LO SGUARDO DELLA FEDE NEL CINEMA

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LO SGUARDO DELLA FEDE NEL CINEMA
Conferenza presso l 'U niversità San Dam aso , M adrid, Spagna, 17 ottobre 2013
Era l’anno 1895 e per la prim a vo lt a i fratelli Louis-Jean e Auguste Lumiè re
facevano sco rrere alcune immagini in movimento dando origine a quella che sarebb e
stata pomposamente chiamata “la set t ima art e”, la cinematografia. Pochi sanno, pe rò,
che alcuni m esi dopo, il 26 febbraio 1 89 6, un operatore, Vittorio Calcina, a nome de i
fratelli Lumiè re aveva ottenuto il pe rme sso di varcare le soglie del Palazzo Aposto lico
con le sue apparecchi ature destinate a filmar e il Papa Leone XIII nell’atto di bened ire,
mentre poco tempo dopo, un collabora tore di Edison aveva potuto riprendere lo ste sso
vecchio pontefice ment re passeggiava n ei g iar dini vaticani, a beneficio dei fedeli americani
desiderosi di vedere il Papa “di persona”. An zi, nel 1897, sul candido lenzuolo che a llora
fungeva da schermo passava la prima t rascr izione in immagini mobili de La passione d i
Léhar, un’esperi enza che nel 1900 ripete rà un più noto regista, Georges Méliès, con la sua
Passion a cui aggiungerà una Jeanne d’Arc .
Da quei momenti iniziali si snoder à u n itine rario che attraverserà tutto il Novecento e
tutte le nazioni del mondo e approderà alle incessanti produzioni filmiche, alle variazion i di
genere introdotte dall a televisione, alle vo ragin i abissali nel nadir delle perversioni, d elle
violenze, della pornografia, ma anche allo zen it dei capolavori di umanità e spiritua lità ,
alle esaltazi oni dei colossal fino alle inedite cr eazioni digitali attuali, alla valanga d ella
retorica di certi film “bi blici” e agiografici, al m oltiplicarsi incessante dei festival e così via.
Non è possibile né è nostro co mpito ora ricostruire questa storia, sia pu re
sofferm andoci solo sull a filmografia che coin volge la fede. Ci accontenteremo, perciò , d i
presentare una tril ogia schematica, simile a u n trittico mobile e di taglio impressionistico .
Nella pr ima scena abbozzeremo un essenzia le cenno teorico e teologico; nel seco n do
quadro faremo salire sulla ribalta, in una sorta di galleria di ritratti minimi, alcu ni
protagonisti – anche inattesi – della dialet tica tra cinema e fede. Infine ci rivolgeremo a i
non m olti m a significativi approcci past or ali uff iciali offerti dal Magistero, mentre la Ch iesa
era però coinvolta vivacemente nella tr ion fale affermazione della “settima arte”.
Per una teol ogia del cinema
La matrice del cinema si lega sost anzia lmente a due categorie fondamentali an ch e
nella teologi a, l’immagine e la parola , colt e nella loro dinamicità ed efficacia. Alla giu sta
reticenza aniconica del Decalogo che p roibisce ogni rappresentazione di «ciò che è n el
cielo, sulla terra e nelle acque sotto ter r a» (Esodo 20,4) per liberare il Dio persona da o g ni
forma oggettual e idolatrica, subentra la svolta neotestamentaria. Nelle Scritture cristia ne
e nella Tr adizi one la domanda di fond o su lla rappresentabilità del sacro è subito e vasa
in senso favo revole, non solo perché il linguaggio teologico è di sua natura simbol ico e
analogico – come per altro aveva già in tuit o il libro della Sapienza, convinto che « dalla
bellezza e ma gnif icenza delle creature analóg ôs [per analogia] si può ascendere al lo ro
Autor e» (13,5 ) – ma anche perché il crist ia ne simo ha nel suo cuore l’Incarnazione che ve de
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nel volto um ano di Gesù di Nazaret un a eikô n, un’icona, un’immagine del Dio invisibile,
come scriveva san Paolo ai Colossesi (1,1 5) .
In questa li nea si illumina an che la scelta iconica della Chiesa che si opporrà
con forza all’iconoclasmo nel Secondo Concilio di Nicea (787), generando e sostene ndo
quello straordi nario patrimonio artistico che a vrà il suo approdo necessario anche nella
stessa cinematograf ia. Non è secon da rio , po i, il fatto che i due linguaggi, il filmico e
il religioso, sono di loro natura perfo rma tivi. Pur con tutte le distanze e le differe n ze
del caso, la “sacramentalità” dell’atto liturg ico ha un’analogia nell’efficacia dell’“azio n e”
cinematografica che cerca di “attuare ” nello spettatore ciò che rappresenta. Ci son o ,
infatti, nei film di autentica qualità a rt ist ica e spirituale alcune suggestioni irrevoca bili
che, dopo il congedo dallo spettacolo, cont inuano a vivere nell’interiorità e nella ste ssa
esistenza dello spettatore.
L’altra componente che intre ccia fede e film è la parola. Naturalmente non
intendiamo sol o i l sostegno che il d ialog o of fre alla rappresentazione, ma il racconto
visivo. Or a, si comprende che la Bibbia sia divenuta un soggetto appetibile dal cine ma
perché è di sua natura “storia della salve zza” e quindi narrazione. È suggestivo un
aforism a giud aico che afferma: «Dio ha cre at o gli uomini perché Egli –benedetto sia – a ma
i racconti». C i sono, così, pagine bibliche che sembrano già un soggetto cinematogra fico,
come nel caso del le 35 principali para bo le d i Gesù. Altri testi si presentano quasi come
una sceneggiatura pronta per le riprese: si pr ovi a leggere, ad esempio, il celebre racconto
dell’adulterio di Davide e dell’assassin io di Ur ìa presente nei cc. 11–12 del Secondo L ib ro
di Sam uele. In questa luce si sono sviluppati alcuni capolavori come il Vangelo second o
Matteo di Pier Paolo Pasolini (1964) ma anche una valanga di colossal di grande impe g no
finanziario e tecnico ma di modesta q ua lit à r eligiosa.
Pen siamo all a
Più grande storia mai raccontata di George Stevens (1965 ),
al Grande Pescatore di Frank Borza ge ( 1959) o al Re dei re di Cecil de Mille (192 7 ;
remake di Nicholas Ray nel 1961) che, però , ebbe anche il merito di aver diretto un più
significativo film divenuto un “classico” de lla cinematografia biblica, I dieci comandame n ti
(1956). Non si badava a spese e ad eff ett i, ma alla fine si otteneva un’iconografia enfatica
e solo esteri o rment e religiosa, anzi, in a lcuni casi destinata a rasentare il sadismo, come
nell’esagitata Passi one di Cristo (2003 ) d i M el Gibson (90 minuti di torture su 126 di film!).
Né si deve escl udere l e non rare provocazio ni blasfeme che attingevano la loro capacità d i
scandalo pr oprio nell’uso improprio d el t esto sacro (L’ultima tentazione di Cristo di Martin
Scorsese del 1998, in verità meno neg at iva di quanto sembrasse, divenne al riguardo un
emblema).
Anche per i l cinema si può, comu nq ue , r ipr oporre l’antica quérelle che ha tormentato
critici e teologi riguardo alla definizione dell’arte sacra o dell’arte religiosa (che non
sono necessa riamente sinonimi). In realt à, b isognerebbe superare le classificazioni tropp o
rigide per ché anche un film a esplicit o soggetto religioso può risultare spiritualme n te
insignificante, e un film di tema e taglio pr of ano può essere di altissima impronta religiosa .
L’esemplificazione che introdurremo n ella seconda tavola del nostro trittico ne sarà solo
una m inima e d essenziale esemplifica zione. A livello più generale dobbiamo, qu indi,
riconoscere che un grande regista in r icer ca autentica può generare vere e prop rie
meditazioni teol ogiche e parabole di inte nsa umanità e spiritualità.
Nel 1951 nei suoi
Minima mo ralia il filosofo Theodor W. Adorno anno tava
questa sconso lat a esperienza personale : «Da o gni spettacolo cinematografico mi acco rgo
di tor nare, per quanto mi sorvegli, più st up ido e più cattivo». Non sappiamo a qual i film
assistesse per ot tenere un esito così cata str of ico. Certo, milioni di chilometri di pell icola
e ora di immagi ni digitali possono co nf er mar e questa convinzione; ma c’è anche un ricco
repertorio di film di eccezionale bellezza , intelligenza, interiorità e trascendenza. Che
il cinema potesse spesso scadere nella su pe rficialità vacua e fatua (anche in mate ria
religiosa) er a ribadi to negli stessi anni d i Adorno dal poeta e critico francese Anto nin
Artaud che nel suo La coquille et le clerg yman (1928) dichiarava: «La pelle uma na
delle cose, il derma della realtà, ecco con che cosa gioca anzitutto il cinema». Eppu re
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questa pessimi sti ca ri levazione non imp ed iva ad Artaud di diventare attore con una
superlativa int erpret azione del monaco Ma ssieu in quel gioiello filmico – tutt’altro ch e
fermo all’epidermide della realtà – che è st ato la Passione di Giovanna d’Arco di Carl
Dreyer.
Una gal ler ia di registi: Dreyer, Bresson, Bergman, Tarkovskij, Buñuel
Ed è proprio col regista danese Carl Theodore Dreyer (1889–1968) che vorremmo
aprire la piccola galleri a di artisti che coi lo ro film si sono inoltrati sui sentieri d’altu ra
della fede e dell a ricerca spirituale. « Bisog na arrivare a dare veramente al pubb lico
l’im pressione di vedere la vita attrav er so il buco della serratura dello schermo … Io n o n
cerco altro che la vita. Il regista non conta nulla, la vita è tutto ed è essa a domina re.
Quel che importa non è il dramma obiet tivo delle immagini, ma il dramma obiettivo delle
anime». Così egl i confessava mentre g ira va quel capolavoro che è la Passione di Giovann a
d’Arco (1927), indimenti cabile per i pr imi pian i della protagonista Renée Falconetti, ma
soprattutto pe r il contrasto infuocato tr a il rigido fanatismo religioso del tribunale e la
purezza abbagliante della fede di Gi ova nn a. In quei fotogrammi il silenzio del film muto
diventava m istico anche perché i moviment i d elle labbra e dei volti erano epifanie d e l
mistero dell’incontro del fedele con il divino.
Ma sarà molti anni dopo ch e, a nost ro avviso, Dreyer salirà sulla vetta de lla
sua arte ove, però, era già assisa la f ede. Ci riferiamo a Ordet (1954), termine dane se
che indica il “Verbo”, la Parola per eccellenza, dramma teologico che ha il suo apice
nella risurrezione f inal e che un folle di Cr isto, lo studente di teologia Johannes, comp ie
per la fede della bambina che ha per so la madre. L’angoscia è travalicata attraverso la
fiducia in Dio, come già insegnava il f ilo sof o connazionale di Dreyer, Søren Kierkegaard .
L’incredulità dei più è dissolta dall’innocenza, la follia che attanaglia Johannes, ch e si
ritiene Cristo, è trasf igurata nel rischio su pr emo ed estremo della fede che compie mira co li
e può trasferire in mare un monte o, a pp un to, far rivivere un cadavere.
* * *
A l mede simo soggetto del Pro cesso di Giovanna d’Arco (1962) si sarebbe dedica ta
l’altra figura che vogliamo evocare, il f rancese Robert Bresson (1907–1999). Noi, però, lo
proponiamo per i l suo i ndimenticabile Dia rio di un curato di campagna (1951), genera to
dal rom anzo d i Georges Bernanos, celeb razion e del primato della grazia divina anche su l
terreno dell’umanit à devastata dal male fisico e morale. La cifra del romanzo e del film
sono, infatti, nella battuta terminale che è sim ile a una spada di luce: «Tutto è grazia» .
Quella di B re sson non era una teodicea m a una teofania: «Il ne faut pas cherch er, il
faut attendre», aveva confessato il re gista , convinto che il cinema fosse di sua na tura
“imm enso” e potesse, quindi, accogliere n el suo grembo anche l’ingresso di Dio. Attende re,
quindi, l’epifa nia; se si vuole – invert en do la t radizionale coppia verbale – prima trovare
e poi cercar e.
È per questo – dirà ancora – che “ m et t ere in scena” è un “mettere in ordine” la
realtà dando ad essa i l senso trascendent e che custodisce nel suo intimo, anche qu and o
è un modesto asi no la cui esistenza e la cui pa rabola diventa implicitamente cristolo gica,
elevandosi fino a un vero e proprio Calva rio (parallelo a quello di una ragazza in Mouch e tte
del 1967): stiamo parlando di Au hasa rd Balthazar (1966), un film–metafora di una bellezza
struggente ed essenzial e perché, come af f er m ava Bresson, «si crea non aggiungendo ma
togliendo». E ancora: «Ciò che è bello in u n film, ciò che io cerco è un cammino verso
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l’ignoto. In un f il m bisogna sperimenta re la scoperta dell’uomo, una rivelazione profond a
del mister o … È l’ int eriorità che det ta, e q ue sto potrà apparire paradossale in un ’arte
che sembra tutta esteri orità». L’ultim o sogno, frustrato, di Bresson fu quello di girare u n
film sulla Genesi, ove sarebbe stato lo sguard o dell’uomo, capace di infinito, a carpire il
mistero della creazione e del bene e del ma le.
* * *
Ora, però, vorremmo lascia re un am pio spazio a una terza figura altissima
e par adossale di un regista, un teolog o at eo , figlio del cappellano alla corte di Sve zia,
Ingmar Ber gman (1918–1977). Inizieremo con la scena di apertura del suo film che tu tti
conosciamo, I l set ti mo sigillo (1956 ). Ant on io Block, il Cavaliere è in ginocchio, con
gli occhi chiusi e la fronte corrucciat a che prega, mentre il sole dell'alba si affaccia
su un mare n ebbioso. In alto, un uccello ma rino dissemina voli lenti e lancia un g rido
inquietante. All'improvviso ecco una f igura vest ita di nero, col volto segnato da un pallo re
impressionante. «Chi sei?», le domanda il Ca valiere. «Sono la Morte... è già da molto che
ti cammino a fianco», risponde quella per son a misteriosa.
È una scena e sono parole che sono r imaste infisse nella memoria di tanti spettatori che
hanno assistito alla partita a scacchi con cu i il Cavaliere disilluso, reduce dalla crociata ,
cercherà di sfidare la Morte, ma che a pr irà an che un orizzonte affollato di presenze : lo
scudiero simile al Fal staff verdiano, l'at t or e, il fabbro, il mascalzone, la strega-bamb in a,
e la coppia fe stosa dei giocolieri con il loro bambino, incarnazione dell'amore che vince
la Mor te. È, quindi, la storia umana nello spett ro variegato delle sue iridescenze gel ide e
calorose ad essere sot toposta al giudizio, all'interno di quel «silenzio di circa mezz'o ra»
che irrompe a ll 'apertura del settimo sigillo d ell'Apocalisse, il libro cardine dell'ispirazio n e
di quel film.
Fu quella la grande rivelazione per molt i, cre denti e agnostici, e la prima lezione di u n
regista che aveva appunto le vesti di un teologo agnostico. Il suo insegnamento pe r
immagini proseguirà per anni inerpicandosi sui sentieri d'altura delle domande ultime nei
cui confronti la filosofia balbetta e la ste ssa letteratura arranca. Il pensiero corre sub ito
all'indim enticabile Post o delle fragole ( 19 57 ), un vero e proprio itinerarium mentis in Dio
e nell'uomo, nel senso della vita e della mor te, del sapere e dell'ignorare, dell'a more
e della solitudine. Ininterrottamente, q ua si in una sorta di corpo a corpo, Bergman si è
infatti confrontato con le verità estrem e che la superficialità dei nostri giorni cerca di
narcotizzare.
E lo faceva di film in f ilm, ora lascian do si sor prendere dalle teofanie di luce, ora e più
spesso precipitando nello sconforto di u na sco nfitta perché l'Oltre e l'Altro si rivelava no
troppo r esistenti a una scoperta, o pp ur e la contraffazione della fede e l'ipocrisia lo
conducevano a uno scontro “notturno” e f in sa rcastico con la religione (come non pensa re a
Fanny e Alexander del 1982?). Eppure semp re egli ritornava alle vette ventose dello spirito
o alle spiagge del mare livido infinito d el be ne e del male, della fede e dello scettici smo,
dell'amore e del vizi o, della libertà e del destino, della speranza e della disperazio n e,
dell'evidenza e dell'assurdo, della luce e della t enebra, di Dio e di Satana.
La sua era un a t eologi a della domanda br ucia nte, sollecitata dalle sue radici protesta n ti
pietiste. Egli forse non scopriva mai u na risposta che fosse suggello alla sua
interrogazione insonne; per noi invece – e non lo dico solo come teologo ma dando voce
a tutti coloro che cercano il senso de ll'esistenza con un cuore che batte – gli squarci d i
luce erano emozionant i, così come fe con di er ano i suoi silenzi e i suoi dubbi. Vorremmo a
questo pr oposi to evocare una straordin ar ia tr ilo gia bergmaniana, tutta dedicata al silenzio
di Dio e alla crisi del la fede, cioè Luci d'inver no, Come in uno specchio e Il silenzio.
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Faremo riferiment o solo al primo dei tre f ilm , proprio perché ha al centro un ecclesiastico ,
uno dei non rari pastori luterani che s'a ffa cciano nelle sceneggiature del regista d i
Uppsala. Il film è l a storia di una cr isi int er iore che progressivamente ramifica la sua
mano mor tale nel l' anima di un uomo di Chie sa che, dopo aver perso la moglie per can cro,
si sente sempre più i l banditore pub blico d i un prodotto religioso e non più il testimo ne
di una fede. Una sensazione che trasp ar e da lle parole dei suoi sermoni, tant'è vero che
lentamente s' all arga attorno a lui il vuoto della comunità, capace di intuire che ormai eg li
non è più un annunci atore ma solo un p ropagandista professionale.
Ma accanto a l ui rimane uno dei «puri di cuore» evangelici, il sagrestano, person a
semplice e luminosa. È lui a prospe tta re il dramma di Cristo nel Getsemani e sulla
croce. Da un lato, ecco appunto l'incom pre nsione e l'abbandono degli amici, i disce poli
che «abbandonatolo, fuggirono», com e not a l'evangelista Matteo. Ma d'altro lato, ecco
il momento ben più tragico, quello del silenzio del Padre che sembra ignorare il g rido
angosciato del Fi gli o, crocifisso: «Dio mio , Dio mio perché mi hai abbandonato?». In
sintesi è questo il suggerimento di quel sagre stano: «Pensi al Getsemani, signor pasto re,
pensi alla croci fi ssione... Cristo fu pr eso com e Lei da un grande dubbio, dovette essere
quella la più crudele di tutte le sofferenze, voglio dire, il silenzio di Dio».
Si potrebbe a lungo seguire la lezione t eolo gica di Bergman intorno a questo grumo oscuro
che fa parte del credere stesso, tant'è ve ro che percorre persino la vicenda person a le
del nostro padre nelle fede Abramo, m en tr e sale l'erta del monte Moria, accompagna to
da quella voce divi na mostruosa. Cred er e è una lotta aspra e ferrata. Bergman è uscito,
come il patria rca ebreo Giacobbe, ferito a l f em ore, zoppicante ma non ha voluto affi darsi
alle promesse di quella voce trascende nt e e divina. Egli è, a nostro avviso, fratello di altri
registi che – su strade differenti – hanno spe rim entato lo stesso combattimento, registi ch e
possiamo considerare anch'essi a lor o mo do “ teologi”.
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Pensiam o al quart o personaggio dell a n ost ra or iginale galleria di registi “classici” pe r la
loro arte e pe r l a loro interrogazione sul te ma della fede. È Andrej A. Tarkovskij (193 2 –
1986) che lo stesso Bergman considerava “il p iù grande di tutti” nel rappresentare il mo ndo
interiore con tutti i suoi misteri, un m ae str o che abbiamo perso troppo presto, lasciando ci
in eredità solo nove film, i cui stessi t it oli g en er ano una vibrazione interiore non sol tanto
nei critici cinematograf ici: citiamo solo An dr ej Rublëv (1966), Solaris (1972), Lo specchio
(1974), Stalker (1979), Sacrificio (1984) . L ’it in erario che lo spettatore percorre in qu este
opere è simil e a un pellegrinaggio che risa le alle radici e che riesce a svelare un a
prodigiosa forza spirit uale. Basterebb e solo riferirci a quel gioiello che è Andrej Ru blëv,
grandiosa parabola non solo della crisi di un ar tista (il massimo pittore di icone, vissuto
tra il Trecento e i l Quat trocento) ma dell’u manit à in quanto tale.
Nel protagonista, inf att i, si raggruma l’oscu ro groviglio della disperazione di fronte al ma le
accecante del mondo: si ricordi, appunt o, il brutale ed emblematico accecamento d egli
artigiani da p arte del granduca, invid ioso della possibilità che il fratello potesse erig ere
un palazzo più bello del suo, e il pian to di Rublëv che imbratta con le mani immerse in
una tinta r ossast ra la superficie bianca pro nt a per le pittura. Un accecamento, che, tra
l’altro, è present ato solo attraverso lo sguar do atterrito di un apprendista bambino che
alla fine si fissa sull a mano inerte di un ca da ver e immerso in una palude, mentre accanto
a una borr accia esce il liquido bianco d ella vit a. Eppure quella violenza satanica contie ne
in sé già il germe dell a redenzione. Chi n on r icorda la ritrascrizione del racconto d ella
Passione in cui Cristo, raffigurato come m užik russo, avanza reggendo la croce se guito
da pie donne russe, mentre i piedi affondano nella neve?
Alla fine irr omperà, scandita col trapasso d al bianco e nero al colore, la liberazio n e
salvifica: Rublëv dipingerà quella stup en da icona della Trinità, ora custodita alla Galle ria
Tret’jakov di Mosca, ritrovando la fe de e l’a rte, la speranza e la vita, la fiducia e la
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bellezza. Come nota l a slavista Sim on et t a Salvestroni, «il protagonista ha finalme nte
compreso che a essere imperfetto e colpevole non è soltanto il mondo esterno, ma lo
stesso essere umano. Perciò la via p er g iungere alla salvezza non è tanto fuori qua nto
dentro di lui. Per scoprirlo gli uomini hanno bisogno di entrare in contatto con un a
dimensione d i armoni a e di bellezza». È la rivelazione della blagodat mira, la belle zzagrazia del mo ndo, una t eofania che reca in sé il divino e l’umano e che sboccia dall’amo re
(non per nulla nel film viene proclamat a la f inale del mirabile inno paolino alla carità di 1
Corinzi 13).
* * *
Chiudiamo, così, questa nostra piccola sequenza di registi che hanno attestato quanto sia
fecondo e cr eativo il dialogo tra fede e cinema riservando uno spazio finale a un camme o
minimo dedicato a uno dei maggiori m ae str i del cinema, Luis Buñuel (1900–1983), “ateo
per gr azia di Di o” secondo una sua citat issim a auto-definizione. Egli, infatti, pur da u n
angolo di visuale spesso critico e fin pr ovo cat or io, si è ripetutamente confrontato col te ma
religioso, a p artire da Nazarín (1958 ) e da Simon del deserto (1965) film domina ti da
religiosi dal p rofilo donchisciottesco p roprio p er l’utopia e la radicalità che li sostene va,
ma che in tal modo rivel avano l’inacc et t ab ilità del compromesso della purezza evange lica
con la m enta li tà imperante. In questa linea, anche se per contrasto, brilla Viridian a
(1961), l’ex-novizia che è costretta ad ad eg ua rsi a un mondo corrotto, spegnendo l’anelito
profondo di verità e di purezza che freme in le i.
L’educazione cat tol ica ricevuta dai Gesuiti aff iorerà in modo fantasmagorico nella cele bre
e affascinante V ia lat tea (1969) ch e m er iterebbe un’ampia analisi tematica: in essa,
infatti, si ha tut ta la nostalgia e l’int er esse per la teologia di un regista che, però, n e
scava sopratt utt o l e contraddizioni, a ffilan do la spada del duello teorico ed esistenzia le
(indimenticabile è appunto il duello a co lpi di fioretto tra il gesuita e il giansenista
sulla grazia e la predestinazione). Eme rge, co munque, il rilievo appassionato che vie n e
assegnato al fenomeno religioso nei cu i con fr onti si potrebbe applicare a Buñuel il motto
del filosofo Davi d Hume: «Gli errori d ella f ilo sofia sono sempre ridicoli, gli errori d e lla
religione sempre pericolosi».
Anche la cost ante e coerente denuncia d ella morale borghese – considerata come
antimorale e attestata soprattutto nella po tente opera Il fascino discreto della borgh esia
(1972) coi suoi rit i stanchi, ripetitivi e de solatamente vacui – riflette un’ansia qu a si
puritana di etica anche se mai trasform at a in parenetica. Anzi, emblematica può essere
la catastrofica fi nale del film Quell’oscur o og getto del desiderio (1977), ultima opera di
Buñuel, ove lo stravagante “Gruppo ar mato del Bambin Gesù” appronta e attua nel cuore di
Parigi un atte ntat o con una potente de flag razione. Si concluderà, così, una visione asp ra
e quasi apocalittica del mondo contemp or aneo, una visione certamente tormentata an che
dalle interrogazi oni rel igiose rimaste, però , solo come una spina nel fianco di un gran d e
artista, nemico dell’ipocrisia.
Il filo rosso della fede e della spiritualità h a, comunque, pervaso tante altre persona lità
del cinema, a nche apparentemente lont an e co me Fellini, Rossellini, Godard, Woody Alle n
e così via. Altre volte il filo è diventa to esp licito e ha retto opere di alta qualità estetica ,
come ha costant emente testimoniato tut ta la filmografia di Ermanno Olmi, a partire
dall’acclamato Al bero degli zoccoli (1 97 7) per giungere al Villaggio di cartone (2011 ), o
quelle del polacco Krzysztof Kieslowski colla sua indimenticabile serie dei dieci film d el
Decalogo (1989) e del suo connazionale Kr zysztof Zanussi. Tanti altri nomi potreb bero
essere associati i n una lunga lista – dalla Cavani a Zeffirelli, passando attrave rso
Comencini, Damiani, D’Alatri, Delannoy, Jewison, Greene, Hossein, Mazzacurati e co sì
via – per un tot ale che è stato calcolat o, dalle origini del cinema, in oltre 2200 pellico le
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di taglio reli g ioso esplicito. Si può, q uindi, co ndividere in qualche modo il titolo che fu
assegnato tempo f a a un convegno ita lia no su fede e cinema, … E la Parola si fece film.
La Chiesa e il cinema
Giungiamo, così, all ’ul ti ma sezione de lla nostr a trilogia, quella più direttamente eccle siale
e pastorale. La Chiesa di fronte a q ue sto fiume ininterrotto di immagini sacre ma
anche blasfeme, pacifiche ed efferate , cast e e oscene quale atteggiamento ha assu nto?
Nell’opinione comune questa attitudin e vie ne riassunta in una sorta di ossimoro un po ’
scontato: la Chiesa ha benedetto e depr eca to. In realtà, il rapporto tra Chiesa e cine ma
è stato più compl esso e variegato e si è ba sato innanzitutto sull’impatto sociale che
questa nuova arte operava. La si pot eva, co sì, considerare come un efficace strume nto
pedagogico e catechet ico. E ciò emer ge n el primo documento papale che si interessava
anche di cinema, l ’enci clica Divini illiu s Magistri di Pio XI (31 dicembre 1929: l’an n o
prima si era svolt o a Parigi il primo co ng resso cattolico del cinema): «Gli spetta coli
cinematografici [come i libri e le au dizion i r adiofoniche] sono potentissimi strumenti
di divulgazione, i quali possono riuscire , se diretti con sani principi, di grande utilità
all’istr uzione e al l’ educazione».
Tuttavia si segnal ava subito dopo il risch io della subordinazione di tali strumen ti
«all’incentivo delle mal e passioni e all’avidit à di guadagno». In questa linea di riserva si
muoverà anche l a prima enciclica inter am ente dedicata alla settima arte, la Vigilanti cura
emessa il 29 giugno 1936 sempre da Pio XI, sullo stimolo dei vescovi americani allarmati
per la dilagante immoralità della prod uzione hollywoodiana. Ma ormai si comprende va
l’insufficienza dell’atteggiamento solo negat ivo e, così, le varie comunità ecclesiali si
impegnavano a costi tui re centri cat tolici cin ematografici, capaci di offrire indicazio n i
pastorali concrete, ad aprire molteplici sale p ar rocchiali e relativi cineforum e, in qua lche
caso, anche a procedere alla prod uzione di film. Si configurava, così, una dup lice
prospettiva: da un l ato, la critica sui risch i e, d ’altro lato, la convinzione della eccezio nale
efficacia insita alla potenza e alla fascinazio ne di tale mezzo di comunicazione.
Significativi, al riguardo, sono i due d iscor si “ sul film ideale” che Pio XII tenne nel 1 955
ove si abbozzava un’analisi culturale e past or ale del cinema, puntando l’attenzione anch e
sulla stessa tecnica in continuo progresso ( er a il tempo in cui si era passati al sonoro e a i
primi effetti speci ali ), capace di cond ur r e lo spettatore verso orizzonti da lui non sempre
perlustrati, fa cendogli vi vere in modo part ecipe splendori e miserie, ideali e degenerazioni,
speranze e del it ti del l’ umanità. Ma conte mporaneamente non si perdeva mai di vista il
registro cr itico ed è per questo che Pio XII af frontava anche questioni complesse come
la liceità della rappresentazione del ma le, la dimensione psicologica della visione , la
capacità e l’ambigui tà narrativa rigua rdo ai valori etici, familiari e sociali. Tutto que sto
approdò nell ’enci cli ca Miranda prorsu s, semp re di Pio XII (1957) dedicata più ampiame nte
al fenomeno di una comunicazione che si allargava ben oltre i confini tradizionali de lla
stampa.
Anche i Pontefici successivi – Giovanni XXIII con la lettera Nostra Patris del 1961e co n
l’istituzione d ell a Fil moteca Vaticana nel 19 59 e Paolo VI coi suoi messaggi per la Giorn ata
Mondiale dell e comunicazioni sociali – pro mossa a partire dal 1967 – procederanno lun g o
la stessa duplice traiettoria di sostegno e di attenzione critica. Il Magistero ecclesiale
generale lascerà un’altra sua impron ta col de creto conciliare Inter mirifica (1963) che ,
pur attestandosi sul panorama generale della comunicazione sociale, riserverà uno spa zio
particolare al cinema. Tuttavia il travaglio, la novità e le riserve nei confronti di un sogge tto
così mobile e variegat o saranno testimonia te da un curioso dato statistico: questo decre to
fu in assoluto il documento conciliare p iù “cont estato” e nella votazione finale incassò be n
503 voti contrari su poco più di 2000 vota nt i.
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Infine Giovanni Paolo II, un Papa dal for te im patto “visivo”, che non aveva esitato a re carsi
nel 1987 anche a Hollywood, ha lasciat o u n’ampia messe di interventi tematici, soprattu tto
in occasione dei messaggi per le varie Gior na te Mondiali delle comunicazioni sociali e in
molteplici discorsi destinati agli operato ri n ell’ambito cinematografico. Suo è l’accento su l
cinema come «veicolo di cultura e pro po sta di valori», un tema sviluppato nel messa ggio
per la X XIX Giornata Mondiale del 199 5: «I l cinema – scriveva il Pontefice – permette di
abbattere le distanze e acquista quella dign it à, propria della cultura, quel modo specifico
dell’essere dell’uomo che crea tra le perso ne , dentro ciascuna comunità, un insieme di
legami, determi nando i l carattere interu mano e sociale dell’esistenza umana».
Questo legame strett o tra cinema e cu lt ur a sarà evocato indirettamente anche d a
Benedetto XV I nell’incontro con gli artist i (t ra i quali vari registi, attori, scenografi) da vanti
al gr andioso fondale del “Giudizio” di M ichela ngelo nella Cappella Sistina il 21 novemb re
2009: l’accent o era posto sulla “sororità” t ra ar te e fede, tra bellezza e spiritualità, come
vie alla trascendenza sia pure su perco rsi diffe renti, un messaggio di consonanza colloca to
sulla scia della Let tera agli artisti di Giovanni Paolo II (1999).
Ormai la consapevolezza che la settima art e sia uno specchio del nostro tempo con le
sue grandezze e i suoi abissi, ma sia an che una strada per entrare nella modernità ad
annunciare il V angelo, è saldamente ra dicat a nelle comunità ecclesiali di ogni contine n te.
Già Kafka, conversando con l’amico Jan ou ch, era convinto che il film potesse diventa re
una nuova modali tà per fare poesia e no i p otremmo applicare questa convinzione al
rapporto tr a cinema ed evangelizzazion e. Diceva appunto Kafka, che ovviamente ignora va
il digitale: « Le corde della lira dei p oe ti m oderni saranno interminabili pellicole d i
celluloide». Int ermi nabil i sequenze cinema togr afiche potrebbero essere voce e imma gine
dell’annuncio evangelico.
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