L`ORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZIO. ARGOMENTI DI

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ARNALDO BAGNASCO
L’ORGANIZZAZIONE SOCIALE NELLO SPAZIO.
ARGOMENTI DI UN BUON VICINATO SCIENTIFICO
Qualche anno fa mi è stato chiesto di recensire Handbook of Urban Studies, curato da Ronan Paddison, che riunisce contributi di economisti,
geografi, demografi, scienziati politici, sociologi. La prima cosa che mi
venne di osservare nella recensione, fu che il curatore era un geografo, e
che questo era solo un esempio di come la geografia stesse diventando
un pivot riconosciuto per accorpare contributi di diverse discipline.
Forse, qualche anno prima, una operazione del genere sarebbe stata
affidata a un sociologo, ma la geografia come pivot per il commercio intellettuale di molte scienze sociali ha effettivamente altri riscontri. Porto
alla vostra memoria solo due esempi: uno è l’importante volume Global
City-Regions. Trends, Theory Policy, anche questo come il precedente del
2001, che riuniva i contributi di un convegno internazionale curato dal
geografo Allen J. Scott; venendo a tempi più recenti e a cose di casa nostra: è stato il geografo Giuseppe Dematteis a coordinare una commissione interdisciplinare del Consiglio Italiano per le Scienze Sociali, i cui
risultati sono pubblicati nel volume Le grandi città italiane. Società e territori da ricomporre del 2011, che ha animato la discussione scientifica e
politica.
Sulla prospettiva suggerita da A.J. Scott, è interessante anche osservare che il concetto chiave Global city-regions, con il quale individuare un certo numero di sistemi locali di produzione, motori dello sviluppo globale,
è una estensione dell’idea di global city, con cui qualche anno prima la sociologa Saskia Sassen portava all’attenzione poche grandi città dove si
concentrano, invece, le funzioni di governo e controllo dell’economia
globale. Si tratta dunque di un esempio di innovativo interscambio fra
geografia e sociologia.
Ma torniamo all’idea della geografia come pivot per discipline sociali
diverse e proviamo a chiederci perché. Una prima risposta potrebbe essere che offre una etichetta antica e rassicurante in un’epoca di grandi incertezze e spaesamenti delle scienze sociali; ma è una risposta poco con7
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vincente. Più importante, e in certo senso ovvio, è riferirsi ai grandi cambiamenti indotti dalla globalizzazione delle relazioni economiche e culturali, dalle nuove sfide dello sviluppo socialmente e fisicamente sostenibile, e in generale dalle rapide trasformazioni degli insediamenti umani. Sono questi fenomeni a spingere avanti sulla scena la geografia, con le sue
valenze fisico-antropiche, ma resta da spiegare che oltre a produrre rilevanti conoscenze proprie ai suoi metodi, può esercitare anche funzioni di
raccordo fra prospettive e metodi di altri ambiti scientifici.
La capacità ritrovata dalla geografia nella congiuntura attuale credo sia
dovuta a una particolare attitudine, che si rivela anche come una somiglianza di fondo, genetica se così posso dire, con la sociologia: entrambe
sono orientate a produrre visioni di insieme, e per farlo raccordano aspetti diversi della realtà in immagini più complessive. Lascio a voi di riflettere su questa proprietà della geografia. Per parte mia, mostrerò tale
vocazione originaria e le sue trasformazioni in sociologia.
Le scienze sociali sono figlie della modernizzazione e del bisogno di
conoscenza in una epoca di grandi trasformazioni. L’onda del cambiamento si è formata nel tempo, con la transizione demografica e
l’aumento della popolazione, la crescita delle città, lo sviluppo del capitalismo e la rivoluzione industriale, la comparsa di forme democratiche di
governo, l’affermarsi di nuovi costumi e nuove forme di conoscenza. In
questo clima, si affaccia anche, con pretese molto ambiziose, l’idea di una
scienza della società, capace di essere la scienza della società, la sola.
Marx, forse non propriamente un sociologo, ma molto influente per
l’analisi sociale, Comte in Francia, che ha introdotto la parola per definirla, Spencer in Inghilterra, in modi diversi sono portatori di una tale pretesa, che presto apparirà manifestamente eccessiva.
In effetti già diverse specializzazioni scientifiche erano comparse sulla
scena, e la sociologia si trovò dunque a farsi largo fra altre scienze sociali
che avevano individuato e occupato prima un loro spazio specializzato,
selezionando uno spicchio di realtà: l’economia, l’antropologia, la scienza
politica, la geografia sociale, la demografia. Il progetto originario è insomma impossibile e sempre più si svilupperanno diverse e nuove scienze sociali, confinanti e con rapporti da stabilire e continuamente ricercare, senza che una sola scienza sociale, la sociologia, possa pretendere di
comprenderle in un unico progetto; e tuttavia qualcosa dell’idea di Comte
e Spencer resterà nella sociologia, quella di una possibile scienza genera-
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le, anche se ormai non unica, della società.
Cosa può significare questo che dico, nelle condizioni che abbiamo
visto? Come è possibile pensare una conoscenza sistematica
dell’organizzazione sociale, già sapendo che punti di vista specifici e differenziati sulla società sono pertinenti e efficaci? Di che cosa bisogna
precisamente occuparsi, e come? Sono queste le domande che, riproponendosi di continuo, definiscono i problemi e le opportunità della sociologia.
Di fatto, nell’ambiente affollato in cui la sociologia si è mossa, possono essere individuati differenti tipi di adattamento a partire dalle pretese
iniziali. Questo comincerà ad avvenire a cavallo del Novecento, vero
momento di fondazione della sociologia, con i lavori di Durkheim,
Weber, Simmel, Pareto. Il punto centrale che devo ora sottolineare è che
resterà, di quelle pretese iniziali, la vocazione della sociologia a provare a
connettere aspetti diversi dei fenomeni sociali, da altri separati; a trovare
punti di vista che lo permettano; a fare da ponte fra prospettive differenziate; a criticare modelli di altre scienze sociali diventati troppo autoreferenziali e senza spessore sociale, per così dire; a restituire immagini ricomposte della società.
Le teorie che hanno cercato di rispondere a questa vocazione sono la
sociologia come scienza generale, non più unica, della società, un programma per lo studio empirico delle relazioni e interazioni fra gli uomini
di diverso contenuto, che elabora e utilizza modelli di organizzazione sociale a diverse scale, delle strutture che raggruppano figure con idee e interessi simili e delle tipiche tensioni di cambiamento che ne derivano,
delle forme e dei problemi di integrazione sistemica e sociale, vale a dire
riguardanti rispettivamente come diverse parti della società stanno insieme, e come stanno insieme gli individui, con loro tipiche strategie di adattamento.
E’ uno strano destino quello della sociologia, che dopo le pretese delle
origini, appare sempre invadente, perché i suoi oggetti concreti di ricerca
riguardano una quantità di ambiti diversi, mentre in realtà è sempre preoccupata di precisare il suo specifico disciplinare e di far valere le sue ragioni; il rischio che deriva dalle continue specializzazioni (sociologia economica, urbana, culturale, politica, e così via specificando), che effettivamente comporta il possibile allontanamento da un ceppo comune, è
compensato dal non tradire la vocazione, vale a dire mantenere la pro-
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spettiva di gettare ponti, passerelle non solo fra discipline, fra fenomeni
che queste separano, ma anche all’interno delle proprie specializzazioni.
Questa è la vera cifra della sociologia, nei suoi diversi generi, che si ritrova quando descrive fenomeni e quando cerca di spiegarli e interpretarli.
È necessario a questo punto, parlando con geografi, introdurre un
problema particolare. Come tratta lo spazio la sociologia, come si rapporta allo spazio? Salvo eccezioni (Georg Simmel per un esempio importante) la sociologia non ha avuto alle sue origini le idee molto chiare circa
lo spazio, o meglio circa la necessità e i modi di considerarlo nella teoria
della società e nella sua concettualizzazione.
La sociologia contemporanea, invece, si fa carico in modo esplicito
del problema dell'organizzazione sociale nello spazio; lo fa distinguendo
due fondamentali condizioni di interdipendenza fra le persone, definite
rispettivamente dalla compresenza e dalla separazione fisica.
Un esempio lo troviamo in Anthony Giddens che, rinnovando anche
l’uso di termini in precedenza definiti in modo a-spaziale, distingue l'integrazione sociale - che riguarda nella nuova definizione le interconnessioni, ovvero la reciprocità di pratiche fra attori compresenti - dall' integrazione sistemica, che riguarda la reciprocità di pratiche fra persone fisicamente assenti; si individuano così due ambiti di interazione basati su
meccanismi e legami sociali diversi.
Maestro nell’uso del microscopio sociologico per lo studio
dell’interazione diretta in condizione di compresenza è stato il canadese
Erving Goffman. Al centro della sua attenzione è la rappresentazione di
sé, che comporta nell’interazione con altri strategie per fornire immagini
favorevoli, ma credibili. Un semplice, quanto versatile strumento concettuale che introduce al riguardo è la metafora di ribalta e retroscena: in realtà si tratta niente meno che della formulazione di un universale culturale. La presentazione del sé richiede spazi e momenti nei quali partecipare
a una rappresentazione, e spazi dove ci si prepara e rilassa; la possibilità
di questa alternanza è decisiva per una buona presentazione del sé, ma
anche per l’equilibrio di una persona nelle situazioni della vita quotidiana,
come emerge nelle situazioni in cui la possibilità è negata. Uno famoso
studio etnografico di Goffman condotto in un ospedale psichiatrico ha
mostrato quanta sofferenza e violenza sono legate al fatto di essere sempre in scena.
La rappresentazione ha attori e un pubblico, e fino a che dura è un
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contesto di interazione riconosciuto e riprodotto con rituali: come i «rituali di discrezione», che impediscono di entrare nella sfera privata, o i
«rituali di presentazione», con i quali si manifesta apprezzamento e attenzione. L’interazione rituale si complica con i «giochi di faccia» con cui
una persona avanza una pretesa di riconoscimento, e la modifica a seconda delle reazioni degli altri.
L’analisi dell’interazione diretta non è una specie di gioco intellettuale
sofisticato, ma un ambito indispensabile dell’analisi sociale. Nella sua teoria della strutturazione sociale, Giddens considera concetto fondamentale di questa la routinizzazione. Le attività quotidiane apprese e ripetute
per abitudine sono decisive per l’ordine complessivo della società. Le
routines che fanno parte dell’ «interazione focalizzata», quelle che possono apparire, e a volte sono, strategie di adattamento individuale piuttosto
ciniche, fatte di dire e non dire, disponibilità e chiusura, sono invece un
continuo monitoraggio reciproco che costituisce «la meccanica più intima della riproduzione sociale», che garantisce la riparazione di strappi del
tessuto sociale e genera fiducia e sicurezza.
Con questi argomenti Giddens identifica nella interazione diretta in situazione di compresenza la matrice dell’integrazione sociale, ovvero
l’effetto macro dell’interazione. In un tale quadro, le città compaiono
come dispositivi per sviluppare e organizzare l'interazione a distanza, e
dunque per assicurare la connessione fra integrazione sociale e integrazione sistemica.
Una città è, in un certo senso, una società tutta intera, con caratteri
economici, politici, culturali relativamente congruenti, più o meno strutturata a seconda della maggiore o minore ricchezza dell’interazione reciproca di cui è il fuoco. Non mi soffermo sulla sociologia urbana, con la
quale forse i geografi hanno più consuetudine di frequentazione. Colgo
invece al volo un punto sul quale, sociologi e geografi insieme hanno attirato la nostra attenzione.
Si tratta della dinamica che ci obbliga a nuovi modi di vedere la società nello spazio, con il passaggio da uno spazio di luoghi a uno spazio di
flussi; è una alternativa non del tutto nuova (non aveva già detto per il
passato lo storico Fernand Braudel che sono le strade a spiegare le città?), ma che certo si impone in modo diverso con le opportunità aperte
dalle nuove tecnologie. Flussi crescenti di persone, di merci, di messaggi
non escludono comunque la condensazione di interazioni in punti speci-
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fici dello spazio. Sfidati dai flussi, i luoghi permangono. Da questo punto
di vista le città, luoghi nello spazio fisico sono dunque anche dispositivi
di connessione di spazio dei luoghi e spazio dei flussi.
L’economia per crescere ha bisogno di grandi spazi, e le sue logiche
spaziali sono in tensione con quelle della politica. Lo spazio dell'organizzazione politica risponde alla necessità di radicamento, alla permanenza,
alla continuità del controllo. Lo spazio dell'economia è mutevole, è piuttosto lo spazio dei flussi, pensato in funzione degli scambi. E’ questa una
tensione che costituisce lo sfondo sul quale percepiamo i processi di
strutturazione e destrutturazione di luoghi nello spazio. Potrei, a partire
da qui, proseguire per la strada di una panoramica teorizzante che stavo
seguendo. Preferisco invece passare al terreno della ricerca empirica, perchè ho bisogno di sottolineare il carattere empirico della sociologia.
Nei primi anni Settanta partecipavo a un programma della Fondazione Agnelli sul sistema imprenditoriale italiano. Facevano parte del gruppo di ricerca, coordinato dall’economista di impresa Roberto Artioli,
specialisti di diverse discipline, fra i quali anche come geografo Berardo
Cori. Un giorno lo statistico del gruppo, Ermanno Jallà, ci portò una sua
elaborazione sulla distribuzione degli addetti all’industria per classe dimensionale di impresa e regione. Gli istogrammi facevano emergere con
chiarezza quattro modelli tipici di regioni limitrofe. In realtà, era possibile
interpretare i due modelli delle regioni meridionali come varianti di uno
solo, e considerando il nord-ovest e le regioni del centro-nordest come
modelli distinti si delineava uno schema a tre; lavorai su questa idea, che
delineava la base di tre modelli di assetti economici, i caratteri dei quali si
potevano in ipotesi interpretare con strumenti disponibili dell’economia
industriale e del mercato del lavoro, oltre che con gli strumenti interpretativi del ritardo del Mezzogiorno.
Va da sé che la novità era proprio la sorprendente comparsa sulla
scena dell’economia di piccola impresa della Terza Italia, le regioni del
centro e nordest; si definiva una prospettiva di ricerca nella quale mi impegnai dopo la pubblicazione di quel rapporto nel 1973. Ripensando le
vicende di quegli anni, mi viene sempre in mente (si parva licet…) quello
che ha scritto André Maurois: gli europei non hanno scoperto l’America,
ci sono picchiati dentro. C’era in effetti, nascosta nelle brume del nuovo
oceano post-fordista, anche una nuova isola, che nessuno si aspettava, e
che venne avvistata da naviganti che si muovevano con bastimenti di di-
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versa stazza e armamento, e con diverse provenienze. Fuori di metafora:
economisti di varie specializzazioni, di impresa e del lavoro in particolare,
geografi, antropologi, storici, sociologi avevano cominciato a distinguere,
e a esplorare con i loro rispettivi strumenti, le particolarità di quella forma di sviluppo, che contrariamente alle attese teoriche sulla concentrazione industriale, mostravano nuove possibilità per l’impresa minore. Fra
gli economisti, sappiamo bene l’importanza teorica decisiva della ripresa
da parte di Giacomo Becattini dell’idea di distretto industriale di Alfred
Marshall. Per quanto mi riguarda, dopo una ricerca con Marcello Messori
in tre comprensori dell’Emilia-Romagna e altre mosse intermedie, assemblando dati e interpretazioni che ormai diventavano disponibili su
aspetti diversi dell’economia, della struttura sociale, del sistema politico,
finii per proporre nel 1977 un’idea dello sviluppo italiano come articolazione di tre modelli di economia e società. Naturalmente non si trattava
di una fotografia dell’ Italia, ma di una caricatura, nel senso proprio di ritratto caricato, di uno schema analitico per orientare la ricerca.
L’esplorazione della Terza Italia mi impegnò negli anni seguenti, con
un programma immaginato e realizzato insieme a Carlo Trigilia e diversi
ricercatori. Ormai si delineava con maggior chiarezza quale fosse la nostra prospettiva di sociologi: gli economisti pensavano a una particolare
forma di economia con attorno particolari caratteri della società locale;
noi pensavamo piuttosto a un particolare tipo di società, con la sua economia. Il programma di ricerca prevedeva una specie di esperimento:
scegliemmo due aree in Toscana e in Veneto, molto tipiche e simili per
caratteri dell’economia di piccola impresa, in crescita in entrambi i casi, e
polarizzati rispetto al sistema politico: molto rosso uno, molto bianco
l’altro. La ricerca riguardò rilevazioni di dati su imprese e imprenditori,
operai, politici, sindacalisti e elaborazioni di dati di altro genere. Mi sembra interessante riferire su un punto di metodo: per costruire un modello
di società è sempre necessario trovare una via di ingresso, un nucleo teorico intorno al quale organizzare la ricostruzione. Nel nostro caso, lo avevamo trovato nella prospettiva dei modi di regolazione: una prospettiva sulla quale esisteva una letteratura internazionale, la political economy
comparata, che in Italia coltivavamo insieme a economisti, altri sociologi,
politologi nella rivista «Stato e Mercato», e che ripensammo per applicarla allo sviluppo locale.
Se ci si pone al confine fra economia e società, è possibile distinguere
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a grandi linee quattro meccanismi di regolazione delle attività economiche: la reciprocità, tipica delle società arcaiche, ma presente nelle nostre
società in relazioni con contenuto economico non esplicitato e contabilizzato, presenti nella famiglia, nelle relazioni di conoscenza e amicali, in
certe forme di relazioni comunitarie; il mercato, una specie di primo calcolatore al servizio dell’uomo; l’organizzazione, che affianca alla mano
invisibile la mano visibile, che agisce nel senso della concentrazione produttiva; infine lo scambio politico, che risponde a interventi politici di
regolazione e compensazione del mercato, e con il quale sono tutelati interessi di gruppo e mantenute identità e lealtà politiche. I quattro meccanismi coesistono, ma definiti e combinati in modi diversi a seconda dello
stato delle risorse economiche presenti, degli assetti istituzionali, di elementi culturali, di quello che in seguito sarebbe stato chiamato capitale
sociale.
Lo schema, come dicevo, poteva essere declinato anche a livello locale e regionale. Nel nostro caso, la particolarità era data da una crescita basata su piccole imprese, che agivano nel contesto di una concorrenza di
mercato, che stabilivano anche reti fra loro con modelli organizzativi di
quasi-organizzazione, con interventi pubblici che garantivano una buona
amministrazione e sostenevano la riproduzione sociale di un tessuto comunitario e famigliare che forniva capitale sociale di collaborazione. Su
questo scheletro erano cresciute la descrizione e l’indagine sul funzionamento di economia e società, ricorrendo a concetti, teorie, riscontri anche di discipline diverse che potevano essere integrati.
Tornato a Torino, provai ad applicare la stessa metodologia dei meccanismi di regolazione per costruire un modello, questa volta, di città.
Naturalmente la combinazione degli elementi era molto diversa, in particolare era principalmente l’organizzazione che regolava qui l’economia, e
il mercato non condizionato dal contesto di grande industria, cominciava
solo a farsi strada. I riferimenti di letteratura per abbozzare lo scheletro e
poi far crescere l’interpretazione erano diversi dal caso precedente, ma
anche qui si coglieva un momento favorevole all’analisi, perché anche
quel sistema locale iniziava il passaggio epocale verso il post-fordismo, e
le sue strutture, sollecitate, diventavano visibili.
Dovrei poi ricordare come, a partire da qui, partecipai a gruppi di discussione nella città, sino alla elaborazione del piano strategico. Fu un
tentativo di applicare questa metodologia, sperimentata altrove in Euro-
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pa, di mobilitazione della società locale, chiamata a discutere sullo stato
della città e le possibili linee di sviluppo, in vista di un patto dove impegnarsi in modo coordinato su azioni conseguenti. Ricercatori di varia estrazione collaborarono alla stesura di uno stato economico e sociale della città, e poi animarono la discussione di gruppi composti da operatori
di varie istituzioni, associazioni, imprese, amministrazioni, fondazioni.
Con funzione di pivot spesso lavorammo insieme sia io come sociologo,
sia Dematteis come geografo. Ma sulle esperienze coordinate di lavoro
scientifico e impegno di programmazione di quel periodo e successivamente, molte altre e importanti cose potrebbe raccontare Sergio Conti, e
troveremmo di nuovo insieme all’opera geografi e sociologi, oltre ad altri specialisti.
Il quadro oggi è molto cambiato. La diffusione di economia e società
nello spazio mi sembra meno facilmente ordinabile in modelli, ma questo
non fa che sollecitare la nostra immaginazione sociologica e geografica.
Vorrei concludere sottolineando due idee che credo emergano da quanto
vi ho raccontato. La prima è che nella ricerca sull’organizzazione sociale
nello spazio è essenziale la collaborazione interdisciplinare, e che sociologi e geografi sono spesso in grado di essere registi di questa collaborazione. La seconda è la necessità, per un ricercatore, di fare continuamente la spola fra teoria e ricerca, trovando nella scatola degli attrezzi gli
strumenti disponibili che possono essere usati nel caso concreto in cui
sono impegnati, eventualmente adattandoli, modificandoli per quel caso,
e trovando così idee su come costruirne di nuovi. Questo è il mestiere
artigiano che credo accomuni molti sociologi e geografi.
Social organization in space: a case of scientific neighbourliness. – Sociology, as
a general science of social relations and interactions, shares with geography a call to work as an accepted consolidation pivot for contributions
coming from different fields.
After showing how space as a topic is seen from the micro- and macrosociological perspectives, the paper is mostly devoted to the Author’s
studies on regional small industry development in so-called “third Italy”.
The research methodology includes references to different disciplinary
fields, the unifying perspective being the combination of four regulation
mechanisms for local economy: market, organization, reciprocity, political exchange.
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The same methodology is then applied to Torino, an industrial city undergoing deep transformation. This kind of analysis has proved itself
useful when private and public actors were engaged in strategic planning
for the city.
Keywords. – regional sociology, strategic planning, small industry development
Università degli Studi di Torino
[email protected]
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