%
92,3%
100,0%
Da 11 a 20 anni
13,0%
87,0%
100,0%
Da 21 a 30 anni
21,1%
78,9%
100,0%
Più di 30 anni
30,1%
69,9%
100,0%
Età
Anzianità profess.le
Tab.6- Composizione percentuale della frequenza in cui si verificano comportamenti difensivi, disaggregata in base alle variabili
“Età” e “Anzianità di servizio”
La variabile “Tipo di struttura”, invece, sembra non influire sulla possibilità di compiere
azioni di questo genere, in quanto i valori dei medici che operano in strutture pubbliche sono molto
simili a quelli di coloro che operano in strutture private.
Frequenza di comportamenti di medicina difensiva
durante l’ultimo mese di lavoro
Mai
Almeno una volta
Totale
Pubblica
22,2%
77,8%
100%
Privata accreditata
23,7%
76,3%
100%
Tipo struttura
Tab.7- Composizione percentuale della frequenza in cui si verificano comportamenti difensivi, disaggregata in base alla variabile
“Tipo di struttura”
Se si prendono in considerazione unicamente i medici che ammettono di aver assunto una
condotta di tipo difensivo (77,9%)12, possiamo vedere che i comportamenti più diffusi riguardano
(tabella 8):
Durante l’ultimo mese di lavoro, quante volte ha
compiuto azioni come quelle riportate?
Mai
Da 1 a 6 Da 7 a 10 volte Totale
volte
e più
a.
Prescritto un numero maggiore di esami
diagnostici rispetto a quello necessario (es. oltre
a quelli raccomandati da Linee Guida o
Protocolli).
b.
Richiesto procedure invasive (es. biopsia)
non necessarie.
c.
Prescritto trattamenti non necessari (es. oltre
a quelle raccomandate da Linee Guida o
Protocolli).
38,7%
53,0%
8,3%
100,0%
85,7%
13,8%
0,5%
100,0%
75,6%
22,0%
2,4%
100,0%
d.
Prescritto
necessari.
strettamente
48,5%
44,8%
6,7
100,0%
e.
Accettato/proposto il ricovero di un
paziente in ospedale, anche se le condizioni
avrebbero
consentito
una
gestione
ambulatoriale.
31,2%
63,3%
5,5%
100,0%
41,4%
53,5%
5,1%
100,0%
farmaci
non
f.
Chiesto un consulto specialistico non
necessario.
g.
Scritto in cartella clinica annotazioni che
avrebbe evitato di riportare se non fosse stato
preoccupato per possibili problemi medicolegali.
17,2%
63,1%
19,7%
100,0%
Evitato
procedure
(diagnostiche
o
terapeutiche) rischiose su pazienti che
avrebbero potuto averne beneficio.
86,0%
14,0%
0,0%
100,0%
Escluso pazienti “a rischio” da alcuni
trattamenti (oltre le normali regole di
prudenza).
73,8%
25,4%
0,8%
100,0%
h.
i.
Tab.8- Composizione percentuale riferita alla domanda del questionario “Durante l’ultimo mese di lavoro, quante volte ha compiuto
azioni come quelle qui sotto riportate?” (dati aggregati)
- l’inserimento in cartella clinica di annotazioni evitabili, adottato dall’82,8% degli
intervistati;
- la proposta di ricovero di un paziente in ospedale, gestibile ambulatorialmente, adottata dal
69,8%. Dato peraltro confermato dalle interviste effettuate ai 21 medici delle diverse specialità:
“Un’altra forma di medicina difensiva, attuata soprattutto dai medici di medicina generale, è
quella di scaricare il paziente alle strutture ospedaliere, giustificando tutta una serie di richieste, di
visite specialistiche, di ricoveri, di esami diagnostici e di accertamenti vari, con motivazioni che
12
Una nota metodologica: le percentuali di risposta riguardano unicamente l’indagine quantitativa, ovvero si riferiscono
ai medici intervistati mediante questionario, mentre le affermazioni riportate in corsivo sono tratte dall’analisi
qualitativa, ovvero dalle interviste in profondità.
sono praticamente inesistenti o comunque poco plausibili, spesso etichettandole con il carattere
dell’urgenza, quando invece di urgente non c’è assolutamente nulla”;
- la prescrizione di un numero maggiore di esami diagnostici rispetto a quello necessario,
adottata dal 61,3%.
Anche in questo caso i dati vengono convalidati dall’indagine qualitativa:
(a) “In campo anestesiologico, la pratica di prescrivere un numero sovrabbondante di esami,
rispetto a quanto sarebbe necessario, viene fatta di frequente, a scopo cautelativo, per stare
tranquilli”.
E ancora: (b) “Porto l’esempio di un trauma cranico minore, per il quale ci sono linee guida
condivise…però appena c’è qualcosa, uno dice: «Facciamo anche la Tac o la Rx in aggiunta! »”;
(c) “A fronte di un’evidenza che alcune cose non servono a niente, vengono comunque
richiesti (esami diagnostici in eccesso) per tutelarsi e così si sta tranquilli. Ad esempio: radiografia
del torace per interventi chirurgici in età nella quale è noto che non servono a niente, salvo che non
ci sia un’anamnesi; elettrocardiogrammi, esami della coagulazione, esami del sangue, che ormai in
letteratura è assolutamente accertato che siano sufficienti, non bastano mai e bisogna sempre
chiedere altri esami. E questo genera, tra l’altro, un costo spaventoso”;
- la consultazione non necessaria di altri specialisti è adottata dal 58,6% ed emerge anche in
sede di interviste:
(a) “Nella routine di tutte le unità operative, e di tutti i professionisti, è prassi effettuare
qualche consulenza in più, proprio allo scopo di diluire la responsabilità della decisione finale su
un maggior numero di persone. In questo senso probabilmente, cercando sia di ridurre il rischio di
una diagnosi errata, di un trattamento errato, sia di coinvolgere un maggior numero di persone
nell’eventualità che un problema di responsabilità venga sollevato. Per esempio: se la paziente è in
ambito ostetrico-ginecologico e riscontro un qualche problema che mi desta perplessità, chiedo al
neurologo la risonanza, al cardiologo la visita, ecc.”;
(b) “L’eccessivo coinvolgimento di altri consulenti allunga i tempi per poter pervenire ad una
diagnosi e ovviamente aumenta le spese che sono correlate sia all’uso di un maggiore numero di
strumenti diagnostici, quali esami, radiografie, ecografie, Tac, e via discorrendo… sia appunto
all’uso di un maggior numero di consulenti, per cui sicuramente si creano dei forti disservizi”;
- ed infine la prescrizione di farmaci non necessari, adottata dal 51,5%. Dato che, anche in
questo caso, trova conferma dalle parole degli intervistati: “Come pratica frequentemente abusata,
direi sicuramente prescrivere farmaci non strettamente necessari. Magari prescrivere un
antibiotico non necessario, per stare tranquilli”.
In ogni caso, sintetizzando quanto emerso dalle interviste in profondità, osserviamo che tutti i
medici ritengono che la pratica della Medicina difensiva c.d. positiva sia una costante: l’iperprescrizione di esami, terapie, accertamenti, consulti con altri medici oltre le normali regole di
prudenza è, in altri termini, una prassi quotidiana. Ecco alcune delle affermazioni più ricorrenti: “La
prescrizione di accertamenti superiori alla norma è una costante”; “È una routine di tutte le unità
operative e di tutti i professionisti adottare una certa tendenza ad effettuare qualche accertamento
diagnostico in più, qualche esame di laboratorio in più, qualche consulenza in più”.
Pertanto, alla domanda circa l’aver osservato, nell’ultimo mese prima dell’intervista,
comportamenti significativi di Medicina Difensiva, la risposta è stata negativa, nel senso di ritenere
che la Medicina difensiva c.d. positiva è quasi una consuetudine.
Quanto alla pratica della Medicina difensiva negativa, ha risposto di aver escluso pazienti a
rischio da alcuni trattamenti (oltre le normali regole di prudenza) il 26,2% dei 307 medici
campionati. Gli intervistati che hanno dichiarato di praticare Medicina difensiva negativa affermano
che il problema riguarda soprattutto l’ambito chirurgico e la motivazioni addotte sono: il timore di
un insuccesso e “il timore di sostenere una causa a seguito dell’insuccesso medesimo”.
Da notare, inoltre, le differenze riscontrabili dalla disaggregazione dei dati in base alla
variabile “Età”, in quanto ancora una volta, i medici più giovani dichiarano in misura maggiore di
adottare comportamenti difensivi.
Afferma un intervistato, che si sofferma sul modo di intendere, oggi, la scienza medica: “La
Medicina difensiva è diffusa soprattutto tra i colleghi più giovani. Perché ora i tempi sono diversi…
Vent’anni fa o trent’anni fa la professione si faceva in un modo; adesso, magari, noi vecchi
continuiamo a farlo un po’ su quella falsa riga, ma è cambiata parecchio la situazione. Anche
molto banalmente, una volta c’erano il medico, il parroco ed il farmacista, figure di riferimento
ritenute autorevoli, ai quali ci si affidava. Oggi la situazione si è ribaltata: c’è gente che si è
presentata dicendo: «Stia attento a quello che fa, perché io la tengo d’occhio!». Quindi si può
capire che i colleghi più giovani partano già sulla difensiva”.
Tale tendenza viene osservata in tutti i comportamenti di Medicina Difensiva più diffusi, ad
eccezione dell’inserimento di note inutili nella cartella clinica, che sembra essere una pratica
particolarmente frequente tra i medici più anziani.
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Tab.9- Composizione percentuale riferita ai comportamenti di Medicina Difensiva più diffusi, disaggregati secondo l’età degli intervistati.
Come possiamo vedere dalla tabella 9, in quasi tutti i casi, i soggetti che dichiarano di avere
tra i 32 e i 42 anni manifestano un’inclinazione più evidente a prescrivere un numero maggiore di
esami diagnostici e di farmaci non necessari (75%); ad accettare il ricovero di pazienti gestibili
ambulatorialmente (75%); a chiedere consulti specialistici non necessari (79,2%); e ad escludere
pazienti “a rischio” da particolari trattamenti (33,3%). Le medesime considerazioni valgono per la
variabile “Anzianità professionale”, dove i soggetti operativi da un numero di anni inferiore a 10
manifestano più frequentemente comportamenti di Medicina Difensiva. I dati sono conformi a
quanto visto finora, poiché si presuppone che i medici che lavorano da meno di 10 anni siano gli
stessi ad avere un’età anagrafica piuttosto bassa.
2.4.
Le motivazioni dei comportamenti difensivi
Come abbiamo già potuto osservare in precedenza, il fenomeno della Medicina Difensiva ha
principalmente origine dal crescente aumento di cause legali intentate dai pazienti contro i medici.
A giudizio di molti intervistati, inoltre, la situazione si è aggravata anche in seguito
all’introduzione del “Patto Quota-Lite” nel rapporto tra cliente e avvocato, ovvero di un accordo tra
le parti che prevede che il paziente danneggiato possa pattuire con il professionista incaricato un
compenso in misura percentuale del risultato ottenuto. Si ritiene che tale meccanismo possa indurre
molti, che si ritengono danneggiati, ad intentare comunque una causa, in quanto, in caso di esito
negativo del processo, rimarranno a carico del cliente soltanto le spese di giustizia anticipate per
istruire la pratica13. Ne deriva una significativa riduzione di costi che incentiverebbe ulteriormente il
meccanismo del contenzioso. Determinante sembra essere anche la proliferazione di associazioni
che ritengono di tutelare il paziente attraverso la concessione di consulenze gratuite, stimolando la
presentazione delle denunce.
Tutto ciò produce serie conseguenze, non solo sulla salute stessa dei cittadini, ma anche
sull’identità, sul ruolo e sull’immagine della professione medica. L’essere chiamati in Tribunale a
seguito di una malpractice litigation, infatti, per il medico ha gravi ripercussioni sotto il profilo
professionale, morale e psicologico, contribuendo a rafforzare la propensione a rifugiarsi nella
Medicina Difensiva.
Dai dati analizzati possiamo osservare, dunque, che le motivazioni che spingono i medici a
modificare i loro comportamenti durante l’esercizio della pratica medica, riguardano principalmente
la preoccupazione di essere denunciati legalmente14 per malpractice.
Nello specifico si rileva che (vedi tabella 10):
Quali fattori hanno influito sui comportamenti sopra
indicati? (Risponda con una crocetta esprimendo il Accordo
suo grado di accordo/disaccordo con le seguenti
affermazioni)
Disaccordo
Totale
Timore di una richiesta di risarcimento danni, in caso di 59,8%
complicanze/eventi avversi.
40,2%
100,0%
Timore di un contenzioso medico-legale, in caso di 80,4%
complicanze/eventi avversi.
19,6%
100,0%
13
Vale chiarire che esiste, sul punto, una certa confusione, ingenerata anche dai mass media. Le spese di giustizia per
istruire il processo (ai sensi del D.P.R. n.115/2002) e le spese per i consulenti, quali, ad esempio, i medici legali, in
genere sono anticipate dal cliente; così come, nel caso di soccombenza, le spese del processo e le spese legali di
controparte saranno a carico del cliente.
14
Si ricorda, a titolo di chiarezza, che per “richiesta di risarcimento danni” si intende l’inizio di un’azione in sede civile
o la richiesta dei danni in sede stragiudiziale, mentre per “contenzioso medico legale” si intende il rischio di essere
sottoposti a procedimento penale, con o senza richiesta di risarcimento danni ad esso consequenziale.
Timore di sanzioni disciplinari,
complicanze/eventi avversi.
in
caso
di 15,0%
85,0%
100,0%
Timore di pubblicità negativa, perdita di immagine, in 43,5%
caso di complicanze/eventi avversi.
56,5%
100,0%
Precedenti esperienze personali di contenziosi medico- 51,8%
legali.
48,2%
100,0%
Precedenti esperienze di contenziosi medico-legali a 65,7%
carico di un Suo collega.
34,3%
100,0%
Tab.10- Composizione percentuale riferita alla domanda del questionario “Quali fattori hanno influito sui comportamenti sopra
indicati?” (dati aggregati)
- l’80,4% dei medici dichiara di avere timore di un contenzioso medico-legale. Dato
supportato dalle dichiarazioni di alcuni degli operatori intervistati:
(a) “Direi che il problema grosso è sempre: «Ma se questo mi denuncia? Ma se io non faccio
questo e non va bene allora mi denunciano»”;
(b) “La paura è sempre quella di essere denunciato. Di far qualcosa per cui ad un certo punto
qualcuno salti fuori a dire: «Ah ma guarda che lì c’erano gli estremi per agire», e allora parte il
contenzioso”;
- il 65,7% risente l’influenza di precedenti esperienze di contenziosi a carico dei propri
colleghi: “So di alcuni colleghi a cui è capitato: è un’esperienza che ti segna”;
- il 59,8% afferma di avere timore di ricevere una richiesta di risarcimento. Gli stessi
intervistati ribadiscono questo aspetto: “C’è questa tradizione americana, che ormai è diventata
nostra, secondo cui se qualcosa va storto conviene chiedere il risarcimento perché si ottengono
spesso dei soldi ed è conveniente”;
- il 51,8% dichiara di essere influenzato da precedenti esperienze personali di contenzioso.
Anche in questo caso, a titolo di esempio, si riportano le parole di un medico intervistato: “A me è
capitato di avere pazienti che hanno avuto sfortuna durante accertamenti. Mi ricordo il caso di una
paziente, che durante un esame diagnostico, dopo aver subito un grosso intervento, ha avuto una
lesione iatrogena: le si è bucato l’intestino e hanno dovuto rioperarla. Dopodiché è stata bene ed
uscita dall’ospedale desiderava solo dimenticare l’accaduto. Ma ha trovato il medico curante,
l’avvocato che hanno insistito dicendo: «Ma cosa fai?! Devi denunciarli! Guarda che hai ragione.
Da questa storia puoi ricavare un sacco di soldi». Questo è un esempio pratico. Lo stesso medico
curante che ha insistito perché lei ci denunciasse!”;
- il 43,5% degli intervistati esprime il timore di ricevere una pubblicità negativa da parte dei
mass media. Anche dalle interviste numerosi sono i medici che pongono all’attenzione questo
problema: “Sì, la perdita di immagine e la pubblicità negativa... esatto… sono tutti riflessi delle
denunce. Se uno mi denuncia perché dice che sono una bestia perché ho richiesto questa cosa…
effettivamente io perdo l’immagine”.
I 21 medici intervistati indicano come nociva per tutta la categoria la modalità di
informazione che i mezzi di comunicazione attuano verso la sanità in genere, in quanto veicolata dai
mass media come amplificazione/generalizzazione di casi che, in realtà, sarebbero isolati. Con le
parole di un intervistato: “C’è una grande pubblicità negativa a livello dei mass media, di
pubblicità”.
Emerge in particolare il fatto che i mass media riportino “in prima pagina” un evento avverso
verificatosi, per ipotesi, in un ospedale (i casi cui si fa riferimento sono di supposta sussistenza di
responsabilità penale), ma poi, con il passare del tempo, non seguono la notizia, né il corso degli
eventi e non riportano l’esito dei fatti, che si concludono, nella maggior parte dei casi con
l’assoluzione dei medici inizialmente coinvolti. Si stima che l’80% delle controversie legali si
risolva a vantaggio del medico denunciato15.
Quanto all’impatto reputazionale16 negativo che un errore - e l’eventuale denuncia in sede
penale - ha per il medico presso gli altri colleghi e presso la collettività, gli intervistati dichiarano di
riportare gravi conseguenze psicologiche, nonché di subire l’isolamento dei colleghi con i quali sta
venendo meno, al pari che con i pazienti, il rapporto fiduciario: “Poi ci vorrebbe una coesione di
reparto tra colleghi. Se uno ha la percezione che quello che sta facendo per il paziente non sia la
cosa migliore e quindi è stato fatto un errore, è importante non farselo scappare davanti ai parenti,
soprattutto se non se ne ha la certezza. Spesso le cose più gravi che sono successe, le denunce nei
confronti di altri professionisti, sono generate dall’invidia. Medici che fanno delazione con i
parenti… questo succede molto. Di questo, ho presente dei casi ben precisi. Anche i casi in cui ad
un medico scappa un giudizio negativo su un collega davanti al paziente o ai parenti”;
- infine, dalla tabella 10, si osserva che solo il 15% dei medici manifesta la preoccupazione di
incorrere in sanzioni disciplinari (da parte dell’organizzazione). Dato confermato anche dalle
interviste, ove tutti i medici dichiarano che le aziende ospedaliere tendono a non applicarle:
“Sanzioni disciplinari, francamente non ne vedo”.
Invece, la preoccupazione di mettere a repentaglio la propria carriera ed il timore di incorrere
in provvedimenti di tipo legale colpiscono in maniera generalizzata i soggetti che manifestano
comportamenti difensivi.
Solo “Accordo”
Età
Timore di una Timore di un
richiesta
di contenzioso
risarcimento
medico-legale
danni
Timore
di
pubblicità
negativa, perdita
di immagine
Precedenti
esperienze
personali
contenziosi
medico-legali
Precedenti esperienze di
contenziosi
medicodi legali a carico di un Suo
c ol l e ga
32- 42
75,0%
79,1%
41,7%
45,8%
75,0%
43- 52
60,0%
84,7%
27,1%
47,1%
63,4%
53- 62
51,9%
74,3%
46,8%
51,0%
61,0%
63- 72
74,0%
92,6%
70,4%
67,9%
78,6%
Tab.11- Composizione percentuale riferita alla domanda del questionario “Quali fattori hanno influito sui comportamenti sopra
indicati?” (dati disaggregati per “Età”)
15
Fonte: www.amami.it. Dati da verificare ulteriormente.
Sull’effetto reputazionale delle sanzioni penali, e sulla loro connessione con le sanzioni sociali, cfr. FORTI, L’Immane
concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Cortina, Milano, 2000, pagg. 354, 345, 539.
16
Disaggregando i dati in base alla variabile “Età” si possono però individuare particolari
differenze (tabella 11).
In primo luogo vediamo che il timore di essere coinvolti in un contenzioso legale, piuttosto
che di una richiesta di risarcimento danni, è maggiormente diffuso tra le fasce più giovani (32-42
anni) e tra le fasce più anziane (63-72 anni).
In secondo luogo, significative sono le distinzioni legate agli item “Timore di pubblicità
negativa, perdita di immagine” e “Precedenti esperienze personali di contenziosi medico-legali”,
dove il livello di accordo espresso dai medici più anziani si attesta su livelli molto elevati,
dimostrando un attaccamento alla propria reputazione professionale di gran lunga maggiore rispetto
agli operatori più giovani.
***
I risultati dell’indagine confermano quanto già riscontrato da altre ricerche in America ed in
Europa. I comportamenti di Medicina Difensiva sembrano essere principalmente originati dal
timore di essere coinvolti in contenziosi legali. Sarebbe da indagare ulteriormente il possibile ruolo
svolto dalla perdita di fiducia nei “sistemi esperti” (Giddens, 1990), come quello medico ad
esempio, della possibile minore fiducia17 nelle capacità e nell’affidabilità della classe medica, che
mette in moto il circuito giudiziario.
Afferma un intervistato:“Quando operiamo degli avvocati siamo già sulla difensiva. Una
volta è arrivato un paziente che mi ha subito detto di essere un pubblico ministero. Mi sono sentito
a disagio, quasi mi avesse avvertito. A volte capita anche con carabinieri e poliziotti. Oramai
manca il rapporto fiduciario”.
Si rileva talvolta un problema legato alla comunicazione tra medico e paziente. È stato notato,
infatti, che in alcuni casi le denunce da parte dei pazienti traggono origine da situazioni nelle quali il
medico non ha fornito né al paziente, né ai familiari adeguate informazioni e/o rassicurazioni sullo
stato di salute del paziente medesimo. In sostanza colui che si ritiene danneggiato si rivolge ad un
legale più per avere chiarimenti sul proprio caso che per animo di rivalsa. Dichiarano gli
intervistati:
(a) “Tutto è nel rapporto medico-paziente, con i parenti, identificando bene quali sono i
parenti con cui parlare, di cui il paziente si fida maggiormente. Il rischio è che ne spuntino altri,
cattivi consiglieri”.
(b)“La ferita è guarita, ahimè, con una cicatrice più brutta, e i parenti del paziente che
litigavano quotidianamente con gli infermieri perché avevano un atteggiamento ostile nei confronti
delle persone, perché il fidanzato della ragazza non poteva sedersi sul letto….”.
(c) “Una comunicazione corretta, e l’istituzione di un rapporto di cooperazione con il
paziente e la famiglia di questi, eviterebbe l’insorgere di tali problemi”.
17
Sull’importanza della fiducia, quale inestimabile “bene immateriale”, su cui si fonda la stessa sovranità di ogni entità
statuale, cfr. Forti G., L’Immane concretezza., cit, p. 411 ss.
3.
Considerazioni conclusive
Questa ricerca ha evidenziato la diffusione di un atteggiamento difensivo da parte dei medici,
orientato a ridurre il rischio di controversie legali. I risultati dell’indagine, pertanto, confermano
quanto già rilevato in altri contesti internazionali come gli Stati Uniti, il Giappone e la Gran
Bretagna, dove la maggior parte dei sanitari afferma di modificare il proprio comportamento
lavorativo per tutelare la propria carriera (Passmore and Leung, 2002; Studdert et al., 2005; Hiyama
et al., 2006).
L’incremento esponenziale delle richieste di risarcimento dei pazienti (Ania, 2007), aumenta i
costi per la Sanità pubblica e privata, senza che a ciò corrisponda un aumento di qualità e di
sicurezza del Servizio Sanitario Nazionale.
Riassumendo, le principali conclusioni che si possono trarre dalla ricerca:
1.
Elevata incidenza della Medicina Difensiva. Il 77,9% dei medici afferma di aver
assunto una condotta difensiva durante l’ultimo mese di lavoro. Tra questi, l’82,8%
ha inserito in cartella clinica annotazioni evitabili; il 69,8% ha proposto il ricovero di
un paziente gestibile ambulatorialmente; il 61,3% ha prescritto un numero maggiore
di esami diagnostici rispetto a quello necessario; il 58,6% ha richiesto un consulto non
necessario di altri specialisti; ed infine il 26,2% ha escluso pazienti a “rischio” da
alcuni trattamenti.
2.
Maggiore diffusione di Medicina Difensiva tra i giovani medici. Conformemente a
quanto visto in altre ricerche, emerge che i medici più giovani dichiarano in misura
maggiore di praticare la Medicina Difensiva, rispetto ai più anziani. Difatti, la
percentuale di coloro che ammette di ricorrere ad atteggiamenti difensivi raggiunge il
92,3% all’interno della classe di soggetti che hanno tra i 32 e i 42 anni di età, contro il
67,4% dei soggetti aventi tra i 63 e i 72 anni.
3.
Timore diffuso di ripercussioni legali. L’80% dei medici che adottano atteggiamenti
difensivi manifesta il timore di subire un contenzioso legale, mentre il 60% dichiara
di avere paura di ricevere una richiesta di risarcimento danni.
4.
Timore di pubblicità negativa. Una parte cospicua dei medici intervistati (43,5%)
denuncia l’atteggiamento accusatorio adottato dai mass media, i quali sono sempre
più orientati a diffondere slogan allarmistici che mettono in cattiva luce l’operato e la
professione della classe medica.
L’aumento delle controversie legali medico-paziente e dei costi assicurativi si inserisce in un
quadro di tendenza più ampio, comune anche ad altre professioni ad alto rischio (controllori del
traffico aereo, piloti, ecc.). Emerge una “coscienza del rischio” che porta la società a pretendere
sempre maggiori livelli di sicurezza per un numero sempre maggiore di fonti e di tipi di rischio.
L’approccio “accusatorio”, orientato alla ricerca del colpevole più che delle criticità che
hanno favorito l’errore, è da ritenersi tra i principali responsabili della diffusione degli
atteggiamenti difensivi nei medici.
La ricerca del colpevole non favorisce il reporting degli errori, impedendo la possibilità di
apprendere dai fallimenti e favorendo la diffusione di comportamenti difensivi. Per favorire la
visibilità degli eventi anomali e dei near miss (mancati incidenti) è necessario, da un lato, avere
maggiori e realistiche informazioni sugli incidenti, dall’altro, creare degli “spazi di non punibilità”
all’interno dei quali le persone si sentano libere di poter discutere dei fallimenti per poter
apprendere da questi. Va però chiarito che un’organizzazione totalmente no blame rischia di
comportare, di fatto, un’approvazione di tutti gli atti insicuri. Una cultura organizzativa nella quale
tutte le azioni sono possibili secondo la discrezionalità delle persone è una cultura che perde
credibilità agli occhi delle persone stesse. Come sostiene Reason (1998), un prerequisito per
un’equa e giusta cultura della sicurezza è che tutti i membri di un’organizzazione comprendano
dove sia tracciata la linea tra i comportamenti inaccettabili che meritano sanzioni ed il resto dei
comportamenti, per i quali una punizione non appropriata non aiuta a promuovere la sicurezza.
In conclusione, emerge l’esigenza di ripensare l’utilizzo del diritto penale, promuovendo una
diversa civic epistemology (Jasanoff, 2005) in caso di incidenti causati da errori non intenzionali. La
sanzione penale è considerata un’importante strumento per il controllo sociale delle organizzazioni,
ma ci sono forti dubbi, ed una scarsa evidenza empirica, sul suo potere deterrente in caso di
incidenti (Vaughan, 1998) e sul ricorso al diritto penale come strumento privilegiato per impedire
futuri incidenti tecnologici (Stella, 2002; Centonze, 2004) così come gli errori in medicina. Come
abbiamo affermato, un sistema professionale come quello medico, a rischio continuo di indagine
penale, non è un sistema più attento e diligente, ma è un sistema che riduce i rischi di chi agisce
cercando maggiori tutele formali, anche a scapito dell’utenza. Da qui l’origine della medicina
difensiva.
La percezione di una prassi giurisprudenziale particolarmente rigorosa, sul terreno della
responsabilità penale e civile, induce spesso i medici a modificare le proprie condotte professionali:
la tutela della salute del paziente può, così, diventare, per il sanitario, un obiettivo subordinato alla
minimizzazione del rischio legale. Si segnala dunque come necessario, oltre che opportuno, un
intervento di riforma legislativa, che punti a scongiurare i comportamenti di "Medicina Difensiva",
nella ricerca di un equo bilanciamento tra l’esigenza di salvaguardare gli operatori sanitari da
iniziative giudiziarie che spesso vengono avvertite come arbitrarie e ingiuste e la necessità di
tutelare i diritti dei pazienti che si ritengano danneggiati da episodi di medical malpractice..
Nel campo sanitario, così come in altri settori caratterizzati da attività ad elevato contenuto
rischioso (controllo del traffico aereo, aeronautica militare e civile, ecc.), occorre privilegiare le
esigenze della prevenzione rispetto alla ricerca del colpevole, fermo restando il soddisfacimento del
diritto dei danneggiati al risarcimento dei danni.
È auspicabile la promozione di una Just Culture, così come è stata definita dall’ICAO
(International Civil Aviation Organisation), ovvero una cultura in cui gli operatori di front-line non
vengano puniti per le azioni, le omissioni o per le decisioni commisurate alla loro esperienza, ma
esclusivamente per gli atti di negligenza, le violazioni e le azioni distruttive considerate non
tollerabili.
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Gli Autori
MAURIZIO CATINO, Professore associato di Sociologia dell’organizzazione presso la Facoltà di
Sociologia dell’Università degli Studi di Milano – Bicocca.
Condirettore della rivista Studi Organizzativi, membro del comitato scientifico della rivista
Ergonomia. I suoi principali interessi scientifici e professionali riguardano: il contributo umano ed
organizzativo agli incidenti e ai breakdown dei sistemi complessi. È autore di numerose
pubblicazioni sia in Italia che all’estero su l’error management; l’errore umano in medicina e i
fattori organizzativi; la miopia organizzativa; le organizzazioni ad alta affidabilità; le culture della
sicurezza per la prevenzione degli errori.
È stato Visiting professor presso il Department of Sociology, Oxford (UK), Luglio-Agosto 2007.
Tra i suoi ultimi libri: Da Chernobyl a Linate. Incidenti Tecnologici o Errori Organizzativi?, Bruno
Mondadori, 2006; Miopia Organizzativa. Problemi di razionalità e previsione nelle organizzazioni,
Bologna, il Mulino, 2009. E.mail: [email protected]
PAOLA CATTORINI, laureata in Giurisprudenza presso Università Cattolica del Sacro Cuore di
Milano. Esercita la professione di Avvocato in Milano. È Cultore della materia di Criminologia e
membro del Centro Studi Federico Stella sulla Giustizia Penale e la Politica Criminale, diretto dal
Prof. Gabrio Forti, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. È autrice di diverse
pubblicazioni tra cui: “I limiti del giudice e il rispetto dei principi di difesa e del contraddittorio”,
(Accademia Lancisiana, 2007); “I reati colposi e ambientali nella rappresentazione mediatica”, in
G. Forti e M. Bertolino (a cura di), “La televisione del crimine”, Edizioni Vita e Pensiero, 2005.
CHIARA LOCATELLI, laureata in Sociologia presso l’Università degli Studi di Milano – Bicocca.
Svolge attività di ricerca presso l’Università degli Studi di Milano – Bicocca. Collabora con il
Servizio Qualità – MCQ dell’ospedale Niguarda Cà Granda di Milano. Tra le sue pubblicazioni:
“Cultura della colpa e apprendimento organizzativo” (Rischio Sanità); “Le conseguenze della
“Colpevolizzazione”: difficoltà di apprendere dagli errori e medicina difensiva” (Torino Medica,
2009); “Le difficoltà di apprendere dall’errore in medicina: barriere e ostacoli alla segnalazione” (in
corso di pubblicazione).
Allegati: il questionario e la check list per le interviste
IL QUESTIONARIO
SESSIONE 1: DATI SOCIO-ANAGRAFICI
d.1 – Età:
d.2 – Genere:
1
Maschio
d.3 – Professione:
1
Medico
2
Femmina
2
Medico Specializzando
d.4 – Nello spazio sottostante indichi il tipo di reparto in cui lavora (es. medicina generale, pronto
soccorso, ecc.):
d.5 - Specifichi, inoltre se appartiene ad una delle seguenti categorie:
1
Dirigente medico
2
Direttore di presidio/ dipartimento/ struttura complessa/ struttura semplice
3
Altro (specificare)____________________________________________________
d.6 - Anzianità professionale:
1
Fino a 1 anno
4
da 11 a 20 anni
2
5
da 1 a 5 anni
da 21 a 30 anni
d.7 - Specifichi, inoltre, se lavora in:
1
Ospedale pubblico
2
3
6
da 6 a 10 anni
più di 30 anni
Ospedale privato accreditato
SESSIONE 2: MEDICINA DIFENSIVA
d.8 – Durante l’ultimo mese di lavoro, quante volte ha compiuto azioni come quelle qui sotto
riportate? (Per ognuno degli “items” presentati, risponda inserendo una crocetta all’interno
della casella che ritiene più appropriata)
Mai1
a.
Prescritto un numero maggiore di esami
diagnostici rispetto a quello necessario (es.
oltre a quelli raccomandati da Linee Guida
o Protocolli).
b.
Richiesto procedure
biopsia) non necessarie.
c.
Prescritto trattamenti non necessari (es.
oltre a quelle raccomandate da Linee Guida
o Protocolli).
d.
Prescritto farmaci non strettamente
necessari.
e.
Accettato/proposto il ricovero di un
paziente in ospedale, anche se le condizioni
avrebbero
consentito
una
gestione
ambulatoriale.
f.
Chiesto un consulto specialistico non
necessario.
g.
Scritto in cartella clinica annotazioni
che avrebbe evitato di riportare se non
fosse stato preoccupato per possibili
problemi medico-legali.
h.
Evitato procedure (diagnostiche o
terapeutiche) rischiose su pazienti che
avrebbero potuto averne beneficio.
i.
Escluso pazienti “a rischio” da alcuni
trattamenti (oltre le normali regole di
prudenza).
invasive
1-3 v.2
4-6 v.3
7-9 v.4
10 v. e più5
(es.
Se ha risposto “Mai” in tutti gli items presentati, da (a) a (i), per Lei il questionario termina qui,
altrimenti vada alla domanda d.9
d.9 – Quali fattori hanno influito sui comportamenti sopra indicati? (Risponda con una crocetta
esprimendo il suo grado di accordo/disaccordo con le seguenti affermazioni).
Molto
d’accordo4
Timore di una richiesta di risarcimento danni,
in caso di complicanze/eventi avversi.
Timore di un contenzioso medico-legale, in
caso di complicanze/eventi avversi.
Timore di sanzioni disciplinari, in caso di
complicanze/eventi avversi.
Timore di pubblicità negativa, perdita di
immagine, in caso di complicanze/eventi
avversi.
Precedenti esperienze personali di contenziosi
medico-legali.
Precedenti esperienze di contenziosi medicolegali a carico di un Suo collega.
Abbastanza
d’accordo3
Poco
d’accordo2
Per
nulla
d’accordo1
CHECK LIST PER LE INTERVISTE
1. È a conoscenza del problema della Medicina Difensiva?
2. In base alla sua esperienza, è una pratica diffusa tra i professionisti sanitari?
3. A Suo parere, quali sono i comportamenti di Medicina Difensiva maggiormente adottati?
(Riportare alcuni esempi: - Prescritto un numero maggiore di esami diagnostici rispetto a quello
necessario; - Richiesto procedure invasive non necessarie; - Prescritto farmaci non necessari;
- Prescritto trattamenti non necessari; - Evitato procedure rischiose su pazienti che avrebbero potuto
averne beneficio; - Escluso pazienti “a rischio” da alcuni trattamenti, oltre le normali regole di
prudenza)
4. Durante l’ultimo mese di lavoro, quali comportamenti di Medicina Difensiva Le è capitato di
osservare o di esserne venuto a conoscenza?
(Riportare alcuni esempi: - Prescritto un numero maggiore di esami diagnostici rispetto a quello
necessario; - Richiesto procedure invasive non necessarie; - Prescritto farmaci non necessari; Prescritto trattamenti non necessari; - Evitato procedure rischiose su pazienti che avrebbero potuto
averne beneficio; - Escluso pazienti “a rischio” da alcuni trattamenti, oltre le normali regole di
prudenza)
5. Secondo lei quali sono i motivi che possono spingere ad agire in questo modo?
(Riportare qualche esempio: - Timore di una richiesta di risarcimento danni, in caso di
complicanze/eventi avversi; - Timore di un contenzioso medico-legale; - Timore di sanzioni
disciplinari; - Timore di pubblicità negativa, perdita di immagine; - Precedenti esperienze personali
di contenziosi medico-legali; - Precedenti esperienze di contenziosi medico-legali a carico di un
Suo collega)
6. Tra i motivi che mi ha appena indicato, secondo Lei, quale pesa in misura maggiore?
7. Personalmente, si sente minacciato/a dalla possibilità di incorrere in sanzioni disciplinari, qualora
si verificasse un evento avverso?
7.1.... di essere coinvolto/a in un contenzioso di tipo medico-legale?
7.2.... di essere screditato/a professionalmente e pubblicamente (attraverso i mass media)?
8. Secondo Lei, quali azioni migliorative si possono attivare per circoscrivere il problema della
Medicina Difensiva?
9. Dedichiamo l’ultima parte dell’intervista per osservazioni, consigli o per qualsiasi cosa Lei
ritenga utile condividere in merito al tema della Medicina Difensiva.
PARTE II
LA RELAZIONE DI PRESENTAZIONE
RELAZIONE DI PRESENTAZIONE DEL PROGETTO
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Titolo I: Principi generali. – 3. Titolo II: Modifiche al codice
penale, al codice di procedura penale e alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del
codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271. – 4. Titolo III:
Giustizia riparativa. – 5. Titolo IV: Disposizioni in materia di assicurazione per la responsabilità
civile in ambito sanitario.
1. Premessa. – Il «Progetto di riforma in materia di responsabilità penale nell’ambito dell’attività
medico-chirurgica e gestione del contenzioso legato al rischio clinico» – elaborato dal Centro Studi
«Federico Stella» sulla Giustizia penale e la Politica criminale – si propone di fornire una adeguata
risposta normativa al problema, estremamente attuale, della c.d. “medicina difensiva”.
Senza che sia qui necessario dilungarsi in un’analisi dettagliata delle problematiche
connesse alla defensive medicine (sul punto, si rinvia alla indagine empirica condotta dal Gruppo di
ricerca coordinato dal prof. Catino), basterà appena ricordare che, storicamente, la medicina
difensiva è stata suddivisa in due categorie: la medicina difensiva “positiva” e la medicina difensiva
“negativa”.
La medicina difensiva “positiva” consiste nella somministrazione di analisi, procedure,
trattamenti sanitari che non solo non sono necessari, ma si caratterizzano per la loro sostanziale
superfluità, avendo come unico fine quello di “porre al riparo” il medico da eventuali contestazioni,
sollevate ex post, alla correttezza del proprio operato; la medicina difensiva “negativa”, invece, si
manifesta in una serie di comportamenti che rappresentano vere e proprie auto-limitazioni
nell’esercizio della professione: per quanto riguarda i medici, in particolare, tali atteggiamenti si
concretizzano, esemplificativamente, nel rifiutarsi di eseguire procedure particolarmente rischiose,
ovvero nel disporre il trasferimento del paziente in un altro reparto o in un’altra struttura sanitaria, il
tutto nell’ottica di preservare se stessi da eventuali contenziosi legali, piuttosto che in quella di
assicurare la migliore risposta terapeutica per le esigenze del paziente.
La letteratura anglosassone più recente, per evitare possibili fraintendimenti dei termini
“positiva” e “negativa”, ha proposto l’impiego di una nuova terminologia, distinguendo i
comportamenti di medicina difensiva in assurance behaviors (invece di medicina difensiva
positiva) ed avoidance behaviors (invece di medicina difensiva negativa).
Le pratiche di assurance e avoidance behaviors, indotte dal timore delle possibili
responsabilità civili e penali per il sanitario, oscillano – per quanto riguarda la conformità con
l’interesse di cura del paziente – dal poter essere: (1) di poco beneficio rispetto al costo che
comportano (come ad esempio una mammografia per una donna in giovane età che non presenti
segnali di un possibile tumore al seno), al (2) non essere di beneficio alcuno (come ad esempio
ecografie non indicate), finanche a (3) essere apertamente dannosi per la salute del paziente (si
pensi a una biopsia che presenti delle controindicazioni e sia disposta per finalità esclusivamente
“difensive”).
Gli studi empirici, ivi compreso quello condotto dai ricercatori del CSGP, indicano in
maniera inequivoca – nonostante la difficoltà di reperite dati certi in materia – che il timore di
essere chiamati a rispondere giudizialmente di comportamenti riconducibili al fenomeno della c.d.
medical malpractice esercita una grande influenza sulle decisioni cliniche dei sanitari, dando vita a
una situazione di grave crisi nel rapporto “medico-paziente”, con pesanti ricadute per l’intera
società (oltre che una tutela meno efficace della salute, infatti, i comportamenti di medicina
difensiva determinano un significativo aggravio dei costi a carico del Sistema Sanitario Nazionale,
creando squilibri che, nel lungo periodo, portano inevitabilmente a una contrazione delle prestazioni
erogate gratuitamente a tutti i cittadini)
Il Progetto di riforma elaborato dal CSGP si sforza di suggerire un percorso innovativo per
la gestione del fenomeno della medicina difensiva e del contenzioso legato al c.d. “rischio clinico”,
nel tentativo di perseguire una tutela più efficace della salute dei cittadini attraverso una serie di
misure che, in estrema sintesi, possono riassumersi come segue: 1) una ragionevole restrizione
dell’area dei comportamenti colposi che, realizzati nell’esercizio dell’attività sanitaria, abbiano
rilevanza penale; 2) un migliore assetto delle norme che disciplinano l’acquisizione dei “saperi
tecnici” nel processo penale, attraverso una modifica delle previsioni in tema di consulenza e
perizia nell’ambito dei procedimenti aventi ad oggetto fatti di medical malpractice; 3) un percorso
di “giustizia riparativa”, alternativo al processo penale ordinario, in grado di assicurare risposte più
efficaci da parte dell’ordinamento, rispetto alla minaccia, spesso soltanto teorica, dell’irrogazione di
una pena detentiva; 4) una nuova disciplina in materia di assicurazione per la responsabilità civile in
ambito sanitario, basata sull’introduzione di un obbligo assicurativo in capo a tutte le strutture che
rendano prestazioni sanitarie a favore di terzi; 5) una specifica previsione di legge dedicata al
fenomeno, ineliminabile, del c.d. “rischio clinico”, che dia finalmente la possibilità alle strutture
sanitarie complesse, attraverso un’apposita unità di gestione del rischio, di apprendere dai propri
errori ed evitare quelle situazioni di «miopia organizzativa»1 che spesso sono alla base degli eventi
avversi in danno dei pazienti.
2. Titolo I: Principi generali. – La proposta di legge, costituita da quattro titoli per complessivi 30
articoli, si apre con una dichiarazione di principio, finora assente nell’ordinamento italiano, che
recepisce autorevoli posizioni assunte da una parte della dottrina e della giurisprudenza, al
contempo richiamando previsioni simili contenute in codici penali stranieri2.
L’articolo 1, intitolato «Trattamento medico-chirurgico», statuisce infatti che «I trattamenti
medico-chirurgici adeguati alle finalità terapeutiche ed eseguiti secondo le regole dell’arte da un
esercente una professione medico-chirurgica o da altra persona legalmente autorizzata allo scopo
di prevenire, diagnosticare, guarire o alleviare una malattia del corpo o della mente, non si
considerano offese all’integrità fisica».
Si stabilisce, pertanto, che il trattamento medico-chirurgico, eseguito in ossequio alle leges
artis, non è da considerarsi, per definizione, un fatto tipico di offesa all’integrità fisica del paziente,
accogliendo così l'
impostazione dottrinale secondo la quale l'
attività medica trova la sua
legittimazione nella sua intrinseca utilità e adeguatezza sociale e nel fatto che essa viene realizzata
per garantire il perseguimento di beni costituzionalmente tutelati3.
1
Sul tema, v. di recente CATINO, Miopia organizzativa, Bologna, 2009, passim.
È il caso del codice penale portoghese: «Artigo 150: Intervenções e tratamentos médico-cirúrgicos. 1 - As
intervenções e os tratamentos que, segundo o estado dos conhecimentos e da experiência da medicina, se mostrarem
indicados e forem levados a cabo, de acordo com as leges artis, por um médico ou por outra pessoa legalmente
autorizada, com intenção de prevenir, diagnosticar, debelar ou minorar doença, sofrimento, lesão ou fadiga corporal, ou
perturbação mental, não se consideram ofensa à integridade física. 2 - As pessoas indicadas no nº anterior que, em vista
das finalidades nele apontadas, realizarem intervenções ou tratamentos violando as leges artis e criarem, desse modo,
um perigo para a vida ou perigo de grave ofensa para o corpo ou para a saúde são punidas com pena de prisão até 2 anos
ou com pena de multa até 240 dias, se pena mais grave lhes não couber por força de outra disposição legal. (Redacção
da Lei nº 65/98, de 2 de Setembro). Affine l’Entwurf 1962, § 161 Heilbehandlungen – «Eingriffe und andere
Behandlungen, die nach den Erkenntnissen und Erfahrungen der Heilkunde und den Grundsätzen eines gewissenhaften
Arztes zu dem Zweck angezeigt sind und vorgenommen werden, Krankheiten, Leiden, Korperschaden, körperliehe
Beschwerden oder seelische Störungen zu verhüten, zu erkenne, zu heilen oder zu lindern, sind nicht als
Körperverletzung strafbar».
3
«Un intervento praticato leges artis dal chirurgo non è assimilabile, seppur privo di consenso, a una qualsiasi ferita da
arma da taglio. Il che implica, in termini giuridici, o escludere la tipicità della stessa, quanto al delitto di lesioni,
dell'
aspetto invasivo di un trattamento chirurgico leges artis, o, almeno, configurare l'
indicazione terapeutica come
scriminante» (EUSEBI, L., Sul mancato consenso al trattamento terapeutico: profili giuridico-penali, in Riv. it. med.
leg., 1995, II, p. 727). La questione relativa alla natura intrinseca dell'
attività medica e dunque anche all'
efficacia del
consenso rispetto a quest'
ultima ha lungamente impegnato la dottrina e la giurisprudenza italiane: basti ricordare che già
il Grispigni se ne occupò a partire dal 1914. Secondo un primo orientamento, soltanto il consenso del paziente potrebbe
scriminare la condotta del medico, altrimenti connotata da illiceità e dunque sussumibile sotto la fattispecie di lesioni
volontarie o, in caso di esito infausto, sotto quella di omicidio preterintenzionale. Conforme a tale orientamento, Cass.
n. 5639/1992 (Massimo). Altra autorevole dottrina, invece, pur ritenendo che, presente il consenso, il comportamento
2
In tal modo, il Progetto di riforma elaborato dal CSGP recepisce, tra l’altro, posizioni ormai
consolidate nella giurisprudenza civile e ribadite di recente anche in quella penale. Da tempo,
infatti, le sezioni civili della Corte di cassazione affermano la c.d. autolegittimazione dell’attività
medica4, la quale trova il suo fondamento nella finalità di tutela della salute come bene
costituzionalmente rilevante. Tale posizione è stata di recente recepita anche dalle Sezioni unite
penali della Suprema Corte, secondo le quali: «l’attività sanitaria, proprio perché destinata a
realizzare in concreto il diritto fondamentale di ciascuno alla salute, ed attuare la prescrizione
dettata dall’articolo 2 della Carta, ha base di legittimazione direttamente nelle norme costituzionali
che, appunto, tratteggiano il bene della salute come diritto fondamentale dell’individuo»5.
Ciò ovviamente non significa escludere l'
importanza centrale che riveste, in ogni caso, il
consenso del paziente: tale centralità, riconosciuta in numerosi atti internazionali6, è stata di recente
del medico «diviene un normale accadimento della vita sociale o di relazione, refrattario a qualsiasi valutazione
giuridico-penale» (ROMANO M., Commentario sistematico del codice penale, I, Milano, 2004, p. 528), e considerando
quindi il consenso non perfettamente assimilabile alle tradizionali cause di giustificazione, non esclude, in caso di
trattamento con esito infausto eseguito senza consenso, la configurabilità di una responsabilità penale dell'
agente.
Anche questo orientamento viene recepito in alcune sentenze della Cassazione: esemplificativamente, Cass., n.
35822/2001. Si afferma in tale sentenza che l'
attività medica sarebbe autolegittimata, trovando la propria giustificazione
negli articoli 13 e 32 della Costituzione: riduttivo sarebbe, pertanto, fondare la sua legittimazione soltanto sul consenso
dell'
avente diritto; d'
altro canto, la legittimità dell'
attività medica richiederebbe comunque di per sé il consenso del
paziente. Altrettanto controversa poi la questione relativa alla fattispecie penale realizzata dal medico, prospettandosi
come alternative o le lesioni e l'
omicidio preterintenzionale, da un lato, o la violenza privata, dall'
altro. Alla dottrina
che sostiene il primo orientamento si oppone generalmente l'
insussistenza dell'
elemento oggettivo (poiché la malattia
non sarebbe assimilabile alle lesioni) oltre che la mancanza dell'
elemento soggettivo (non essendo riscontrabile, in
un'
attività medica terapeuticamente orientata, alcun animus laedendi). La giurisprudenza è altrettanto ondivaga: nella
sentenza Massimo, più sopra citata, si ritengono ad esempio integrate le lesioni e l'
omicidio preterintenzionale, mentre
nella sentenza Cass. n. 26446/2002 si prospetta solo la sussistenza del reato di violenza privata. Una recentissima
pronuncia delle Sezioni Unite, da ultimo, ha rivisitato l’intera giurisprudenza in materia, ed è giunta a escludere anche
la configurabilità di quest'
ultimo reato, (Cass. Sez. Un. n. 2437/09, la quale testualmente afferma: «la violenza, infatti, è
un connotato essenziale di una condotta che, a sua volta, deve atteggiarsi alla stregua di mezzo destinato a realizzare un
evento ulteriore: vale a dire la costrizione della vittima a fare, tollerare od omettere qualche cosa; deve dunque trattarsi
di “qualcosa” di diverso dal “fatto” in cui si esprime la violenza. Ma poiché, nella specie, la violenza sulla persona non
potrebbe che consistere nella operazione; e poiché l’evento di coazione risiederebbe nel fatto di “tollerare” l’operazione
stessa, se ne deve dedurre che la coincidenza tra violenza ed evento di “costrizione a tollerare” rende tecnicamente
impossibile la configurabilità del delitto di cui all’art. 610 cod. pen.»); si lascia invece impregiudicata la possibilità che
«possano assumere un particolare risalto le figure di colpa impropria, nelle ipotesi in cui si possa configurare un errore
sull'
esistenza della scriminante, addebitabile ad un atteggiamento colposo, ovvero allorché i limiti della scriminante
vengano superati, sempre a causa di un atteggiamento rimproverabile a titolo di colpa».
4
Sulla salute come diritto fondamentale dell'
individuo: Cass. n. 356/1991, n. 202/1991, n. 559/1987. Sul diritto ai
trattamenti sanitari come diritto a sua volta fondamentale: Cass. n. 432/2005, n. 233/2003, n. 252/2001. A questo
proposito, la sentenza delle Sezioni Unite n. 2437/09 afferma, a sua volta che: «non è senza significato la circostanza
che l’articolo 359 c.p. inquadri fra le persone esercenti un servizio di pubblica necessità proprio i privati che esercitano
la professione sanitaria, rendendo dunque davvero incoerente l’ipotesi che una professione ritenuta, in sé, di pubblica
necessità abbisogni, per legittimarsi, di una scriminante tipizzata, che escluda l’antigiuridicità di condotte strumentali al
trattamento medico, ancorché attuate secondo le regole dell’arte e con esito favorevole per il paziente. Se di scriminante
si vuole parlare, dovrebbe, semmai, immaginarsi la presenza, nel sistema, di una sorta di scriminante costituzionale, tale
essendo, per quel che si è detto, la fonte che giustifica l’attività sanitaria, in genere, e medico chirurgica, in specie, fatte
salve soltanto le ipotesi in cui essa sia rivolta a fini diversi da quelli terapeutici»
5
Cass. Sez. Un., n. 2437/2009.
6
In particolare, la Convenzione dei diritti dell'
uomo e sulla biomedicina, c.d. Convenzione di Oviedo, ratificata
dall'
Italia con legge 145/2001 prevede, all’articolo 5, che «un trattamento sanitario può essere praticato solo se la
persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero ed informato»; vd. anche Convenzione sui diritti del
oggetto di un'
importante sentenza della Corte Costituzionale, la quale ha affermato che «il consenso
informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto
dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi
espressi nell’art. 2 Cost., che ne tutela e promuove i diritti fondamentali e negli articoli 13 e 32
Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che la libertà personale è inviolabile e che nessuno può
essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge. La
circostanza che il consenso informato trova il suo fondamento negli artt. 2, 13 e 32 della
Costituzione pone in risalto la sua funzione di sintesi di due diritti fondamentali della persona:
quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il
diritto di essere curato, egli ha altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla
natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle
eventuali terapie alternative»7.
L'
affermazione dell'
articolo 1 non sottrae, quindi, il medico all’obbligo deontologico di
impegnarsi, per quanto possibile, nella ricerca di un pieno e consapevole consenso da parte del
paziente, costruendo un rapporto di fiducia che è la migliore e più efficace garanzia contro
l'
ingenerarsi di comportamenti di medicina difensiva, da parte del sanitario, o di iniziative
giudiziarie infondate, da parte del paziente o dei suoi congiunti8.
Tuttavia, non si è ritenuto opportuno inserire il consenso del paziente quale requisito
essenziale della liceità del trattamento medico-chirurgico, al fine di evitare possibili letture di tipo
“contrattualistico”, che ben poco hanno a che fare con le peculiarità che contraddistinguono
l’attività medica.
Ciò che è necessario – e al contempo sufficiente – per escludere la rilevanza giuridica del
comportamento del medico, sub specie “offesa all’integrità fisica del paziente” – è che si tratti di
atti «adeguati alle finalità terapeutiche» (la precisazione può portare ad escludere, nei casi di
mancanza di finalità terapeutiche, alcuni trattamenti medici di tipo meramente cosmetico, estetico e
plastico), che siano eseguiti «secondo le regole dell’arte» e con lo scopo di «prevenire,
diagnosticare, guarire o alleviare una malattia».
fanciullo, 1989, art. 24, nonché la Carta dei diritto fondamentali dell'
Unione europea (Nizza, 7 dicembre 2000) sancisce
che «ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica».
7
Corte Cost. n. 438/2008.
8
«Il consenso – la cui rilevanza permette al malato di controllare le scelte terapeutiche – serve per riuscire ad ottenere il
meglio (inteso nel senso più pregnante) secondo la lex artis e non già, come qualcuno sembra ritenere, per poter non
fare quel meglio». Peraltro, l'
importanza di tale “alleanza terapeutica” viene anche riconfermata dal nuovo codice di
deontologia medica (approvato nel 2006) il quale prevede che il «medico non deve intraprendere attività diagnostica e/o
terapeutica senza l’acquisizione del consenso esplicito e informato del paziente» (art. 35).
Sul punto, si segnala che si è preferito non distinguere tra “interventi chirurgici” e
“trattamenti” (così invece i modelli tedesco e portoghese), essendo ormai acquisito, anche nella
giurisprudenza penale italiana, il concetto onnicomprensivo di “trattamento medico-chirurgico”.
Inoltre, si è preferito limitare l’ambito di operatività di questa norma, a differenza di quelle
contenute nel titolo II, ai soli «esercenti una professione medico-chirurgica», escludendo perciò il
riferimento al più ampio concetto di “professione sanitaria”, che comprende, ai sensi dell'
art. 99 del
t.u.l.san., oltre al medico-chirurgo, anche il veterinario, il farmacista, l'
odontoiatra non medico. La
nozione di “professione medico-chirurgica”, accolta nell’art. 1 del Progetto di riforma, esclude
evidentemente queste tre ultime categorie: tale scelta, che accorda in certa misura una “preferenza”
nei confronti del medico-chirurgo, serve a indicare con maggiore evidenza che solo a questo
soggetto compete la scelta delle opzioni diagnostico-terapeutiche. Tuttavia, si è reputato opportuno
aggiungere, come nel modello portoghese, il riferimento ad «altra persona legalmente autorizzata»,
così da ricomprendere nella portata della norma anche altri soggetti, come gli infermieri e i tecnici
di laboratorio o di altre specialità (tecnico-radiologo, ecc.), che cooperano col medico-chirurgo
nell’effettiva erogazione della prestazione sanitaria.
Quanto alle conseguenze che derivano, per l’ordinamento, dalla presenza dei requisiti sopra
indicati, si è optato per una formula che – a differenza della classica “non punibilità” – esprima in
maniera immediata l’assenza di tipicità della condotta, in virtù della intrinseca adeguatezza sociale
della condotta del medico. Oltre tutto, trattandosi di una norma di principio, non destinata a entrare
nel codice penale, la formulazione indicata è sembrata più omogenea col tessuto complessivo della
proposta di riforma.
3. Titolo II: Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alle norme di attuazione,
di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28
luglio 1989, n. 271. – Il titolo II del Progetto di riforma consta di tre articoli, che innoverebbero in
maniera significativa il tessuto del codice penale e del codice di rito, in relazione al tema della
responsabilità colposa del sanitario.
Si segnala che, nel titolo II e in particolare nell’art. 2 che prevede un nuovo assetto della
responsabilità penale, l’alveo dei soggetti presi in considerazione è più ampio rispetto al titolo I,
facendosi qui riferimento, almeno come proposta giudicata preferibile secondo il CSGP, alla più
vasta categoria degli «esercenti una professione sanitaria», così da ricomprendere anche ostetrici,
infermieri, fisioterapisti, tecnici laboratoristi ecc. In alternativa, si potrebbe prevedere una
limitazione ai soli esercenti la professione medico-chirurgica: tale restrizione dell’ambito di
applicazione della norma, tuttavia, se pure avrebbe il beneficio di accentuare la particolarità
dell’attività tipica del medico, si esporrebbe probabilmente a censure di irragionevolezza, lasciando
maggiormente l’impressione, oltre tutto, di un privilegio eccessivo e ingiustificato a vantaggio della
sola categoria professionale dei medici. Nell’ottica di un efficace contrasto a tutte le forme di
medicina difensiva, invece, pare senz’altro preferibile l’estensione a tutte le professioni sanitarie,
purché – naturalmente – nel rispetto delle competenze di ciascuna professione.
3.1. La fattispecie di cui all’art. 2 del Progetto. – Prima di analizzare nel dettaglio le
norme di cui si propone l’introduzione, si deve precisare che il Progetto elaborato dal CSGP (a
differenza di altre proposte di legge recentemente avanzate)9 ha espressamente escluso l’opportunità
9
Si veda in particolare l'
art. 1 della Proposta di legge d’iniziativa dei deputati Santelli, Palumbo, Scapagnini, Papa,
Mario Pepe, Barani, Rizzoli, Bertolini, che reca le seguenti previsioni.
«All’ articolo 40 cod. pen. dopo il secondo comma aggiungere il seguente:
“L’omissione di un intervento o di un trattamento medico-chirurgico rende attribuibile l’evento lesivo qualora,
avuto riguardo alle regole scientifiche e di esperienza riguardanti la natura e l’efficacia dell’intervento o del trattamento
e alle condizioni fisiche del paziente, l’omissione risulti obiettivamente ingiustificata”.
2. All’ articolo 41 cod. pen. dopo il terzo comma aggiungere i seguenti:
“La reazione oggettivamente imprevedibile dell’organismo, determinante l’inefficacia in concreto di un
intervento o di un trattamento medico-chirurgico eseguito, previa corretta diagnosi, secondo le regole tecnicoscientifiche che lo regolano, costituisce causa sopravvenuta che esclude il rapporto di causalità in quanto sia stata da
sola sufficiente a determinare l’evento.
La causa sopravvenuta costituita da un intervento o da un trattamento medico-chirurgico esclude il rapporto di
causalità con l’evento se l’intervento o il trattamento è eseguito osservando i principi scientifici e applicando le
metodologie tecniche che ne regolano l’esecuzione.
Le condizioni cliniche del paziente, simultanee a un intervento o a un trattamento medico-chirurgico,
escludono il rapporto di causalità, se l’intervento o il trattamento è eseguito nel rispetto dei principi scientifici che lo
regolano e in applicazione delle metodologie tecniche per esso prescritte. Escludono altresì il rapporto di causalità le
condizioni cliniche sopravvenute in dipendenza di fattori estranei all’intervento o al trattamento qualora siano
oggettivamente imprevedibili o, se ipoteticamente previste, siano state accettate dal paziente”».
Serie perplessità suscita innanzi tutto il contenuto precettivo proposto per l'
art. 40: senza volersi qui soffermare troppo
sul fatto che, come nel caso del concetto di “attribuibilità” dell’evento lesivo, alcuni locuzioni impiegate sono estranee
al lessico comunemente usato dal legislatore – circostanza che potrebbe suscitare non poche incertezze in fase
applicativa – si deve segnalare come l’art. 40 co. 3, di cui si propone l’inserimento, è espressamente dedicato alle sole
condotte omissive (“L’omissione di un intervento medico-chirurgico …”) e punta a limitare la possibilità di “rendere
attribuibile” l’evento al sanitario (rectius, ritenere causale la sua condotta omissiva) solo quando l’omissione risulti
“obiettivamente ingiustificata”. Una previsione di tale genere, però, sembra presentare due inconvenienti che non
possono essere sottovalutati: da un lato, essa non pare in grado di assicurare quella riduzione dei “margini di aleatorietà
dell’interpretazione giurisprudenziale”, di cui ci si duole nelle premesse introduttive del documento; dall’altro, essa
sembra mescolare pericolosamente – col rischio di confonderle tra loro – le valutazioni attinenti al requisito della
causalità con quelle riguardanti il requisito della colpa. Sotto il primo profilo, non si può fare a meno di considerare che,
salvo rarissimi casi, gli episodi di medical malpractice non ruotano quasi mai attorno ad una omissione “pura e
semplice” del trattamento medico-chirurgico: nella stragrande maggioranza delle ipotesi, essi nascono da una serie
complessa di comportamenti, sia omissivi (es.: mancanza di una corretta anamnesi), sia attivi (es.: somministrazione di
una terapia diversa da quella opportuna). Da questo punto di vista, allora, è facile ipotizzare che l’introduzione di una
regola espressamente dedicata ai soli comportamenti omissivi, volta a limitare l’attribuibilità al sanitario dell’evento
lesivo, finirebbe verosimilmente con l’indurre la giurisprudenza a valorizzare il “momento commissivo” della condotta
del sanitario, ritenendolo responsabile non già, come si legge oggi nella maggioranza delle sentenze civili e penali sul
tema, per aver causato l’evento a seguito di una omissione di un certo trattamento medico-chirurgico (causalità
omissiva), bensì per avere tenuto delle condotte difformi da quelle che avrebbe tenuto un professionista modello e avere
così cagionato le conseguenze dannose lamentate dal paziente (causalità attiva). In uno scenario del genere, l’ipotizzato
intervento di riforma mostrerebbe immediatamente la propria inutilità, perché esso non riguarderebbe – per espressa
definizione normativa – le ipotesi di causalità commissiva: il rischio, pertanto, sarebbe quello di ritrovarsi con le stesse
oscillazioni giurisprudenziali lamentate attualmente, che non riguarderebbero più il versante dell’efficacia causale
dell’omissione, bensì quello dell’efficacia causale dell’azione. Accanto a questo primo aspetto di criticità, poi, si deve
segnalare, come già anticipato, il pericoloso inserimento, nel contesto di una norma dedicata esclusivamente
all’elemento oggettivo del reato, di valutazioni che invece attengono evidentemente al tema della colpa. È infatti chiaro
che una regola come quella citata in precedenza, che ruota attorno alla natura “obiettivamente ingiustificata”
dell’omissione, sulla base delle “regole scientifiche e di esperienza riguardanti la natura e l’efficacia dell’intervento o
del trattamento”, non sia in realtà una regola in tema di nesso causale, bensì un principio relativo all’accertamento della
colpa. Ma se le cose stanno così, allora non si vede davvero l’opportunità di intervenire sulle norme in tema di causalità
– con tutti i problemi metodologici e dogmatici richiamati in precedenza – e non su quelle in tema di elemento
soggettivo del reato (art. 43 c.p.), dettando delle regole volte a chiarire in modo più specifico i contenuti della diligenza
del medico, così da ottenere – realmente e non solo in apparenza – il risultato di auspicata “tipizzazione dell’illecito
professionale”.
Accanto alla proposta di modifica dell’art. 40 c.p., il citato progetto di riforma prevedrebbe l’inserimento di
ben tre commi nel corpo dell’art. 41 c.p. Anche su questo fronte, tuttavia, sembra possibile esprimere una serie di
perplessità, che ripropongono e in parte sviluppano quelle già illustrate in precedenza. In particolare, non pare
condivisibile la premessa da cui prende le mosse l’intero intervento riformatore in tema di concause, e cioè che la regola
dell’equivalenza causale sancita dall’art. 41 c.p. – in base alla quale non è possibile effettuare alcuna “caratura” tra le
diverse cause di un evento, quando si tratti di antecedenti tutti necessari per il verificarsi dello stesso – sia una regola
“imposta da esigenze di politica legislativa indipendenti, se non in contrasto, col principio di legalità e con le garanzie
del diritto penale”. Un’affermazione del genere, invero, appare il frutto di un evidente errore prospettico, che nasce
dalla mancata considerazione di quelle conoscenze epistemologiche che, ormai acquisite da oltre trent’anni al dibattito
giuridico italiano – in particolare, grazie al volume di STELLA, Leggi scientifiche e spiegazione causale nel diritto
penale, Milano, 1975 –, non possono essere ignorate dal giudice nella determinazione del nesso causale tra condotta ed
evento. Ovvie ragioni di spazio non permettono di affrontare compiutamente il problema: tuttavia, è evidente che se un
comportamento (es.: la somministrazione di una terapia inappropriata) ha contribuito a cagionare l’evento lesivo (e ciò
possa essere dimostrato al di là di ogni dubbio ragionevole, secondo le cadenze illustrate dalle Sezioni Unite nella
sentenza del luglio 2002), esso è a tutti gli effetti – e non potrebbe non esserlo – una delle cause dell’evento, e ciò anche
in presenza di ulteriori e diverse cause, tutte ugualmente necessarie per il verificarsi dell’evento. Da questo punto di
vista, imporre al giudice di escludere la rilevanza causale del comportamento, in ragione della presenza di “altre cause”
ritenute preponderanti, sarebbe chiaramente una forzatura inammissibile, poiché – nuovamente – darebbe vita ad un
inaccettabile “diritto speciale” degli operatori sanitari. Ancora una volta, il terreno privilegiato per affrontare e
risolvere, in modo coerente con le categorie dogmatiche di teoria generale del reato, il problema delle lamentate
oscillazioni giurisprudenziali sulle concause, sembra essere quello della colpa, ovverosia della effettiva prevedibilità ed
evitabilità del singolo evento lesivo. Non è un caso, infatti, che il progetto di riforma citato, pur prevedendo una
modifica dell’art. 41 c.p. dedicato alle concause, ruoti in realtà attorno alla prevedibilità o meno dell’evento da parte
dell’agente, dettando nella sostanza una regola in tema di colpa.
Per accertarsene, è sufficiente leggere il primo dei commi di cui si propone l’inserimento nel corpo dell’art. 41 c.p.:“La
reazione oggettivamente imprevedibile dell’organismo, determinante l’inefficacia in concreto di un intervento o di un
trattamento medico-chirurgico eseguito, previa corretta diagnosi, secondo le regole tecnico-scientifiche che lo regolano,
costituisce causa sopravvenuta che esclude il rapporto di causalità in quanto sia stata da sola sufficiente a determinare
l’evento”. Come si vede, la disposizione in esame fa riferimento ad una “reazione oggettivamente imprevedibile” (i.e.:
imprevedibile da parte di chiunque), a fronte di un intervento chirurgico eseguito in base ad una corretta diagnosi e
secondo le regole tecnico-scientifiche dell’arte. Ma in una situazione del genere non è certo necessario prevedere una
clausola di “esclusione del rapporto di causalità”, per giungere ad una esenzione di responsabilità in capo al sanitario: le
regole generali in tema di colpa, infatti, sono già oggi sufficienti ad escludere la possibilità di muovere un rimprovero al
medico in una situazione come quella descritta, proprio perché non c’è alcuna negligenza che possa essere rilevata nella
sua condotta (evento imprevedibile e condotta conforme alle regole dell’arte). E ciò, si badi, non solo quando la
“reazione imprevedibile” dell’organismo sia stata “da sola sufficiente a determinare l’evento” (in tal caso, per escludere
la responsabilità del medico basterebbe già l’art. 41 cpv. attualmente vigente), ma anche quando, per ipotesi, il
trattamento chirurgico prescelto abbia effettivamente contribuito a cagionare l’evento, che senza di esso non si sarebbe
verificato (è l’ipotesi prevista dal secondo comma di cui si sollecita l’introduzione). La mancanza di prevedibilità,
infatti, non consentirebbe in ogni caso di muovere un rimprovero all’agente, che dovrebbe dunque (già sulla base delle
norme attualmente vigenti) essere prosciolto con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Anche l’ultima
disposizione in tema di concause, dedicata alle “condizioni cliniche” del paziente, suscita, per ragioni analoghe a quelle
fin qui illustrate, una serie di dubbi sulla sua effettiva utilità e coerenza sistematica. Essa distingue le “condizioni
cliniche simultanee ad un trattamento medico-chirurgico” da quelle “sopravvenute in dipendenza di fattori estranei al
trattamento”, stabilendo che le prime “escludono il rapporto di causalità, se l’intervento o il trattamento è eseguito nel
rispetto dei principi scientifici che lo regolano e in applicazione delle metodologie tecniche per esso prescritte”, mentre
le seconde determinano il medesimo risultato (esclusione del rapporto causale) “qualora siano oggettivamente
imprevedibili o, se ipoteticamente previste, siano state accettate dal paziente”. Come si vede, anche la norma in esame
sembra affetta dalla stessa pericolosa commistione, segnalata in precedenza, tra il profilo della causalità e quello della
colpa, che devono invece essere tenuti rigorosamente distinti. Tanto il riferimento al trattamento medico-chirurgico
eseguito “nel rispetto dei principi scientifici che lo regolano e in applicazione delle metodologie tecniche”, quanto il
di interventi riformatori che possano incidere su istituti generali del diritto penale (in particolare,
sull’imputazione causale dell’evento lesivo), e che finirebbero dunque per avere, fatalmente, un
impatto notevole su questioni e problematiche anche molto distanti da quelle relative al fenomeno
della medicina difensiva.
Il rapporto di causalità costituisce infatti un elemento oggettivo del reato e rappresenta
l’architrave su cui poggia l’intera categoria dei delitti d’evento. La disciplina vigente, così come
precisata dalla pronuncia delle Sezioni Unite penali penali del 10 luglio 2002, n. 30328 – che ha
ricostruito in modo analitico e coerente l’interpretazione da assegnare alle norme del codice penale
in materia – prevede che il giudice, attraverso il richiamo a leggi scientifiche o a massime
d’esperienza equiparabili a generalizzazioni scientifiche, sia in grado di affermare che l’evento
dannoso è conseguenza della condotta (attiva od omissiva) dell’imputato e che, senza tale condotta,
l’evento lesivo non si sarebbe verificato. Solo a queste condizioni egli potrà affermare la
responsabilità dell’imputato, viceversa dovrà assolverlo con la formula più ampiamente liberatoria.
È evidente, allora, che l’attuale assetto della responsabilità penale, per un qualsiasi reato
d’evento (non solo, dunque, le fattispecie di omicidio e lesioni), prevede, dal punto di vista della
causalità, soltanto due possibili esiti: o l’evento è conseguenza dell’azione/omissione dell’imputato,
e allora l’indagine del giudice potrà proseguire nell’accertamento degli altri elementi costitutivi del
richiamo a condizioni cliniche “oggettivamente imprevedibili” sono infatti chiari segnali che ciò che manca, nelle
ipotesi considerate dalla norma, è la rimproverabilità dell’evento lesivo in capo al medico: manca, in altri termini, il
requisito soggettivo (la colpa) che consentirebbe di addebitare l’evento infausto al sanitario. Parlare di “esclusione del
rapporto di causalità”, in ipotesi di questo genere, pare davvero una svista prospettica, poiché la sussistenza del nesso di
condizionamento è un requisito materiale che attiene esclusivamente all’elemento oggettivo del reato e che, si ripete, o è
presente (e allora si potrà proseguire nell’accertamento delle responsabilità soggettive), oppure è assente (e allora la
verifica giudiziale di responsabilità si concluderà già al primo stadio), senza che siano possibili, nell’attuale sistematica
dell’ordinamento penale italiano, ulteriori alternative (es.: un nesso di causalità materiale sussistente, ma “escluso” ex
lege per ragioni di politica del diritto). Ancora più problematica, infine, la previsione finale della “esclusione del
rapporto causale“ nell’ipotesi di condizioni cliniche sopravvenute che, pur essendo state previste come possibili, siano
state “accettate dal paziente”. Anche qui, infatti, appare impropria la scelta di intervenire sulla causalità e sulla
imputazione dell’evento dal punto di visto oggettivo, trattandosi – all’evidenza – di un problema riguardante il
“consenso dell’avente diritto” e dunque da risolvere, stando all’ottica accolta dal progetto patrocinato dall’Associazione
Italiana di Chirurgia, sul terreno dell’antigiuridicità del fatto e della operatività della causa di giustificazione di cui
all’art. 50 c.p.
Conclusivamente, il citato progetto di riforma della responsabilità professionale del medico sembra presentare, nella
versione attuale, una serie di problematicità che ne sconsigliano – tanto sul terreno della novella dell’art. 40 c.p., quanto
su quello della modifica dell’art. 41 c.p. – la promozione in sede legislativa, poiché darebbe luogo a notevoli anomalie
sistematiche e, verosimilmente, non riuscirebbe comunque a raggiungere gli obiettivi di chiarificazione e limitazione
della responsabilità per i quali è stato predisposto. Più fruttuosa e praticabile, invece, ove si fosse inteso intervenire sulla
disciplina del reato omissivo, sarebbe stata l’idea di precisare in modo analitico i contenuti della posizione di garanzia
del medico – sulla scia di quanto già previsto nel Progetto di Riforma del codice penale elaborato dalla Commissione
Grosso –, cercando altresì di individuare delle regole di diligenza il più possibile precise, alla violazione delle quali
dovrebbero essere collegate delle sanzioni efficaci e dissuasive (magari in forma interdittiva e non strettamente
“penale”), svincolate dall’affermazione di responsabilità per l’evento lesivo eventualmente verificatosi. Una
prospettazione di tal genere avrebbe verosimilmente un forte effetto deflattivo sul contenzioso giudiziale, perché – una
volta previste delle fattispecie volte a sanzionare la mera condotta non conforme a diligenza (ovviamente punite in
misura meno grave rispetto ai reati d’evento) – i tentativi giurisprudenziali di rendere più flessibili le previsioni
codicistiche in tema di causalità sarebbero verosimilmente destinati a diminuire in modo considerevole, essendo
disponibili altre strade, ben più facilmente praticabili.
reato (in primis, nel caso della colpa professionale del medico, la effettiva negligenza
dell’imputato), oppure l’evento non è conseguenza dell’azione/omissione dell’agente, e allora
mancherà lo stesso elemento oggettivo del reato ipotizzato.
Alla luce di ciò, sembrerebbe davvero una scelta singolare, quella di introdurre una norma
che intervenisse appositamente per escludere, in presenza di determinate condizioni, la sussistenza
“giuridica” del rapporto di causalità materiale tra l’omissione di un trattamento medico-chirurgico e
la morte o le lesioni del paziente. Una regola di questo genere, infatti, costituirebbe una vistosissima
e ben difficilmente giustificabile eccezione all’intero sistema di imputazione penale degli eventi
lesivi, finendo per realizzare una sorta di “diritto speciale” degli operatori sanitari che si porrebbe in
evidente stridore con principi costituzionali fondamentali.
Le considerazioni che precedono concorrono dunque a spiegare perché, tra le svariate
opzioni prospettabili in vista di un contenimento del problema della medicina difensiva, si sia scelta
quella di un intervento legislativo più specifico che, introducendo nel tessuto del codice penale
(all’art. 590 ter) una fattispecie autonoma dal titolo «Morte o lesioni come conseguenza
dell’esercizio di una professione sanitaria», provveda a disciplinare in maniera innovativa i profili
della responsabilità penale “per colpa” del sanitario, spezzando quel meccanismo vizioso che, nella
vigenza dell’attuale normativa, ha consentito (e, per certi aspetti, favorito) il preoccupante aumento
dei comportamenti di medicina difensiva.
La scelta delineata nel presente Progetto di riforma parte dalla considerazione che un
eccessivo sindacato dell’autorità giudiziaria penale sull’attività del sanitario, lungi dall’assicurare
una tutela più efficace della salute dei cittadini, finisce col determinare risultati contrari a quelli
auspicati, favorendo l’insorgere di atteggiamenti “difensivi” da parte del medico, il quale viene
spinto a preoccuparsi maggiormente della propria “incolumità giudiziaria”, piuttosto che della
salute del paziente affidato alle sue cure.
Già questa considerazione potrebbe bastare per giustificare una qualche forma di limitazione
dell’ambito di responsabilità nell’esercizio dell’attività medica. In aggiunta, peraltro, si deve anche
osservare come la necessità di delineare un ambito, quanto più possibile chiaro e determinato, di
astensione del diritto penale dal giudizio sull'
attività del sanitario discenda, come già sottolineato,
dalla rilevanza sociale di questa, nonché dalla diffusa constatazione della difficoltà di distinguere gli
eventi avversi dovuti a un errore “colposo” del sanitario da quelli legati al semplice svolgimento di
un’attività intrinsecamente rischiosa qual è l’attività medica.
Si è osservato, in proposito, che «poiché ogni diagnosi che viene effettuata da un clinico è
sempre caratterizzata da una certa probabilità di essere vera, essa è anche sempre caratterizzata
da una certa probabilità di essere falsa. Se, allora, i valori della probabilità variano secondo un
continuum da 0 a 1, a quale valore di probabilità si potrà dire che un medico è responsabile o
addirittura colpevole per aver sbagliato diagnosi?»10.
Il tutto è ulteriormente complicato dalla assenza in Italia di rilevazioni attendibili circa il
tasso di errori in ambito medico, il ché è indicativo di un atteggiamento culturale orientato più alla
repressione che alla prevenzione, estremamente pericoloso in un ambito che dovrebbe, al contrario,
essere caratterizzato da un procedimento continuo di apprendimento dai propri errori, secondo i
paradigmi popperiani oggi sviluppati dagli studiosi di teoria delle organizzazioni.
L'
intervento riformatore deve, dunque, farsi carico di adeguare il complessivo assetto
normativo all'
alto valore sociale dell'
atto medico e alla complessità intrinseca della scienza e della
pratica medica.
Il versante della colpa è dunque sembrato quello più indicato per dar vita a un nuovo
equilibrio tra esigenze generalpreventive e tutela della professione medica, tra il proprium del
rimprovero penale, come strumento che veicola inevitabilmente un’alta efficacia stigmatizzante nei
confronti della persona, e il suo essere, conseguentemente e necessariamente, extrema ratio di tutela
contro specifici e frammentari fatti lesivi di beni giuridici. È proprio attraverso una ridefinizione
della colpa rilevante in ambito medico che sembra possibile intervenire lungo quella prospettiva ex
ante che è propria delle regole cautelari fondanti la responsabilità colposa e così riscrivere, nel
rispetto del principio di legalità, lo spazio del diritto penale nell’ambito degli errori in medicina.
Tale attitudine della colpa a divenire il centro di un possibile intervento riformatore dipende,
a ben vedere, dalla stessa origine e fondamento delle regole cautelari della cui violazione di discute.
Esse, infatti, altro non sono che il precipitato tecnico di un bilanciamento, cui partecipa l’intero
ordinamento, del «valore o l’utilità dell’attività esercitata da una parte con il tipo e le dimensioni
del possibile danno dall’altra, con un peso decisivo assegnato al grado di probabilità del
verificarsi della lesione (e, sia pure in parte, altresì al grado di probabilità di raggiungere lo scopo
proprio dell’attività)»11.
10
FEDERSPIL - VETTOR, Modi dell'
errore clinico e responsabilità medica in Medic, 1998, p. 223. Secondo una opinione
specificamente penalistica potrebbe distinguersi tra «errore» e «sbaglio» in questi termini: «il primo è insito fatalmente
nella relatività della scienza come tale, il secondo invece si riferisce soltanto alle attività per i quali una soluzione è stata
trovata. Potremmo anche dire, con il linguaggio giuridico, che mentre l'
errore è tale solo ex post, lo sbaglio lo è anche
ex ante.» (DI LANDRO, I criteri di valutazione della colpa penale del medico, dal limite della gravità ex art. 2236 c.c.
alle prospettive della gross negligence anglosassone in Ind. Pen., 2004, p. 733 ss., 757.) Alla luce di questa
impostazione può, perlomeno, affermarsi che non possono essere addebitati al medico i fallimenti (o i danni derivanti da
atti) terapeutici, diagnostici, chirurgici che siano ex ante convalutati nella stessa previsione – a livello scientifico e
pratico – di determinate terapie, diagnostiche e pratiche chirurgiche. Sul tema dell’errore umano, vedi anche, da ultimo,
CATINO, Miopia organizzativa, cit., passim.
11
FORTI, Colpa ed evento nel diritto penale, Milano, 1990, p. 255 ss.
Peraltro, questa prospettiva di maggior tutela della prestazione sanitaria – ma il discorso
potrebbe valere, de iure condendo, anche per altre attività professionali12 – attraverso un peculiare
bilanciamento degli interessi in gioco non è, già oggi, estranea al nostro ordinamento. Come noto,
infatti, l'
art. 2236 c.c.13, rubricato «Responsabilità del prestatore d'
opera», dispone che «se la
prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'
opera non
risponde dei danni, se non in caso di dolo o di colpa grave».
La rilevanza e l'
interpretazione di questa disposizione in sede penale è stata ed è piuttosto
discussa. Senza che sia possibile dilungarsi troppo su tale aspetto, in questa sede sembra comunque
opportuno riassumere, seppur brevemente, i termini del dibattito dal quale ha tratto ispirazione la
proposta di riforma avanzata dal CSGP, assumendo, come punto di riferimento iniziale, le
indicazioni espresse dalla Corte Costituzionale con la notissima sentenza interpretativa n. 166 del
1973.
12
Questa prospettiva di introduzione, in via sperimentale, in alcuni settori particolarmente delicati, del limite della colpa
grave sembra condivisa anche dalla Commissione Pisapia per la riforma del codice penale (istituita con d.m. 31 luglio
2006): «Mentre, nel codice vigente, la figura della colpa cosciente si risolve unicamente in una aggravante del reato
colposo, nel presente progetto la colpa grave rappresenta una nozione a cui, in alcuni settori, la Commissione pensa di
agganciare la condizione della incriminazione stessa del reato colposo. A ben vedere, infatti, l’opportunità politicocriminale di far dipendere lo stesso «an» della punibilità dalla presenza di una colpa grave dovrebbe essere presa
seriamente in considerazione nel ripensare i modelli di disciplina penale di alcuni settori tecnicamente complessi,
notoriamente caratterizzati dalla difficoltà di prova del nesso causale e, nel contempo, dall’esigenza di bilanciare in
maniera equilibrata l’esigenza del controllo penale col mantenimento di adeguati margini di libertà di azione
(emblematico, com’è facile intuire, il settore della responsabilità medica; si pensi anche al settore della criminalità
economica). In dottrina, da ultimo, pare condividere questa prospettiva CASTRONUOVO, La colpa penale, Milano, 2009,
p. 556.
13
Sull'
argomento specifico la letteratura è decisamente vasta. Partendo dall'
imprescindibile CRESPI, La colpa grave
nell'
esercizio dell'
attività chirurgica in Riv. it. dir. proc. pen., 1973, p. 255, tra i contributi più recenti e rilevanti si
vedano: IADECOLA Colpa medica e adeguata scelta del perito nel processo in Giur. Merito 2007; ID., voce Colpa
professionale (dir. pen.) in Cassese S. (dir.) Dizionario di diritto pubblico, II, Milano, 2006, p. 961 ss.; SALCUNI,
Aporie e contraddizioni in tema di colpa professionale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2000, p. 1594 ss.; VITALE,
Responsabilità e rischi professionali del chirurgo in Cass. pen., 2000, p. 1866; PIERRI, Riflessioni in tema di
applicabilità dei principi dell'
art. 2236 c.c., in Riv. Trim. Dir. Pen. Econ., 2005 p. 179; ANGIONI, Note sull'
imputazione
dell'
evento colposo con particolare riferimento all'
attività medica in Studi in onore di Giorgio Marinucci, Milano 2006,
p. 1279 ss.; DI LANDRO, I criteri di valutazione della colpa penale del medico, dal limite della gravità ex art. 2236 c.c.
alle prospettive della gross negligence anglosassone in Ind. Pen. 2004 p. 733 ss.; CRESPI, I recenti orientamenti
giurisprudenziali nell'
accertamento della colpa professionale del medico-chirurgo: evoluzione o involuzione? in Riv. it.
Med. Leg.,1992, p. 785 ss.; F. SIRACUSANO, Ancora sulla responsabilità colposa del medico: analisi della
giurisprudenza sulla forma e i gradi della colpa in Cass. pen., 1997, p. 2804 ss.; BLAIOTTA, Art. 43 in Lattanzi - Lupo
(dir.) Codice penale. Rassegna di giurisprudenza e di dottrina Vol. I, tomo, I, Milano, 2000, pp. 336-342; VENEZIANI, I
delitti contro la vita e l’incolumità individuale. I delitti colposi in Marinucci – Dolcini (dir.), Trattato di diritto penale.
Parte speciale, vol. III, tomo II, Padova, 2003, p. 322 ss.; FRESA, La responsabilità penale in ambito sanitario in
Cadoppi - Canestrari – Papa (dir.), I reati contro la persona, I, Reati contro la vita e l’incolumità individuale, Torino,
2006, p. 615 ss.; LUNGHINI, Art. 43, in Dolcini – Marinucci (a cura di) Codice penale commentato, Milano, 2006, p. 433
ss.; TASSINARI, Rischio penale e responsabilità professionale in medicina in Canestrari S, Fantini M.P. (a cura di), La
gestione del rischio in medicina. Profili di responsabilità nell’attività medico-chirurgica, Milano, 2006, p. 1 ss.
In tale sentenza, la Corte costituzionale14, respingendo la interpretazione allora prevalente in
giurisprudenza – secondo cui colpa penalmente rilevante sarebbe stata da considerarsi soltanto
quella propriamente grossolana – ritenne di poter ancorare l'
interpretazione della norma ad un
corretto bilanciamento degli interessi in gioco: «la particolare disciplina in tema di responsabilità
penale desumibile dagli artt. 589 e 43 c.p., in relazione all'
art. 2236 c.c., per l'
esercente una
professione intellettuale quando la prestazione implichi la soluzione la soluzione di problemi
tecnici di particolare difficoltà, è il riflesso di una normativa dettata di fronte a due opposte
esigenze: quella di non mortificare l'
iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie
del cliente in caso di insuccesso e quella inversa di non indulgere verso non ponderate decisioni o
riprovevoli inerzie del professionista stesso. Ne consegue che solo la colpa grave, e cioè quella
derivante da errore inescusabile, dalla ignoranza dei principi elementari attinenti all'
esercizio di
una determinata attività professionale o propri di una data specializzazione, possa nella indicata
ipotesi rilevare ai fini della responsabilità penale».
In virtù di questa decisione, per circa un decennio, la giurisprudenza si orientò nel senso di
richiedere una imperizia grave e di ritenere, invece, sufficiente anche una lieve negligenza o
imprudenza per affermare la responsabilità del medico.
Non tardò, tuttavia, ad emergere, in dottrina e in giurisprudenza, un orientamento – che oggi
pare prevalente specie in quest'
ultima15 – teso ad escludere la rilevanza dell'
art. 2236 c.c. in sede
penale. Vari gli argomenti: l’eccezionalità della norma; l'
assenza nel codice penale di qualsivoglia
riferimento al grado della colpa per decidere sull'
an della responsabilità ma solo, ex 133 c.p., sul
quantum; il principio di uguaglianza, che impedirebbe di configurare aree sottratte alla generale
rilevanza anche della colpa lieve.
A questo orientamento, la dottrina ha variamente replicato, opponendo, sopratutto in virtù
del principio penalistico di extrema ratio, l'
irrazionalità di un'
interpretazione che consenta di
chiamare a rispondere il medico nel processo penale e, contemporaneamente, ne escluda
qualsivoglia responsabilità civilistica16.
14
La Corte costituzionale in questa sentenza sembra aver fatto proprio l'
orientamento di CRESPI, La colpa grave
nell'
esercizio dell'
attività chirurgica, cit., p. 261, il cui pensiero può riassumersi nella formula: «quanto maggiori le
difficoltà del compito, tanto più indulgente il giudizio del magistrato sulla perizia dell'
agente, ma tanto più severo
quello sulla diligenza e prudenza spiegate nel medesimo.»
15
Tra le tante, si vedano: Cass., n. 39627/2002; Cass., n. 28617/2004; Cass., n. 39592/2007.
16
In particolare è sembrato inconcepibile che, ove si consideri irrilevante in sede penale l'
art. 2236 c.c., non possa poi
risarcirsi, una volta che sia stata affermata la responsabilità penale dell’imputato, il danno derivante da reato, così
generando una macroscopica violazione dell'
art. 185 c.p. In questo senso, da ultimo, ANGIONI, Note sull'
imputazione
dell'
evento colposo con particolare riferimento all'
attività medica, cit., p. 1279 ss., p. 1296. A detta di Angioni,
peraltro, l'
art. 2236 «non rompe l'
equilibrio e la validità dell'
ancoraggio alla figura dell'
homo eiusdem professionis et
condicionis : in situazioni di particolare difficoltà anche tale professionista modello può frequentemente incorrere in
errori minimi di conoscenza o di esecuzione. Piuttosto, va sempre tenuto in conto che di fronte a un caso clinico o
Anche ove, peraltro, la giurisprudenza si orientasse per l'
applicabilità in sede penale dell'
art.
2236 c.c., rimarrebbe, comunque, decisamente problematica la definizione di quelle «prestazioni di
speciale difficoltà», cui la norma subordina la limitazione alla colpa grave della responsabilità del
medico, specie ove si tenga conto delle interpretazioni iper-restrittive cui quel concetto si presta17.
La descritta situazione normativa e giurisprudenziale appare dunque ben lontana da quel
corretto e necessario bilanciamento – così come indicato dalla Corte costituzionale – delle due
istanze fondamentali, che si confrontano nella definizione del quadro di responsabilità del medico:
da una parte, «non mortificare l'
iniziativa del professionista col timore di ingiuste rappresaglie del
cliente in caso di insuccesso» e, dall'
altra, «non indulgere verso non ponderate decisioni o
riprovevoli inerzie del professionista stesso» (Corte Cost. n. 166 del 1973).
Lo strumento più congruo per introdurre nel nostro ordinamento un nuovo contemperamento
dei contrapposti interessi sembra, dunque, quello di agire sui criteri della imputazione colposa, che,
per loro stessa natura, esprimono l'
operatività di un bilanciamento normativo operato alla stregua
dell'
intero ordinamento.
Rispetto agli elementi caratterizzanti la colpa, infatti, è possibile esprimere un giudizio di
minore o maggiore rimproverabilità – soggettiva od oggettiva – del comportamento tenuto rispetto a
quello doveroso in base all’homo ex ante preso in considerazione. Così, l’individuazione della
misura del concreto scostamento dalla personificazione dell’ordinamento nella situazione concreta,
sembra in grado di consentire, da parte dell’interprete, l’individuazione di un livello al di là del
quale la condotta del soggetto può assumere senz’altro la caratteristica della «gravità»18.
Proprio partendo da tale consapevolezza, il Progetto di riforma elaborato dal CSGP prevede,
all’art. 2, comma 1, che «L’esercente una professione sanitaria che, in presenza di esigenze
terapeutiche, avendo eseguito od omesso un trattamento, cagioni la morte o una lesione personale
del paziente è punibile ai sensi degli art. 589 e 590 solo in caso di colpa grave».
Attraverso tale disposizione viene dunque fissato un limite espresso di rilevanza penale della
colpa del sanitario, che – focalizzandosi esclusivamente sul disvalore della condotta (si è scelto
chirurgico di speciale difficoltà il medico che comunque intervenga e operi potrebbe incorrere in un'
ipotesi di colpa per
assunzione, ove il caso appaia al di sopra delle sua capacità professionali. Pertanto, se così è, l'
area di operatività dell'
art
2236 c.c. viene a ridursi alle situazioni di repentinità ed di emergenza, dove cioè urga l'
immediato intervento ovvero la
difficoltà della prestazione si manifesti solo in corso d'
opera, e non ci sia per il medico agente la possibilità spazio
temporale di chiedere l'
ausilio o la consulenza di un espertissimo del settore».
17
Si veda, ad esempio, Cass. Civ., n. 2428/1990: «il medico risponde per colpa grave quando il caso concreto sia
straordinario od eccezionale, sì da essere non adeguatamente studiato nella scienza medica e sperimentato nella
pratica, ovvero quando nella scienza medica siano proposti e dibattuti diversi, ed incompatibili tra loro, sistemi
diagnostici, terapeutici e di tecnica chirurgica, tra i quali il medico opera la sua scelta».
18
Cfr. MANTOVANI, Colpa (voce) in Dig. Disc. pen. vol. II Torino 1988 p. 313. Nello stesso senso anche PADOVANI, Il
grado della colpa in Riv. it. dir. proc. pen., 1969 p. 819 ss.
infatti di non prevedere risposte sanzionatorie diverse a seconda della gravità dell’evento lesivo
cagionato) – consentirà verosimilmente di ottenere una significativa riduzione dei comportamenti di
medicina difensiva.
Si tratta, evidentemente, di una scelta molto forte di riduzione del perimetro di rilevanza
penale della colpa medica (in ipotesi, anche la morte del paziente, se conseguenza di una condotta
solo lievemente colposa da parte del sanitario, resterebbe penalmente irrilevante), ma essa non si
connota come un irragionevole privilegio riconosciuto ad una determinata categoria professionale,
bensì come un riconoscimento delle peculiarità dell’attività terapeutica e, soprattutto, delle
conseguenze perniciose che derivano dai comportamenti di medicina difensiva.
Senza incidere sulle cornici edittali degli artt. 589 e 590 c.p., che dunque resterebbero
immutate, il Progetto di riforma persegue infatti una valorizzazione del principio di extrema ratio,
ritenendo opportuno riservare l’intervento dell’autorità giudiziaria penale soltanto in relazione a
quei comportamenti del sanitario che siano caratterizzati da un elevato coefficiente di
rimproverabilità, tale da far ritenere irrimediabilmente compromessa e “tradita” quell’alleanza
medico-paziente che costituisce il fondamento di ogni corretto intervento terapeutico.
Quanto alla individuazione dei profili che connotano la gravità della colpa, si è scelto –
nonostante si tratti di concetti che hanno già trovato una discreta elaborazione giurisprudenziale – di
fornire ugualmente una definizione, contenuta nell’art. 2 comma 2 del Progetto: in particolare, si è
stabilito che «ai sensi del presente articolo la colpa è grave quando l’azione o l’omissione
dell’esercente una professione sanitaria è inosservante di fondamentali regole dell’arte e ha
realizzato un rischio manifestamente irragionevole per la salute del paziente».
Ci si basa, dunque, su un duplice requisito: da un lato, la macroscopica violazione dei
fondamenti della lex artis, quale coefficiente di rimproverabilità soggettiva del sanitario (che
avrebbe dovuto senz’altro osservare la regola cautelare violata, proprio perché tale regola si connota
come
un
“fondamento”
dell’esercizio
dell’attività
professionale);
dell’altro,
l’avvenuta
concretizzazione del rischio in tal modo creato – che deve essere contraddistinto da una evidente,
palmare irragionevolezza rispetto ai possibili benefici per la salute del paziente – in uno degli eventi
avversi presi in considerazione dalla norma (morte o lesioni)19.
19
Nel concetto di «concreta realizzazione del rischio», si vuole qui ricomprendere anche il rischio che residui dopo
l'
impiego dei mezzi e delle capacità professionali del medico, la cui “comune riconoscibilità” derivi quindi dal riscontro
di un difetto di idoneità tecnica dei mezzi impiegati durante l'
esecuzione dell'
atto medico. La riconoscibilità del “rischio
iniziale”, ossia sorto nel momento in cui viene avviato il trattamento non basta dunque per la configurabilità della colpa,
richiedendosi altresì la riconoscibilità del rischio anche dopo l'
impiego da parte del medico dei mezzi diagnostici e
terapeutici diretti a “tenerlo sotto controllo”. Sul punto, Cass. Sez. IV, 15 maggio 1977, in Giur.it., 1978, II, 294, come
cit. in CRESPI, voce Medico-chirurgo, in Dig. Pen., Torino, 1993, vol. VII, p. 594, secondo cui il rischio che si fa
correre al paziente deve essere sotto il costante controllo del medico in ogni momento della sua evoluzione. Vd. anche
Attraverso questa duplice connotazione, si ritiene di aver delineato un percorso di
accertamento della gravità della colpa in grado di orientare adeguatamente l’interprete, consentendo
di superare quelle perplessità che hanno indotto una parte della dottrina, apertamente scettica sulla
possibilità di distinguere adeguatamente la colpa grave dalle altre forme di colpa, ad affermare che
«in difetto di canoni puramente logici, il giudizio dovrà largamente ispirarsi ad intuizioni
emotive»20.
Non ci si nasconde, naturalmente, l’inevitabile elasticità che il parametro normativo così
individuato può assumere nelle concrete applicazioni giurisprudenziali: ciò non significa, tuttavia,
che la norma penale debba rinunciare a esercitare la propria funzione di individuazione di un
criterio valutativo generale, idoneo ad orientare la prassi in modo sufficientemente stringente. Al
contrario, tale strada sembra l'
unica possibile espressione del principio di legalità e della necessaria
funzione di orientamento della legge penale in materie caratterizzate da un altissimo grado di
tecnicità e da una fisiologica, inestirpabile, incertezza scientifica21.
In particolare, se le regole cautelari esprimono, come si è già detto, il bilanciamento del
«valore o
[del]l’utilità dell’attività esercitata, da una parte, con il tipo e le dimensioni del
possibile danno, dall’altra»22, sembra chiaro che qualsiasi opera di delimitazione normativa della
responsabilità in ambito sanitario non possa che avvenire attraverso l’assegnazione, da parte
dell’ordinamento, di un peso diverso all'
attività potenzialmente lesiva di beni giuridici, in funzione
dell’importanza della regola cautelare violata e dell’effettiva concretizzazione di tale violazione in
un evento lesivo per il paziente. È solo attraverso un’adeguata gradazione dell’elemento normativo
della colpa che possono, in definitiva, trovare adeguata composizione i configgenti interessi che
vengono in rilievo in ambito medico.
App. Milano, 7 gennaio 1977, Bariatti, come cit. in RIZ, voce Medico (IV), in Enc.Giur. Treccani, p. 4.
Correlativamente, incorrerà nella responsabilità colposa il medico che abbia omesso di seguire con diligenza e prudenza
il decorso della malattia e, quindi, non si sia posto nella condizione di controllare i rischi che potessero sorgere dopo
l'
avvio del trattamento (v. Cass., 6 febbraio 1979, Andria, in Cass. pen. Mass., 1981, 548). Si ritiene che il requisito
della realizzazione del rischio possa assorbire anche la valutazione che il rischio iniziale fosse irragionevole, tenuto
conto del bilanciamento. Per una recente applicazione giurisprudenziale del criterio della concretizzazione, v. Cass., 19
maggio 2005, Pauletti, in Ced n. 232438.
20
Cfr. GALLO, Colpa (voce) in Enc. Dir. vol. VII, Milano 1960 p. 331. Queste difficoltà sono segnalate anche da una
parte della dottrina medico-legale, che pone in rilievo come, nella prassi, si ponga maggiore attenzione al disvalore
dell’evento che non al disvalore della condotta: «Quali parametri tecnici di riferimento autenticamente medico-legali
esistono per giudicare la gravità della colpa del medico? Non sarà forse la gravità delle conseguenze morbose che alla
condotta medica sono addebitate? Criteri oggettivi e seri per l’individuazione della gravità dell’eventuale colpa non
sussistono, per cui la decisione resta affidata a valutazioni molto discrezionali» (FIORI - D’ALOJA In tema di cosiddetta
certezza del diritto: la colpa grave del medico, ovvero in qual modo le buone intenzioni del legislatore sono state
vanificate e tramutate in danno in Riv. it. Med. Leg. 2000 p. 1317 ss.).
21
Sulla necessità della introduzione del limite della colpa grave anche come realizzazione del principio di sussidiarietà
dell'
intervento penale e del principio di colpevolezza, si veda DONINI, Teoria del reato. Un’introduzione, Milano, 1996,
spec. p. 78, p. 368.
22
FORTI, Colpa ed evento, cit., p. 255 ss.
Del resto, come osserva autorevole dottrina d'
oltralpe23, se il «predicato della colpa grave
(Leichtfertigkeit) è primariamente quello di una azione particolarmente pericolosa» e tuttavia la
rilevanza del pericolo ai fini dell'
imputazione penale dipende innanzi tutto dal significato sociale
dell'
attività rischiosa esercitata, la limitazione della responsabilità penale dell'
esercente una
professione sanitaria alla sola colpa grave rispecchia una tale elevazione del livello di rischio
consentito, sulla base del valore sociale della attività svolta.
Un importante precedente in questa direzione può rinvenirsi nel Progetto Pisapia di riforma
della parte generale del codice penale, laddove si fa espresso riferimento ad una possibile
normativizzazione, in via generale, della colpa grave come criterio di imputazione soggettiva,
stabilendo che: «la colpa sia grave quando, tenendo conto della concreta situazione anche
psicologica dell’agente, sia particolarmente rilevante l’inosservanza delle regole ovvero la
pericolosità della condotta, sempre che tali circostanze oggettive siano manifestamente
riconoscibili»24.
Il Progetto di riforma elaborato dal CSGP, nel prevedere l’introduzione del criterio della
colpa grave come limite della rilevanza penale della nuova fattispecie di «Morte o lesioni come
conseguenza dell’esercizio di una professione sanitaria» (art. 590 ter c.p.), non trascura, peraltro, la
circostanza che, se la violazione di regole cautelari comporta, per definizione, l'
assunzione e la
realizzazione di un rischio «irragionevole» alla luce dell'
ordinamento, l’individuazione di tale sfera
di irragionevolezza del comportamento colposo non può che rimandare a una valutazione in
concreto – e non definibile una volta per tutte in astratto – del comportamento del soggetto in
relazione ai beni lesi.
L’individuazione di una nozione di colpa grave, tale da imporsi nella prassi, non potrà,
dunque, che prendere atto di questo fisiologico rimando dalla norma al caso e dal caso alla norma. E
tale movimento circolare potrà essere adeguatamente “indirizzato” mediante una formula che
evidenzi sia gli interessi di tutela della salute del paziente che il giudice deve prendere in
considerazione, sia, dall’altra parte, gli aspetti della «condotta» del sanitario che possano
contribuire a enucleare i profili di «gravità» e «irragionevolezza» del rischio realizzatosi nella
situazione concreta.
23
24
ROXIN, Strafrecht. Allgemeiner Teil4, p. 1094, p. 1077.
In proposito la relazione della commissione afferma: «In proposito si è constatato come la colpa cosciente (o con
previsione) non rappresenta necessariamente una forma più grave di colpa, potendo la colpa incosciente risultare, a
seconda delle circostanze, comparativamente più grave della colpa cosciente (è ben plausibile infatti considerare più
grave il fatto di chi, per sconsideratezza, negligenza o indifferenza, ignora le più elementari cautele in una situazione di
evidente pericolosità, rispetto a quello di chi si rappresenta una remota possibilità di verificazione di un evento lesivo).
Si è dunque incentrato il nucleo della maggior gravità della colpa nella «particolare rilevanza» dell’inosservanza delle
regole cautelari o della pericolosità della condotta (sul presupposto di una sua misurabilità): dati che, nella loro
Il grado di astrazione di ogni definizione possibile della colpa grave richiede dunque – anche
avendo a mente l’esperienza comparatistica25 – uno sforzo di approfondimento scientifico,
adeguatamente inserito nel contesto del caso concreto, da parte del singolo giudice, che rimanga il
più possibile legato «a criteri di accertamento rapportati alla natura e alle caratteristiche
dell’attività svolta ed al livello delle prestazioni concretamente esigibili dall’operatore, evitando di
introdurre nell’accertamento della colpa penale di limiti o parametri precostituiti che mal si
conciliano con la concretezza e la personalità che tale accertamento è destinato ad assumere»26.
L’affermazione del carattere di «regola fondamentale dell’arte medica», che dovrà essere attribuito
alla norma cautelare violata, così come la qualificazione del rischio in tal modo creato dal sanitario
come «manifestamente irragionevole», rappresentano gli elementi indispensabili affinché
27
l’ordinamento, attraverso la valutazione del giudice , possa ritenere meritevole di rimprovero
penale la condotta colposa del sanitario, proprio in virtù della manifesta, evidente, macroscopica
incongruità della scelta diagnostica e/o terapeutica effettuata.
Come si è anticipato nella Premessa di questa relazione, peraltro, il Progetto di riforma
elaborato dal CSGP non vuole risolversi in una semplice riduzione dell’area dei comportamenti di
evidenza, si sono riflessi nella sfera dell'
agente e che, comunque, costui avrebbe dovuto agevolmente percepire, sicché è
elevato anche il grado di colpevolezza (art. 13, lettera f)».
25
Quanto all'
Inghilterra, la forma di responsabilità più vicina alla colpa grave è la c.d. gross negligence. In una sentenza
relativa precisamente alla responsabilità medica (House of Lords, R. v. Adomako, 1995, n. 171) si afferma che l'
agente
può essere considerato responsabile per gross-negligence soltanto qualora «la [sua] condotta sia stata così negligente in
tutte le circostanze da integrare una condotta o un'
omissione grave penalmente rilevante». In Francia, dopo la riforma
del 2000, esistono due nuove tipologie di colpa: faute délibérée e faute caractérisée. A detta degli stessi proponenti
della riforma la faute caracterisée è stata strutturata appositamente per ridurre la sfera di responsabilità penale di
soggetti ricoprenti funzioni decisionali, oltre che degli stessi medici. Tale forma di responsabilità viene definita dalla
circolare interpretativa «Presentazione delle disposizioni della l. n. 647/2000 vota a precisare la definizione dei delitti
non intenzionali» (datata 11.10.2000) come: «un'
imprudenza, una negligenza che presentano una caratteristica
peculiare... la colpa deve presentare un certo grado di gravità, un carattere ben definito, un'
evidenza particolare, un'
intensità specifica. L'
esigenza di una colpa caratterizzata esclude quindi le colpe lievissime e lievi, la colpa semplice, la
mera distrazione». Da ultimo, in Spagna colpa grave e colpa semplice sono considerate separatamente dal legislatore;
ma, nonostante le importanti conseguenze che derivano dall'
ascrizione della responsabilità alle due categorie di colpa ne
manca una descrizione nel codice penale. A tale mancanza tentano di supplire la dottrina, affermando che per
imprudenza grave (corrispondente alla imprudenza temeraria del precedente codice) si deve intendere «la più grave
violazione dei doveri oggettivi di diligenza» (QUINTERO-OLIVARES – MORALES-PRATS, Comentario al Nuevo Còdigo
Penal, Madrid, 2004) e la giurisprudenza, piuttosto unanime non solo nel definire i contorni della colpa in generale, ma
anche nel delineare i criteri differenziali tra colpa grave e lieve. A questo proposito, ad esempio, il Supremo Tribunale
afferma testualmente quanto segue: «per risolvere la questione relativa al grado della colpa occorre fare riferimento sia
all'
elemento psicologico della stessa (dato dal poter sapere e dal poter evitare) sia all'
elemento normativo (ovvero sia il
dovere di diligenza richiesto). La colpa raggiunge il suo livello più alto quando si agisce con completa disattenzione,
quando si omettono le attenzioni più elementari richieste dalla situazione concreta, e si crea un'
ovvia sproporzione tra
lo scopo perseguito dall'
agente ed il pericolo o il danno arrecati ai beni giuridici protetti» (Tribunale Supremo, Sent.
17.11.1992, p. 2)
26
CAVE BONDI – CIPOLLONI, Delitti colposi e prestazioni d’opera professionali nel progetto di riforma del codice
penale in Riv. it. Med. Leg., 1998, p. 26.
27
Sembra piuttosto difficile, infatti, immaginare una ulteriore riduzione dello spazio di apprezzamento affidato al
giudice, magari attraverso la cristallizzazione in protocolli vincolanti o, addirittura, in testi di legge, delle ipotesi
specifiche di colpa grave: in ambito terapeutico, infatti, tali ipotesi non possono che possedere un valore sempre
relativo e condizionato dalla evoluzione della prassi. Così CAVE BONDI – CIPOLLONI op. e loc. citt.; nello stesso senso
medical malpractice penalmente rilevanti, ma punta a dar vita ad un complessivo riassetto del
contenzioso legato alla gestione del rischio clinico.
In quest’ottica, rivestono particolare importanza le norme contenute ai commi 3 e 4 dell’art.
2, che fissano, per tutte le ipotesi disciplinate dalla norma (i.e.: tanto per le lesioni, quanto per la
morte), sia la procedibilità a querela di parte (nel termine di sei mesi), sia una speciale causa di
estinzione del reato, connessa al positivo completamento di uno dei percorsi di giustizia riparativa
in ambito sanitario, dettagliatamente disciplinati nel Titolo III del Progetto (cui si rinvia).
In tal caso, viene normativamente prevista – mediante l’introduzione nel codice di procedura
penale di un art. 411 bis – una speciale ipotesi di richiesta di archiviazione del procedimento per
intervenuta estinzione del reato, da formularsi da parte del pubblico ministero, una volta sentiti il
querelante e la persona sottoposta alle indagini (art. 3 del Progetto).
3.2. Le modifiche alle disposizioni di attuazioni del codice di procedura penale di cui
all’art. 4 del Progetto. – Uno dei punti che è riconosciuto unanimemente tra i più problematici,
nell’accertamento della responsabilità del sanitario, è quello relativo all’ingresso, nel contesto del
processo penale, delle indispensabili conoscenze tecnico-scientifiche, mediante gli strumenti della
consulenza tecnica e della perizia.
Anche su questo tema il Progetto di riforma elaborato dal CSGP ha ritenuto opportuno
introdurre delle modifiche, contenute nell’art. 4, rivisitando gli articoli 67 e 73 delle norme att.
c.p.p. e prevedendo l’introduzione di un nuovo art. 73 bis.
La proposta di riforma nasce dalla consapevolezza che il tema della prova scientifica, nei
procedimenti penali per colpa medica, assume un rilievo sempre crescente, in dipendenza del
carattere specialistico del sapere cui il giudice attinge nella ricostruzione del fatto. La nomina dei
periti e, ancor prima, dei consulenti tecnici del pubblico ministero e delle parti private costituisce, il
più delle volte, il momento risolutivo per le scelte inerenti l’esercizio dell’azione penale ovvero per
il sindacato sulla colpevolezza.
La valutazione circa la competenza dell’esperto, in tale ottica, deve affidarsi a criteri di
natura oggettiva, che siano definibili ex ante e che orientino il sapere giudiziale nell’ambito tecnico
delle distinte specialità medico-chirurgiche. La necessità di garantire uno standard adeguato di
competenza professionale dei tecnici rispetto all’oggetto del procedimento suggerisce, anzitutto,
un’adeguata suddivisione delle competenze.
INTRONA, Metodologia medico-legale nella valutazione della responsabilità medica per colpa in Riv. it. Med. Leg.
1996, p. 1295 ss.
Questo risultato appare perseguibile mediante due scelte, in stretta connessione reciproca
l’una rispetto all’altra. Si ritiene essenziale, in primo luogo, il ricorso alla collegialità dell’organo
peritale, sì da imporre al giudice o all’inquirente la pertinenza delle competenze scientifiche
richieste dal caso concreto.
Si impedisce, così, che il perito o il consulente che non siano in possesso di un adeguato
grado di specializzazione tale da garantire un’appropriata capacità valutativa, possano essere
chiamati a esprimere un’expertise medica senza essere in possesso delle conoscenze tecnicoscientifiche più aggiornate. L’uso di parametri generalisti, propri della scienza medica di base, può
dar luogo a errori valutativi di non poco momento, soprattutto laddove la patologia oggetto di cura
afferisca a specialità molteplici, per natura o sequela.
Ciò impone, in seconda analisi, una scelta di tecnici afferenti a distinte scuole di specialità
medica, con l’unica costante della presenza di uno specialista in medicina legale, in modo da
consentire l’instaurazione di una sorta di ponte tra il thema decidendum e il campo medico secondo
categorie non solo tecniche, bensì anche giuridiche, riguardanti – in particolar modo, ma non
esclusivamente – il tema del nesso causale tra condotta (attiva/omissiva) ed evento e quello
dell’accertamento della colpa e del relativo grado.
La duplice opzione, collegialità e pluralità di settori d’afferenza, ha suggerito al CSGP la
modifica delle disposizioni regolamentari, attuative del codice di procedura penale, espressamente
dedicate alla materia, in particolar modo mediante l’inserimento di una normativa speciale, da
coordinare con le già presenti previsioni dettate in materia di perizia e consulenza tecnica del
pubblico ministero.
Si ritiene di dover, anzitutto, inserire la nuova previsione dell’art. 73-bis delle norme
attuative, che disciplina il collegio peritale nei procedimenti per omicidio e lesioni colpose
riconducibili alla professione sanitaria (art. 4, comma 4 del Progetto) e che stabilisce che: «Nei
procedimenti per morte o lesioni come conseguenza dell’esercizio di una professione sanitaria, ai
sensi dell’art. 590 ter cod. pen., il giudice, a pena di nullità, affida con ordinanza motivata
l’espletamento della perizia a un collegio composto da uno specialista in medicina legale e da uno
o più specialisti nelle singole materie oggetto del procedimento, da scegliere negli elenchi e
secondo le modalità di cui all’art. 67».
Come si vede, la norma sancisce il principio di collegialità e quello della pluralità di
competenze, con l’espressa nomina di un esperto in medicina legale. La previsione è posta a pena di
nullità dell’atto, nell’ottica di un’effettività che riempia di contenuto la discrezionalità vincolata
dell’autorità giudiziaria.
Si tratta, dunque, di una previsione non avente esclusiva valenza organizzativa del lavoro
giudiziario, bensì destinata a incidere in maniera diretta sulle modalità di ricostruzione del fatto
demandate al giudice, e – di conseguenza – coperte dalla sanzione processuale della nullità per il
caso dell’inosservanza. In chiusura, l’art. 73-bis norme att. c.p.p. richiama la previsione dell’art. 67
norme att., anch’essa in parte emendata, per la determinazione delle modalità di scelta dei periti che
siano in possesso di specifiche conoscenze tecniche: il giudice, per il combinato disposto degli artt.
221 c.p.p. e 67 comma 2 norm. att. c.p.p., ha l’obbligo di scegliere il perito tra gli iscritti
nell’apposito albo, anche se a tale criterio formale se ne affianca uno sostanziale e alternativo
fondato sull’impossibilità di trovare esperti nella materia di cui si controverte, ovvero, qualora siano
richieste particolari competenze nella specifica disciplina, potendo scegliere in modo autonomo, in
questo caso, una persona che presti preferibilmente la propria attività professionale presso un ente
pubblico.
La norma dell’art. 73-bis prevede che in ogni caso, e quindi senza eccezione alcuna, la
nomina del collegio peritale nei procedimenti per fatti di cui all’art. 590 ter c.p. avvenga in forma di
ordinanza motivata: l’organo giurisdizionale è tenuto a indicare in modo specifico le ragioni della
propria scelta, a pena di nullità relativa del provvedimento.
Secondo il disegno suesposto è poi da ripensare la modalità di formazione dei cataloghi
peritali di area medica: gli elenchi degli esperti in medicina legale, psichiatria e altre specialità
mediche dovranno essere forniti e periodicamente aggiornati dalle società scientifico-professionali
di appartenenza, in modo da consentire un ricambio periodico effettivo e la scelta dei esperti che
garantiscano un maggior affidamento anche sotto il profilo dell’aggiornamento e della competenza
(art. 4, comma 1).
Le garanzie previste per la formazione del collegio peritale valgono, nella prospettiva di
riforma, anche per la consulenza tecnica disposta dal pubblico ministero, di regola nella fase delle
indagini preliminari (art. 4, comma 3, del Progetto). La frequente non ripetibilità dell’accertamento
compiuto dalla parte pubblica per il tramite degli esperti e la rilevanza della dinamica dialettica
dell’incidente probatorio impongono l’estensione dei criteri già enunciati anche all’organo
inquirente, la cui ricerca è finalizzata, anzitutto, a sciogliere l’alternativa azione/inazione. In tal
senso si spiega la proposta di modifica dell’articolo 73 norme att. c.p.p., mediante l’inserimento di
un nuovo comma, finalizzato a rendere pienamente operative le disposizioni di cui agli articoli 67 e
73 bis anche nel caso di consulenza tecnica investigativa ovvero peritale.
Si è ritenuto opportuno, da ultimo, eliminare dal testo dell’art. 73 comma 1 norme att. c.p.p.
l’inciso «di regola», in modo da rendere del tutto speculare la modalità di nomina dei consulenti
tecnici da parte del pubblico ministero rispetto a quella periti: anche gli esperti della pubblica
accusa, pertanto, dovranno soddisfare i criteri di collegialità e pluralità delle competenze (art. 4,
comma 2).
4. Titolo III: Giustizia riparativa. – Il Titolo III del Progetto di riforma consta di ventuno articoli,
suddivisi in tre capi, e rappresenta il naturale completamento, in un’ottica di equilibrata disciplina
del fenomeno della medical malpractice e di efficace contrasto ai comportamenti di medicina
difensiva, delle previsioni contenute nel Titolo II e illustrate in precedenza.
4.1. La giustizia riparativa nel disegno politico-criminale del Progetto. – L’impianto
politico-criminale del Progetto di riforma ha suggerito l’introduzione di un sistema di «giustizia
riparativa», da cui dipende il prodursi dell’effetto estintivo del (nuovo) reato di «morte o lesioni
come conseguenza dell’esercizio di una professione sanitaria» (art. 2 del Progetto).
La disciplina del Titolo III si ispira ai principi internazionali in materia, espressi nelle
raccomandazioni delle Nazioni Unite28 e del Consiglio d’Europa29, nel rispetto altresì di quanto
disposto dalla Decisione Quadro 2001/220/GAI del Consiglio dell’Unione Europea relativa alla
posizione della vittima nel procedimento penale30.
Si ricorda fin d’ora che, secondo la definizione delle Nazioni Unite, con restorative justice
in criminal matters si fa riferimento a procedimenti nei quali «la vittima e il reo e, se opportuno,
ogni altro individuo o membro della comunità, leso da un reato, partecipano insieme attivamente
alla risoluzione delle questioni sorte con l’illecito penale, generalmente con l’aiuto di un
facilitatore»31.
In estrema sintesi, e ricorrendo ancora una volta ai Basic Principles dell’ONU, la giustizia
riparativa consente alle parti di pervenire a risposte concordate «quali la riparazione, le restituzioni,
28
UNITED NATIONS, ECONOMIC AND SOCIAL COUNCIL, Risoluzione n. 12/2002, recante i Basic Principles on the Use of
Restorative Justice Programmes in Criminal Matters.
29
CONSIGLIO D’EUROPA Raccomandazione 99(19) concernente la Médiation en matière pénale, adottata dal Comitato
dei Ministri del nel settembre 1999,.
30
Per un breve commento alle fonti internazionali, cfr. CERETTI - MAZZUCATO, Mediazione e giustizia riparativa tra
Consiglio d’Europa e Nazioni Unite, Dir.pen.proc., 2001, n. 6, pp. 772-776; più ampiamente: MANNOZZI, La giustizia
senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Milano, 2003; MAZZUCATO, Consenso
alle norme e prevenzione dei reati. Studi sul sistema sanzionatorio penale, Roma, 2005, p. 123 ss.; ID., Mediazione e
giustizia riparativa in ambito penale. Spunti di riflessione tratti dall’esperienza e dalle linee guida internazionali, in
PICOTTI – SPANGHER (a cura di), Verso una giustizia penale “conciliativa”. Il volto delineato dalla Legge sulla
competenza penale del giudice di pace, Milano, 2002, p. 85 ss.
31
UN Basic Principles, I, § 2: «Restorative process means any process in which the victim and the offender and, where
appropriate, any other individuals or community members affected by a crime, participate together actively in the
resolution of matters arising from the crime, generally with the help of a facilitator. Restorative justice may include
mediation, conciliation, conferencing and sentencing circles».
le attività socialmente utili, aventi lo scopo di corrispondere ai bisogni individuali e collettivi e alle
responsabilità delle parti e di realizzare la reintegrazione della vittima e del colpevole»32.
L’opzione a favore di un sistema di giustizia riparativa, e non di un organo di conciliazione
stragiudiziale volto a favorire il mero componimento transattivo delle controversie, è motivata da
ragioni politico-criminali e criminologiche che più avanti verranno chiarificate. E’ utile fin d’ora
segnalare che, con questa opzione, il metodo riparativo di risoluzione del conflitto qui proposto
viene iscritto all’interno degli scopi tipici di un sistema penale ‘orientato alle conseguenze’,
fugando – a garanzia di soggetti attivi e persone offese – il pericolo di improprie derive verso
privatizzazioni negoziali e monetizzazioni di vicende pur sempre penalmente rilevanti.
Quello qui illustrato è infatti un sistema per l’appunto di restorative justice in “criminal”
matters, dove cioè le ipotesi che danno causa tipicamente ai programmi riparativi sono dei reati e
dove questo modello di giustizia si fa carico di fornire una risposta – costruttiva – a responsabilità
propriamente penali.
Si tratta di un elemento distintivo di particolare novità, non solo – in tutta evidenza – rispetto
all’ordinamento italiano vigente, ma anche in rapporto ad altri ordinamenti che hanno sì optato per
metodi alternativi di risoluzione delle controversie, nel quadro però di una responsabilità medica di
pertinenza della tort law (es. Stati Uniti) o nel quadro di un ricorso a tali strumenti limitato ai soli
profili non penali di fatti pur qualificati come criminosi (es. Francia). Si osservi, inoltre, che la
«giustizia riparativa in ambito sanitario» di cui al Progetto del CSGP non si colloca neppure
nell’alveo della “difesa civica” per l’efficienza dell’amministrazione sanitaria, non essendo in nulla
simile a uno “sportello” a disposizione del cittadino nei rapporti con l’azienda ospedaliera, né di un
«tribunale del malato»33.
Con la scelta di innovare le modalità di risposta ai reati nascenti da responsabilità medica,
grazie alla previsione di strumenti riparativi “in ambito penale”, il Progetto del CSGP concilia le
istanze che hanno motivato la diffusione di pratiche alternative di dispute resolution34, con la
funzione di orientamento culturale alla rilevanza dei beni giuridici offesi svolto dai precetti penali.
32
UN Basic Principles, I, § 3: «Restorative outcome means an agreement reached as a result of a restorative process.
Restorative outcome includes responses and programmes such as reparation, restitution, and community service, aimed
at meeting the individual and collective needs and responsibilities of the parties and achieving the reintegration of the
victim and the offender».
33
Alcune Regioni e aziende sanitarie hanno avviato iniziative sperimentali anche concernenti metodi alternativi di
risoluzione dei conflitti in sanità: cfr., per esempio, REGIONE EMILIA ROMAGNA, AZIENDA SANITARIA REGIONALE,
Mediare i conflitti in sanità. L’approccio dell’Emilia Romagna, Dossier 158/2007, Bologna, 2007 (che ha previsto lo
svolgimento di corsi di formazione alla mediazione dei conflitti); REGIONE FRIULI VENEZIA GIULIA, AGENZIA
REGIONALE DELLA SANITÀ, Programma di gestione della sicurezza del paziente, Linee di gestione 2005, DGR
3234/2004 fra le quali compare «il coinvolgimento degli utenti/cittadini attraverso una revisione dell’attuale sistema di
valutazione delle proteste e lo sviluppo di modelli efficaci di comunicazione sulle attività di “risk management”»
(www.ars.sanita.fvg.it).
A ciò si aggiunga che la collocazione penalistica dell’intero sistema non si accompagna a finalità
repressive, bensì reca il corredo di garanzie tipiche dell’intervento penale, a ulteriore tutela di
soggetti attivi e passivi.
Ciò premesso, il Progetto si pone in linea di continuità con le macro tendenze evolutive più
interessanti espresse da diversi ordinamenti stranieri. In Australia35, Nuova Zelanda36, Gran
Bretagna37 e, per certi versi, negli Stati Uniti38, la disciplina del settore medico-sanitario, in risposta
agli eventi avversi e ai casi di malpractice, si muove verso l’adozione di politiche premiali di «open
disclosure»39, unite all’incentivazione di strumenti alternativi di risoluzione delle controversie per
attenuare le distorsioni derivanti da un eccesso di contenzioso che induce il professionista sanitario
a pratiche difensive e trascura, paradossalmente, le implicazioni umane tipicamente connesse agli
episodi di responsabilità medica.
Simile modello trova eco anche nell’Europa continentale: in Francia, per esempio, la cosiddetta
«Loi Kouchner»40, nel riformare il code de santé publique, ha introdotto apposite procedure di
34
Su cui infra par. 4, lett. b).
Cfr. BRAITHWAITE – HEALY – DWAN, The Governance of Health Safety and Quality: A Discussion Paper,
Commonwealth of Australia, 2005. Il documento offre una sintetica declinazione nel contesto sanitario dei modelli
cooperativi di regulation ed enforcement già illustrati, nel quadro di una sapiente integrazione “piramidale” di strumenti
di persuasione e di (residuale) repressione, in AYRES – BRAITHWAITE, Responsive Regulation: Transcending the
Deregulation Debate, New York, 1992, nonché in BRAITHWAITE, Restorative justice & Responsive Regulation, New
York, 2001. Le tesi di Braithwaite et al. sono riprese e raccomandate dalla Organizzazione mondiale della Sanità, nel
recente paper, Enforcemente of Public Health Legislation, WHO – Western Pacific Region, Geneva, 2006.
36
In Nuova Zelanda, un programma assicurativo nazionale, grazie al quale il danno subito viene “socializzato” con
ricadute contenute sul personale sanitario (Injury Prevention, Rehabilitation, and Compensation Act (2001), riformato
nel 2008: www.legislation.govt.nz), fa da contorno alla tutela dei pazienti lesi da condotte di medical malpractice, tutela
centrata sulla figura di un ombudsman indipendente (l’health and disability commissioner) cui sono demandati compiti
di composizione delle controversie (inclusa la mediazione) e di impulso al miglioramento dell’efficienza medica,
mediante poteri di segnalazione, ispettivi e di indirizzo: cfr. Health and Disability Commissioner Act (1994), Parts 2-4 e
il realativo Code of Health and Disability Services Consumers'Rights (per entrambi è in corso, nel 2009, la prescritta
procedura di revisione quinquennale: www.hdc.org.nz). Cfr., anche per i profili critici, OLIPHANT, Beyond
Misadventure: Compensation for Medical Injuries in New Zeland, (2007)15 Med. L. Rev. 357.
37
Cfr. Pre-Action Protocol for Clinical Disputes, 1998 (in particolare la quinta sezione dedicata ad «Alternative
Approaches to Settling Disputes), Access to Justice Act, 1999.
38
Numerosi Stati hanno adottato il ricorso preliminare, obbligatorio o facoltativo, a forme di arbitration o ad appositi
medical mediation panels (fra gli altri: Wisconsin, Pennsylvania, Connecticut, ecc.). Si ricorda anche l’interessante
progetto di legge National Medical Error Disclosure and Compensation (MEDiC) Program – Medic Act, presentato nel
2005 dagli allora senatori Hillary Clinton e Barack Obama, giunto al Committee on Health, Education, Labor, and
Pensions, ma non all’esame definitivo del Congresso (cfr. http://thomas.loc.gov/). Tra le previsioni di cui al MEDiC
Program, vi è l’obbligo in capo al medico di «disclose the matter to the patient, and offer to enter into negotiations for
fair compensation to the patient. The terms of negotiation for compensation assure confidentiality, protection for any
apology made by a health care provider to the patient within the negotiation period, a patient’s right to seek legal
counsel, and allow for the use of a neutral third party mediator to facilitate the negotiation».
39
AUSTRALIAN COMMISSION ON SAFETY AND QUALITY IN HEALTH CARE, Open disclosure Standard. A National
Standard for Open Communication in Public and Private Hospital, Following an Adverse Event in Health Care,
Commonwealth of Australia, 2003(2006).
40
Loi n. 2002-303 du 4 mars 2002.
35
composizione amichevole delle controversie41, mentre in Belgio la legge annovera espressamente,
tra i diritti del paziente, quello di ricorrere a una «funzione di mediazione»42.
Il trend evolutivo evidenzia un ulteriore elemento importante ai fini di questo Progetto: il
superamento della prospettiva meramente risarcitoria (e, dunque transattiva), troppo legata ancora
all’idea di un contenzioso “monetario” che può schiacciare il medico e lasciare comunque
insoddisfatte le vittime. Simile tendenza a superare la conciliazione a favore della restorative
justice rappresenta di per sé uno slittamento verso interessi e scopi più “penalistici”, ancorché non
punitivi, ed è motivata dalle forzature e dalle insidie di una gestione “civilistica” di questi peculiari
conflitti, oltre che da una attitudine marcata, in molti ordinamenti (non solo di common law), a
“socializzare” i danni subiti dai pazienti grazie ad appositi fondi e strumenti assicurativi, con
l’effetto di riconfigurare secondo nuove dinamiche le parti della controversia civile43.
Emerge in ogni caso l’attenzione per pratiche propriamente riparative e modelli di giustizia
“correttiva”, fino al concetto di «therapeutical jurisprudence»44. In altre parole: si riscontra un vivo
interesse per strumenti maggiormente capaci di garantire risposte adeguate ai bisogni reali dei
41
Code de la santé publique, Section 2: Procédure de règlement amiable en cas d'
accidents médicaux, d'
affections
iatrogènes ou d'
infections nosocomiales. Si vedano in particolare gli artt. L1142-4 ss., recanti la disciplina dell’apposita
«commission régionale de conciliation et d'
indemnisation des accidents médicaux, des affections iatrogènes et des
infections nosocomiales» incaricata della composizione stragiudiziale delle controversie che coinvolgono chiunque si
ritenga «victime d'
un dommage imputable à une activité de prévention, de diagnostic ou de soins» (art. L. L1142-7). La
commissione può avvalersi di mediatori esterni, cui delegare in tutto in parte i propri compiti (art. L.1142-5.
Sull’esperienza della mediazione in ambito sanitario in Francia, cfr. ROCHANT – CHEVALIER, La médiation médicale à
l'
hôpital.Un autre regard, Lamarre, 2008.
42
Loi du 22 août 2002 relative aux droit du patient, Art. 11: «§ 1er. Le patient a le droit d'
introduire une plainte
concernant l'
exercice des droits que lui octroie la présente loi, auprès de la fonction de médiation compétente. § 2. La
fonction de médiation a les missions suivantes: 1° la prévention des questions et des plaintes par le biais de la
promotion de la communication entre le patient et le praticien professionnel; 2° la médiation concernant les plaintes
visées au § 1er en vue de trouver une solution; 3° l'
information du patient au sujet des possibilités en matière de
règlement de sa plainte en l'
absence de solution telle que visée en 2°; 4° la communication d'
informations sur
l'
organisation, le fonctionnement et les règles de procédure de la fonction de médiation; 5° la formulation de
recommandations permettant d'
éviter que les manquements susceptibles de donner lieu à une plainte, telle que visée au
§ 1er, ne se reproduisent. § 3. Le Roi fixe, par arrêté délibéré en Conseil des Ministres les conditions auxquelles la
fonction de médiation doit répondre en ce qui concerne l'
indépendance, le secret professionnel, l'
expertise, la protection
juridique, l'
organisation, e fonctionnement, le financement, les règles de procédure et le ressort».
43
Interessante appare la disposizione di un’altra recente legge belga, la Loi 15 mai 2007 relative à l'
indemnisation des
dommages résultant de soins de santé, dedicata ai profili di responsabilità civile, assicurativi e all’istituzione dei Fonds
des accidents soins de santé, il cui art. 7, nel prevedere in via di principio la preclusione di qualsiasi azione giuridiazia
nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, dispone altresì che la costituzione di parte civile nel procedimento
penale per colpa medica non sia consentita «que pour autant que celle-ci tende à une condamnation d'
un
dédommagement moral à un euro symbolique».
44
GREENE, Can we talk?Therapeutical Jurisprudence, Restorative Justice, and Tort Litigation, in BORNSTEIN – WIENER
- SCHOPP - WILLBORN (Eds.), Civil Juries and Civil Justice. Psychological and Legal Perspectives, New York, 2008,
233 ss.; KING, Non-adversarial justice and the coroner'
s court: A proposed therapeutic, restorative, problem-solving
model, J.Law&Med., 2008, 16(3): 442-457; TODRES, Toward Healing and Restoration for All: Reframing Medical
Malpractice Reform, Conn.L.Rev., 2006, 39, 667-737. Già in precedenza, le «mode thérapeutique» come connotato
delle pratiche di mediazione (in contrapposizione al «mode négociaire») era stato segnalato da BONAFÉ-SCHMITT nel
noto volume, La médiation: une justice douce, Paris, 1992, p. 183 ss.
soggetti offesi e dei loro congiunti (non certo riducibili al mero profilo economico-riscarcitorio)45 e
di tenere nella necessaria considerazione, al contempo, i vissuti umani e professionali dei medici e i
contesti complessi e “incerti” nei quali questi ultimi operano. Così, per esempio, in Nuova Zelanda,
l’Health and Disability Commissioner promuove la risoluzione dei conflitti in ambito sanitario46
concentrandosi sui profili non risarcitori dei medesimi: dalla composizione della controversia, le
persone offese (comunque garantite da una copertura assicurativa nazionale) ricevono risposte in
ordine alle cure ricevute, eventuali scuse scritte per la violazione delle disposizioni del Code of
Patients’ Rights, oltre alla certezza che al sanitario verrà richiesto di svolgere un percorso di
revisione e miglioramento del suo operato o (nei casi più gravi) di sottoporsi a incontri di verifica
avanti a un collegio di specialisti, anche in sede disciplinare47.
Intriso di componenti riparative è già il prioritario obiettivo – caro a chiunque, dal lato attivo
o passivo, si è trovato coinvolto in fatti di colpa medica – di istituire un sistema in grado di evitare il
ripetersi degli eventi lesivi, grazie all’apprendimento e all’educazione dagli errori, nonché
all’implementazione di procedure per correggerli. Esplicita in tal senso, fra altre, la legge belga che
assegna alla «funzione di mediazione» in ambito sanitario anche compiti di raccomandazione
«permettant d'
éviter que les manquements susceptibles de donner lieu à une plainte, …, ne se
reproduisent»48.
Non sorprende allora che nel panorama internazionale, tra i programmi di restorative justice
frequentemente citati in relazione al contesto sanitario49, compaia la procedura più semplice:
45
Si veda, fra gli altri, per il Regno Unito: Lord Woolf’s recommendations on Medical Negligence and Protocols in his
Access to Justice Final Report 1996, p. 4, nel quale Lord Woolf riconosce che «most patients probably want: (A)
impartial information and advice, including an independent medical assessment; (B) fair compensation for losses
suffered; C) a limited financial commitment; (D) a speedy resolution of the dispute; (E) a fair and independent
adjudication; (F) (sometimes) a day in court». Cfr. inoltre BISMARK – DAUER – PATERSON – STUDDERT, Accountability
sought by patients following adverse events from medical care: the New Zealand experience, CMAJ, 2006;175(8):88994: dai risultati di questo studio emerge l’importanza degli interessi “non patrimoniali” nella motivazione delle persone
offese ad agire nei confronti dei medici; gli Autori rimarcano come l’esigenza “correttiva” di evitare il ripetersi di
analoghi eventi ad altre persone sia decisiva per le vittime.
46
Anche mediante il ricorso a incontri di mediazione o confernces (mediazioni allargate a diversi soggetti): cfr. section
61, Health and Disability Commissioner Act.
47
PATERSON, The Patients’ Complaints System In New Zealand. A unique system that addresses individual complaints
and then uses the remedies to improve everyone’s health care, in Health Affairs, 2007 (21)3, 74.
48
Art. 11 § 2me, 5°. Anaolgo compito spetta anche, per citare un altro esempio, all’Health and Disability Commissioner
neozelandese, il quale è incaricato di «make recommendations to any appropriate person or authority in relation to the
means by which complaints involving alleged breaches might be resolved and further breaches avoided»: cfr. Health
and Disability Commissioner Act: section 14(1)(g).
49
Così, BRAITHWAITE et al., The Governance of Health Safety and Quality, cit.; MCNEIL, Introduction and Premises:
The Apology and Medical Malpractice, Restorative Directions Journal, 2006, 1-21. Si veda anche la National Health
Service (NHS) Complaints Procedure del Regno Unito, «designed to provide patients with an explanation of what
happened and an apology if appropriate. It is not designed to provide compensation for cases of negligence. However,
patients might choose to use the procedure if their only, or main, goal is to obtain an explanation, or to obtain more
information to help them decide what other action might be appropriate».
l’apology50. Le scuse formali rivolte dall’autore del comportamento lesivo al soggetto offeso
corrispondono invero alle finalità promozionali assolte da sistemi che preminano la trasparenza
sugli eventi avversi: per formulare l’apology, il medico deve sottoporre a revisione la propria
condotta, analizzando ciò che avrebbe dovuto fare nel rispetto delle regole dell’arte, in vista
dell’impegno a lasciarsi “ri-educare” dall’infausta esperienza occorsa, così da non riprodurla51.
Unità di gestione del rischio clinico (art. 30 del Progetto, su cui vd. infra, par. 5) e giustizia
riparativa in ambito sanitario rappresentano, nel Progetto qui illustrato, due profili della stessa
innovativa logica politico-criminale giocata su una regolazione “dinamica” e “responsiva” del
rischio clinico e, dunque, su forme di prevenzione “consensuale” della responsabilità penale
derivante da colpa medica. L’unità di risk management e la giustizia riparativa sono sorrette da un
identico intento: favorire rispettivamente il non verificarsi e il non ripetersi di eventi
lesivi/pericolosi nell’esercizio della professione sanitaria, senza tentare (per lo più inutilmente) di
impedirli sotto la (sola) minaccia di sanzioni o di punirli una volta accaduti.
L’Unità risk management rappresenta ex ante, in termini organizzativi e di gestione interna
dell’ente, ciò che la giustizia riparativa esprime a valle di un evento avverso colposamente
cagionato, in termini di responsabilizzazione del medico e, ove occorra, dell’équipe, del reparto o
dell’intera struttura sanitaria.
La causa estintiva del reato, ex art. 590ter ultimo comma (art. 2 del Progetto), è connessa a
condotte riparatorie, ad attività conformative e alla collaborazione con l’Unità di gestione del
rischio clinico scaturenti dalla partecipazione del professionista sanitario a un programma di
restorative justice (art. 7, 21, 30 lett. d). Tale previsione incentiva comportamenti virtuosi da parte
del medico: a tutto vantaggio della prevenzione (generale e speciale) delle condotte colpose
incriminate, e dunque della sicurezza dei malati, come pure a vantaggio dei medici tutelati
dall’incombere di un rischio penale foriero di atteggiamenti difensivi.
In questa prospettiva, sia l’Unità di gestione del rischio clinico che il sistema di giustizia
riparativa sono pensati come realtà che devono operare tenendo conto – in modo non formale –
50
L’apology è stata inserita nell’elenco degli strumenti appartenenti al «paradigma riparativo» presentato
dall’International Scientific and Professional Advisory Board (ISPAC) al X Congresso delle Nazioni Unite sulla
prevenzione del crimine e il trattamento dei rei (Vienna, 2000): sul punto, CERETTI – DI CIÒ – MANNOZZI, Giustizia
riparativa e mediazione penale: esperienze e pratiche a confronto, in SCAPARRO (a cura di), Il coraggio di mediare.
Contesti, teorie e pratiche di risoluzioni alternative delle controversie, Milano, 2001, p. 313.; MANNOZZI, La giustizia
senza spada. Uno studio comparato su giustizia riparativa e mediazione penale, Milano, 2003, p.126 ss.
51
BRAITHWAITE et al., The Governance of Health Safety and Quality, cit.: «A meeting might be held between health
professionals and family, with guidance from the National Standard for Open Disclosure that sets out principles that
contain elements of restorative justice. When restorative justice works, an apology fosters a culture of forgiveness,
which is more conducive to learning from mistakes than a culture of defensiveness that kills off learning by tolerating
cover up. Further, the evidence is that apologies from health practitioners that are perceived as sincere do reduce tort
litigation (ie. suing doctors and hospitals)».
della difficoltà e della complessità specifiche della professione sanitaria, troppo banalmente
dimenticate dalle criteriologie correnti di responsabilità penale e civile cui gli esercenti tale
professione sono quotidianamente esposti.
4.2. Le ragioni della scelta a favore di un sistema di giustizia riparativa in ambito
sanitario. – I fatti da cui origina la responsabilità civile e penale del medico sono molto particolari:
coglierne la specificità aiuta a comprendere perché la giustizia riparativa può rappresentare una
risposta particolarmente efficace alla domanda di giustizia che si leva dai malati, dai medici, dai
congiunti52, e a spiegare ulteriormente le ragioni che ne hanno motivato l’inserimento nel Progetto
di riforma elaborato dal CSGP.
Sono qui in gioco beni giuridici primari – la vita, l’integrità fisica, la salute – i quali fra
l’altro vengono “affidati” al medico, all’interno di una relazione particolarissima, non paritaria,
fondata sulla fiducia e, se vogliamo, sulla speranza53. Se è tipico di ogni vittima sentire un pungente
senso di tradimento54 a seguito del reato, le persone offese da condotte di cd. colpa medica si
sentono doppiamente tradite. O meglio tradite proprio da chi, in qualche misura, aveva loro
“promesso” una cura, talvolta persino una guarigione.
Il contenuto disvalore penale delle lesioni e dell’omicidio colposi (rispetto alle
corrispondenti ipotesi dolose) non ha nulla a che vedere con la percezione di gravità e con i
sentimenti feriti delle vittime e dei loro familiari, il che contribuisce a radicalizzare la posizione
delle persone offese, spinte a strategie processuali non di rado aggressive, a reclamare le risposte
sanzionatorie più severe e a pretendere risarcimenti ingenti cui si affida il compito di misurare e
mostrare la severità di quanto accaduto.
Ma i soggetti passivi degli illeciti in questione sono, generalmente, individui che nutrono
vissuti di ingiustizia e di tradimento già a causa della malattia che, per l’appunto, li ha resi in
qualche modo vittime anche della vita o della sorte. Non è escluso che, con l’azione giudiziaria, essi
intendano, inconsciamente, chiamare il medico a rispondere perfino dell’infermità che li ha colpiti o
del decorso infausto della loro patologia.
52
Per un primo approfondimento, si rinvia a Dubler – Lieberman, Bioethics Mediation. A Guide to Shaping Shared
Solutions, United Hospital Fund of New York, New York, 2004; Farber Post – Blustein – Neveloff Dubler, Handbook
for Health Care Ethics Commitees, Baltimore, 2006, pp. 140-150.
53
Per l’approfondimento di tali complessi profili, occorre riferirsi agli studi di antropologia medica, fra cui per esempio
G. PIZZA, Antropologia medica. Saperi, pratiche e politiche del corpo, Roma, 2005. Evocativo, per gli intrecci con i
temi del progetto, il riferimento dell’A. al medico come «mediatore della guarigione» (p. 216 ss.).
54
Per l’approfondimento, si rinvia a CERETTI, Mediazione penale e giustizia. In-contrare una norma, in Studi in ricordo
di Giandomenico Pisapia, vol. III, Criminologia, Milano, 2000, p. 793 ss.; nonché ID., Vita offesa, lotta per il
riconoscimento e mediazione, in SCAPARRO (a cura di), Il coraggio di mediare. Contesti, teorie e pratiche di risoluzione
alternative delle controversie, Milano, 2001, p. 57 ss.
Dal versante del medico, l’altro polo della «molecola criminale»55, tutto appare diverso: i
sentimenti, i vissuti e le prospettive sono capovolti.
Del resto, nel reato colposo – per definizione – l’evento lesivo non è voluto. Così, l’autore
delle condotte colpose ha spesso un profondo bisogno di spiegarsi e, per certi aspetti, di vedere
riconosciute delle “ragioni” ovvero di poter mostrare alla controparte le proprie reali intenzioni e i
propri – magari maldestri o persino inopportuni – sforzi volti ad attenuare le conseguenze dannose
del reato.
Si tratta di un’altra peculiarità della responsabilità medica: l’esercente la professione
sanitaria, che ha il compito di guarire, curare, alleviare le sofferenze ecc., si muove in verità in
costante esposizione al rischio dell’errore e dell’evento avverso e a operare nell’ambito di
organizzazioni complesse, non sempre efficienti.
Queste brevi osservazioni bastano forse a chiarire il livello di conflittualità e,
comprensibilmente, il grado di emotività che circonda le vicende giudiziarie del settore e aiutano a
cogliere quanto un percorso di giustizia riparativa, libero e volontario, possa ospitare un confronto
tra le parti proprio sui temi umanamente decisivi in gioco, in vista di una riparazione che potrebbe
persino contribuire a riannodare l’alleanza tra quel paziente e, come minimo, la classe medica. Non
altrettanto può dirsi per il procedimento penale o civile che finisce per radicalizzare la conflittualità,
innescando dinamiche difensive che non contribuiscono alla prevenzione e non favoriscono certo lo
scambio di gesti significativi tra le parti. Del pari, anche le procedure conciliative in senso stretto,
spersonalizzano la controversia rendendola oggetto di una giustizia di tipo negoziale, se vogliamo
‘mercantile’.
Tra gli obiettivi della restorative justice, invece, trovano posto la «riparazione dell’offesa»
nella sua «dimensione globale» (vale a dire anche nei suoi profili esistenziali ed emozionali), il
riconoscimento delle vittime56, la (auto)responsabilizzazione dell’autore della condotta lesiva, il
coinvolgimento della comunità (nella specie: i familiari dell’offeso, i colleghi dell’équipe medico55
FORTI, L’immane concretezza. Metamorfosi del crimine e controllo penale, Milano, 2000, p. 287 ss.
Innumerevoli le raccomandazioni internazionali dirette a indicare i programmi di mediazione e giustizia riparativa
quali utili risorse, fra altre, per offrire un adeguato sostegno alle vittime di reato: tra le più rilevanti, Consiglio
dell’Unione Europea, Decisione Quadro sulla posizione delle vittime nei procedimenti penali, art. 10, che impone agli
Stati membri di provvedere a «promuovere la mediazione nell’ambito dei procedimenti penali per i reati» ritenuti
idonei per questo tipo di misura e a «garantire che eventuali accordi raggiunti tra la vittima e l’autore del reato nel
corso della mediazione nell’ambito di procedimenti penali vengano presi in considerazione»; Consiglio d’Europa,
Raccomandazione (2006)8 sull’assistenza alle vittime di reato, § 13, che sollecita a «prendere in considerazione i
potenziali benefici della mediazione riguardo alle vittime» (così, in sostanza, già la Raccomandazione R (85)11 sulla
posizione della vittima nel quadro del diritto e della procedura penali: § G. II.1); ONU, Dichiarazione dei Principi
Base di giustizia per le vittime dei reati e degli abusi di potere, 1985, § 7, che invita a ricorrere a percorsi informali per
la risoluzione delle controversie per favorire la riparazione e il recupero delle vittime («informal mechanisms for the
56
chirurgica, gli organi direttivi dell’ospedale) nel procedimento di riparazione delle conseguenze del
fatto e nella prevenzione, l’innalzamento degli «standard di cultura civica»57 (nella specie: la
promozione di una cultura sanitaria meno difensiva).
La mediazione e i programmi di giustizia riparativa offrono, in particolare, alla persona
offesa uno spazio nel quale poter essere accolta, riconosciuta e aiutata a riguadagnare
progressivamente il controllo sulla propria vita e sulle proprie emozioni, superando gradualmente
eventuali sentimenti di rancore o di sfiducia58.
Il dialogo libero consentito (solo) da un programma di restorative justice consente alle parti
la chance di spiegarsi, senza trascurare quei “particolari” esistenzialmente significativi che fanno
della vicenda un unicum, e di ricomporre delle ragioni. La reciproca fiducia, tanto decisiva
nell’alleanza terapeutica, può essere piano piano ricostruita dandosi nuovamente delle “regole” – a
partire dalla riscoperta del precetto penale e delle leges artis che sarebbe stato necessario osservare
per prevenire l’evento lesivo. Quel non aver fatto ciò che era possibile e doveroso fare viene messo
in comune dentro un confronto che volge verso un atto di riparazione aperto al futuro.
Le condotte riparatorie consisteranno presumibilmente, nella maggior parte dei casi, nelle
scuse non disgiunte dall’assunzione di impegni comportamentali (attività conformative) o da attività
socialmente utili, volte per lo più a segnalare la presa di distanza dalla condotta colposa e a
garantirne la prevenzione.
resolution of disputes, including mediation, arbitration and customary justice or indigenous practices, should be utilized
where appropriate to facilitate conciliation and redress for victims»).
57
Per un’analisi di tali obiettivi, si rinvia a CERETTI – DI CIÒ – MANNOZZI, Giustizia riparativa e mediazione penale, pp.
311-312. Più ampiamente: UNITED NATIONS, UNODC, Handbook on Restorative Justice Programmes, New York,
2006, p. 9 ss. che elenca i seguenti obiettivi: «a) supporting victims, giving them a voice, encouraging them to express
their needs, enabling them to participate in the resolution process and offering them assistance; (b) repairing the
relationships damaged by the crime, in part by arriving at a consensus on how best to respond to it; (c) denouncing
criminal behaviour as unacceptable and reaffirming community values; (d) encouraging responsibility taking by all
concerned parties, particularly by offenders; (e) identifying restorative, forward-looking outcomes; (f) reducing
recidivism by encouraging change in individual offenders and facilitating their reintegration into the community; (g)
identifying factors that lead to crime and informing authorities responsible for crime reduction strategy».
58
I dati ricavabili dalla più che trentennale esperienza statunitense nel campo generico della restorative justice in
criminal matters sono confortanti: i livelli di gradimento e soddisfazione da parte di vittime e autori di reato sono
particolarmente elevati. Questo dato è confermato anche da alcune ricerche italiane. Gli studi empirici evidenziano
inoltre effetti positivi di riduzione della recidiva. Si è poi riscontrato che la diffusione della cultura riparativa favorisce
l’iniziativa delle persone offese le quali, negli Stati Uniti per esempio, richiedono e attivano direttamente i programmi
di restorative justice, preferendoli significativamente ad altri servizi loro offerti. Sul punto cfr. UMBREIT – VOS –
COATES – LIGHTFOOT, Restorative Justice in the Twenty-First Century: A Social Movement Full of Opportunities and
Pitfalls, Marquette Law Rev., 2005, vol. 89, p. 251 ss.; UMBREIT, The Handbook of Victim Offender Mediation. An
Essential Guide to Practice and Research, San Francisco 2001; UMBREIT, Impact of Victim-Offender Mediation in
Canada, England and the United States, in The Crime Victims Report, 1998. Per le ricerche empiriche italiane: CERETTI
– DI CIÒ, Giustizia riparativa e mediazione penale a Milano. Un’indagine quantitativa e qualitativa, in Rassegna
penitenziaria e criminologica, 2002, n. 3, p. 99 ss.; MASTROPASQUA – CIUFFO, L’esperienza della mediazione penale
nei servizi della Giustizia Minorile. Indagine su un anno di attività, in MESTITZ (a cura di), Mediazione penale: chi,
dove, come e quando, Roma 2004.
Si osservi, comunque, che i programmi di giustizia riparativa contemplati nel Progetto
possono includere una fase negoziale-transattiva avente ad oggetto la riparazione materiale e/o il
risarcimento del danno (art. 7 del Progetto). Tali questioni, però, vengono trattate nelle fasi
conclusive del programma, fasi cui si approda solo dopo il confronto, a ben altri livelli, sul tema
dell’offesa e della domanda di giustizia (art. 18, comma 1, lett. d). Anche il risarcimento del danno
diventa così il risultato di un percorso di riconoscimento tra le parti e/o di riflessione critica sulla
condotta colposa; la prestazione risarcitoria si carica, quindi, di significati comunque riparativi, più
penalistici che civilistici59, e in tal senso è idonea a concorrere all’estinzione del reato di «morte o
lesioni come conseguenza dell’esercizio di una professione sanitaria».
4.3. Le norme che compongono il Titolo III del Progetto. - Il Titolo III del Progetto di
riforma si compone di tre capi: il primo ha carattere generale e disciplina principi e tipologie di
programmi di giustizia riparativa. I successivi capi riguardano l’applicazione della giustizia
riparativa allo specifico ambito sanitario, prevedendo l’istituzione di una Commissione ad hoc
presso ogni distretto di Corte d’Appello (Capo II - «Commissione per la giustizia riparativa in
ambito sanitario», d’ora in avanti Commissione) e il funzionamento dei programmi di giustizia
riparativa, con gli opportuni raccordi al procedimento penale (Capo III).
L’articolato offre una disciplina senza precedenti nell’ordinamento italiano, dove ancora la
giustizia riparativa tout court non è espressamente disciplinata60, nonostante i vincoli imposti dalla
citata Decisione Quadro dell’Unione europea61, le più recenti sollecitazioni del Consiglio
d’Europa62 e pur essendo stati istituiti negli ultimi anni appositi “uffici” o “centri” di mediazione
penale e/o giustizia riparativa mediante accordi e convenzioni tra Ministero della Giustizia ed enti
59
Il settimo considerando della Decisione Quadro 2001/220/GAI rammenta opportunamente che «le disposizioni in
materia di risarcimento e di mediazione», di cui alla Decisione stessa, «non riguardano le soluzioni che sono proprie del
procedimento civile».
60
Non è possibile, in questa sede, dar conto invece delle scelte dei legislatori europei in materia di mediazione reovittima o di altri programmi riparativa, strumenti compiutamente incorporati ormai negli ordinamenti giuridici di molti
Paesi, fra cui Austria, Germania, Francia, Belgio, Gran Bretagna. Si rinvia, per una sintetica (ma piuttosto accurata e
recente) illustrazione, Stato per Stato, al saggio di Christa PELIKAN (già componente dell’Experts Commitee che ha
predisposto la citata Raccomandazione del Consiglio d’Europa) e Thomas TRENCZEC, Victim Offender Mediation and
Restorative Justice. The European Landscape, in SULLIVAN – TIFFT (Eds.), Handbook of Rerstorative Justice. A Global
Perspective, London-New York, 2006, pp. 63 ss. Per una più ampia ricognizione comparatistica, si rinvia a MANNOZZI,
La giustizia senza spada, con particolare riguardo alla Sezione II e ivi a p. 197 ss.
61
Decisione Quadro 2001/220/GAI che, quanto all’art. 10 in tema di mediazione reo-vittima, prevedeva il termine del
22 marzo 2006 per ottemperare all’obbligo di entrata in vigore delle «disposizioni legislative, regolari o amministrative
necessarie ai fini dell’attuazione» della Decisione stessa.
62
Consiglio d’Europa, European Commission for the Efficiency of Justice (CEPEJ), Guidelines for a Better
Implementation of the Existing Reccomandation concerning Mediation in Penal Matters, Strasburgo, 2007, CEPEJ
(2007)13), sui cui per un commento cfr. CERETTI – MAZZUCATO, Mediazione reo/vittima: le ‘istruzioni per l’uso’ del
Consiglio d’Europa. Un commento alle Guidelines for a Better Implementation of the Existing Recommandation
locali63. La progettazione normativa delle disposizioni del Titolo III è avvenuta anche alla luce delle
best practices consolidatesi in Italia in oltre un decennio di esperienze64.
Alle disposizioni di apertura del Capo I (artt. 5, 6, 7) è affidato il compito di “situare”
culturalmente il sistema di giustizia riparativa nel solco di principi internazionali riconosciuti e con
un richiamo alle finalità promozionali dell’intero titolo65, da cui dipende il carattere “cooperativo”,
proattivo e dinamico della sicurezza in ambito medico-chirurgico nell’impianto politico-criminale
qui congegnato.
Il tratto distintivo della restorative justice è condensato nel principio del consenso più volte
ribadito nelle fonti internazionali che integrano l’art. 566: la partecipazione al programma, il suo
svolgimento, le eventuali condotte riparatorie, i possibili impegni comportamentali futuri decisi
dalle parti avvengono su base squisitamente volontaria.
La giustizia riparativa, insomma, non ospita contenuti coercitivi. Diverse disposizioni, nel
Progetto di riforma, tornano sul punto saliente, senza lasciare adito a dubbi (artt. 5, 6, 7, 18, 19
ultimo comma).
L’altro aspetto decisivo è la dimensione partecipativa, già presente nelle parti definitorie
degli strumenti internazionali cui rinvia l’art. 5: reo, vittima e collettività sono invitati a partecipare
attivamente, insieme, a un confronto “costruttivo” sugli effetti “distruttivi” del fatto criminoso67. I
modelli di restorative justice si fanno, dunque, carico della dimensione pluri-soggettiva,
«molecolare», del crimine che finisce invece per rimanere dimenticata all’interno del procedimento
giudiziario e trascurata dal diritto penale, entrambi giocoforza “reo-centrici” a motivo delle loro
finalità punitive68.
concerning Mediation in Penal Matters, in Nuove Esperienze di Giustizia minorile, Ministero della Giustizia –
Dipartimento per la Giustizia minorile, 2008, n. 1, pp. 201-209.
63
Tali uffici/centri operano prevalentemente in ambito minorile e della competenza penale del giudice di pace. Sono
ormai numerosi, inoltre, i servizi di mediazione sociale.
64
L’articolato qui proposto, con gli opportuni adattamenti, può essere una base di partenza per l’avvio di una seria
riflessione su una normativa generale in tema di giustizia riparativa. I nodi giuridici che è stato necessario risolvere in
questa sede valgono invero per ogni pratica di restorative justice nell’ordinamento italiano.
65
Art. 5, comma 1: «Sono promossi programmi di giustizia riparativa»; art. 9: «La Commissione [per la giustizia
riparativa in ambito sanitario] promuove programmi di giustizia riparativa…».
66
UN Basic Principles, II, § 7: «restorative processes should be used only…with the free and voluntary consent of the
victim and the offender. […] Agreements should be arrived at voluntarily…»; IDEM, III, § 13, c): «neither the victim nor
the offender should be coerced, or induced by unfair means, to participate in restorative processes or to accept
restorative outcomes»; Raccomandazione (99)19, II, § 1 «la médiation… ne devrait intervenir que si les parties y
cosentent librement»; IDEM, V.4, § 31: «des accords devraient être conclus volontairemente par les parties».
67
V. supra nota 3.
Il che non esclude, comunque, che la prassi processuale “riscopra” la vittima, assegnandole di fatto un ruolo nella
dinamica repressiva (dinamica in cui è compreso – si badi – il risarcimento del danno). In altre parole: che nella
giustizia penale tradizionale si persegua e punisca l’autore del fatto (anche) “per” le vittime, non scalfisce la centralità
del reo, a scapito dell’attenzione per la persona offesa e i suoi bisogni effettivi.
Come è facile intuire, la fedeltà alla vocazione della giustizia riparativa ha richiesto un
complesso (e non scontato) raccordo con il procedimento penale69. La natura della giustizia
riparativa è stata preservata intatta, senza cedimenti a istanze di controllo e repressive e senza
compromessi con la giustizia penale “tradizionale”, nella consapevolezza che l’efficacia del disegno
complessivo del Progetto dipende dalla capacità delle norme qui illustrate di innescare dinamiche
consensuali e motivazionali che sarebbero impedite da ibridi sconfinamenti in territori adversary o
punitivi.
Così, nel Titolo III, la giustizia riparativa non viene sacrificata nei suoi profili caratterizzanti
alle esigenze del processo penale: lo dimostrano l’esclusione di poteri ispettivi, coercitivi e
sanzionatori in capo alla Commissione, la quale deve invece ispirarsi, nel suo operare, ai principi di
cui all’art. 5 (art. 8), la garanzia della confidenzialità e riservatezza dei programmi (art. 19),
l’obbligo per i mediatori e gli altri esperti che intervengono nei programmi riparativi di «astenersi
dal deporre sui fatti appresi nell’esercizio delle loro funzioni» (art. 12, comma 2), l’inapplicabilità
ai mediatori e agli altri esperti delle disposizioni del codice penale in tema di omesse denuncia,
rapporto, referto (art. 12, comma 3)70, l’ingresso «senza alcuna formalità» di saperi specialistici
nelle procedure di giustizia riparativa, mediante la possibilità di sentire il parere di esperti che non
si qualificano come consulenti tecnici della Commissione (art. 11, comma 5)71.
È, semmai, il sistema penale a venire adattato alla giustizia riparativa, grazie ad apposite
previsioni in deroga alla disciplina ordinaria: si pensi alla sospensione del procedimento penale «dal
momento in cui la Commissione riceve la comunicazione» della notizia di reato «fino al momento
in cui il pubblico ministero riceve l’informativa» sull’esito del programma riparativo (art. 16), alla
sospensione del corso della prescrizione di cui all’art. 17, all’inutilizzabilità «nel procedimento
penale e in ogni altro procedimento» delle «dichiarazioni rese da chi partecipa e [de]gli atti
compiuti nel corso del programma di giustizia riparativa» (art. 19, comma 2).
69
Sul rapporto tra mediazione reo-vittima e procedimento penale, vd. DI CHIARA, Scenari processuali per l’intervento
di mediazione: una panoramica sulle fonti, Riv.it.dir.proc.pen., 2004, p. 500 ss.; UBERTIS, Riconciliazione, processo e
mediazione in ambito penale, 2005, p. 1321 ss.
70
Previsioni estese dall’art. 30 anche al personale dell’unità di gestione del rischio clinico, a dimostrazione
dell’identica ratio politico-criminale che accomuna unità di risk management e giustizia riparativa.
71
Analoga previsione è presente nel procedimento penale minorile, dove l’art. 9 DPR 448/1988 dà facoltà al giudice e
al pubblico ministero di «assumere informazioni da persone che hanno avuto rapporti con il minore e sentire il parere di
esperti, anche senza alcuna formalità». Il parallelo è interessante poiché, a sua volta, il processo a carico di minorenni si
conforma al preminente interesse del minore, adeguandosi ex art. 1 DPR 448/1988, alle esigenze educative del giovane
imputato.
L’obiettivo di incentivare le pratiche riparative, per la loro particolare utilità nel contesto che
ci occupa, è perseguito mediante la massima accessibilità72 a tali programmi i quali sono a fortiori
attivabili dai «soggetti in conflitto», «indipendentemente dal procedimento penale» (art. 6, comma
4), per le situazioni di mera rilevanza civile, incluse, quindi, le ipotesi di morte o lesioni per colpa
lieve dell’esercente la professione sanitaria. Altre disposizioni precisano ulteriormente simile scelta,
specificando che la Commissione «promuove altresì programmi di giustizia riparativa su richiesta
degli interessati per dirimere in via stragiudiziale le controversie relative a profili di responsabilità
giuridica nell’esercizio della professione sanitaria»(art. 9 lett. b). Lo «svolgimento del programma»
resta comunque identico nei due casi, così da conservare il carattere riparativo e non (solo)
transattivo del percorso anche ove la controversia assuma rilevanza (solo) civile (art. 18, comma 5).
Il Progetto di riforma elaborato dal CSGP ha inteso unificare in capo all’apposita
Commissione la trattazione di affari sia penali che civili, evitando il problematico “sdoppiamento”
che si riscontra invece in altri Paesi dove coesistono pratiche generali, legislativamente previste, di
mediazione reo-vittima (in criminal matters) e metodi alternativi specifici (civilistici) di risoluzione
delle liti tra medico, paziente e assicuratore (pur in presenza di una rilevanza anche penale della
medical malpractice)73.
Il modello qui proposto si presenta invece lineare e unitario: alla «Commissione per la
giustizia riparativa in ambito sanitario» viene affidato il funzionamento dei diversi programmi
riparativi i quali – merita ribadirlo – possono servire chiunque si trovi coinvolto in «controversie
relative a profili di [generica] responsabilità giuridica nell’esercizio della professione sanitaria»74.
Si osservi che l’articolata tipologia di programmi di cui all’art. 6 consente, ove opportuno, il
coinvolgimento (con il loro consenso) di «altri soggetti rilevanti» (art. 18, lett. c): non solo i
72
Peraltro richiesta anche dalle raccomandazioni internazionali, le quali prevedono che i programmi di giustizia
riparativa siano «generalmente fruibili» e «utilizzati in ogni stato e grado del processo» (Raccomandazione (99)19, II, §
3 – 4; UN Basic Principles, II, § 6).
73
Limitandoci all’Europa continentale, è questo il caso di Paesi come il Belgio dove dal 2006 è entrata in vigore la Loi
22 juin 2005, recante disposizioni «relatives à la médiation dans le Titre préliminaire du Code de procédure pénale et
dans le Code d'
instruction criminelle», che ha introdotto un compiuto sistema di mediazione reo-vittima, creando
qualche problema di raccordo, per i casi di rilevanza penale, tra le due forme di giustizia “alternativa”, in ambito
sanitario e processuale-penale. Apertamente ispirata ai medesimi principi internazionali qui più volte richiamati è la
definizione di mediazione contenuta nell’art. 2 della legge belga, dove si dispone che «La possibilité de recourir à une
médiation est offerte aux personnes ayant un intérêt direct dans le cadre d'
une procédure judiciaire, conformément aux
dispositions légales y afférentes. La médiation est un processus permettant aux personnes en conflit de participer
activement, si elles y consentent librement, et en toute confidentialité, à la résolution des difficultés résultant d'
une
infraction, avec l'
aide d'
un tiers neutre s'
appuyant sur une méthodologie déterminée. Elle a pour objectif de faciliter la
communication et d'
aider les parties à parvenir d'
elles-mêmes à un accord concernant les modalités et les conditions
permettant l'
apaisement et la réparation». In Francia, dove pure sono istituiti sistemi alternativi di composizione delle
controversie in ambito medico, la mediazione penale è prevista dall’art. 41 del code de procédure pénale (a seguito di
diversi interventi legislativi) su iniziativa del pubblico ministero, prima dell’esercizio dell’azione penale, «s'
il lui
apparaît qu'
une telle mesure est susceptible d'
assurer la réparation du dommage causé à la victime, de mettre fin au
trouble résultant de l'
infraction ou de contribuer au reclassement de l'
auteur des faits».
familiari del malato o i colleghi di reparto, ma anche il responsabile dell’unità di gestione del
rischio clinico e/o l’assicuratore (art. 30 lett. c). Il punto è importante, a fronte della disciplina del
successivo Titolo IV in tema di assicurazione e responsabilità civile che ridisegna i rapporti tra
danneggiante e danneggiato sotto il profilo degli obblighi risarcitori.
Il favor per la giustizia riparativa è collegato infine alla diffusione della relativa cultura,
grazie al coinvolgimento degli ordini professionali interessati (dei medici, degli avvocati, degli
infermieri), in collaborazione con il Consiglio Superiore della Magistratura, nella realizzazione di
appositi «interventi informativi e di sensibilizzazione», nonché nella più ampia informazione ai
potenziali destinatari dei programmi (art. 23).
La necessaria copertura finanziaria per l’attivazione e l’operatività del sistema di «giustizia
riparativa in ambito sanitario» viene garantita da un apposito Fondo, all’uopo costituito (art. 24),
alimentato dal versamento di contribuzioni obbligatorie da parte degli assicuratori, in ragione dei
contratti stipulati per la copertura assicurative della responsabilità civile nell’esercizio della
professione sanitaria. Altre provvigioni, anche a carattere riparativo, potrebbero essere individuate
(si pensi, solo per fare uno dei tanti esempi ipotizzabili, al versamento di somme da parte
dell’autore del reato di cui all’art. 590ter a titolo di condotta riparatoria).
4.4. Principi generali e tipologie di programmi. – Richiamando espressamente la
Raccomandazione del Consiglio d’Europa e i Principi base delle Nazioni Unite, l’art. 5 del
Progetto, come già ricordato, prescrive la conformità dei programmi di giustizia riparativi ivi
contemplati alle indicazioni generali elaborate nelle sedi internazionali, sintetizzabili nelle seguenti:
-
partecipazione diretta, libera e volontaria degli interessati ai programmi proposti;
-
confidenzialità e riservatezza dei programmi;
-
imparzialità e indipendenza dei mediatori/facilitatori;
-
accessibilità e gratuità dei programmi;
-
promozione, per quanto possibile, della riconciliazione tra le parti, della definizione di
accordi volontari fra le stesse e dell’assunzione di impegni riparativi volontari;
74
-
principio di non colpevolezza dell’imputato fino alla condanna definitiva;
-
rispetto della dignità di tutte le persone coinvolte nei casi da trattare;
-
sostegno e assistenza alle persone offese.
Cfr. il già richiamato art. 9 lett. b.
La formulazione dell’art. 5 ricorre volutamente a un linguaggio non prescrittivo, consono
senz’altro al carattere di principio della disposizione, ma votato altresì a condurre subito nel vivo
dei compiti della giustizia riparativa: «favorire soluzioni volontarie, responsabili e condivise delle
controversie in ambito sanitario» nel rispetto dei principi di cui sopra.
L’articolo seguente definisce al primo comma il significato di «programma di giustizia
riparativa», attenendosi in modo quasi letterale alle definizioni internazionali già citate e ribadendo
opportunamente talune caratteristiche salienti a rigore già incluse nel richiamo di principio
contenuto nell’art. 5 (volontarietà, partecipazione), ma mai abbastanza rammentate, visti i rischi
sempre in agguato di un uso punitivo della restorative justice che entra nel procedimento penale (si
pensi all’imposizione di condotte riparatorie)75.
L’art. 6, secondo comma, enuncia le tipologie di programmi “principali”, definite ancora
una volta sulla scorta dell’esperienza internazionale76: sono annoverati così l’incontro diretto, o in
subordine indiretto, tra le parti (mediazione, lett. a) e «l’incontro delle parti allargato ad altri
soggetti» ritenuti rilevanti per il migliore componimento della controversia (lett. b)77, sulla cui
utilità ci si è già soffermati. Il terzo comma individua, invece, programmi “secondari” che si
caratterizzano, al contrario dei precedenti, per la loro unilateralità: si tratta dell’«ascolto protetto
della persona offesa», sul modello del victim-impact statement (art. 6 comma 3, lett. a)78 e
dell’«assistenza [dei mediatori] alla persona indicata come autore del fatto nella riparazione
75
«Sometimes the problem arises from inattention to some of the basic principles and guidelines that have now become
well established and widely known»: così UMBREIT - VOS - COATES – LIGHTFOOT, Restorative Justice in the TwentyFirst Century, p. 298 ss. La “scoperta” della giustizia riparativa da parte della magistratura ordinaria, minorile e di
sorveglianza ha condotto anche in Italia, in più di un’occasione, a criticabili provvedimenti nei quali la flessibilità
informale tipica dell’assunzione volontaria di obblighi riparatori è stata trasformata nella discutibile porta di ingresso di
vere e proprie prestazioni personali inflitte a titolo di ritorsione retributiva o con intenti di rafforzamento “intensivo” dei
contenuti di un certo beneficio, ritenuto altrimenti troppo blando. Esempio lampante è l’applicazione della cosiddetta
“prescrizione riparativa” (il che è già significativo) prevista dall’art. 47, comma 7 O.p., su cui DELLA CASA,
Affidamento al servizio sociale o (pura e semplice) “pay–back sanction”? Equivoci sul significato dell’art. 47 comma 7
O.p., in LP, 2004, VI, p. 380 ss.
76
I Basic Principles delle Nazioni Unite accennano genericamente a programmi quali «mediation, conciliation,
conferencing and sentencing circles». L’UNODC Handbook on Restorative Justice Programmes elenca, più
analiticamente, le seguenti categorie: «(a) victim offender mediation; (b) community and family group conferencing; (c)
circle sentencing; (d) peacemaking circles; (e) reparative probation and community boards and panels».
77
I Paesi che maggiormente hanno sviluppato il sistema dei circles/conferences sono la Nuova Zelanda e l’Australia,
(senza escludere il Sud Africa e, per il coinvolgimento dei nativi americani, gli Stati Uniti): è del tutto naturale quindi
che, anche nel contesto sanitario, l’Health and Disability Commissioner Act neozelandese, section 61 (3), preveda che
«in addition to the parties or their representatives, the Commissioner may also invite to attend the conference any other
person whose attendance would in the Commissioner’s opinion be likely to assist in resolving the matter by agreement
between the parties».
78
Nel già rammentato documento preparatorio curato dall’ISPAC (v. supra nota 22 e Autori cit.), tra i programmi
riparativi “victim-oriented” sono annoverati i victim impact statements, consistenti nella descrizione, in forma orale o
scritta, da parte delle vittima o della comunità lesa dal reato, delle ricadute di quest’ultimo sulla vita individuale,
familiare o collettiva; i victim/community impact panel anche denominati victim-offender groups, i quali consentono a
gruppi di persone offese di incontrare autori di reato “aspecifici” (diversi, cioè dai soggetti attivi dell’illecito che le ha
colpite) per un confronto mutuamente riparativo (nonché risocializzativo) sull’esperienza vissuta.
unilaterale delle conseguenze del reato», riparazione che può assumere vari contenuti di facere o
non facere, anche socialmente orientati, o consistere in una apology79.
Le ipotesi indicate dall’art. 6, comma 3, diventano essenziali nei casi di «rifiuto o
abbandono» del programma di giustizia riparativa da parte della persona offesa o della «persona cui
il fatto è attribuito», previsti dall’art. 18, commi 2 e 3.
Il combinato disposto degli artt. 6 e 18 è di particolare importanza nella struttura del sistema
di giustizia riparativa in ambito sanitario, poiché ne garantisce l’effettiva volontarietà.
Non basta, invero, il riferimento al consenso (alla partecipazione al programma e allo
svolgimento delle attività riparatorie): la volontarietà è assicurata anche dal fatto che, per l’appunto,
il rifiuto o l’abbandono di uno degli interessati non osta alla prosecuzione del programma che può
coinvolgere singolarmente chi ne resterebbe altrimenti escluso, grazie proprio all’attivazione delle
modalità appena descritte. Si vuole evitare che l’atteggiamento di eventuale ostilità o chiusura di
una parte impedisca all’altra di avvalersi della giustizia riparativa. In tal modo, in particolare, la
persona cui il fatto è attribuito è messa in condizione di assicurarsi l’effetto estintivo del reato
mediante un autonomo e unilaterale impegno in chiave riparativa, anche ove – per le più svariate
ragioni – la persona offesa o i suoi congiunti fossero indisponibili o impossibilitati a partecipare alla
procedura.
La norma sul «risultato del programma»80 (art. 7) è decisiva per le sue implicazioni penali:
le «condotte riparatorie e risarcitorie, sole o connesse ad attività conformative» estinguono il
reato81. Le fonti internazionali in materia di giustizia riparativa offrono indicazioni precise riguardo
al concetto di riparazione82, a differenza del legislatore italiano che non fornisce all’interprete un
quadro univoco, avendo confuso, più che chiarire, l’idea lato sensu “ripartoria” con la continua
mescolanza – nei più svariati istituti e contesti – di espressioni quali «risarcimento» (del danno
79
Tra i programmi “offender-oriented”, si suole indicare i seguenti, certamente debitori dell’esperienza dei paesi di
common law: il community service (lavoro gratuito di utilità sociale), i compensation, restitution e reparation programs
(nel primo caso, la riparazione alle persone offese è prestata dallo stato, negli altri due, invece, la riparazione economica
o simbolica proviene dal reo, anche a seguito dell’eventuale victim impact statement della vittima), il personal service
to victims (utilizzato per i reati di lieve entità, soprattutto se commessi da minorenni, consiste nella prestazione di
attività gratuita a diretto favore del soggetto passivo del reato): cfr., di nuovo, il documento ISPAC, nonché CERETTI –
DI CIÒ – MANNOZZI, Giustizia riparativa e mediazione, pp. 312-316.
80
Locuzione ricavata dai Principi Base delle Nazioni Unite, I, § 3 («restorative outcome»).
81
Si ricorda che la Decisione Quadro 2001/220/GAI prescrive, in via generale, che ogni Stato membro provveda a
garantire che «eventuali accordi raggiunti tra la vittima e l’autore del resto nel corso della mediazione nell’ambito dei
procedimenti penali vengano presi in considerazione» (art. 10)
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conciliativo, in PICOTTI – SPANGHER (a cura di), Competenza penale del
giudice di pace e “nuove” pene non detentive, Milano, 2003, p. 70, il quale sottolinea come «il concetto di riparazione
quale elemento cardine della causa estintiva ha ormai una precisa fisionomia nel panorama penalistico internazionale,
così che non lo si può ritenere utilizzato come una sorta di concetto contenitore. Esso rimanda, com’è evidente,
all’ottica già menzionata della giustizia riparativa o restorative justice».
“civile”), «restituzioni», «riparazione del danno» (“criminale”), «riparazione delle conseguenze del
reato», condotte atte a «elidere o attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato»,
«adoperarsi» (spontaneamente o meno) a favore della vittima o per eliminare le conseguenze
dell’illecito83.
L’art. 7, nella sua precisione, lascia comunque “aperto” l’esito estrinseco del programma
riparativo. Quel che conta, anche per le implicazioni politico-criminali, non è solo (o tanto) cosa
l’autore del fatto si vincolerà a svolgere, quanto come egli sarà pervenuto a simile decisione: da qui
l’aggettivo «adeguate» che qualifica le condotte e le attività concordate, sottraendole alle logiche
perverse (e impossibili) di una commisurazione (retributiva) alla gravità del reato.
L’essenziale, in altre parole, è che gli impegni volontariamente assunti – siano essi di
carattere economico o riguardino comportamenti futuri, di contenuto materialmente apprezzabile o
meramente simbolici – risultino comunque dal programma, cioè siano il prodotto esteriore di quel
«partecipare attivamente, in modo libero» alla «neutralizzazione dell’offesa»84. Il «risultato del
programma» può condurre all’estinzione del reato proprio perché in sé «conforme allo scopo
dell’incriminazione» e lungi dall’arrecare un «indebolimento del precetto»85 che ne esce al contrario
rafforzato, pur senza ricorrere a controproducenti dinamiche punitive.
L’esito del programma consisterà sempre in una ‘riparazione’ ove intesa come «condotta
antagonista finalizzata a scongiurare la lesione del bene giuridico o a reintegrarlo dopo l’avvenuta
offesa»86 e a comunicare la responsabilizzazione di chi ne è l’autore. Emerge nuovamente il
carattere penalistico (ancorché non repressivo) dell’intero sistema di giustizia alternativa di cui al
83
Nozioni differenti, spesso invece unificate sotto l’etichetta di condotte “riparatorie” o “risarcitorie”, configurate dal
legislatore di volta in volta – solo per citare alcuni esempi – come: attenuante (art. 62 n. 6 c.p.); indice di
commisurazione della pena in relazione alla capacità a delinquere (art. 133, comma 2 n. 3 c.p.); sanzione civile (artt.
185-186 c.p.); requisito ai fini dell’esercizio della facoltà di concedere la sospensione della pena non superiore a un
anno (art. 163 ultimo comma, riformato dalla L. 145/2004); obbligo generale del condannato cui può (e in taluni casi
deve) essere subordinata la sospensione condizionale della pena (art. 165 comma 1cpv. - 2 c.p., riformato dalla L.
145/2004, la quale ha altresì introdotto l’ipotesi dell’attività non retribuita a favore della collettività, in alternativa alla
«eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato»); prescrizione nell’affidamento in prova al servizio
sociale (art. 47 comma 7, dove si introduce la nozione di «adoperarsi in quanto possibile a favore della vittima del
reato»); requisito per l’ammissione alla liberazione condizionale (art. 176 comma 4); condizione per l’oblazione
speciale (162bis comma 3) o per la riabilitazione (art. 179, comma 6, n. 2); tassello innovativo di una compiuta
partecipazione al trattamento penitenziario (art. 27 comma 1 cpv. Reg. att. O.p.). Per l’approfondimento, anche per gli
specifici richiami alla restorative justice, si rinvia a; GIUNTA, Oltre la logica della punizione: linee evolutive e ruolo del
diritto penale e MANNOZZI, Pena e riparazione: un binomio non irriducibile, entrambi in Studi in onore di Giorgio
Marinucci, a cura di Dolcini e Paliero, rispettivamente Vol. I, p. 343 ss., Vol. II, in particolare p. 1149 ss.
84
DONINI, Non punibilità e idea negoziale, in Ind. pen., 2001, p. 1047 ss.
85
DONINI, Non punibilità, p. 1047.
86
Così ancora GIUNTA, Oltre la logica della punizione, p. 345. Tali obiettivi corrispondono appieno agli scopi della
restorative justice, come ricorda il preambolo dei Basic Principles delle Nazioni Unite: l’approccio riparativo offre «an
opportunity for victims to obtain reparation, feel safer and seek closure; allows offenders to gain insight into the causes
and effects of their behaviour and to take responsibility in a meaningful way; and enables communities to understand
the underlying causes of crime, to promote community well-being and to prevent crime».
Progetto di riforma del CSGP. Ciò evita inoltre che la riparazione si sostanzi in una prestazione
privata verso la vittima, ipotesi verso la quale giustamente si sono da tempo nutrite fondate
perplessità87; del pari, la procedura disegnata dagli artt. 6, 7 e 18 del Progetto scongiura
l’esposizione dell’autore del fatto anche ad altri tipi di strumentalizzazione88.
Tornando alla lettera della norma, merita osservare la scelta di tre categorie – le condotte
riparatorie, le condotte risarcitorie, le attività conformative – fra loro variamente combinabili
grazie alla congiunzione “o” e all’esplicito riferimento a un possibile cumulo fra le stesse. La
disposizione ricalca il testo dell’art. 40 dei «principi di delega» elaborati dalla Commissione Pisapia
nel 200789.
Quanto alla prima categoria, si è preferito confermare una locuzione già presente
nell’ordinamento italiano vigente: quella utilizzata nell’art. 35 D.Lgs. 274/2000 sulla competenza
penale del giudice di pace per disciplinare un’ipotesi di definizione anticipata del procedimento
penale con estinzione del reato che molto si avvicina, pur nella diversità di contesto, alla ratio
politico-criminale qui perseguita.
Quanto al risarcimento, si osservi che lo si è voluto tenere distinto dalle condotte riparatorie,
proprio per evitare l’impropria confusione che abita, come sopra ricordato, tante disposizioni
vigenti. Riparazione e risarcimento non coincidono, anche se quest’ultimo può ben scaturire dal
programma di restorative justice e avere il significato riparativo anzidetto, cioè essere a sua volta
segno di un’avvenuta presa di coscienza della natura colposa della condotta e dell’evento lesivo che
ne è derivato. Inoltre, gli attori di un accordo risarcitorio in materia medico-sanitaria sarebbero
comunque diversi dalle parti della vicenda penale, alla luce delle disposizioni del Titolo IV,
ancorché il coinvolgimento di tutti gli interessati al programma di giustizia riparativa potrebbe
proprio servire per non scindere il “danno” dalle “conseguenze del reato” di cui resta suo malgrado
portatore il soggetto offeso.
87
Si rinvia ai rilievi di M. ROMANO, Risarcimento del danno da reato, diritto civile, diritto penale, in Riv. it. dir. proc.
pen., 1993, pp. 882–883, laddove l’Autore fa osservare, fra l’altro, che «una riparazione del danno strutturata come
prestazione a favore della vittima, diversamente da una a favore della comunità o comunque di pubblico interesse, che
per taluni reati potrebbe effettivamente avere un significato, non persuaderebbe come sanzione penale» e anzi «ogni
previsione normativa di una possibile conclusione definitiva di una vicenda penale mediante una semplice
monetizzazione a vantaggio del solo danneggiato e/o con una trattativa personale con lui è un sicuro indizio della non
necessità della penalizzazione del comportamento» (corsivo dell’A.).
88
DONINI, Il volto attuale dell’illecito penale. La democrazia penale tra differenziazione e sussidiarietà, Milano, 2004,
pp. 254–255: «in questi casi, la «composizione del conflitto» tra autore e vittima, postula che la giustizia pubblica, nel
prendere atto di una soluzione realizzata fuori dal meccanismo punitivo, non ne comprometta l’attuazione per effetto di
logiche retributive e general–preventive dissonanti e strumentalizzanti».
89
Schema di disegno di legge recante la delega legislativa al Governo della Repubblica per l'
emanazione della parte
generale di un nuovo codice penale, «Articolo 40 - (Attività riparatorie) - 1. Prevedere che, nei casi espressamente
stabiliti dalla legge, reati di non particolare gravità possano essere dichiarati estinti quando, prima del giudizio, l’agente
abbia posto in essere adeguate condotte riparatorie o risarcitorie, sole o congiunte ad attività conformative».
La terza categoria è, se vogliamo, la più interessante. Le «attività conformative» consentono
all’esercente la professione sanitaria di impegnarsi in condotte correttive, in linea con la vocazione
di tutto il sistema. Tali condotte potranno essere anche solo simboliche e prendere la forma di
attività atte a segnalare la comprensione critica della condotta colposa tenuta e il proposito di non
ripeterla.
In estrema sintesi e a titolo di mero esempio, il «risultato del programma» potrà consistere, a
seconda dei casi e alla luce del confronto tra gli interessati, in un gesto di scuse accompagnato da
un’attività socialmente utile, nella collaborazione con l’Unità di gestione del rischio e nel contributo
fattivo del medico a un migliore risk management futuro, nella volontà di seguire un corso di
aggiornamento professionale, nella disponibilità a sottoporre a verifica di altri esperti il proprio
operato, nell’impegno ad astenersi da determinate prestazioni professionali, nella devoluzione di
una parte del proprio stipendio in opere benefiche in qualche modo connesse all’evento lesivo
causato, nel promuovere il miglioramento delle regole e/o delle prassi organizzative interne al
proprio reparto o alla struttura sanitaria, ecc.
Per le sue implicazioni in merito al «risultato del programma», è necessario a questo punto
richiamare la previsione della procedibilità a querela della nuova fattispecie di «Morte o lesioni
come conseguenza dell’esercizio di una professione sanitaria» (art. 2 del Progetto). Il programma
di giustizia riparativa potrebbe infatti anche condurre la vittima e la persona cui il fatto è attribuito a
concordare la remissione della querela, con relativa accettazione, così da provocare
automaticamente l’estinzione del reato. Nel Progetto di riforma, la causa estintiva non si lega però
alla sola “negozialità” insita nella procedibilità a querela, bensì, in via generale, alle condotte di cui
all’art. 7 del Progetto: si evita in tal modo, ancora una volta, di “privatizzare” il conflitto, di gravare
l’offeso del “costo morale” della remissione e di influenzare l’esito della vicenda con i possibili
condizionamenti connessi a squilibri di potere tra le parti, offrendo loro, di nuovo, maggiori
garanzie in ordine all’equità dell’intera procedura riparativa. Nulla toglie ovviamente che, ove
occorra, la remissione della querela prescinda addirittura dalla partecipazione al programma di
giustizia riparativa, a ulteriore conferma della natura del tutto volontaria di quest’ultimo.
4.5. Commissione per la giustizia riparativa in ambito sanitario. Mediatori. – Gli artt. 8
– 14 disciplinano la «Commissione per la giustizia riparativa in ambito sanitario».
Il carattere penalistico della giustizia riparativa ha suggerito la collocazione della
Commissione nel sistema lato sensu “giudiziario”: non quanto ai compiti – che restano
esclusivamente riparativi -, bensì quanto alle garanzie, prime fra tutte quelle di indipendenza e
imparzialità. Si osservi fin d’ora, comunque, che per evitare ogni sospetta confusione con funzioni
inquirenti, giudicanti o sanzionatorie, la Commissione ha sede, ai sensi dell’art. 14, «fuori dagli
uffici giudiziari e dalle strutture penitenziarie e di pubblica sicurezza»90.
Per il resto, la Commissione opera sotto la vigilanza del Consiglio Superiore della
Magistratura, competente a nominarne i commissari e il presidente, su proposta del Presidente della
Corte d’Appello nel cui distretto ha sede la Commissione (art. 10). Il Consiglio Superiore della
Magistratura garantisce altresì il costante aggiornamento del personale, in sinergia con i Ministeri
della Giustizia e del Welfare, gli enti locali e le aziende sanitarie, e il monitoraggio scientifico delle
attività91, in collaborazione con le università e altri enti di ricerca (artt. 10 e 24).
La disciplina della nomina dei commissari è analoga a quella vigente per i giudici onorari
dei tribunali per i minorenni e i componenti esperti dei tribunali di sorveglianza92: così, i membri
della Commissione «sono scelti tra professionisti esperti di discipline giuridiche e mediche, dotati
di specifica preparazione ed esperienza…, nonché specifica formazione, attitudini e sensibilità alle
pratiche di giustizia riparativa». In tal modo si coniuga l’attenzione per l’elevato grado di
specializzazione ed esperienza richiesti dalle materie da trattare con l’apprezzamento per sensibilità
e attitudini proprie di un incarico alquanto delicato che presuppone una forte motivazione
personale93.
La combinazione di professionalità tecnica e sensibilità umana corrisponde altresì alle linee
guida sulla giustizia riparativa, posto che anche il Consiglio d’Europa ha sottolineato che i
mediatori devono acquisire un alto livello di competenza che tenga presenti le capacità di
risoluzione del conflitto, i requisiti specifici per lavorare con le vittime e gli autori di reato, nonché
una conoscenza base del sistema penale94.
90
In linea, fra l’altro, con la disposizione dell’art. 8, comma 3, della Decisione Quadro 2001/220/GAI il quale impone
che «si evitino i contatti tra vittima e autore del reato negli edifici degli organi giurisdizionali» (seppure
prevalentemente riferita ai momenti
91
Ciò è espressamente raccomandato dal Consiglio d’Europa (Racc. (99)19, § VI.33-34) e dalle Nazioni Unite (Basic
principles, IV, 20-22).
92
Parimenti unificabile a tale disciplina, potrebbe essere anche la regolamentazione dei requisiti per la nomina (per es. il
possesso della cittadinanza italiana; la residenza in un comune compreso nel distretto in cui ha sede la commissione;
l’esercizio dei diritti civili e politici; la condotta incensurabile; l’età compresa tra i 30 e i 72 anni), la durata della carica
(per es. tre anni rinnovabile), il regime delle incompatibilità, le ipotesi di rimozione dall’incarico, l’ammontare del
gettone di presenza, ecc.
93
Il riferimento a «specifica attitudine, preparazione ed esperienza» è locuzione testualmente contenuta, per es., nell’art.
4 dip.att.p.p.m. (assegnazione dei magistrati alla sezione di corte d’appello per i minorenni) e ripresa più volte in altri
articoli (artr. 6, comma 2; 7, comma 5, ecc.).
94
Raccomandazione (99)19, V.2., § 23-24: i mediatori devono essere dotati di «qualités relationnelles nécessaires à
l’exercice de leurs fonction», la loro preparazione deve «assurer un niveau de compétence élevé, tenant compte des
aptitudes à régler les conflits, des exigences spécifique qu’implique le travail avec les victimes et les délinquants et des
connaissances de base du système judiciaire» (sul punto, si veda anche il Commentaire sur l’annexe, VI. § 28, 33).
L’undicesimo considerando della Decisione Quadro 2001/220/GAI ricorda che «alle persone che hanno contatti con le
Nel caso di specie, si è poi avvertita la necessità di optare per un organismo di giustizia
riparativa ad hoc e non per l’appoggio a realtà di mediazione penale già esistenti, ritenendo decisivo
considerare la specificità delle controversie in ambito medico-chirurgico e la «complessità» di
talune questioni per risolvere e riparare le quali possono essere indispensabili «competenze
specialistiche» (art. 11, comma 4). La composizione della Commissione è comunque in sintonia con
l’indicazione internazionale secondo cui gli operatori di giustizia riparativa dovrebbero essere
espressione delle comunità in cui operano e conoscerne le culture95: nel caso che ci occupa, a ben
vedere, è proprio l’appartenenza dei mediatori alle culture giuridica e medica, unitamente alla
preparazione nella restorative justice, ad assicurare la rappresentatività delle parti e il giusto
“insight” per accoglierle e accompagnarle nel percorso riparativo. La facoltà di avvalersi
informalmente di altri esperti (art. 11, comma 5), per esempio di mediatori culturali, garantisce che
l’eventuale incidenza di tradizioni culturali specifiche verrà tenuta nel debito conto.
Tipicamente ispirata alle prassi riparative è l’organizzazione interna della Commissione che
«lavora suddivisa in collegi» di mediatori, composti necessariamente da uomini e donne (art. 11,
commi 2 e 3).
L’esperienza maturata in oltre un trentennio di pratiche di restorative justice ha suggerito
l’adozione del modello d’équipe (tre o cinque mediatori), anziché del mediatore singolo (art. 11,
commi 3 e 4). Tale modello, più gravoso sul piano economico, si è però rivelato l’unico davvero
efficace nel garantire la conduzione in sicurezza degli incontri di mediazione reo-vittima e
l’imparzialità dei mediatori, senza contare che nell’ambito sanitario è ancora una volta la specifica
complessità dei temi del conflitto ad escludere l’opportunità di un organo monocratico.
L’art. 13, dedicato ai «doveri dei mediatori», riprende puntualmente i principi internazionali
ispiratori dell’intero Titolo III. Imparzialità, assenza di giudizio, pari considerazione e premura per
tutti gli utenti dei programmi (indipendentemente dalla «posizione rivestita nel procedimento
penale») sono i criteri guida dell’attività dei mediatori che si pongono anche quali ‘custodi’ del
«corretto svolgimento del programma» e «garanti dell’equità e ragionevolezza degli accordi»96, con
una specifica attenzione per gli impegni assunti dal soggetto più esposto al riguardo, cioè la persona
cui il fatto è attribuito.
vittime va fornita una formazione adeguata e sufficiente. Questa costituisce infatti un aspetto fondamentale sia per le
vittime sia per conseguire gli obiettivi del procedimento».
95
Raccomandazione (99)19, V.2, § 22: «Les médiateurs devraient être recruté dan toutes les catégories de la societé, et
posséder en général une bonne compréhension des cultures et communautés lacales»; UN Basic Principles, III, § 19:
«Facilitators shall possess a good understanding of local cultures and communities…».
96
I concetti di ragionevolezza e proporzione delle prestazioni riparatorie sono ricavati testualmente dai Principi Base
delle Nazioni Unitie (II, § 7) e dalla Raccomandazione (99)19 (V.4, § 31).
Gli artt. 13 e 14 hanno eco negli artt. 19-20, collocati nel Capo III e relativi, rispettivamente,
allo svolgimento dei programmi di giustizia riparativa in ambito sanitario, alla confidenzialità e
riservatezza dei medesimi e all’assistenza alle parti.
L’insieme di tali disposizioni, globalmente considerate, traccia i confini garantistici delle
pratiche riparative e i contorni della “premura” che tali pratiche promettono alle parti: vi ricorrono
più volte termini quali «imparzialità», «dignità», «sicurezza», «confidenzialità».
L’imparzialità e l’indipendenza dei mediatori e dell’apposita Commissione, la genuinità
della loro funzione (artt. 12 e 13) e la libertà delle parti (artt. 6, 13, 18) non restano una petizione di
principio, ma vengono protette dal combinato disposto degli artt. 12 e 19, i quali “sigillano” i
contenuti dei programmi di giustizia riparativa, rendendoli inaccessibili al sistema penale nel suo
complesso, grazie a un regime, da un lato, di tutela dei mediatori da obblighi di testimonianza e
denuncia, dall’altro, di inutilizzabilità di atti e dichiarazioni dalle parti, dichiarazioni alle quali è
comunque applicabile l’art. 598 c.p.
Il tema del «rispetto per la dignità della persona»97 (colpevole, vittima o quant’altri faccia
ingresso in simili procedure) è forse inconsueto in norme di dettaglio che vorrebbero avere forza di
legge ordinaria: con la giustizia riparativa il diritto accede anche a nuovi linguaggi98.
4.6. Funzionamento dei programmi di giustizia riparativa. – Senza ripetere le
considerazioni già espresse in precedenza sulle disposizioni del Capo III, occorrerà qui limitarsi alla
descrizione del funzionamento della procedura riparativa nelle sue fasi essenziali.
Ai sensi dell’art. 15, il pubblico ministero, contestualmente all’iscrizione della notizia di
reato per taluno dei fatti di cui all’art. 590 ter c.p., procede – salvo che non debba immediatamente
richiedere l’archiviazione – a darne informazione alla Commissione per la giustizia riparativa in
ambito sanitario.
Che la Commissione si attivi dietro mandato dell’autorità giudiziaria è raccomandato dalle linee
guida internazionali e, in particolare dalla Raccomandazione (99)19 la quale espressamente prevede
che «la décision de renvoyer une affaire pénale aux services de médiation, ainsi que l’évaluation de
97
Così l’art. 13, comma 1, del progetto di riforma che ricalca le previsioni del §24 della Raccomandazione del
Consiglio d’Europa («le médiateur devrait toujours respecter la dignité des parties et veiller à ce que les parties agissent
avec respect l’une envers l’autre») e del §18 dei Basic Principles dell’ONU («Facilitators should perform their duties in
an impartial manner, with due respect to the dignity of the parties. In that capacity, facilitators should ensure that the
parties act with respect towards each other and enable the parties to find a relevant solution among themselves»).
98
Ne è un significativo esempio la Decisione Quadro 2001/220/GAI, dove pure si rinviene un’apposita norma sul
«rispetto e riconoscimento» delle vittime, nella quale si dispone che a queste ultime «sia garantito un trattamento
debitamente rispettoso della dignità personale».
l’issue d’une procédure de médiation, devraient être du ressort exclusif des autorité judiciaires»99.
Ricevuta la notizia di reato, la Commissione, a sua volta, contatta le parti e, con l’assenso di
queste ultime, procede ad una serie di incontri dapprima individuali e poi collettivi, eventualmente
anche “allargati” a vari soggetti, in vista della risoluzione della controversia con la definizione delle
condotte e delle attività di cui all’art. 7 (art. 18). La scansione delle fasi del programma (colloqui
preliminari individuali, incontro di mediazione o conference, eventuali sedute per l’individuazione
degli accordi e le condotte riparatorie) è simile in tutto il mondo, ma è qui costruita tenendo conto
delle specifiche esperienze consolidatesi nei centri e uffici di mediazione penale italiani, rivelatesi
efficaci.
Colloqui individuali e incontri si svolgono «a porte chiuse» (art. 19, comma 4),
preferibilmente nei locali della Commissione «idonei a garantirne l’accessibilità e tali da
salvaguardare la confidenzialità, la dignità e la sicurezza degli utenti» (art. 14, comma 1), salvo che
«nell’interesse delle persone coinvolte e con il loro consenso» non sia più utile spostarsi in altri
luoghi, così da coinvolgere «soggetti della comunità locale, ivi inclusa la struttura in cui è avvenuto
il fatto» (art. 19, comma 5). E’ lasciata dunque una certa libertà ai mediatori di adattare il setting al
tipo di programma riparativo da portare a termine (individuale, bilaterale o “allargato”). Si osservi
che l’incontrarsi delle parti in pubblico - per esempio nello stesso ospedale dove è avvenuto il fatto
– per un confronto sull’evento in modo da coinvolgere altri componenti dell’équipe o del reparto in
una riflessione critica su quanto occorso può già integrare una «condotta riparatoria» idonea a
estinguere il reato di cui all’art. 590ter c.p.
I mediatori sono in ogni caso tenuti a svolgere le sedute «in un ambiente sicuro e
confortevole» per tutti gli intervenuti. Per la sua efficacia, l’espressione è presa in prestito
testualmente dalla Raccomandazione (99)19100. A prima vista, la precisazione potrebbe apparire
uno scrupolo fin eccessivo; si tratta invece di un aspetto non secondario: la vulnerabilità della
persona offesa e del soggetto attivo va costantemente tenuta in debito conto e il ricorso al termine
“ambiente” segnala opportunamente come si debba valutare non solo il luogo fisico, ma l’intero
contesto di svolgimento del programma – inclusi i profili reputazionali e gli spazi e i tempi interiori
delle parti.
Durante lo svolgimento del programma di giustizia riparativa, il procedimento penale resta
sospeso (art. 16) così come il decorso del termine di prescrizione del reato (art. 17). In tal modo, il
programma di giustizia riparativa potrà svolgersi secondo le modalità più opportune, con garanzia
99
Racc. (99)19, IV, § 9.
Racc. (99)19, V.3, § 27: «Le médiateur a la charge d’assurer un environnement sûr et comfortable pour la
médiation»; si veda anche il § 10 dei Basic Principles dell’ONU che sollecita a tenere in considerazione «the safety of
the parties… in conducting a restorative process».
100
di riservatezza e confidenzialità, assicurata sia dalla previsione di una clausola di inutilizzabilità, in
ogni procedimento, delle dichiarazioni rese e degli atti compiuti nel corso del programma, sia da un
obbligo di astensione dal deporre per i mediatori e gli esperti che abbiano partecipato al programma.
L’art. 20 richiama alcune garanzie del giusto processo: diritto di difesa per l’indagato, diritto
all’assistenza da parte di persone di fiducia – compresa l’assistenza legale –, l’ausilio tecnico di
eventuali esperti, l’assistenza di un interprete per chi non conosce la lingua utilizzata nel
programma)101. L’attività della Commissione dovrà concludersi entro sei mesi, prorogabili in caso
di necessità fino a un massimo di altri sei mesi (art. 22).
Il programma di giustizia riparativa si intende concluso (artt. 7 e 21) quando siano state
definite adeguate attività risarcitorie o riparatorie, sole o connesse ad attività conformative.
L’effettivo adempimento di tali attività viene seguito dalla Commissione, la quale assiste le parti
«fino al completamento del programma» (art. 18, comma 1, lett. d).
La conclusione del programma è oggetto di apposita informativa da parte della Commissione
all’autorità giudiziaria procedente (art. 21, comma 2 del Progetto). Lo svolgimento delle attività
risarcitorie o riparatorie, nonché delle attività conformative, accertato dall’autorità giudiziaria
«previa audizione della persona sottoposta alle indagini e del querelante», estingue il reato di cui
all’art. 590 ter c.p. con la conseguente richiesta di archiviazione da parte del pubblico ministero
(artt. 2 e 3 del Progetto).
In generale, la Commissione «provvede periodicamente a informare l’autorità giudiziaria
penale circa l’andamento del programma di giustizia riparativa», incluse le ipotesi in cui l’esito
delle attività non sia positivo102, avendo cura, in tal caso di «indicare», nel rispetto della
confidenzialità e riservatezza assicurate alle parti103, «le attività comunque svolte» (art. 21). Allo
stessso modo procede la Commissione nei casi in cui le parti non abbiano prestato il loro consenso
alla partecipazione al programma riparativo.
La previsione è conforme all’indicazione sovranazionale contenuta nel § 32 della
Raccomandazione 99(19), laddove si esplicita che il mediatore deve «faire rapport aux autorités
judiciaries sur les mesures prises et sur le résultat de la médiation», avendo cura di non «réveler la
101
Oltre agli evidenti vincoli costituzionali, la disposizione si pone in conformità, per quel che riguarda i programmi di
restorative justice, con le indicazioni internazionali: UN Basic Principles, § 13 («Fundamental procedural safeguards
guaranteeing fairness to the offender and the victim should be applied to restorative justice programmes and in
particular to restorative processes»); Racc. (99)19, III, § 8 («La procédure de médiation devrait être assortie de garantie
fondamentales: en particulier, les parties devraient avoir le droit à l’aide judiciaire et, le cas écheant, à un service de
traduction/interpretation».
102
Non si pervenga cioè alla definizione di condotte riparatorie, risarcitorie o conformative, ai sensi dell’art. 7.
103
L’«esigenza principe» – ricorda DI CHIARA (Scenari processuali, cit., p. 519) – « è, qui, quella di impermeabilizzare
il “luogo” giudiziario da ogni influsso conosciuto nascente dai contenuti elaborati o acquisiti nel corso della pratica
mediativa».
teneur des séances…, ni exprimer des jugement sur le comportement des parties à cette
occasion»104. È poi opportuno ricordare che il mancato espletamento del programma riparativo e/o
la non avvenuta individuazione di un «risultato» non potranno essere “imputati” all’agente nel corso
del successivo procedimento penale. Inequivocabili, sul punto, i Basic Principles delle Nazioni
Unite secondo cui: il fallimento della giustizia riparativa «should not be used as a justification for a
more severe sentence in subsequent criminal justice proceedings» (§ III. 17, cpv.).
5. Titolo IV: Disposizioni in materia di assicurazione per la responsabilità civile in ambito
sanitario. – Il titolo IV del Progetto di riforma consta di cinque articoli, che ripropongono – con una
serie di modifiche non del tutto trascurabili – alcune soluzioni già ipotizzate nell’ambito di alcuni
disegni di legge attualmente sottoposti all’esame delle competenti commissioni parlamentari (in
particolare, ci si riferisce ai d.d.l. S/50, a firma Tomassini e Malan e S/352, a firma Carrara,
Bianconi, Colli).
In particolare, questa parte del Progetto di riforma elaborato dal CSGP punta a disciplinare
in maniera efficace anche le problematiche connesse alla responsabilità civile per l’operato del
sanitario, così da completare, in un disegno il più possibile equilibrato e armonico, le innovazioni
già introdotte, nei titoli precedenti, sul terreno della responsabilità penale.
L’intento complessivo del Progetto, in quest’ottica, è quello di prevedere una migliore
allocazione delle obbligazioni risarcitorie, coinvolgendo le strutture sanitarie di appartenenza e
prevedendo un sistema di garanzie assicurative obbligatorie, che sia in grado, da un lato, di tutelare
adeguatamente le vittime di condotte colpose dei sanitari, e garantisca, dall’altro, mediante una più
attenta politica di prevenzione e monitoraggio delle fonti di pericolo in ambito sanitario, l’effettivo
interesse delle compagnie assicuratrici a farsi carico dei costi connessi alla copertura del c.d.
“rischio clinico”105.
A tale scopo, viene innanzi tutto previsto, all’art. 26 del Progetto, che ogni azienda sanitaria,
struttura o ente, pubblico o privato, che renda prestazioni sanitarie a favore di terzi, sia tenuto a
104
Analogamente, i Basic Principles, § III.15, precisano che «the results of agreements arising out of restorative justice
programmes should… be judicially supervised or incorporated in judicial decisions or judgments».
105
Secondo i dati presentati nel 2007 dall’ANIA (Associazione Nazionale Imprese Assicuratrici), in relazione al
periodo 1995-2005, il numero di sinistri denunciati dalle imprese assicuratrici in Italia, nel campo della responsabilità
civile in ambito sanitario, è passato da poco più di 17.000 a circa 28.500 casi, facendo registrare un incremento del
65%. In particolare, i sinistri legati alla copertura assicurativa dei singoli medici hanno fatto registrare un aumento più
marcato, passando da 5.798 del 1995 a 12.374 del 2005 (+134%), mentre i sinistri legati alla copertura assicurativa delle
strutture sanitarie sono passati da 11.444 a 16.085, con una crescita del 41%. Di conseguenza, i premi incassati negli
anni precedenti la rilevazione di tali dati (2007) sono risultati insufficienti per soddisfare le obbligazioni nascenti dai
sinistri denunciati: ciò ha determinato, per un verso, una vera e propria fuga di alcuni operatori da tale comparto
assicurativo, dando vita, per altro verso, a un cospicuo aumento dei premi assicurativi da parte delle compagnie che
hanno deciso di continuare a offrire questo tipo di polizze.
dotarsi, entro un anno dall’entrata in vigore della legge di riforma, di una «copertura assicurativa
per responsabilità civile verso i terzi, in relazione ai danni a persone causati dal personale
sanitario, operante a qualunque titolo presso la struttura o ente».
In analogia a quanto già previsto per l’assicurazione obbligatoria della responsabilità civile
automobilistica, la previsione di un vero e proprio “obbligo assicurativo” punta a porre fine
all’attuale sistema caratterizzato da formule assicurative facoltative, spesso contraddistinte da
incompletezza di copertura, limitatezza dei massimali, incongruità della garanzia prestata rispetto al
reale contenuto di rischio insito nell’attività della struttura sanitaria. Allo stesso modo, la previsione
di massimali fissati su base regionale, attraverso appositi accordi-quadro (art. 26, comma 2) che non
possano stabilire (almeno in prima applicazione) livelli di garanzia inferiori a una certa soglia
patrimoniale, contribuisce a fornire omogeneità a un sistema che, attualmente, non prevede alcuna
regola precisa.
Da questo punto di vista, la parificazione prevista per tutte le strutture sanitarie, siano esse
pubbliche o private, consentirebbe di eliminare l’attuale disparità di trattamento tra operatori
sanitari che prestano servizio in strutture pubbliche, private o private accreditate, ponendo fine a
quelle situazioni, correttamente definite ai limiti del grottesco, nelle quali il sanitario che presta
servizio in strutture private con parziale convenzionamento dei posti-letto, può trovarsi ad essere
garantito dall’assicurazione dell’ente allorché operi nella parte convenzionata col SSN, mentre
perde tale copertura qualora svolga la stessa attività nei confronti di un paziente che si sia rivolto
privatamente alla struttura sanitaria.
L’effettiva cogenza della previsione di tale copertura assicurativa obbligatoria è determinata
dalla previsione di cui al comma 4 dell’art. 26 del Progetto, che stabilisce, per le strutture private,
come essa sia «condizione necessaria per l’accreditamento e la convenzione di enti o strutture
private con il Servizio sanitario nazionale». Quanto alle strutture pubbliche, un analogo
meccanismo lato sensu sanzionatorio, per l’ipotesi in cui non provvedano a dotarsi della copertura
assicurativa, è previsto mediante l’eventuale esclusione della partecipazione al riparto dei fondi
regionali «per il finanziamento delle attività istituzionali delle aziende sanitarie del Servizio
sanitario nazionale».
Tuttavia, essendo evidente la diversa posizione rivestita dalle strutture private rispetto a
quelle pubbliche, il Progetto prevede la possibilità – all’art. 27 – che le regioni possano decidere di
non rivolgersi al mercato delle compagnie assicuratrici private, istituendo un apposito «Fondo di
garanzia» che sostituisca, attraverso una dotazione di risorse pubbliche omogenee a quanto previsto
ex lege per le strutture sanitarie private, la copertura assicurativa prevista dall’art. 26, in relazione
alla responsabilità civile per danni a persone, causati dal personale sanitario operante a qualunque
titolo presso le aziende sanitarie ubicate sul territorio regionale.
La previsione di una copertura assicurativa obbligatoria costituisce il primo passaggio per
realizzare una più equilibrata allocazione della responsabilità tra il singolo sanitario e la struttura di
appartenenza. È un dato ormai noto a tutti gli studiosi, infatti, che l’attività (e, correlativamente,
l’errore) del sanitario è solo un momento, un segmento di una più complessa prestazione, alla cui
realizzazione concorre integralmente un assetto organizzativo, una struttura complessa, in cui il
singolo operatore non rappresenta altro che un piccolo ingranaggio. L’analisi retrospettiva degli
“errori in sanità”106, infatti, mette sempre più spesso in luce come siano davvero rari i casi in cui la
responsabilità dell’evento avverso sia riconducibile esclusivamente a un comportamento scorretto
dell’operatore, e non sia, invece, il frutto di un “errore organizzativo” che ha come protagonista, in
misura più o meno significativa, l’intera struttura sanitaria nella sua complessità.
In virtù di tale consapevolezza, il Progetto di riforma elaborato dal CSGP prevede dunque
che «la responsabilità civile per danni a persone, causati dal personale sanitario operante a
qualunque titolo presso le aziende, strutture o enti di cui all’art. 26, comma 1, è sempre a carico
dell’azienda, ente o struttura sanitaria» (art. 28, comma 1). Anche questa disposizione segnerebbe
un significativo passo avanti rispetto alla realtà attuale, ponendo fine a quelle situazioni di conflitto
tra l’interesse della struttura sanitaria e quello del singolo operatore che, nonostante tutti gli sforzi
della contrattazione collettiva, costituiscono oggi un’autentica piaga del sistema sanitario italiano,
che si manifesta inevitabilmente ogniqualvolta venga attivato un contenzioso giudiziale per eventi
dannosi cagionati in danno di terzi.
La previsione della responsabilità patrimoniale in capo alla struttura sanitaria, peraltro, non
si risolve in una totale esenzione di responsabilità per il singolo operatore: sempre secondo l’art. 28
del Progetto (art. 28, commi 3 e 4), infatti, l’ente può rivalersi nei confronti del sanitario qualora
risulti, con sentenza passata in giudicato, che il fatto sia stato commesso con dolo, preterintenzione
o colpa grave. In tale ultima ipotesi, peraltro, l’ente (o, più verosimilmente, l’assicuratore) potrà
recuperare l’ammontare riconosciuto a titolo di risarcimento attraverso il meccanismo della
«trattenuta sullo stipendio del sanitario, nella misura massima del quinto». Si realizza, così, un
adeguato contemperamento tra l’esigenza di garantire il soddisfacimento delle pretese risarcitorie
della parte lesa (che potrà sempre convenire in giudizio, come previsto dall’art. 29 del Progetto,
direttamente la struttura sanitaria o l’assicuratore, vale a dire soggetti certamente solvibili) e quella
106
Si veda, tra i tanti, CISNOTTI, La gestione del rischio nelle organizzazioni sanitarie, Roma, 2004, ed ivi ulteriori
riferimenti.
di predisporre un equilibrato assetto di responsabilità nel rapporto interno tra il sanitario e l’ente di
appartenenza.
Sempre nell’ottica di semplificare il più possibile la procedura giudiziale – che dovrebbe, a
ben vedere, riguardare solo pochi e marginali casi, visto che la gran parte del contenzioso dovrebbe
risolversi in via transattiva o, nei casi di possibile rilevanza penale, attraverso il percorso di giustizia
riparativa di cui al Titolo III – l’art. 29 del Progetto prevede un meccanismo di “offerte risarcitorie”
ed eventuali “pagamenti”, nel caso di accettazione della proposta da parte dell’assicuratore o del
Fondo di garanzia, entro termini perentori (90 + 20 giorni), così da assicurare una rapida definizione
di tali controversie.
Per incentivare ulteriormente la definizione del contenzioso in via stragiudiziale si prevede
poi una limitazione delle eccezioni contrattuali opponibili dall’assicuratore (solo quelle consistenti
nel mancato pagamento del premio), alla quale si accompagna la possibilità, per il danneggiato che
a causa del fatto venga a trovarsi in stato di bisogno, di ottenere da parte del giudice l’assegnazione,
in ogni stato e grado del giudizio, di «una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva del
danno». In particolare, «il giudice, sentite le parti, qualora da un sommario accertamento risultino
gravi elementi di responsabilità a carico del sanitario o dell’azienda, ente o struttura di cui all’art.
26, comma 1, provvede con ordinanza immediatamente esecutiva all'
assegnazione della somma, nei
limiti dei quattro quinti della presumibile entità del risarcimento che sarà liquidato con la
sentenza» (art. 29, comma 6). Si realizza, così, un sistema nel quale l’ente (e con esso
l’assicuratore) ha tutto l’interesse a definire nel più breve tempo possibile le controversie che
presentino un qualche rischio di soccombenza, non potendo ottenere significativi vantaggi da una
strategia volta alla dilatazione dei tempi processuali.
L’ultima norma del Progetto, di cui si è già avuto modo di parlare in precedenza, attiene alla
istituzione, presso ciascun ente, azienda o struttura sanitaria, di una Unità di gestione del rischio
clinico (art. 30), volta ad assicurare lo sviluppo di prassi idonee ad aumentare la sicurezza dei
pazienti e a ridurre il rischio del verificarsi di eventi avversi.
In particolare, tale Unità di gestione del rischio clinico è chiamata a individuare le situazioni
e le prestazioni sanitarie potenzialmente rischiose, anche sotto il profilo dell’organizzazione del
lavoro, nonché a favorire l’apprendimento organizzativo dagli errori, promuovendo attività
formative, informative e comunicative sulla gestione del rischio clinico, realizzando altresì audit e
sistemi di incident reporting.
Quest’ultimo profilo riveste particolare delicatezza. Le attività di incident reporting, infatti,
sono ritenute assolutamente indispensabili – secondo le più aggiornate ricerca degli scienziati
dell’organizzazione – affinché le organizzazioni complesse, analizzando i propri errori, apprendano
comportamenti più efficaci e possano così fronteggiare in maniera adeguata il potenziale di rischio
insito nelle attività che esse svolgono. Tuttavia, non sussistono, nella legislazione attuale, norme di
salvaguardia che garantiscano la “riservatezza” delle informazioni ottenute nell’esercizio di tale
attività, col risultato di porre le organizzazioni di fronte a un singolare dilemma: o svolgere
un’attività di incident reporting puramente “cosmetica”, con la conseguenza di non riuscire a
percepire per tempo i segnali d’allarme e la lacune organizzative, ovvero realizzarla secondo
protocolli efficaci e puntuali, col rischio però di dar vita ad autentici dossier utilizzabili, in futuro,
contro l’organizzazione stessa.
Proprio per evitare tale paradosso, il Progetto di riforma elaborato dal CSGP prevede, con
una disposizione fortemente innovativa nell’ambito della legislazione italiana, che le informazioni
raccolte e gli atti compiuti dall’Unità di gestione del rischio clinico, nello svolgimento della propria
attività di incident reporting, rimangano segreti e siano inutilizzabili in ogni procedimento
giudiziario (art. 30, comma 3).
Parallelamente, si stabilisce che «ai componenti dell’“Unità di gestione del rischio clinico”,
in relazione all'
attività di incident reporting, non si applicano gli artt. 361, 362, 363, 364, 365 c.p.
in relazione ai reati di cui hanno avuto notizia nell’esercizio o a causa delle loro funzioni».
Attraverso l’esclusione di qualsivoglia obbligo di denuncia/referto, si garantisce ulteriormente
quella riservatezza che è la condizione indispensabile per il buon funzionamento dell’attività di
apprendimento dagli errori organizzativi, dando vita ad un sistema virtuoso nel quale la struttura
sanitaria può indagare su se stessa, adottando le più efficaci politiche di riduzione del “rischio
clinico”, senza timore di danneggiarsi in alcun modo.
L’incentivazione di tali comportamenti di “buona organizzazione”, insieme alla complessiva
rivisitazione degli assetti di responsabilità penale e civile del sanitario, secondo le cadenze illustrate
nei paragrafi precedenti, costituiscono – ad avviso del CSGP – gli strumenti più indicati per
contrastare il fenomeno della «medicina difensiva» e promuovere, per il futuro, una tutela della
salute dei cittadini più efficace rispetto a quella garantita dall’attuale assetto normativo.
PARTE III
IL PROGETTO DI RIFORMA:
L’ARTICOLATO
IL PROGETTO DI RIFORMA
TITOLO I
Principi generali
ART. 1
Trattamento medico-chirurgico
I trattamenti medico-chirurgici adeguati alle finalità terapeutiche ed eseguiti
secondo le regole dell’arte da un esercente una professione medico-chirurgica o da
altra persona legalmente autorizzata allo scopo di prevenire, diagnosticare, guarire o
alleviare una malattia del corpo o della mente, non si considerano offese all’integrità
fisica.
TITOLO II
Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e alle norme di
attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al
decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271
ART. 2
Modifiche al codice penale
1.
Dopo l’articolo 590 bis , è inserito il seguente:
«Art. 590 ter (Morte o lesioni come conseguenza dell’esercizio di una
professione sanitaria) – L’esercente una professione sanitaria che, in presenza di
esigenze terapeutiche, avendo eseguito od omesso un trattamento, cagioni la morte o
una lesione personale del paziente è punibile ai sensi degli articoli 589 e 590 solo in
caso di colpa grave.
Ai sensi del presente articolo la colpa è grave quando l’azione o l’omissione
dell’esercente una professione sanitaria è inosservante di fondamentali regole
dell’arte e ha realizzato un rischio manifestamente irragionevole per la salute del
paziente.
I delitti previsti dal presente articolo sono punibili a querela della persona
offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi.
In tutti i casi previsti dal presente articolo, il reato è estinto se sono eseguite le
condotte e le attività di cui agli articoli 7 e 18, ultimo comma, della legge …»
[inserire il riferimento al numero della presente legge, recante norme in materia di
«responsabilità penale nell’ambito dell’attività medico-chirurgica e gestione del
contenzioso legato al rischio clinico»].
ART. 3
Modifiche al codice di procedura penale
1.
Dopo l’articolo 411, è inserito il seguente:
«Art. 411 bis (Richiesta di archiviazione in caso di morte o lesioni come
conseguenza dell'
esercizio di una professione sanitaria) – Nei casi previsti
dall’ultimo comma dell’articolo 590 ter del codice penale, il pubblico ministero
chiede l'
archiviazione per estinzione del reato, previa audizione della persona
sottoposta alle indagini e del querelante».
ART. 4
Modifiche alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di
procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271
1.
All’articolo 67 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del
codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, il
secondo comma è sostituito dal seguente:
«2. Nell’albo dei periti sono sempre previste le categorie degli esperti in
medicina legale, psichiatria, altre specialità mediche, contabilità, ingegneria e
relative specialità, infortunistica del traffico e della circolazione stradale,
balistica, chimica, analisi e comparazione della grafia. Gli elenchi degli esperti
in medicina legale, psichiatria e altre specialità mediche sono forniti dalle
società scientifiche e dalle associazioni tecnico-scientifiche delle professioni
sanitarie, riconosciute con decreto del Ministero della Salute, ai sensi e per gli
effetti del D.M. 31.5.2004, pubblicato nella G.U. 2.7.2004, n. 153, le quali
provvedono ad aggiornarli ogni cinque anni».
2.
Al primo comma dell’articolo 73 delle norme di attuazione, di coordinamento e
transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989,
n. 271, le parole «di regola» sono abrogate.
3.
All’articolo 73 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del
codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, dopo
il primo comma è inserito il seguente:
«2. Nella nomina dei consulenti tecnici nell’ambito dei procedimenti per morte
o lesioni come conseguenza dell’esercizio di una professione sanitaria, ai sensi
dell’articolo 590 ter cod. pen., si osservano le disposizioni di cui agli articoli
67 e 73 bis».
4.
Dopo l’articolo 73 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del
codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, è
inserito il seguente:
«Art. 73 bis (Collegio peritale nei procedimenti per morte o lesioni come
conseguenza dell’esercizio di una professione sanitaria). – 1. Nei procedimenti
per morte o lesioni come conseguenza dell’esercizio di una professione
sanitaria, ai sensi dell’articolo 590 ter cod. pen., il giudice, a pena di nullità,
affida con ordinanza motivata l’espletamento della perizia a un collegio
composto da uno specialista in medicina legale e da uno o più specialisti nelle
singole materie oggetto del procedimento, da scegliere negli elenchi e secondo
le modalità di cui all’articolo 67».
TITOLO III
Giustizia riparativa
Capo I – Programmi di giustizia riparativa
ART. 5
Principi di giustizia riparativa.
1.
Sono promossi programmi di giustizia riparativa per favorire soluzioni
volontarie, responsabili e condivise delle controversie in ambito sanitario, nel rispetto
dei principi enunciati dalla Raccomandazione (19)99 del Consiglio d’Europa su
Médiation en matière pénale e dalla Risoluzione 12/2002 del Consiglio Economico e
Sociale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite recante i Basic Principles on the use
of restorative justice programmes in criminal matters.
ART. 6
Programma di giustizia riparativa. Definizione e tipologia
1.
Con “programma di giustizia riparativa” si intende ogni procedimento
informale svolto ai sensi dell’articolo 5, nel quale la persona offesa, la persona alla
quale il fatto è attribuito e, ove occorra, i loro congiunti o altri soggetti interessati
partecipano attivamente, in modo libero, a un confronto volontario, diretto o
indiretto, con l’aiuto di mediatori imparziali.
2.
a)
b)
Sono programmi di giustizia riparativa ai fini della presente legge:
la mediazione, preferibilmente diretta;
l’incontro delle parti allargato ad altri soggetti.
3.
Possono essere realizzati, con finalità riparative, anche programmi diversi dai
precedenti, nel rispetto dei principi dell’articolo 5, e in particolare:
a) l’ascolto protetto della persona offesa;
b) l’assistenza della persona alla quale il fatto è attribuito nella riparazione
unilaterale delle conseguenze del reato.
4.
I programmi di giustizia riparativa di cui ai precedenti commi possono essere
avviati anche indipendentemente dal procedimento penale, su richiesta dei soggetti in
conflitto.
ART. 7
Risultato del programma
1.
Il risultato del programma consiste in adeguate condotte riparatorie o
risarcitorie, sole o connesse ad attività conformative.
2.
La riparazione è volontaria.
Capo II – Commissione per la giustizia riparativa in ambito sanitario
ART. 8
Istituzione
1.
In ogni distretto di Corte d’appello è istituita una “Commissione per la giustizia
riparativa in ambito sanitario”. La Commissione opera ispirandosi ai principi di
giustizia riparativa.
ART. 9
Competenze
1.
La Commissione:
a)
promuove programmi di giustizia riparativa a seguito di trasmissione della
notizia di reato ai sensi dell'
articolo 15;
b)
promuove altresì programmi di giustizia riparativa su richiesta degli interessati
per dirimere in via stragiudiziale le controversie relative a profili di responsabilità
giuridica nell’esercizio della professione sanitaria.
ART. 10
Composizione
1.
La “Commissione per la giustizia riparativa in ambito sanitario” è composta da
commissari onorari specializzati, in funzione di mediatori.
2.
I componenti sono scelti tra professionisti esperti di discipline giuridiche e
mediche, dotati di specifica preparazione ed esperienza nei settori giuridico-penale e
civile, medico-legale e medico-specialistico, nonché di specifica formazione,
attitudini e sensibilità alle pratiche di giustizia riparativa. A tal fine il Consiglio
Superiore della Magistratura, in collaborazione con i Ministeri della Giustizia e della
Salute/Welfare, gli enti locali e le aziende sanitarie locali, cura la formazione e
l’aggiornamento degli operatori, mediante la realizzazione periodica di appositi corsi,
anche decentrati.
3.
I commissari onorari sono nominati con provvedimento del Consiglio
Superiore della Magistratura, su proposta del Presidente della Corte d’Appello nel cui
distretto ha sede la Commissione.
4.
Il Consiglio Superiore della Magistratura provvede altresì a designare il
Presidente.
5.
Il numero dei componenti, comunque non inferiore a cinque, è determinato in
relazione al carico degli affari.
ART. 11
Organizzazione e gestione degli affari
1.
Il Presidente vigila sul buon funzionamento della Commissione e dirige
l’organizzazione del lavoro.
2.
La Commissione lavora suddivisa in collegi.
3.
Ciascun caso viene trattato da un collegio, rappresentativo delle competenze
interdisciplinari presenti nella Commissione, composto di regola da tre mediatori,
uomini e donne.
4.
In situazioni particolari, in relazione al numero delle persone coinvolte nella
controversia o alla complessità della questione, il caso viene trattato da un collegio di
cinque mediatori, uomini e donne, dotati delle specifiche competenze medicospecialistiche, medico-legali e giuridiche richieste dalle circostanze.
5.
Il collegio può sentire il parere di esperti, anche senza alcuna formalità.
ART. 12
Garanzie di libertà e indipendenza della Commissione
1.
La Commissione esercita le sue funzioni con indipendenza e autonomia.
2. I componenti della Commissione hanno l’obbligo di astenersi dal deporre sui
fatti appresi nell’esercizio delle loro funzioni.
3. Ai componenti della Commissione non si applicano gli articoli 361, 362, 363,
364, 365 c.p. in relazione ai reati di cui hanno avuto notizia nell’esercizio o a causa
delle loro funzioni.
4. Le disposizioni dei commi precedenti si applicano altresì agli esperti che
intervengono ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 11.
ART. 13
Doveri dei mediatori
1.
I mediatori improntano la loro attività a imparzialità, curando in special modo
l’assenza di qualsiasi discriminazione in ordine alla posizione rivestita dalle parti nel
procedimento penale.
2.
I mediatori
a) accolgono le parti con rispetto per la dignità della persona;
b) assicurano il corretto svolgimento del programma di giustizia riparativa e
delle eventuali attività connesse;
c) sono garanti dell’equità e ragionevolezza degli accordi e vigilano in
particolare sulla congruità degli impegni riparativi assunti dalla persona alla
quale il fatto è attribuito.
ART. 14
Sede
1.
La Commissione ha sede in locali appositi, idonei a garantirne l’accessibilità e
tali da salvaguardare la confidenzialità, la dignità e la sicurezza degli utenti.
2.
La sede della Commissione è individuata al di fuori degli uffici giudiziari e
dalle strutture penitenziarie e di pubblica sicurezza.
Capo III – Programmi di giustizia riparativa in ambito sanitario
ART. 15
Adempimenti del pubblico ministero
1.
Contestualmente all’iscrizione della notizia di reato per taluno dei fatti
preveduti dall’articolo 590ter c.p., il pubblico ministero, salvo che debba
immediatamente richiedere l’archiviazione, informa la “Commissione per la Giustizia
riparativa in ambito sanitario” ai fini dell’avvio di un programma di giustizia
riparativa di cui all’articolo 6, a pena di nullità degli atti di indagine successivi.
2.
Il pubblico ministero trasmette alla Commissione, unitamente alla notizia di
reato con gli eventuali allegati, i dati identificativi e il recapito o domicilio eletto del
querelante, del danneggiato e della persona alla quale è attribuito il fatto di reato.
ART. 16
Sospensione del procedimento penale
1.
Il procedimento penale per i reati di cui all’articolo 590-ter c.p. è sospeso dal
momento in cui la Commissione riceve la comunicazione ai sensi dell’articolo 15
fino al momento in cui al pubblico ministero perviene l’informativa ai sensi
dell’articolo 21, comma 2.
2.
La sospensione del procedimento non impedisce l’assunzione delle prove con
incidente probatorio, né gli atti urgenti di indagine preliminare.
ART. 17
Sospensione della prescrizione
1.
Il corso della prescrizione del reato di cui all’articolo 590-ter rimane sospeso
dal momento in cui la Commissione riceve la comunicazione ai sensi dell’articolo 15.
La prescrizione riprende il suo corso dal momento in cui al pubblico ministero
perviene l’informativa di cui all’articolo 21 comma 2.
ART. 18
Svolgimento del programma
1. Ricevuta la comunicazione ai sensi dell’articolo 15, la “Commissione per la
giustizia riparativa in ambito sanitario” provvede a:
a) informare adeguatamente il querelante, il danneggiato e la persona cui il fatto è
attribuito, dell’avvio di un programma di giustizia riparativa, con la sommaria
indicazione dei principi di cui all’articolo 5;
b) invitare le parti di cui alla lett. a) a colloqui preliminari individuali davanti al
collegio di mediatori. Nel corso dei colloqui viene acquisito l’eventuale
consenso delle medesime all’incontro diretto;
c) svolgere l’incontro tra gli interessati, se consenzienti, organizzando le
necessarie sedute con il coinvolgimento, se opportuno, di esperti e altri soggetti
rilevanti;
d) assistere le parti nella definizione degli accordi, anche transattivi, e nelle
condotte riparatorie fino al completamento del programma;
2.
Il rifiuto o l’abbandono del programma di giustizia riparativa da parte della
persona offesa non impedisce lo svolgimento di altro programma pertinente.
3.
In tal caso la Commissione procede comunque agli adempimenti di cui al
comma 1, in quanto compatibili, avviando, con il consenso della persona cui il fatto è
attribuito, un programma di riparazione unilaterale ai sensi dell’articolo 6, comma 3,
lett. b) della presente legge.
4.
In caso di rifiuto o abbandono del programma di giustizia riparativa da parte
della persona cui il fatto è attribuito, la Commissione può procedere a norma
dell’articolo 6, comma 3, lett. a), previo consenso dell’offeso.
5.
La Commissione procede a norma del presente articolo, in quanto compatibile,
anche nel caso di richiesta pervenuta ai sensi dell’articolo 9 lett. b).
6.
La Commissione nel dichiarare il completamento del programma, ai sensi
dell'
articolo 7, indica le condotte risarcitorie e riparatorie, nonché le attività
conformative.
ART. 19
Confidenzialità e riservatezza
1. È assicurata la confidenzialità e la riservatezza di ogni programma di giustizia
riparativa.
2. Fatte salve le comunicazioni di cui all’articolo 21, le dichiarazioni rese da chi
partecipa e gli atti compiuti nel corso del programma di giustizia riparativa sono
inutilizzabili nel procedimento penale e in ogni altro procedimento.
3.
Si applica quanto previsto dall’articolo 598 c.p.
4. I programmi di giustizia riparativa si svolgono a porte chiuse, salvo l’ipotesi di
cui al comma successivo, e in un ambiente sicuro e confortevole.
5. Nell’interesse delle persone coinvolte e con il loro consenso, i mediatori possono
proporre di svolgere fasi del programma o altre attività riparative al di fuori della
sede della Commissione e alla presenza o con il coinvolgimento di altri soggetti della
comunità, ivi inclusa la struttura in cui è avvenuto il fatto.
ART. 20
Assistenza alle parti
1.
I soggetti invitati a partecipare al programma possono farsi assistere da persone
di fiducia e da esperti appositamente nominati, nel rispetto dei principi di giustizia
riparativa. La persona alla quale il fatto è attribuito e la persona offesa sono altresì
assistite da un difensore appositamente nominato.
2.
L’assistenza di un interprete è assicurata a chi non parla o comprende la lingua
utilizzata nel programma. È parimenti garantita l’assistenza di un mediatore culturale
ove ciò sia richiesto dalle questioni da trattare.
3.
Si applicano le norme del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, in tema di patrocinio
a spese dello Stato.
ART. 21
Informativa all’autorità giudiziaria
1.
La Commissione provvede periodicamente a informare l’autorità giudiziaria
penale circa l’andamento del programma di giustizia riparativa.
2.
La Commissione informa senza ritardo l’autorità giudiziaria penale circa il
risultato del programma ai sensi dell’articolo 7. In tutti gli altri casi, la Commissione
informa senza ritardo l’autorità giudiziaria della chiusura del programma, indicando
le attività comunque svolte.
ART. 22
Termini
1.
Il programma di giustizia riparativa viene espletato nel termine di sei mesi
dall’iscrizione della notizia di reato, prorogabile in caso di necessità per un tempo
non superiore a sei mesi.
ART. 23
Interventi informativi e di sensibilizzazione
alle pratiche di giustizia riparativa in ambito sanitario
1.
Gli ordini dei medici chirurghi e odontoiatri, gli ordini degli avvocati, i collegi
IPASVI, nonché le società scientifiche e le associazioni tecnico-scientifiche delle
professioni sanitarie, i comitati etici e altre idonee formazioni sociali collaborano con
il Consiglio Superiore della Magistratura alla diffusione della cultura della giustizia
riparativa in ambito sanitario con appositi interventi.
2.
Le aziende sanitarie del Servizio sanitario nazionale (SSN), le strutture o enti
privati operanti in regime autonomo o di convenzione con il Servizio sanitario
nazionale, le strutture o enti che, a qualunque titolo, rendano prestazioni sanitarie a
favore di terzi, gli uffici giudiziari, gli ordini degli avvocati sono tenuti ad affiggere
nella propria sede e in ciascuna delle proprie dipendenze aperte al pubblico, in modo
facilmente visibile, apposito avviso contenente le informazioni inerenti alla
possibilità di avvalersi gratuitamente della “Commissione per la giustizia riparativa in
ambito sanitario”.
ART. 24
Fondo Nazionale per la Giustizia riparativa in ambito sanitario: finanziamento
1.
È istituito un Fondo Nazionale per la Giustizia riparativa in ambito sanitario.
2.
Gli assicuratori versano al Fondo Nazionale un contributo obbligatorio pari a
……. per ogni contratto stipulato inerente alla copertura assicurativa per
responsabilità civile nell’esercizio della professione sanitaria.
3.
Sono altresì destinati al Fondo……
4.
Il Fondo è amministrato da……
ART. 25
Vigilanza sulle Commissioni. Monitoraggio
1.
Il Consiglio Superiore della Magistratura vigila sul funzionamento e sui
risultati delle “Commissioni per la giustizia riparativa in ambito sanitario” e
promuove, in collaborazione con le università e gli enti di ricerca, periodici
monitoraggi sull’efficacia dei programmi e sulla qualità dei mediatori.
TITOLO IV
Disposizioni in materia di assicurazione
per la responsabilità civile in ambito sanitario.
ART. 26
Assicurazione obbligatoria delle strutture sanitarie
per la responsabilità civile connessa al rischio clinico
1.
Entro un anno dall’entrata in vigore della presente legge, ciascuna azienda
sanitaria del Servizio sanitario nazionale (SSN), ciascuna struttura o ente privato
operante in regime autonomo o di convenzione con il Servizio sanitario nazionale
nonché ciascuna struttura o ente che, a qualunque titolo, renda prestazioni sanitarie a
favore di terzi è tenuta a dotarsi di copertura assicurativa per responsabilità civile
verso i terzi, in relazione ai danni a persone causati dal personale sanitario, operante a
qualunque titolo presso la struttura o ente.
2.
Il massimale minimo per la garanzia assicurativa di cui al comma 1 è fissato
dalle regioni e dalle province autonome di Trento e Bolzano, mediante apposito
accordo quadro regionale da stipulare con le organizzazioni sindacali del personale
sanitario, firmatarie dei contratti collettivi nazionali di lavoro. In prima applicazione,
esso non può comunque essere inferiore a euro … [10.000.000 nel d.d.l. S/352].
3.
Le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano provvedono ad
adottare, entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, linee guida per
l’adempimento dell’obbligo assicurativo da parte delle aziende sanitarie, strutture o
enti di cui al comma 1.
4.
La copertura assicurativa di cui al comma 1 è condizione necessaria per
l’accreditamento e la convenzione di enti o strutture private con il Servizio sanitario
nazionale, nonché per il finanziamento delle attività istituzionali delle aziende
sanitarie del Servizio sanitario nazionale, in coerenza con le linee guida di cui al
comma 3.
ART. 27
Fondo di garanzia
1.
Le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano possono istituire, in
relazione alla responsabilità civile per danni a persone, causati dal personale sanitario
operante a qualunque titolo presso le aziende sanitarie ubicate sul proprio territorio,
un apposito fondo di garanzia sostitutivo della copertura assicurativa di cui
all’articolo 26, attribuendo direttamente al fondo le risorse finanziarie necessarie.
2.
Entro un anno dall’istituzione del fondo di garanzia di cui al comma 1 cessano
di avere efficacia le polizze assicurative eventualmente stipulate dalle aziende
sanitarie del Servizio sanitario nazionale.
3.
Nei casi di cui al comma 1, l’ammontare e le modalità di gestione del fondo di
garanzia sono fissati dalle regioni e dalle province autonome di Trento e Bolzano,
mediante apposito accordo quadro regionale da stipulare con le organizzazioni
sindacali del personale sanitario, firmatarie dei contratti collettivi nazionali di lavoro.
Il fondo di garanzia non può comunque essere inferiore a euro … [deve trattarsi di
valore omogeneo a quello di cui all’articolo 26, comma 2].
ART. 28
Responsabilità per danni occorsi nell’ambito di strutture sanitarie
1.
La responsabilità civile per danni a persone, causati dal personale sanitario
operante a qualunque titolo presso le aziende, strutture o enti di cui all’articolo 26,
comma 1, è sempre a carico dell’azienda, ente o struttura sanitaria.
2. Nei casi in cui sia stata attivata la Commissione di giustizia riparativa in ambito
sanitario di cui all’articolo 8, l’assicuratore è tenuto a garantire il soddisfacimento
delle obbligazioni patrimoniali nascenti dal completamento con risultato positivo del
programma di giustizia riparativa, ai sensi degli articoli 7 e 21.
3.
Salvo che il fatto sia stato commesso con dolo, preterintenzione o colpa grave,
accertati con sentenza passata in giudicato, è escluso il diritto di rivalersi nei
confronti del sanitario da parte dell’assicuratore e delle aziende, enti o strutture di cui
all’articolo 26 comma 1.
4.
Nel caso di colpa grave accertata con sentenza passata in giudicato,
l’assicuratore ovvero le aziende, enti o strutture di cui all’articolo 26, comma 1,
procedono al recupero dell’ammontare riconosciuto a titolo di risarcimento,
attraverso trattenute sullo stipendio del sanitario, nella misura massima del quinto.
ART. 29
Esercizio dell’azione per il risarcimento dei danni
occorsi nell’ambito di strutture sanitarie
1.
Il danneggiato a seguito di prestazioni sanitarie esercita l’azione per il
risarcimento dei danni convenendo in giudizio direttamente l’assicuratore e l’azienda,
struttura o ente, di cui all’articolo 26, comma 1, presso cui la prestazione è stata
ricevuta.
2.
Il danneggiato che intenda proporre innanzi al giudice civile la domanda di
risarcimento deve previamente inviarla, a pena di improcedibilità dell’azione,
all’assicuratore ovvero al fondo di garanzia di cui all’articolo 27, ove istituito, tramite
raccomandata con avviso di ricevimento, allegando alla domanda idonea
documentazione medica.
3.
L’assicuratore, ovvero il fondo di garanzia di cui all’articolo 27 ove istituito,
comunica al danneggiato, entro novanta giorni dal ricevimento della domanda di cui
al comma 2, l’ammontare offerto a titolo di risarcimento, ovvero indica i motivi per i
quali non ritiene di formulare alcuna offerta.
4.
Se il danneggiato accetta l’ammontare offerto a titolo di risarcimento,
l’assicuratore, ovvero il fondo di garanzia di cui all’articolo 27 ove istituito, è tenuto
a provvedere al pagamento entro venti giorni dal ricevimento per iscritto
dell’accettazione.
5.
L’assicuratore non può opporre al terzo eccezioni di carattere contrattuale,
tranne che si tratti di mancato versamento del premio; in tale ipotesi, si applicano le
disposizioni di cui all’articolo 1901 cod. civ.
6.
In ogni stato e grado del giudizio, il danneggiato che, a causa del fatto, venga a
trovarsi in stato di bisogno, può chiedere l’assegnazione di una somma da imputarsi
nella liquidazione definitiva del danno. Il giudice, sentite le parti, qualora da un
sommario accertamento risultino gravi elementi di responsabilità a carico del
sanitario o dell’azienda, ente o struttura di cui all’articolo 26, comma 1, provvede con
ordinanza immediatamente esecutiva all'
assegnazione della somma, nei limiti dei
quattro quinti della presumibile entità del risarcimento che sarà liquidato con la
sentenza.
ART. 30
Unità di gestione del rischio clinico
1.
Entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente legge, ciascuna azienda,
struttura o ente, di cui all’articolo 26, comma 1, istituisce, all’interno della propria
organizzazione ovvero con l’ausilio di soggetti esterni specialisti della materia, una
“Unità di gestione del rischio clinico”, alla quale, salvo eventuali integrazioni da
parte delle regioni e delle province autonome di Trento e Bolzano, compete:
a) di realizzare iniziative e promuovere azioni finalizzate a ridurre i rischi e a
migliorare gli standard di qualità dell’assistenza sanitaria, grazie alla
programmazione e alla gestione del rischio clinico. In particolare, l’ “Unità di
gestione del rischio clinico” individua le situazioni e le prestazioni sanitarie
potenzialmente rischiose, anche sotto il profilo dell’organizzazione del lavoro,
favorisce l’apprendimento organizzativo dagli errori, promuove attività formative,
informative e comunicative sulla gestione del rischio clinico, realizza audit e sistemi
di incident reporting, individuando le soluzioni da adottare nell’ottica della più
efficace riduzione del rischio e al fine di aumentare la sicurezza del paziente;
b) di cooperare, se richiesta, con gli organi di prevenzione previsti dalle vigenti
disposizioni in materia di sicurezza e salute dei lavoratori;
c) di interagire con la Commissione di giustizia riparativa in ambito sanitario di
cui all’articolo 8, ovvero con l’assicuratore o il fondo di garanzia di cui all’articolo
27, ogniqualvolta si verifichi un fatto che importi l’attivazione del percorso di
giustizia riparativa o della copertura assicurativa obbligatoria.
d) di svolgere attività di consulenza, in materia assicurativa e di analisi e
gestione del rischio, a favore delle aziende, strutture o enti di cui all’articolo 26,
comma 1, e di quanti, nel loro ambito, siano dotati di poteri di amministrazione,
gestione e controllo.
2. Ai componenti dell’“Unità di gestione del rischio clinico”, in relazione all'
attività
di incident reporting, non si applicano gli articoli 361, 362, 363, 364, 365 c.p. in
relazione ai reati di cui hanno avuto notizia nell’esercizio o a causa delle loro
funzioni.
3.
Gli atti compiuti dall’“Unità di gestione del rischio clinico” nello svolgimento
della propria attività di incident reporting sono inutilizzabili ai fini dell'
avvio di ogni
procedimento e nell'
ambito dei procedimenti già avviati.
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