Piero Calamandrei e la Costituzione (*)
Giuliano VASSALLI
Nei rapporti tra Piero Calamandrei e la Costituzione non è difficile
distinguere quattro fasi:
– quella del preannuncio della Costituzione democratica e dell'Assemblea
costituente e dell’affermazione della loro necessità (1945-1946);
– quella del contributo dato alla scrittura della stessa Costituzione, svolto
con assiduità di deputato del Partito d’azione all’Assemblea costituente
(1946-1947 ed anche nei primi mesi del 1948) e accompagnato da intensità
di scritti e di discorsi, pronunciati fuori dell’aula di Montecitorio;
– quella, che occupa circa sette anni dell’intensa sua vita, compreso il quinquennio di ulteriore attività parlamentare (1948-1955). Calamandrei fu
infatti eletto il 18 aprile 1948 nella lista nazionale di “Unità socialista” (dove
occupava il quarto posto dopo Ivan Matteo Lombardo, Tremelloni e Simonini: Saragat non aveva voluto esservi collocato preferendo essere capolista
in tre collegi, in ognuno dei quali venne eletto al primo posto). Un anno dei
cinque (il 1950) Calamandrei lo trascorse come deputato del Partito socialista unitario, un partito vissuto poco più di un anno, ma il cui gruppo alla
Camera aveva ben 14 deputati; mentre i tre anni residui li trascorse in gran
parte come membro del Partito socialista democratico, ma in dissidenza
rispetto alla maggioranza: basterebbe ricordare la dissidenza sua e d’altri
deputati famosi come Ugo Guido Mondolfo (e con loro di Belliardi, Bon-
(*) Stralcio dell’intervento in occasione del Convegno in onore di P. Calamandrei tenutosi a Salice Terme il 13
aprile 1997 organizzato dalla Federazione Italiana Associazioni partigiane per le celebrazioni del 50° Anniversario della Costituzione.
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fantini, Cavinato, Giavi, Lopardi e Zanfagnini) all’epoca della “legge maggioritaria” del marzo 1953. Nelle ultime settimane di quella prima legislatura era già esponente del movimento di “Unità popolare”, nato appunto in
opposizione all’approvazione di quella legge e per farla fallire nei risultati,
come fallì. Cessata la prima legislatura restò in “Unità popolare” e continuò
ad operare fuori del Parlamento come indipendente. Ebbene in questa fase,
che mi sembra possa considerarsi come conclusa nel 1955, il rapporto tra
Calamandrei e la Costituzione è quello di un uomo fortemente deluso ma
estremamente combattivo. Deluso, in parte, per gli stessi contenuti e per
alcune formulazioni della Carta costituzionale; ma soprattutto deluso per la
mancata attuazione della stessa, da lui continuamente denunciata in scritti
giuridici e politici (tutto “Il Ponte”, la rivista da lui fondata e diretta di quegli anni, è pieno di suoi saggi critici in argomento), anche se la sua posizione non è del tutto priva di speranza;
– ed infine la quarta fase, quella dell’ultimo anno di sua vita, in cui le speranze si riaccendono per l’avvenuta entrata in funzione della Corte costituzionale, da lui tanto fortemente auspicata negli anni precedenti e per l’estensione della cui competenza Calamandrei condusse una grande battaglia.
Uno dei suoi ultimi articoli su “La Stampa” (6 giugno 1956), intitolato “La
Costituzione si è mossa” e l’ultimo suo contributo alla “Rivista di diritto
processuale” sono appunto dedicati a questo tema.
La tematica costituzionale affrontata da Calamandrei nei primi due
periodi ai quali ho accennato è estremamente vasta. Parte da temi veramente di fondo, come il concetto stesso di democrazia, ma si estende a vari settori. Dominano anche, nel primo periodo, la ricostruzione del quadro storico dei mutamenti in atto, in particolare la rivendicazione di una rottura
della “continuità istituzionale”, che lo portò a criticare aspramente, del resto
con altri uomini politici, quello che egli definì il compromesso della tregua
istituzionale deciso nel giugno 1944, il decreto legislativo del marzo 1946
che confermava, salvo poche eccezioni, il potere legislativo al governo nonostante l’esistenza dell’Assemblea costituente, l’istituto stesso della “luogotenenza generale del regno” e poi l’abdicazione del re Vittorio Emanuele III in
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favore del figlio.
Centrale, tra le numerose opere di quel primo periodo, è il libricino
“Costruire la democrazia”, contenente una serie di scritti minori che vanno
dal dicembre 1944 al settembre 1945, e il cui sottotitolo è “Premesse alla
Costituente”.
In esso egli non tratta soltanto i problemi più strettamente attinenti ai
compiti e alla competenza della futura Assemblea costituente visti sul piano
politico ed istituzionale; bensì affronta il nucleo essenziale di quella che
dovrà essere una Costituzione autenticamente democratica.
Dominano qui le idee centrali della libertà e della legalità. Calamandrei
denuncia sia quella che è stata la soppressione della legalità propria di certe
dittature rivoluzionarie o sedicenti rivoluzionarie, come quelle sovietica e
nazionalsocialista, sia quella che egli ravvisa come carattere della dittatura
fascista italiana, la legalità cioè adulterata o falsificata, che ha lasciato pesanti
tracce sulla concezione di vita e sulla stessa coscienza dei cittadini. E pone in
rilievo il legame indissolubile tra libertà e legalità. La libertà è condizione ineliminabile della legalità. Dove non v’è libertà, non può esservi legalità.
Nel grande quadro delle libertà, peraltro, fondamentali sono le libertà
politiche, tra le quali Calamandrei preferisce includere anche le libertà civili perché “i diritti di libertà in regime democratico non devono concepirsi
come il recinto di filo spinato entro cui il singolo cerca scampo contro gli
assalti della comunità ostile, ma piuttosto come la porta che gli consente di
uscir dal suo piccolo giardino sulla strada e di portare il suo contributo al
lavoro comune: libertà, non garanzia di isolamento egoistico, ma garanzia di
espansione sociale”. L’individuo non deve chiudersi in se stesso e perdere il
senso della solidarietà collettiva. Quest’ordine di concetti è ripreso nel delineare, sulla base dell’insegnamento di Francesco Ruffini, i rapporti inscindibili tra libertà individuale e sovranità popolare. Esse “si affermano insieme
come espressioni di una stessa concezione politica, e insieme troveranno la
loro sistemazione giuridica nella Costituzione, come due aspetti complementari ed inscindibili della democrazia tradotta in ordinamento positivo”.
Ma accanto ai diritti di libertà sono pure essenziali, in democrazia, i
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diritti sociali. Anzi anche questi sono, a ben vedere, diritti di libertà, iscrivendosi in una visione più ampia di quelle che già si solevano chiamare le
libertà positive. “Una democrazia vitale - egli precisa - può attuarsi soltanto
nella misura in cui la giustizia sociale, piuttosto che come ideale separato ed
assoluto, sia concepita come premessa necessaria e come graduale arricchimento della libertà individuale”. In questo richiamo egli si riferisce al socialismo liberale di Carlo Rosselli, al liberalsocialismo di Guido Calogero, alla
giustizia e libertà del partito d’azione e, purtroppo, alla stessa democrazia
progressiva dei comunisti italiani. Osservo che quest’ultima era all’epoca,
per qualcuno, la grande illusione; ma era anche la moda del tempo. Calamandrei pagò ad essa il suo tributo, pur se si deve sottolineare la limitazione del richiamo, fatto ai soli comunisti italiani ...
Comunque, come risulta anche da altri scritti - ed anche dallo schieramento politico da lui poi prescelto e sopra ricordato - la sua fedeltà politica
è soprattutto quella dalle idee di Carlo Rosselli: “l’esigenza di giustizia sociale - egli dirà in altra pagina di “Costruire la democrazia” - come esigenza di
libertà”. E ancora: “democrazia sociale è quella in cui i diritti politici e i diritti sociali sono messi sullo stesso piano: in cui, si potrebbe anche dire, un
certo grado di benessere economico è riconosciuto come un diritto politico
del singolo verso la comunità”. Inoltre il significato dell’opera di Calamandrei in quei tempi è quella dello sforzo rivolto a tradurre gli ideali politici di
giustizia e libertà in formule giuridiche: e cioè, appunto, in precetti costituzionali positivi.
Sul rapporto tra diritti di libertà e diritti sociali, Calamandrei tornerà
durante l’esperienza dell’Assemblea costituente (1946-1948) e anche dopo.
L’esame di questo punto nodale del suo pensiero sulla Costituzione ha
suscitato l’interesse di alcuni studiosi, anche in relazione ad una contraddizione che si potrebbe in lui rilevare a proposito della collocazione da riservare ai diritti sociali nella Costituzione, e cioè in un posto diverso da quello, centrale, riservato ai diritti di libertà.
Ai diritti di libertà è noto che Calamandrei dedicò vari studi, dagli
“Appunti sul concetto di legalità” a “Costituente e questione sociale”, alla
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premessa alla ristampa dei “Diritti di libertà” di Francesco Ruffini, alla
“Introduzione al Commentario sistematico della Costituzione italiana”, da
lui diretto insieme ad Alessandro Levi, sino all’ultimo scritto sulle “Inattuazioni costituzionali” del 1955.
Nel vecchio dibattito tra i diritti di libertà intesi come diritti negativi
(diritti al rispetto da parte dello Stato) e diritti di libertà intesi invece come
libertà positive (per cui lo Stato deve rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che si frappongono alla libera espansione morale e politica della persona umana; sarà poi questa la formula ad essere riflessa in termini di maggiore ampiezza nel comma secondo dell’art. 3 della Costituzione italiana), Calamandrei finirà per optare per questa seconda posizione. Lo
Stato deve quanto meno rimuovere gli ostacoli di natura giuridica e garantire la sicurezza sociale.
Ma il punto critico non è tanto qui, quanto nel collegamento tra libertà
e legalità. I diritti di libertà non sono tanto autolimitazione dello Stato
quanto limitazione della stessa legalità: nel senso che occorre assolutamente
una Costituzione “rigida”, come quella che appunto venne adottata in Italia, con una potestà superiore alla legge ordinaria e tuttavia nel quadro dello
Stato, una potestà di annullamento delle leggi contrarie a quei diritti ad
opera di una Corte costituzionale.
Anzi ad un certo momento Calamandrei sembra aderire alla posizione
dei sostenitori dei diritti di libertà come diritti supercostituzionali, nel senso
che essi debbano essere collocati accanto ai principi fondamentali dell’ordinamento repubblicano, non sottoponibili nemmeno alla procedura di revisione costituzionale.
Come è noto, questa posizione (peraltro non perenta) non passò; ma
questo concetto della inviolabilità riferito ad alcuni diritti fondamentali è
rimasto iscritto in alcuni articoli della Costituzione, per esempio per il diritto alla libertà personale (ed anche per il domicilio e per il segreto epistolare)
e per il diritto di difesa giudiziaria. Ed è noto che l’attuale Parlamento, nell’istituire l’attuale “Commissione bicamerale” per la riforma della Costituzione e nel fissarne i compiti, ha escluso, almeno per questo momento, una
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revisione della parte prima, dedicata ai diritti e ai doveri dei cittadini.
Quanto ai diritti sociali, che rappresentano - come è avvenuto per altre
Costituzioni del dopoguerra (e come era avvenuto nel primo dopoguerra,
ma con ben scarso successo, con la Costituzione di Weimar e con la Costituzione della repubblica spagnola) - la grande innovazione della struttura
della Carta rispetto allo Statuto albertino, il punto di crisi starebbe non già
nel riconoscere la loro suprema dignità quanto nel realismo che deve accompagnare tale riconoscimento, e ciò in relazione all’impossibilità dello Stato
di provvedere a tutto, di trovare il lavoro a tutti, di assicurare a tutti un lavoro dignitoso e un’esistenza dignitosa, e così via.
Fu appunto in relazione a questo problema che Calamandrei alla
Costituente presentò due volte un ordine del giorno per collocare i diritti
sociali in un preambolo, come un compito a cui la Repubblica fosse tenuta
a provvedere, ma a cui non era possibile assegnare la stessa vincolatività positiva che doveva esser propria dei diritti di libertà. Fu indotto a ritirare il
primo ordine del giorno da Togliatti, Mortati ed altri, mentre il secondo non
ebbe neanche modo d’essere posto in votazione.
Due motivi possono essere individuati, a mio avviso, per questa posizione, che potrebbe altrimenti sembrare singolare.
Il primo motivo è da ricondursi all’abito tradizionale del giurista
autentico, avvezzo a vedere nei diritti una pretesa realmente esigibile. Ed è
in relazione a ciò che egli poté perfino essere accusato di volere in definitiva
una Costituzione “borghese”.
Il secondo, collegato del resto al primo, è espresso nettamente nel suo
discorso preliminare in Assemblea, del 4 marzo 1947. Il discorso è anche
stato pubblicato autonomamente con il titolo “Chiarezza nella Costituzione”. In esso si rintraccia una chiara distinzione tra i programmi od impegni
da un lato e diritti esigibili dall’altro.
Il problema di metodo, che era anche un problema di sostanza. E
soprattutto di rispetto della Costituzione, quale sarebbe stata letta dopo la
sua emanazione.
Calamandrei non voleva che la Costituzione incorresse in quella stessa
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sfiducia dei cittadini, che aveva caratterizzato molte leggi in periodi antecedenti della storia italiana.
“Nella nostra Costituzione - egli disse - ad articoli che consacrano veri
e propri diritti azionabili, coercibili, accompagnati da sanzioni, articoli che
disciplinano e distribuiscono poteri e fondano organi per esercitare questi
poteri, si trova frammista una quantità di disposizioni vaghe (sui rapporti
etico-sociali e sui rapporti economici), le quali non sono vere e proprie
norme giuridiche nel senso preciso e pratico della parola, ma sono precetti
morali, definizioni, velleità, programmi, propositi; magari manifesti elettorali, magari sermoni: che tutti sono camuffati da norme giuridiche, ma
norme giuridiche non sono”. E a proposito del progetto di articolo 1, che
diceva, similmente all’articolo attuale, “La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro”, Calamandrei osservava: “Quando dovrò spiegare ai miei
studenti che cosa significa giuridicamente che la Repubblica italiana ha per
fondamento il lavoro, che cosa potrò dire?”. E via via con una serie di proposizioni analoghe, talune assai spiritose, che il tempo mi vieta qui di rileggere, esprime gli stessi concetti a proposito dei progetti di articoli dedicati ai
fini prescritti “ad ogni attività economica privata o pubblica”, alla tutela
della salute e al promovimento dell’igiene, all’assicurazione dell’istruzione, e
quant’altro. Per concludere, dopo una nobile invocazione alla necessità di
ripristinare la fiducia nelle leggi, “bisogna evitare che nel leggere questa
nostra Costituzione gli Italiani dicano, dopo aver letto ognuno dei suoi articoli: non è vero nulla”.
Questo era dunque Calamandrei: un giurista serio e nello stesso tempo
una grande personalità ispirata ad ideali di progresso sociale, protesa verso
un avvenire di giustizia e di solidarietà: sul piano nazionale come su quello
internazionale. Ma l’impegno era una cosa, il riconoscimento dei diritti
come di qualcosa di già consentito, un’altra.
Come è noto, la Costituzione realizzò un metodo diverso da quello
proposto da Calamandrei nei suoi ordini del giorno: in alcuni articoli riconobbe prima il diritto e poi aggiunse l’impegno per la sua effettiva realizzazione o protezione: esemplare l’articolo 3 nei due suoi commi. Qualche altra
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volta fuse il riconoscimento e promovimento, come nell’articolo 5 dove è
detto che “la Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”. In altri articoli è rimasto solo il “promuove”. Comunque,
risultò una Costituzione anticipatrice, lo strumento di una “rivoluzione giuridica e legalitaria”, quale Calamandrei aveva propugnato.
La partecipazione di Piero Calamandrei alla costruzione della nuova
Costituzione, in seno all’Assemblea costituente e fuori di essa con la sua grande e costante presenza di scrittore di cose politiche e giuridiche, non si limitò,
di certo, a quei grandi temi dei diritti di libertà e dei diritti sociali. Egli lasciò
un’impronta in molti settori dell’ordinamento costituzionale, anche se le sue
proposte ben di rado finirono per essere accolte. Ed egli seppe anche fare dell’ironia in proposito, ricordando la propria appartenenza al Partito d’azione,
il cui gruppo parlamentare non superava i nove deputati.
Egli viene ancor oggi citato come sostenitore di una repubblica presidenziale, che di certo era la formula preferita dal partito d’azione. Per l’esattezza, non si trattò di una vera e propria battaglia, ma di fermi accenni a questa propensione. Sono da ricordare in proposito un suo intervento, in seconda sottocommissione, del 5 settembre 1946 ed un suo articolo su “Italia libera”. Testualmente precisò: “Non è indispensabile che si adotti integralmente in Italia lo schema della repubblica presidenziale quale è in vigore in America; basterebbe che ad essa ci si avvicinasse in un punto, che è quello dell’innalzamento e rafforzamento dell’autorità del capo del governo, attraverso l’approvazione solenne - popolare o delle assemblee legislative almeno del piano in cui sia fissata la politica che intende seguire”. E ribadì: “Il problema fondamentale della democrazia, cioè il problema della stabilità del
governo; nel progetto di costituzione di questo non c’è quasi nulla”. Parole
di grande realismo e che sembrano quasi profetiche quando si pensa a ciò
che è accaduto in Italia per cinquant’anni, con cinquantatré governi, e a
quello che è uno dei tormenti delle riforme oggi in gestazione.
Altra importante battaglia perduta - e sulla quale non si ha certo il
tempo di soffermarsi oggi - fu quella contro la costituzionalizzazione dei
Patti lateranensi del 1929. Ma in questa Calamandrei non rimase certo solo
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col suo partito d’azione, essendovi stato il compatto voto contrario tanto del
partito socialista democratico (allora partito socialista dei lavoratori italiani)
quanto del partito socialista italiano. Inoltre fu vinta la minore, ma pure
importante battaglia, per la non costituzionalizzazione della indissolubilità
del matrimonio.
Delle autonomie regionali Calamandrei fu pure sostenitore fervido,
anche se non mancò di esprimere preoccupazione di fronte ad alcune prime
prove date dall’autonomia regionale siciliana.
Del federalismo europeo fu sempre convinto fautore e tale rimase fino
a dopo la Costituente nazionale, partecipando nel 1948 alla Costituente per
la Federazione Europea. Fu detto giustamente che uno dei motivi per cui
Calamandrei sarà (come per la sua formazione ideale era in quei tempi quasi
ovvio) uno degli avversari dell’adesione dell’Italia al Patto Atlantico (1949)
era proprio quello di temere un abbandono delle possibilità di una Federazione europea.
Altri temi che attirarono la sua attenzione di costituente (ed anche
nella prima legislatura) fu il sistema dei partiti come fonte di partitocrazia e
di inutili contese e la patologia della corruzione parlamentare.
Né, per finire, si può dimenticare l’impegno tutt’altro che marginale su
quei temi della giustizia, che lo avevano appassionato sin da giovanissimo
professore ed avvocato e che sempre lo appassioneranno, sino alla piuttosto
sconfortata terza edizione del suo celebre “Elogio dei giudici scritto da un
avvocato”.
Già come componente della Commissione presieduta da Ugo Forti
istituita presso il Ministero della Costituente (ricordo che ministro era Pietro Nenni e capo di gabinetto Massimo Severo Giannini) e poi come deputato all’Assemblea costituente, egli prese posizione per l’indipendenza della
magistratura (ma anche nel senso di un maggiore rispetto del giudicato, ciò
che implicava contrarietà alle amnistie e agli indulti), per l’inamovibilità
anche dei magistrati del pubblico ministero, per il cosiddetto autogoverno
della magistratura, per l’importanza dei consigli giudiziari regionali come
ausiliari del Consiglio superiore della Magistratura, per il divieto di appar-
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tenenza dei magistrati a partiti politici, per il dovere di motivazione dei
provvedimenti giurisdizionali, per il giudice precostituito per legge (non gli
piaceva l’antiquata formula del “giudice naturale”, ma è noto che la Costituzione le adottò entrambe), per la riparazione alle vittime degli errori giudiziari, per il concorso come presupposto per l’ingresso in magistratura
(ovviamente aperto anche alle donne), per i giudici onorari come giudici
singoli o monocratici, e insomma per tutto un insieme di punti qualificanti in senso democratico, alcuni dei quali furono accolti e passarono nella
Costituzione; così, per esempio, è sua la formula della soggezione del giudice soltanto alla legge.
Non passò invece la sua proposta diretta ad introdurre l’unicità della
giurisdizione, con conseguente scomparsa degli organi di giustizia amministrativa: una proposta che peraltro sentiamo oggi rinverdita nei lavori della
“Bicamerale”.
E nemmeno fu accolta, come è noto, la sua proposta di un Procuratore generale-commissario di giustizia, nominato dal Presidente della Repubblica e tenuto a rispondere al Parlamento sull’andamento della giustizia e sul
funzionamento della Magistratura. Comunque si trattava di una formula
che è ritornata qualche volta attuale perché esprimeva il bisogno di un collegamento tra giustizia e potere legislativo e in definitiva la supremazia di
quest’ultimo, quanto meno come controllo della rispondenza del funzionamento della giustizia alle leggi del Parlamento votate.
Il suo più intenso impegno fu tuttavia, anche nella Costituente, quello per la Corte costituzionale a cui ad un certo momento propose (ma poi
abbandonò la proposta) che vi si potesse adire anche sulla base di impugnative di cittadini-elettori o per iniziativa del suddetto Procuratore generalecommissario di giustizia. Nella Corte costituzionale - come si è detto - Calamandrei riponeva in massimo grado il funzionamento della Costituzione, ne
faceva una condizione essenziale ed irrinunciabile, legata soprattutto al controllo sulla legittimità costituzionale delle leggi; e sulla disciplina compì
numerosi interventi, a cui ancora oggi si può andare con vivo interesse.
Il terzo periodo, il più lungo, dei rapporti tra Calamandrei e la Costi-
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tuzione è quello della sua penetrante e implacabile protesta contro la sua
mancata attuazione. Esso va, a un dipresso, dal 1948 al 1955 e coincide con
l’avversione dell’autore per il regime democratico-cristiano, che s’era instaurato dopo il 18 aprile 1948, pure essendo uscito tale regime rafforzato da
una battaglia per la libertà, alla quale lo stesso Calamandrei, dalla posizione
del socialismo democratico, aveva partecipato.
Nel 1966 la Nuova Italia editrice di Firenze pubblicò, nel decennale
della scomparsa di Calamandrei, due splendidi volumi delle sue opere politiche e letterarie (distinte dunque del tutto dagli Scritti giuridici), curati da
Norberto Bobbio.
Il secondo volume, dedicato ad una scelta dei suoi discorsi e scritti politici (una scelta, perché è seguita da un indice ragionato degli scritti e discorsi, numerosissimi, non raccolti in quel volume), è intitolato “Discorsi parlamentari e politica costituzionale”: titolo esatto e pertinente perché i problemi di attuazione (sperata e promossa) e soprattutto di “inattuazione” della
Costituzione, amaramente e quotidianamente da lui denunciata in quegli
anni, vi occupano uno spazio molto rilevante. Potrei dire, essendo l’autore
soprattutto un giurista votatosi temporaneamente alla politica, che essi sono
come il filo conduttore dell’intera parte della raccolta.
In quel volume è riprodotto - e ne occupa esattamente 110 pagine - lo
scritto a cui Bobbio appose il titolo “La Costituzione e le leggi per attuarla”.
Il titolo originario era, quando fu pubblicato la prima volta da Laterza nel
1955, contenuto nel volume “Dieci anni dopo (1945-1955)”, “Come si fa
a disfare una Costituzione”.
Questa ampia e completa disamina dei problemi della “Costituzione
inattuata! ” (titolo della premessa con cui l’Avanti! pubblicò in volumetto
autonomo questo scritto esemplare) fu compiuta da Calamandrei nel febbraio 1955, durante il Governo Scelba (Segni assunse la presidenza qualche
mese dopo), e quando il bilancio della separatezza tra ordinamento giuridico
(tanto formale come effettivo) e Costituzione varata ormai da più di sette
anni era davvero piuttosto sconsolante: non soltanto per causa della guerra
fredda, che influiva soprattutto sulle materie proprie delle leggi di polizia e su
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altre leggi amministrative, ma piuttosto per quello spirito del rinvio, quando
non addirittura di sabotaggio di alcuni principi costituzionali, tentativi che
erano riconducibili, secondo Calamandrei, ad uno spirito di continuità dell’ordinamento giuridico rispetto a quello precedente la Costituzione ed anche
di scarsa adesione e perfino incomprensione da parte di un cospicuo settore
della classe politica, e forse di gran parte dello stesso popolo italiano per tutto
ciò che era nuovo, a cominciare dai valori costituzionali.
Al riguardo, con riferimento all’attività parlamentare ma non solo,
Calamandrei parlò, con una di quelle sue locuzioni felici, di “ostruzionismo
della maggioranza”.
L’elenco delle inadempienze oggetto di quell’ampia disamina è molto
lungo e può dirsi che esso copra, anche nell’intento dello scritto, l’intera area
delle norme costituzionali.
I sette anni intercorsi, allora, quando l’autore scriveva il suo saggio, dall’entrata in vigore della Costituzione sono stati - così l’autore li definisce - nel
campo costituzionale (egli dice: anche nel campo costituzionale) anni di arretramento: non sosta su posizioni raggiunte, ma reazione e restaurazione del
passato; non inattività temporanea, ma smantellamento e macerazione anche
di quella parte del lavoro che si credeva per sempre compiuta.
Solo la facciata della Costituzione resiste, ma la si potrebbe chiamare
constitutio depopulata.
Calamandrei denuncia le colpe del potere legislativo (sul che è d’accordo con illustri costituzionalisti di diversa area politica, ad esempio con il
Balladore Pallieri) ma soprattutto quelle dei Governi, il cui impulso sarebbe
stato non solo doveroso, ma, se vi fosse stato, decisivo. Ma ravvisa una delle
prime matrici di questa situazione proprio nella Costituzione stessa, della
quale denuncia un ibridismo di fondo, dovuto non solo al più volte denunciato compromesso istituzionale con tutte le sue transazioni (a cominciare
da quella espressa nell’articolo 7), ma proprio nel fatto che essa non ebbe il
coraggio né di essere una Costituzione breve, cioè meramente organizzativa
dell’apparato dello Stato, né di essere una Costituzione lunga, cioè ordinativa della società (lo Stato-comunità). Ibrida perché vi fu uno sforzo verso il
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tipo lungo, ma non per trasformare effettivamente le strutture sociali, bensì
nel limitarsi a promettere tale trasformazione a lunga scadenza.
Si inserisce qui anche la famosa e lunga discussione dei giuristi (e dei
giudici della Cassazione ai quali in assenza della Corte costituzionale era praticamente commesso il controllo di costituzionalità) tra norme precettive e
norme direttive o programmatiche e, in seno alle prime, tra norme precettive di applicazione immediata e norme precettive ad applicazione differita.
Una lunga disputa ormai fortunatamente sopita, ma che tanti, fra coloro che hanno vissuto quell’epoca, ricordano.
Cerchiamo di ricordare ora, con la necessaria rapidità, i capisaldi della
“Inattuazione costituzionale” denunciata da Calamandrei in quello scritto
del febbraio 1955 e negli anni precedenti.
Prima di tutto nelle linee generali.
Per Calamandrei la d33emocrazia non poteva essere soltanto una repubblica in cui fossero riconosciute e garantite giuridicamente le fondamentali
libertà civili e politiche e l’uguaglianza giuridica (dinanzi alla legge), ma doveva essere - varato oramai il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione - una
società in cui fossero stati rimossi “gli ostacoli di ordine economico e sociale,
che limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il
pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese”.
Quindi non semplice democrazia politica, ma democrazia sociale, in
cui l’uguaglianza venisse realizzata anche nei fatti.
Giustizia e libertà (intesa la giustizia anche come giustizia sociale e la
libertà come libertà anche dalla schiavitù economica).
Mancava invece, chiaramente, nonostante la Costituzione, la garanzia
effettiva del lavoro e della sua remunerazione, della formula “Repubblica
democratica fondata sul lavoro” rimaneva in sostanza solo la Repubblica.
L’ordinamento costituzionale era rimasto frammisto in modo caotico
con un ordinamento non conforme, almeno in molte e significative parti,
alla Costituzione.
Soprattutto bruciava, a distanza di sette anni, la mancata entrata in
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funzione della Corte costituzionale (anche se leggi fondamentali in proposito erano state varate nel 1948 e nel 1953), e cioè dell’organo che avrebbe
dovuto vigilare sull’adempimento legislativo degli obblighi di conformità
alla Costituzione.
L’inadempimento si estendeva a tutti i campi, al CSM, all’ordinamento regionale, al referendum, al CNEL e quant’altro.
Nessun compito era stato assolto, sicché il periodo 1° gennaio 1948 7 giugno 1953 “passerà alla storia - secondo Calamandrei - come il quinquennio dell’inadempimento costituzionale”.
Nella sua analisi amara, l’autore prosegue con un’analisi stringente
anche d’altri argomenti: il mantenimento dell’istituto prefettizio, che Luigi
Einaudi aveva criticato in un suo famoso articolo del 17 luglio 1944; la mancanza di alcune auspicabili forme di tutela contro l’arbitrio amministrativo;
la conservazione dei codici penale e di procedura penale e soprattutto del
testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 1931, oggetto di numerosi
interventi di Calamandrei alla Camera durante la prima legislatura.
Quando poi Calamandrei, sempre in quel suo scritto del 1955, passa
alla disamina degli articoli della Costituzione relativi ai diritti civili e politici e alle libertà fondamentali, fa seguito alla loro rilettura con altrettanti
“Non è vero”, a cui segue la dimostrazione con esemplificazioni. Così ad
esempio per la libertà personale oggetto del fermo di polizia, per la permanenza di commissioni amministrative competenti ad adottare le misure di
polizia, per taluni motivi del rimpatrio con foglio di via; così per il diritto di
riunione in luogo pubblico, così per le affissioni previa licenza ex articolo
113 delle leggi di p.s. (che saranno oggetto della prima sentenza della Corte
costituzionale nel 1956), per la mancata riparazione degli errori giudiziari,
per i divieti tuttora sussistenti in materia di arte, scienza e cultura, per le
lesioni alla imparzialità dell’amministrazione, per la permanenza di una
troppo vasta giurisdizione dei tribunali militari, per il tentativo di restringere il peso del voto politico (qui Calamandrei si riferisce alla legge con premio di maggioranza del 1953 ed il discorso fatalmente scivola sul terreno più
propriamente politico).
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La critica riprende poi, particolarmente severa, nel campo dei diritti
sociali. Abbiamo ricordato più sopra che Calamandrei aveva dimostrato, in
proposito, molto realismo, e li avrebbe voluti solo in un preambolo della
Costituzione, come solenne impegno. Ma una volta che erano stati consacrati nella Costituzione alla stessa stregua d’altri diritti occorreva farvi ormai
fronte senza indugi. Di qui il ritorno sul tema della loro mancanza di effettività, sul carattere “platonico” delle affermazioni del diritto al lavoro e alla
retribuzione sufficiente e dignitosa, del diritto alla scuola e ad altre forme,
che egli non vedeva neanche avviate, di trasformazione sociale.
“I diritti sociali - conclude - rimangono per ora una remota promessa”.
Il critico cerca infine di indagare le cause di tanto divario e le individua:
– nella lentezza funzionale del Parlamento, nonostante il molto lavoro svolto;
– nella necessità del tempo sacrificato dal Parlamento stesso alla funzione di
controllo politico;
– nelle colpe del Governo, anzi del suo dolo diretto ad una sistematica elusione costituzionale;
– nei problemi di Governo che diventano problemi di partito;
– nei legami internazionali dell’Italia;
– nelle inclinazioni della Chiesa cattolica, e quant’altro.
Il discorso diventa ancora una volta politico, ma viene condotto con gli
strumenti del giurista.
Lo scritto contiene inoltre passaggi importanti nel rapporto con la
valutazione negativa della Resistenza, che in quegli anni si faceva strada,
anche attraverso celebri processi.
Calamandrei scrive:
“Disfattismo costituzionale e processo alla Resistenza sono due facce
dello stesso fenomeno.
La Costituzione infatti non è altro che lo spirito della Resistenza tradotto in formule giuridiche. Il programma legalitario di rinnovamento
democratico al quale si sono impegnati tutti gli uomini liberi che durante la
lotta antifascista si trovarono a combattere contro l’oppressione straniera ed
interna”. E conclude testualmente: “La Costituzione italiana potrà ripren-
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INTERVENTI
dere la sua strada verso una democrazia sempre più piena e diventare una
realtà politica, se le nuove generazioni sentiranno il dovere di andare in pellegrinaggio con il loro pensiero riconoscente in tutti i luoghi di lotta e di
dolore dove i fratelli sono caduti per restituire a tutti i cittadini italiani
dignità e libertà. Nelle montagne della guerra partigiana, nelle carceri dove
furono torturati, nei campi di concentramento dove furono impiccati, nei
deserti o nelle steppe dove caddero combattendo, ovunque un italiano ha
sofferto e versato il suo sangue per colpa del fascismo, ivi è nata la nostra
Costituzione. Se essa può apparire alla decrepita classe politica che lotta
vanamente per salvare i suoi privilegi come una inutile carta che si può
impunemente stracciare, essa può diventare per le nuove generazioni, che
saranno il ceto dirigente di domani, il testamento spirituale di centomila
morti, che indicano ai vivi i doveri dell’avvenire”.
A questo punto bisogna inserire una osservazione di carattere generale.
Il motivo critico, e perfino lo sconforto, non erano nuovi in Calamandrei,
quasi che si fossero formati soltanto dopo l’entrata in vigore della Costituzione e il palese contrasto d’alcuni suoi principi con l’ordinamento previgente, che per tanta parte rimaneva immutato. Il motivo è rintracciabile
infatti già in alcuni suoi scritti e discorsi all’epoca stessa in cui redigeva il
progetto di Costituzione come membro della Commissione dei settantacinque o discuteva quel progetto nell’Aula.
Anzi si era manifestato in modo icastico a un anno dalla Liberazione.
È infatti del 1946 il suo famoso scritto su “Il Ponte”, intitolato “Desistenza”. Un sostantivo insolito, che improvvisamente campeggia su quella
pagina.
Esso vuole esprimere sconforto e ribellione per quanto sta accadendo
in Italia a poco più di un anno dal 25 aprile, un atteggiamento di rinuncia,
di abbandono, di dimenticanza, che è più profondo ed oscuro delle crisi
della Resistenza, della quale già si parlava in quell’epoca, e a cui anzi fu dedicato un intero numero de “Il Ponte” nel 1947, con una serie di scritti di
autori famosi, da Salvemini, a Jemolo, a Peretti Griva, a Vinciguerra.
Un nuovo disfacimento morale, attribuito ai cosiddetti benpensanti.
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Giuliano VASSALLI
Non si trattava tanto dei torturatori, razziatori, collaborazionisti tornati in
libertà o del fallimento dell’epurazione amministrativa, e simili. Si trattava
del dimostrarsi quasi infastiditi a sentir parlare della guerra e dei suoi orrori, del nazismo, dei comitati di liberazione nazionale, delle critiche verso la
nuova pace con le sue ingiustizie; si trattava della ripresa, al di là della fine
della simbologia fascista, di un costume sotterraneo di accomodamento,
della ritenuta inutilità di discutere il come e perché era avvenuto ciò che era
avvenuto, del decadere di una coscienza civile.
L’idea di una restaurazione clandestina compare già in quell’articolo.
Eppure ciò non gli aveva impedito di lavorare tanto attivamente, nella
Costituente e fuori, per la nuova Costituzione del Paese, di fondare e continuare a dirigere ed alimentare “Il Ponte”, d’essere alla testa del Consiglio
Nazionale Forense per dieci anni, fino alla morte, di contribuire alla fondazione dell’Associazione fra gli studiosi del processo civile, di continuare con
fascino indiscutibile nell’insegnamento universitario e nella promozione di
una riforma degli studi, nel costituire per ogni dove ed alimentare proprio
quella coscienza civile minacciata e compromessa dalla desistenza.
Soprattutto non gli impedì, per stare al nostro tema odierno, di contribuire con una incessante serie di battaglie, durante la stessa prima legislatura
repubblicana, al superamento degli ostacoli duramente denunciati. Basterebbe pensare al modo con cui in quei cinque anni si riuscì ad arrivare all’effettiva istituzione della Corte costituzionale. Fu Calamandrei a guidare quella
lotta, fatta, qualche volta, anche di grottesche schermaglie: pensate che un
celebre parlamentare democratico-cristiano, professore di diritto costituzionale, aveva una volta proposto che i membri di nomina parlamentare dovessero appartenere tutti alla maggioranza. Calamandrei lamenta la durata di
quel dibattito sulla Corte, ma bisogna riconoscere che arrivò al risultato.
Se poi egli fosse vissuto più a lungo - certo, in relazione a taluni adempimenti, molto più a lungo - egli avrebbe visto realizzate molte delle istituzioni e molte delle riforme rispettose della Costituzione, delle quali egli
ancora nel 1955 poteva legittimamente lamentare la mancanza.
Pochi anni dopo la Corte costituzionale, entrava in funzione, con le
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leggi del 1958, il Consiglio superiore della magistratura. Il testo unico delle
leggi di pubblica sicurezza subiva i primi colpi da parte della Corte costituzionale (in materia di affissione di stampati, di ammonizione, di confino, ed
altro) e alla fine del 1956 il sistema veniva modificato quanto alla competenza per le misure di polizia, che diventavano misure di prevenzione e passavano alla giurisdizione. La libertà di stampa veniva maggiormente tutelata, al punto da far nascere preoccupazioni in senso opposto, per il rispetto
dovuto alla integrità morale e alla dignità dei singoli. I civili in congedo dal
servizio militare passavano sotto la giurisdizione penale ordinaria, sì che più
non si riprodusse il clamore destato dal processo contro Renzi ed Aristarco
per “L’armata s’agapò”. Al codice di procedura penale del 1930 venivano
portate progressivamente una serie di modifiche (le più importanti ancora
nel giugno 1955, quando Calamandrei viveva ed operava) sino a quando
venne messa in cantiere, all’inizio degli anni Sessanta, una legge-delega per
un nuovo codice, che vedrà la luce dopo oltre trent’anni di lavori parlamentari. Le garanzie dei singoli rispetto alla pubblica amministrazione si vennero facendo più intense, capillari e penetranti, pur nella sopravvivenza del
Consiglio di Stato come giudice d’appello rispetto ai tribunali regionali
amministrativi, istituiti nel 1971. Nel frattempo infatti si era disciplinato l’istituto regionale ed erano state varate (1970) le regioni a statuto ordinario.
Nello stesso anno era stata varata la normativa per il referendum popolare
abrogativo delle leggi previsto dall’art. 75 della Costituzione. La parità dei
sessi all’interno della famiglia, nel lavoro oltre che nel voto, in carriere come
quella della magistratura ed altre, veniva ad essere assicurata, attraverso gli
anni in modo crescente. Nel 1975 interveniva la riforma del diritto di famiglia. E gli stessi diritti sociali venivano ad essere meglio garantiti, sia pure in
collegamento con istanze non di rado parziali o soddisfatte in modo clientelare. Gli articoli 36 e 38 della Costituzione conoscevano affermazioni progressive, sino a doversi oggi veder posto in discussione, anche se in alcuni
aspetti, lo stesso “Stato sociale” che è considerata conquista della “prima
Repubblica”.
Non vi è dubbio, checché si debba concludere, che l’attuazione della
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Giuliano VASSALLI
Costituzione difficilmente poteva essere fatta in un solo momento e che essa
non poteva che essere legata a momenti di trasformazione politica. Tuttavia
la protesta di Calamandrei negli anni in cui veniva formulata aveva molti,
moltissimi contenuti di validità e di verità.
È venuto il momento di tirar le vele dopo una introduzione forse troppo lunga e di dire dell’ultimo periodo dei rapporti tra Calamandrei e la
Costituzione.
Fu un periodo breve - durò poco più di un anno (1955-1956) - ma particolarmente felice. Non solo si riaccesero le sue speranze e divenne di intensità senza pari la sua attività, ma questa attività fu coronata da grandi successi. Il più grande di questi successi è legato proprio alla Corte costituzionale:
non solamente alla sua entrata in funzione, ma all’affermazione della sua giurisdizione sulle leggi anteriori alla Costituzione, cioè sulle leggi del periodo
fascista e prefascista, e non solo su quelle successive alla Costituzione.
Oggi ad enunciare queste cose si potrebbe rischiare di non essere capiti. Ed invece la posta era grandissima e grande il pericolo perché v’era un
forte partito di sostenitori della tesi secondo cui il sindacato di costituzionalità sulle leggi ordinarie e sugli atti aventi forza di legge dovesse essere riconosciuto alla Corte solamente per le disposizioni emanate dopo il 1° gennaio
1948. Tutto il resto non avrebbe potuto che esser materia di abrogazione da
parte del potere legislativo e Dio sa quando sarebbero state abrogate e sostituite. E questo partito trovava il suo nucleo forte ed autorevole nientemeno
che nella Corte di Cassazione.
Orbene Calamandrei, in vista dell’inizio dell’attività della Corte costituzionale, che sicuramente si sarebbe dovuta occupare proprio di ordinanze
che avevano sollevato questioni di legittimità in relazione a leggi del periodo fascista, si dette ad una campagna che condusse per tutta Italia, con
discorsi diretti ad illuminare gli uomini di legge, avvocati e magistrati, su
questi problemi. Questa campagna culminò - ben lo ricordo perché ero tra
gli ascoltatori - con un discorso tenuto nell’aula magna del piano terreno del
vecchio palazzo di giustizia in Roma, al quale egli tra gli altri aveva invitato
proprio i magistrati delle sezioni civili e penali della Corte di Cassazione.
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Quasi tutti, primo presidente in testa, erano ad ascoltare il loro contraddittore ed interlocutore: il grande maestro del diritto processuale, che quasi
quarant’anni prima aveva prodotto un’opera fondamentale su “La Cassazione civile”, che aveva scritto l’ “Elogio dei giudici”, che era professore di diritto e avvocato tra i primissimi d’Italia e per bravura e per generale estimazione, che da dieci anni era il presidente del Consiglio nazionale forense.
Un’autorità quasi senza pari, posta al servizio d’una nobile causa. Fu un
momento straordinario. Ma l’ultima battaglia fu condotta proprio dinanzi
alla Corte costituzionale, nel corso della prima sua memorabile udienza, il
23 aprile 1956, presidente Enrico De Nicola, relatore della causa Gaetano
Azzariti, che negli anni successivi sarebbe succeduto a De Nicola nella presidenza della Corte. Io facevo parte di quella fortunata schiera di avvocati
che discusse la causa davanti alla Corte di quel giorno. Sono l’unico rimasto
in vita, con Massimo Severo Giannini. Calamandrei era il nostro indiscusso
capofila. Fu grande: sobrio e come sempre efficace. Lo accompagnai alla stazione Termini, al solito ultimo treno per Firenze. Mi sembra di ricordare che
già avemmo la felice notizia della vittoria sin dal giorno dopo. Dopo soli cinque mesi dalla conclusione di quest’ultima grande battaglia, inopinatamente Calamandrei venne a morte, a seguito di un intervento operatorio di non
grande momento neanche per quell’epoca, dal quale - così egli pensava e
scriveva al figlio Franco - si sarebbe rimesso dopo una breve sosta in ospedale. Invece il 30 settembre 1956 eravamo quasi tutti a Firenze, ad accompagnarlo all’estrema dimora di Trespiano.
Questi dunque i quattro tempi del rapporto tra Calamandrei e la
nostra Costituzione: il tempo del grande amore per quell’idea e quel mezzo
di redenzione; il tempo dell’amore con riserva e con prudenza; il tempo della
delusione; il tempo della soddisfazione e della consolazione, che fu fortunatamente l’ultimo di un impegno estremamente intenso.
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