intervento - Vicariatus Urbis

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Pio IX, un Papa nella bufera
(Conferenza del 15 novembre 2014 – Palazzo Lateranense)
Domenico Rotella
Parlando di papa Pio IX, è inevitabile cennare qualcosa anche sul cosiddetto Risorgimento,
fenomeno capace di riempire intere biblioteche. Mi limiterò quindi ad illustrare quello che è il mio
personale punto di vista alquanto eterodosso, anche se ormai condiviso da molti.
La storia – quella “ufficiale”, quella che finisce poi sui libri di scuola - da sempre la scrivono (ma
soprattutto la manipolano) i vincitori. E i vincitori, a torto o a ragione, sono invariabilmente buoni,
giusti e depositari unici della verità e della ragione. Non a caso sui cannoni del Re Sole Luigi XIV
veniva incisa la locuzione “Ultima ratio regum”, l’ultima ragione dei re, ossia che dove non
arrivavano le parole a convincere qualcuno ci avrebbero pensato i cannoni a imporre la
mansuetudine. Io non ho alcuna pretesa – e ci mancherebbe pure! – di riscrivere la Storia, tuttavia
vorrei porre alla vostra attenzione alcune osservazioni basate solo su fatti concreti e che vorrei
servissero alla vostra ricerca individuale. Prendete pure cum grano salis le mie parole, ma poi siate
voi stessi a trarre infine le conclusioni.
La pur rovinosa sconfitta di Novara del 1849 – tale da causare perfino l’abdicazione sul campo
dello stesso re Carlo Alberto – non servì a placare le mire espansionistiche del figlio e nuovo
sovrano, Vittorio Emanuele II. Mire espansionistiche che la storia ufficiale ci smercia come
“politica nazionale e patriottica” e che proprio da allora – corroborata poi dall’ascesa al potere di
Cavour – prese il definitivo avvio. A differenza del padre, tanto mite e indeciso da meritarsi il
soprannome di Re Tentenna, Vittorio Emanuele era un personaggio rozzo, sgradevole, debosciato,
spietato e poco o nulla acculturato, che si esprimeva in uno stretto dialetto franco-piemontese che
niente aveva di italiano. E se Carlo Alberto era pur sempre stato il sovrano che aveva concesso la
Costituzione, Vittorio Emanuele era un despota che neanche si curava troppo di dissimulare la sua
allergia alla democrazia. Spesso, infatti, volendo far approvare talune leggi da lui volute non esitò a
minacciare governo e parlamento intimando loro di votare la tale legge pena l’allontanamento a
calcioni [sic!] e la sostituzione con elementi più condiscendenti. Del resto anche il figlio Umberto
fu poi a sua volta anche peggiore del padre, subendo alcuni attentati prima di quello finale e fatale,
sull’onda dell’orrore suscitato nel 1898 dai cannoni ad alzo zero che, sotto il comando del generale
Bava Beccaris - a Milano fecero strage di operai scioperanti.
Dopo Novara il Regno era dissanguato di uomini e finanze, un gran problema. La Sardegna, a cui
peraltro i Savoia dovevano immeritatamente il titolo regale, era di fatto una colonia da cui spremere
solo risorse e carne da cannone, senza nulla dare in cambio. Del resto nacque allora un modo di
dire, a lungo riverberatosi fino ai tempi moderni, di minacciare qualche funzionario riottoso con la
minaccia di “ti sbatto in Sardegna!”. Il ricco Lombardo-Veneto aspirava a liberarsi dagli Austriaci e
pur di raggiungere l’obiettivo era pronto a fare patti perfino col diavolo, e il diavolo si presentò
sotto le sembianze di Vittorio Emanuele. Un re odioso e detestato, ma l’unico in grado di fornire
quell’apporto militare indispensabile per contrastare la potenza austriaca. Ecco quindi l’idea (ma
non certo l’ideale) di unificare tutta la Penisola sotto la corona sardo-piemontese.
Ma se il Nord, Toscana compresa, era un vasto territorio sostanzialmente laico, ben diversa era la
situazione dei restanti due terzi d’Italia, lo Stato della Chiesa e il Regno delle Due Sicilie, un regno
non confessionale ma sicuramente devotissimo alla religione e figlio diletto della Chiesa. Per
realizzare quindi il suo obiettivo colonialista re Vittorio aveva assolutamente bisogno dell’appoggio
internazionale e per ottenerlo bisognava sedersi alla pari attorno al tavolo con le grandi potenze:
non so se questo ragionamento vi richiama altri precedenti storici risalenti al 1940.
Ecco allora che nel 1853 un incidente internazionale causò un terribile conflitto in Crimea. Francia
e Inghilterra da un lato, la Russia dall’altro. Il minuscolo Piemonte volle insinuarvisi in mezzo,
schierandosi con la coalizione anglo-francese e spedendo in Crimea circa 20.000 uomini (un terzo
del suo intero esercito!) e adeguato spiegamento di armi, cavalli e salmerie e ciò fino al 1856. Un
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suicidio economico, ma se Parigi val bene una Messa – disse Enrico IV – il via libera delle grandi
potenze per la conquista dello “spazio vitale” valeva bene un tale salasso, alla faccia delle migliaia
di soldati mandati a morire in una terra lontana per motivi a loro sconosciuti se non addirittura
ridicoli. Ma anche la posta in gioco era altissima, unire l’Italia significava in realtà impadronirsi
delle enormi ricchezze della Chiesa ma anche del Regno di Napoli. Si pensi che le riserve auree del
solo Banco di Napoli – una delle varie banche private e comunque non governative – erano il
doppio di quelle del regno piemontese. Ma va pure detto - fatto non secondario – che l’occupazione
colonialista del Regno di Napoli consentiva di fare del Sud un immenso serbatoio di nuove e
robuste braccia a buonissimo mercato per l’esercito e le industrie del Nord, dissanguate da cento
guerre. Ed è proprio col saccheggio perpetrato dai Savoia fino a metà del secolo scorso che la
Sardegna e tutto il Sud mai decollarono e ancor oggi ne risentono le conseguenze. Ma come ha
detto pure Giovanni Spadolini, in realtà si voleva abbattere il papato sia come regno temporale che
come religione.
Il fatto è che – a cominciare dai sovrani Savoia - tutta la “intellighenzia” piemontese era massone,
così come lo furono i principali protagonisti del Risorgimento, da Crispi a Zanardelli, dal gen.
Cialdini a Luigi Farini, fino al Lamarmora tanto per fare qualche nome. E stante che la massoneria
mutua i suoi riti da quelli degli antichi egizi, non è un caso che il più grande museo egizio del
mondo fuori dall’Egitto è proprio quello di Torino Ma se la militanza massonica poteva andar bene
alle classi intellettuali del nord laico e fondamentalmente anticlericale, molto meno andava a genio
nel sud cattolico e legittimista. Ma a chi affidare il lavoro sporco per impadronirsi del meridione?
Garibaldi e Mazzini – i due più accesi “rivoluzionari” – erano considerati terroristi dal governo
piemontese ma venivano tuttavia utili per dare una parvenza di ideale ad una operazione
fondamentalmente colonialista e di occupazione militare. Mazzini tuttavia, in una lettera a Cavour,
di fatto si tirò fuori dalla operatività con questa sciabolata verbale: "Tra voi e noi, signore, un abisso
ci separa. Noi rappresentiamo l’Italia, voi la vecchia sospettosa ambizione monarchica. Noi
desideriamo soprattutto l’unità nazionale, voi l’ingrandimento territoriale”. Mazzini rimase quindi
un puro ideologo, anche perché essendo di fede repubblicana mal sopportava l’idea di un’Italia
monarchica.
Rimaneva Garibaldi, un avventuriero rotto a tutte le imprese, spietato, avido di denaro e di potere,
già mercante di schiavi tra l’Africa e l’America del Sud, ricercato dalle polizie dei Due Mondi e non
certo perché era un “eroe”. Il papa lui lo definiva “quel metro cubo di letame che di soprannome fa
Pio Nono”, senza contare una sfilza di altre definizioni blasfeme che qui non possono avere spazio.
Era il personaggio ideale: lui avrebbe fatto da rompighiaccio e l’esercito regio gli sarebbe andato
dietro. Se avesse vinto lui, avrebbe vinto l’Italia, se avesse perso avrebbe perso lui solo. Il resto è
storia nota.
Tacito, nella sua biografia di Giulio Agricola, parlando dell’avidità dei conquistatori romani,
descrive – profeta involontario – quello che fu il Risorgimento per le terre da Roma in giù:
“Distruggere, trucidare, rubare, questo, con falso nome, chiamano impero e là dove hanno fatto il
deserto, lo hanno chiamato pace ». Garibaldi – Gran maestro della Massoneria italiana fin dal 1862
- ha sulla coscienza una quantità di eccidi ed esecuzioni sommarie di gente fedele al Re Borbone e
che non aveva nessun desiderio di essere liberata (citiamo ad esempio il massacro di Bronte in
Sicilia). L’esercito era invece sotto il comando di Enrico Cialdini, il feroce sicario dei Savoia e della
massoneria. Fu l’autore pluripremiato di vere e proprie stragi terroristiche soprattutto ai danni dei
fedeli cattolici. Razziò e sterminò interi paesi, come ad esempio Pontelandolfo e Casalduni nel
beneventano (1861) e dei quali ordinò “non ne rimanga pietra su pietra”: a parte le centinaia di
morti, oltre tremila persone rimasero senza casa. Del resto, l’insigne patriota – parlando di Napoli –
aveva già espresso questo delicato pensiero: “Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a
riscontro di questi cafoni, sono latte e miele”. A conferma di tanto odio razzista, non si ha alcuna
notizia di stragi e distruzioni operate a nord di Roma.
In realtà le grandi masse operaie e contadine – soprattutto al sud ma in parte anche al nord –
restarono sostanzialmente estranee al processo unitario, anche perché questo trattavasi di
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motivazione per esse scarsamente comprensibile, atteso che ognuno di quei poveri contadini
conosceva al massimo i paesi più vicini.
Oltretutto, senza il discreto ma robusto appoggio della flotta inglese spedita dal massone e primo
ministro Lord Palmerston difficilmente una banda di avventurieri su fragili piroscafi avrebbe potuto
raggiungere la Sicilia. E senza il fiume di denaro inglese non si sarebbero potuti corrompere i
generali borbonici per far loro ammorbidire lo spirito delle proprie truppe.
Il Sud è stato la Vandea d’Italia e la rilettura dei fatti non è negazionismo storico ma il tentativo di
restituire almeno l’onore a quelle migliaia di vittime che ebbero il solo torto di voler essere fedeli a
Dio, al papa ed al loro re non all’invasore Vittorio Emanuele. Un re tanto straniero che non si peritò
nemmeno di cambiarsi la denominazione una volta divenuto sovrano d’Italia. A livello di case reali
non è un particolare da poco. Ad esempio, quando Francesco III di Lorena, granduca di Toscana,
nel 1745 divenne imperatore d’Austria, mutò il proprio nome in Francesco I per rispettare la sequela
dei sovrani austriaci. Vittorio Emanuele II, re di Sardegna, come re d’Italia avrebbe dovuto essere
Vittorio Emanuele I, ma questa omissione – solo apparentemente secondaria - la dice lunga sulle
sue reali e regali intenzioni. In conclusione di questa breve introduzione, possiamo dire che la
bibliografia sul Risorgimento è tanto copiosa da essere forse seconda solo a quella sul fascismo,
segno che – comunque la si veda – l’uno e l’altro hanno lasciato ferite difficili da rimarginare.
Papa Pio IX morì nel 1878, circa 135 anni fa, ma pur a distanza di sì gran tempo è ancora in grado
di dividere radicalmente chi di lui si occupa: chi lo ama, lo adora senza riserve; chi lo detesta, lo
odia ferocemente. Difficile trovare altri personaggi più remoti quanto a durevole passione nei
posteri, ma forse nella sua vicenda oggi si specchiano anche vicende del tutto estranee alla querelle
risorgimentale. Segno, comunque la si veda, d’una statura storica di assoluto rilievo.
Curioso destino, quello dei papi di nome Pio: essi, forse più di altri, negli ultimi quattro secoli
hanno impersonato momenti storici davvero fondamentali. Pio Quinto, poi santo, fu il papa di
Lepanto; il Sesto e il Settimo subirono da vere vittime la Rivoluzione Francese prima e il ciclone
napoleonico poi; il Nono fu, in ogni caso, uno dei massimi protagonisti del Risorgimento; il
Decimo, primo pontefice santo proprio dopo il Quinto, fu lo strenuo difensore della tradizione
dinanzi al modernismo laicizzante ma ancor di più fu quello che visse, fino a morirne di dolore, il
dramma della Grande Guerra; l’Undicesimo firmò, con i Patti Lateranensi del 1929, la storica
pacificazione con lo Stato italiano; il Dodicesimo, al pari del Decimo, visse la tragedia d’una
Guerra Mondiale, con tutto il fardello di polemiche — peraltro non ancora sopite — circa la
questione ebraica. A questo illustre consesso fa eccezione l’Ottavo perché, debole e malaticcio,
regnò così poco (appena venti mesi, tra il 1829 ed il 1830) e con tale scarso peso che il pungente
epitaffio di Pasquino così ne sintetizzò la fugace vicenda: “nacque, pianse, morì”.
Forse, dopo il Dodicesimo, il Nono Pio è quello che ancora alimenta più polemiche fra gli storici e
non. La vicenda è abbastanza nota. Eletto papa a soli 54 anni nel 1846 e preceduto dalla (forse
eccessiva o immeritata) fama di “liberale”, i primi due anni conobbe una popolarità senza pari, al
limite — aggiungiamo noi — dell’isterismo o dell’idolatria. L’Italia intera guardò a lui come
l’unica guida capace di unificare il pulviscolo di staterelli della penisola in un unico regno ormai
libero da occupazioni straniere, governato dalla più alta autorità possibile: il papa stesso. Era il
sogno di Gioberti e di tantissimi italiani ma non certo di Vittorio Emanuele ed infatti gli eventi
andarono poi diversamente per tanti motivi: infine, nel 1849, Pio IX dovette addirittura fuggire da
Roma e rifugiarsi a Gaeta — nel Regno di Napoli — dinanzi al sorgere della mazziniana
Repubblica Romana. Quando poté finalmente fare ritorno nell’Urbe (1850) lo scenario generale era
ormai radicalmente mutato. A torto o a ragione, da allora si trovò suo malgrado ad impersonare il
ruolo di nemico del Risorgimento e dell’unità nazionale. E dicendo “impersonare” vogliamo
sottolineare quanto - almeno a nostro avviso - egli fu condizionato più dal “dovere” di essere papa
che dal “volere” di essere soltanto Giovanni Maria Mastai Ferretti: se l’uomo sapeva da gran tempo
che il regno temporale era un peso fastidioso e destinato comunque a perire di naturale consunzione,
il pontefice aveva il dovere ineludibile di tramandare il patrimonio apostolico ricevuto come
custode temporaneo e non certo come proprietario.
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Del resto, non va dimenticata la vicenda molto similare di un altro grandissimo ma dimenticato Pio,
il Settimo. La notte del 5 luglio 1809 un plotone francese fece irruzione nel Quirinale per
costringere il papa a rinunciare al potere temporale. L’episodio storico ha ormai la dimensione della
leggenda. Vecchio e inerme, il papa indossò una stola sopra la semplice veste da camera ma si fece
comunque trovare assiso in trono. L’ufficiale napoleonico, pur imbarazzato, gli intimò quanto gli
era stato ordinato. Pio VII si alzò allora in piedi e con voce ferma proclamò un triplice diniego:
“Non possiamo. Non dobbiamo. Non vogliamo”. Frase che sintetizza magistralmente tutta l’essenza
Introduzione del ruolo pontificale e dove la volontà personale ha un valore puramente accessorio.
Pio fu così arrestato e condotto via: seguirono quattro anni di continue sofferenze e deportazioni tra
Italia e Francia. Singolarmente, anche Pio IX fu in pratica intimato di rinunciare al potere temporale
ed anche lui – sia pure con altre parole e strumenti - rispose con il triplice e doloroso diniego. Sta
comunque di fatto che per entrare ad ogni costo in Roma i piemontesi - peraltro dopo una lunga e
dura campagna di progressivo assedio - dovettero infine abbatterne le mura a cannonate e, a
differenza delle altre città italiane, non furono accolti con feste e acclamazioni di giubilo bensì con
il tradizionale algido scetticismo romano. Tranne episodi marginali, in città - fino all’ultimo istante
- non vi erano state né le ribellioni né i tumulti filo italiani tanto attesi dagli invasori. Ancora nel
1866 alcuni sobillatori vennero inviati da Bologna per accendere gli animi alla popolazione.
Passando per via del Corso videro Pio IX che a piedi e senza pompa passeggiava amabilmente tra
due ali di popolo esultante. Al che il capo dei cospiratori si rivolse agli altri compagni dicendo: “Ma
noi che ci siamo venuti a fare, qui?”.
Nel fatale 1870 nessuno si sentì poi in dovere di spalancare le millenarie porte urbane a chi
usurpava armi in pugno un legittimo e pacifico regno. All’epoca i vincitori parlarono di
“liberazione” di Roma, oggi un’identica operazione imperialista condotta anch’essa sulla punta
delle baionette viene chiamata invece “esportazione della democrazia”: potenza del linguaggio
mediatico! Non va infine dimenticato un altro fattore molto più prosaico: la Chiesa e la nobiltà
davano lavoro praticamente a tutta Roma.
Tornando a Pio VII, questi aveva grandissima stima e affetto per il giovane Mastai, tanto che lo
volle aggregare alla storica missione diplomatica che partì per il Cile nel luglio 1823 ma di cui
l’anziano pontefice non poté conoscere gli esiti in quanto morì il mese seguente. La missione durò
fino al 1825: diplomaticamente fu di fatto un fiasco ma l’impegno profuso in quelle terre dal
giovane sacerdote gli procurò un prestigio tale da riverberarsi fin quasi nel conclave del 1846. In
tale occasione, racconta un esperto del calibro di Giulio Andreotti, il card. Mastai “prese il nome di
Pio, in devota memoria di Pio VII, con una colleganza che, partita dalla appartenenza alla
medesima cattedra vescovile imolese, avrebbe avuto - dagli sviluppi del nuovo pontificato - terribili
analogie nella persecuzione e nel dolore. Del resto era stato Pio VII a convocarlo, quando era un
ragazzo, con un biglietto scritto a mano: «Mio caro Mastai, oggi vieni da me a ore due, devo
comunicarti una cosa da parte del buon Dio». E lo aveva indotto a riconoscere di avere la
vocazione per il sacerdozio”.
Ma il legame con Pio VII non finisce qui: la prima intuizione che egli ebbe sul ragazzo fu
certamente il frutto di più alta ispirazione, che più tardi sconfinò nella profezia. È sempre Andreotti
a rivelare un episodio ben poco noto: “[. . . ] nel diario tenuto nella prigione di Fontainebleau
[1812 - n.d.a.], Pio VII aveva scritto che il suo successore nel vescovado di Imola sarebbe divenuto
Papa proprio nel 1846. Frase considerata allora una bizzarria”. Ma che invece, aggiungiamo noi,
è da considerarsi evidentemente il segno di una potente predestinazione, come quello della Beata
Anna Maria Taigi (1769-1837) la quale profetizzò l’elezione papale del cardinale Mastai ancorché
fissandola al 1845. Si pensi che la Beata morì tre anni prima che lo stesso Mastai venisse creato
cardinale!
Pio IX è un segno di contraddizione. Ha i suoi devotissimi estimatori e i suoi acerrimi critici. A
questi ultimi vorrei però far presenti due considerazioni, che (forse) potrebbero aiutarli a mitigare
alquanto i loro sentimenti di avversione. La prima considerazione riguarda la diversa valutazione
che va data delle virtù umane e soprannaturali di una persona, da una parte, e, dall’altra, della sua
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capacità di comprendere lo spirito del tempo e della sua abilità nelle decisioni politiche. La causa di
beatificazione, conclusa con il solenne atto da parte di Giovanni Paolo II in Piazza S. Pietro il 3
settembre 2000, riconosceva le sue virtù personali, non giudicava della sua azione politica. Nella
sua omelia Giovanni Paolo II – futuro santo - disse di lui:
“Papa Pio IX, Giovanni Maria Mastai Ferretti, in mezzo agli eventi turbinosi del suo tempo, fu
esempio d’incondizionata adesione al deposito immutabile delle verità rivelate. Fedele in ogni
circostanza agli impegni del suo ministero, seppe sempre dare il primato assoluto a Dio e ai valori
spirituali. Il suo lunghissimo pontificato non fu davvero facile, ed egli dovette soffrire non poco
nell’adempimento della sua missione al servizio del Vangelo. Fu molto amato, ma anche odiato e
calunniato. Ma fu proprio in mezzo a questi contrasti che brillò più vivida la luce delle sue virtù: le
prolungate tribolazioni temprarono la sua fiducia nella divina Provvidenza, del cui sovrano
dominio sulle vicende umane egli mai dubitò. Da qui nasceva la profonda serenità di Pio IX, pur in
mezzo alle incomprensioni, agli attacchi di tante persone ostili. A chi gli era accanto amava dire:
“Nelle cose umane bisogna contentarsi di fare il meglio che si può e nel resto abbandonarsi alla
Provvidenza, la quale sanerà i difetti e le insufficienze dell’uomo”. Sostenuto da questa interiore
convinzione, egli indisse il Concilio Vaticano I, che chiarì con magistrale autorità alcune questioni
allora dibattute, confermando l’armonia tra fede e ragione. Nei momenti della prova Pio IX trovò
sostegno in Maria, di cui era molto devoto. Proclamando il dogma dell’Immacolata Concezione,
ricordò a tutti che nelle tempeste dell’esistenza umana brilla nella Vergine la luce di Cristo, più
forte del peccato e della morte”.
Sono parole che vale la pena di ricordare. Giovanni Paolo II citò allora anche quanto su di lui aveva
scritto anni prima, nel suo Giornale dell’Anima un altro futuro santo, Giovanni XXIII, da lui
dichiarato Beato insieme a Pio IX in quella medesima circostanza: “Io penso sempre a Pio IX di
santa e gloriosa memoria, e imitandolo nei suoi sacrifici, vorrei essere degno di celebrarne la
canonizzazione”.
La seconda considerazione riguarda invece l’atteggiamento di Pio IX di fronte alle rivendicazioni
del re Vittorio Emanuele II, il quale gli richiedeva semplicemente, con disarmante semplicità (si fa
per dire!), di cedergli lo Stato Pontificio, Roma inclusa. Se da un punto di vista politico si può
reputare che il processo dell’unità d’Italia fosse ormai giunto alla sua storica maturazione, e se si
può oggi affermare - con la scienza del poi - che dalla perdita del potere temporale venne alla
Chiesa e al Papato un gran bene, non va però dimenticato che da un punto di vista giuridico Pio IX
non poteva in alcun modo consentire alle pretese piemontesi. Così come ogni altro cardinale
partecipante al Conclave dal quale venne eletto alla Cattedra di Pietro, egli si era impegnato - con
solenne promessa, con assunzione d’obbligo e con giuramento - in caso di elezione, oltre che a
svolgere fedelmente il Munus Petrinum, “ad affermare e difendere strenuamente i diritti spirituali e
temporali, nonché la libertà della Santa Sede”. Ma non va nemmeno dimenticato che la stessa
porpora cardinalizia ricorda il sangue che ciascun cardinale deve versare, ove occorresse, per
difendere la Chiesa e la religione: “usque ad effusionem sanguinis”, recita il voto da osservare. Con
tali giuramenti alle spalle, dunque, come poteva Pio IX rinunciare ai diritti temporali della Santa
Sede, da secoli ad essa pacificamente riconosciuti a livello internazionale? E aggiungerei: anche da
un punto di vista politico, come poteva Pio IX pensare che il governo sabaudo avrebbe mantenuto le
promesse di libertà così largamente manifestategli da Vittorio Emanuele II, quando esso, già da
decenni, s’era mostrato del tutto noncurante, per non dire sprezzante, della libertas Ecclesiae, a
partire dalla legge del 29 maggio 1855, n. 878, che sopprimeva le corporazioni religiose, seguita dal
Decreto Legislativo del 7 luglio 1866, n. 3036, che sopprimeva alcuni ordini religiosi, capitoli e
benefici, e poi dalla legge del 15 agosto 1867, n 3848, che liquidava l’asse ecclesiastico? E che
fedeltà alla parola data poteva attendersi da un Governo soggetto a una maggioranza parlamentare
assai instabile e variabile di colore e di umore?
Un giudizio storico ponderato - mi pare ben chiaro – non può prescindere dalla valutazione di dati
giuridici di grandissimo peso, né dalle prospettive politiche quali valutabili dal giudizio prudenziale
del momento; e non può essere dettato solo dalle conseguenze di fatto, per positive che esse siano.
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Analogamente mi pare si debba dire, per altro verso, di quel documento di Pio IX - oggi quasi
unanimemente condannato - che fu il Sillabo, allegato all’enciclica Quanta cura dell’8 dicembre
1864, che elencava i “principali errori” di quel tempo. Per vero, se si mettono a confronto diverse
espressioni del Sillabo e le dichiarazioni del Concilio Vaticano II sulla medesima materia, non si
può negare che esse appaiono tra loro inconciliabili. Ma un tale confronto testuale non è un metro
accettabile dal punto di vista della scienza storica. Per comprendere il vero significato del Sillabo,
non si può prescindere dal significato delle domande a cui intendeva dare risposta e dal contesto
ideologico concreto che stava dietro a quelle asserzioni e a quelle domande. Domande e contesto
ideologico che implicavano la negazione dell’obbligo morale di cercare la verità, di aderire alla
verità conosciuta e di ordinare tutta la vita secondo le esigenze della verità: obbligo che è invece
espressamente addotto, quasi in premessa, dal Concilio Vaticano II a fondamento del diritto alla
libertà di religione (Dichiarazione Dignitatis humanae, nr. 2).
Anche se più volte e dai più eminenti prelati sottolineato, il carattere “provvidenziale” del crollo
dello Stato Pontificio non deve però trarre in inganno. Esso non significa affatto avallare i fiumi
d’inchiostro, versati da una certa storiografia in malafede, nel tentativo di presentarci una Chiesa
sempre retriva, insofferente alla modernità, e un Pio IX tetragono, solitario, blindato in un
assolutismo di stampo settecentesco, sovrano e tiranno insensibile al “grido di dolore” dei popoli
italiani. Giudizi storici fallaci ma che dureranno ancora nel tempo.
In realtà Pio IX è una figura assai complessa, tanto che non sono mancate le critiche al suo papato
anche da parte di studiosi cattolici. Ma anche questi, però, riconoscono che furono anche gli
avversari di papa Mastai – con il loro atteggiamento politico – a costringerlo a quella intransigenza
che poco spazio lasciava a ipotesi più concilianti. Va detto infatti che l’antagonista di Pio IX era
uno Stato che – come scrive un laico illuminato del calibro di Giovanni Spadolini in “Il papato
socialista” - voleva “fissare e delimitare le competenze specifiche della Chiesa nel suo magistero
ecclesiastico, escludendola dalla società civile, dove il dominio assoluto e incondizionato sarebbe
stato quello dello Stato e dello Stato soltanto”.
In effetti – riconosce il gesuita Giacomo Martina, autore della più completa ricostruzione del
pontificato di Pio IX – “la politica liberale di quegli anni in Italia, opera essenzialmente di Cavour
ma anche di Rattazzi e di altri, si ispirava a principî ostili alla Chiesa, non ad un’affermazione di
libertà di tutti, compresa la Chiesa, e si muoveva coerentemente a queste idee. Si rifiutava ogni
concordato, ogni garanzia giuridica. Non si ammetteva una sia pur ridotta sovranità territoriale:
Pio IX aveva capito bene che la rinunzia ad una parte del suo Stato avrebbe portato alla perdita
totale di esso…La creazione di uno Stato laico non implicava solo l’affermazione di libertà per
tutti, individui ed associazioni, compresa la Chiesa” ma altresì “ la volontà di ridurre od escludere
l’influsso sociale della Chiesa, ed una lotta aperta contro gli istituti religiosi…”. Tra quei “principî
ostili” non è citata espressamente la massoneria ma il riferimento è assai trasparente se si pensa
all’intera classe politica sabauda.
L’obiettivo, tutt’altro che sottinteso, non era quindi “soltanto” l’abbattimento del potere temporale,
bensì l’annientamento del papato e, in filigrana, della stessa religione cattolica. Pio IX non ignorava
tutto questo, quindi aveva ottimi motivi per tormentarsi circa l’espansione di un modello di vita
sociale e politica che non solo non si ispirava più ai principî del cattolicesimo ma addirittura li
avversava. Qualunque interpretazione si voglia dare all’operato di Pio IX non si può affatto
prescindere da un approccio di tipo ermeneutico, ossia guardando i fatti non con i nostri occhi del
XXI secolo ma immedesimandoci nel tempo storico.
Il giurista Arturo Carlo Jemolo scrisse di Pio IX che “la sua coscienza di papa non gli permetteva
di porre spontaneamente i propri sudditi sotto la sovranità di Vittorio Emanuele”, e ciò perché “la
preoccupazione religiosa – come ben videro i contemporanei del papa ….- fu sempre dominante
sopra ogni preoccupazione politica”. L’autorevole giudizio fornisce la migliore chiave di lettura,
imparziale e oggettiva, circa il pontificato di papa Mastai, per il quale l’attività politica e
diplomatica non erano fini a se stesse bensì strumentali all’unico suo vero obiettivo: la tutela delle
anime di quanti a lui e alla Chiesa si affidavano. Nel 1849, appena tre anni dopo la sua elezione,
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aveva scritto alla Granduchessa Maria di Toscana che la tutela del dominio temporale era certo per
lui “un dovere di coscienza”, ma tuttavia secondario rispetto a quello di “procurare che i popoli
cattolici conoscano la verità” e fossero ben edotti circa i buoni principî “che oggi si tenta di
capovolgere”. Anni più tardi, conversando invece col generale Kanzler, comandante del piccolo
esercito pontificio, precisò ancor più il suo pensiero: “Il potere temporale è una cosa sacra; lo
difenderò fino alla morte, ma è una grande seccatura”.
Un altro dei pregiudizi che ancora pesano su Pio IX è quello di essere stato “antitaliano”, duro
ostacolo al divenire dell’Unità d’Italia. Affermando questo, però, si dimentica che egli non ebbe
mai propensione per l’Austria e con discrezione guardò sempre con occhio benevolo i tentativi di
liberare il suolo italico dalle presenze straniere. Di converso, però, non riteneva confacente alla sua
missione pontificale lo scontro bellico con un sovrano cattolico. Un altro autorevole studioso, il
gesuita Giovanni Sale, ci ricorda che invece Pio IX “appoggiò quelle iniziative – disgraziatamente
andate a vuoto soprattutto per i sospetti, le gelosie e le ambizioni del Regno di Sardegna – tese a
riavvicinare gli Stati italiani, quale fu ad esempio la proposta di una Lega doganale e soprattutto
un progetto di Lega difensiva da organizzare contro lo straniero….Ma le ambizioni del Piemonte
che intendeva monopolizzare a suo vantaggio i benefici della guerra di indipendenza nazionale,
impedirono di fatto di realizzare la lega difensiva”.
Pio IX non aveva quindi alcun preconcetto circa l’unificazione italiana, semplicemente avversava i
presupposti e le modalità operative del Regno sabaudo. Pur non dimenticando mai il suo primato di
pastore universale, egli cercò fin dall’indomani della sua elezione di incoraggiare il processo
unitario, operando un ripensamento solo quando fu chiaro che l’ottica del Savoia mirava non tanto a
distruggere “solo” il potere temporale quanto quello spirituale. E quale altra avrebbe potuto essere
la reazione di un pontefice dinanzi a provvedimenti dichiaratamente persecutori della religione
come la soppressione di ordini religiosi al fine di incamerarne i beni? Che gettavano in strada e
senza più mezzi di sostentamento migliaia di suore e frati? Che di fatto imponevano ai vescovi di
insediarsi nelle diocesi loro assegnate?
In una lettera del 1861 Pio IX afferma che “gli italiani sono popolo cattolico. Però quelli che
reggono le sorti di questo popolo avversano il papa e il papato. Sarebbe possibile che il papa
potesse segnare sulla fronte di questi reggitori il segno della redenzione?.....Altro segno non può
imprimersi che quello per cacciare il principe delle tenebre. Se col tempo le condizioni si
miglioreranno e gli atti di giustizia ritorneranno in vigore, e la morale, sconvolta, sarà non più
oppressa, ma sostenuta, allora le benedizioni potranno essere più generali”. L’accenno al “principe
delle tenebre” – ossia Satana – non è casuale. Purtroppo l’esiguità dello spazio a nostra disposizione
ci impedisce di soffermarci in modo adeguato, ma si può affermare con certezza che papa Mastai
sapeva benissimo che, come sempre, dietro la massoneria si agita il demonio. E questi aveva un
motivo in più per moltiplicare la sua avversione per il papa, visto che questi nel 1854 aveva
proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione: Maria, destinata in eterno a schiacciargli il capo,
è un vero incubo per Satana e un dogma di tal tipo non fece che irritarlo ancor di più. L’apparizione
stessa di Maria, poi, nel 1858, alla giovane e futura santa Bernadette Soubirous - dove si presentò
proprio come la “Immacolata Concezione” - fece il resto.
Ma relegare Pio IX alla sola dimensione politica è un esercizio molto caro alla cosiddetta cultura
laica, la quale in genere più che “laica” è semplice atea e anticlericale, laddove l’anticlericalismo
trova poi il suo sbocco naturale nell’odio per la religione stessa, a prescindere dalle persone che la
governano. Si pensi che nel 1881, durante la traslazione notturna (per motivi di sicurezza) della
salma di Pio IX alla basilica di S. Lorenzo al Verano, un folto gruppo di “sinceri democratici”
assaltò il convoglio funebre al fine di “gettare a fiume la carogna di Pio IX”. Ma per grazia di Dio i
devoti accompagnatori riuscirono a fugare quei mascalzoni, mentre la polizia assisteva inerte fra
risate e sberleffi.
Parlare invece della dimensione puramente religiosa di papa Mastai è un discorso enorme, che
riempie volumi e volumi di documenti per la causa di beatificazione prima e di canonizzazione poi.
Possiamo solo ricordare che in quasi trentadue anni di pontificato impresse alla Chiesa un carattere
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fortemente missionario, moltiplicando le missioni nel mondo. Riconobbe una infinità di nuovi
ordini e istituti religiosi, firmò numerosi concordati per salvaguardare la libertà della Chiesa in
Paesi stranieri. I Salesiani venerano Pio IX loro “cofondatore” accanto a S. Giovanni Bosco.
Benedisse la nascita della «Società della Gioventù Cattolica», la futura «Azione Cattolica»; volle
che fossero creati i periodici «La Civiltà Cattolica» e «L’Osservatore Romano»; ma troppo vasta è
la sua opera di pastore della Chiesa universale e forse anche questo aspetto irrita non poco i ciechi
adoratori di Garibaldi e i “risorgimentalisti” ad oltranza.
Il conte Gabriele Mastai espresse un giudizio davvero efficace sul fratello pontefice: “Tagliatelo a
pezzi, ma ricomponendo i pezzi vedrete che non potrà venir fuori altro che sempre il prete”. Parole
di fatto condivise da un autorevolissimo laico e “mazziniano” del Novecento, Giovanni Spadolini
che – ben pochi sanno – fu con estrema riservatezza contattato dal Vaticano in vista della
beatificazione di papa Mastai, e fu proprio il suo giudizio positivo a contribuire a sbloccare il
processo canonico, tenuto “in frigorifero” per motivi di opportunità politica. Un po’ quello che
accade ancora – sia pure per motivi assai diversi - per la beatificazione di Pio XII fortemente e
pretestuosamente avversata dalla comunità ebraica, alla quale forse brucia ancora un fatto su cui ha
steso una cappa di piombo: nientemeno che il rabbino capo di Roma – Israel Anton Zolli – nel 1943
volle ricevere il battesimo cattolico in onore di papa Pacelli da lui tanto venerato, prendendo il
nome di Eugenio Pio. Nel 1944 avrebbe poi avuto una visione di Gesù Cristo e nel 1945 si convertì
con tutta la famiglia.
Ma vogliamo concludere con un altro passo degli scritti di Giovanni Spadolini: «Papa religioso
come pochi altri ce ne furono nella storia, questo pontefice che pur ha legato il suo nome al
Risorgimento e alla crisi del potere temporale. Solo l’interesse della religione costituiva lo
spartiacque dei suoi giudizi e delle sue valutazioni». Il forte timore di Pio IX non era legato alla
perdita dello Stato temporale di per se stessa, ma solo in funzione della indipendenza della Chiesa
eventualmente minacciata dalla mancanza di un pur minimo scudo territoriale, “il tradizionale
diaframma fra l’Italia e l’Orbe cattolico” lo definì Spadolini. E fu proprio un altro Pio,
l’Undicesimo, a siglare nel 1929 quella pacificazione fra Stato e Chiesa che valse pure il
riconoscimento giuridico dello Stato Città del Vaticano: Pio IX poteva finalmente sorridere,
affacciato dalla finestra nell’alto dei Cieli.