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Chiara D’Alessio • Irene Minchillo
LE NEUROSCIENZE E L’EDUCAZIONE
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Volume stampato con fondi FARB assegnati al Dipartimento di Scienze
Umane, Filosofiche e della Formazione dell’Università degli Studi di Salerno.
Chiara D’Alessio • Irene Minchillo
LE NEUROSCIENZE E L’EDUCAZIONE
280 pagine
ISBN: 978-88-6152-130-8
© Pensa Editore 2010
Via Caponic, 24 • 73016 San Cesario di Lecce
Via San Cesario, C.da Tangano • 73020 Cavallino (Lecce)
Tel. e Fax +39 0832 205793 • Cell. 3383996947
www.pensaeditore.it • [email protected]
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INDICE
INTRODUZIONE
CAPITOLO I
DECLINAZIONI PSICOPEDAGOGICHE NELLA RICERCA
PSICOBIOLOGICA
1. Tra neuroscienza e psicopedagogia
2. La prospettiva genetica e le neuroscienze cognitive
3. Tra geni e neurogenetica: la nascita della variabilità
3.1 Il materiale genetico e l’espressione genica
3.2 La trasmissione dei caratteri complessi e l’influenza genetica
3.3 La componente genetica e ambientale del comportamento
3.4 L’identificazione dei geni legati al comportamento
3.5 La genomica comportamentale, la neurogenetica e le
neuroscienze
4. Geni e plasticità sinaptica
4.1 Genetica e personalità
4.2 Studi genetici su capacità e disturbi cognitivi
4.2.1La capacità cognitiva generale
4.2.2 Capacità cognitive specifiche
4.2.3 I disturbi della lettura
4.2.4 Il disturbo da deficit di attenzione e da comportamento dirompente
4.2.5 La balbuzie
4.2.6 L’ambiente
5. Ipotesi neuroscientifiche sul rapporto mente-cervello
5.1 Metodi e tecniche di indagine
5.2 Dallo sviluppo neuronale dell’embrione all’emersione
del Sé
5.3 Il sé sinaptico
6. I neuroni specchio: sostrato neurale dell’esistenza preverbale e prerazionale
6.1 Neuroetica ed educazione
7. Conclusione
Bibliografia
pag. 11
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CAPITOLO II
DAL GENE AL MEME: I FATTORI EPIGENETICI-AMBIENTALI
NELLA NEUROGENESI E NEI PROCESSI MNEMONICI
pag. 73
1. Le Neuroscienze Cognitive, L’Educazione e il Ben-Essere
“ 73
2. Dal concetto di gene al concetto di meme
“ 76
2.1 Dal gene all’epigene
“ 77
2.2 La memoria di Kandel e i fattori epigenici-ambientali
“ 80
2.3 La memetica
“ 83
3. La neurogenesi nei cervelli adulti
“ 84
Bibliografia
“ 87
CAPITOLO III
ESPERIENZE SOCIALI, SVILUPPO DELLA MENTE, EQUILIBRIO
EMOTIVO: UN APPROCCIO PSICOBIOLOGICO ALLA STUDIO
DELLA RELAZIONE EDUCATIVA
1. Lo sfondo epistemologico: discipline e antidiscipline nel
progresso scientifico
2. Cervello e relazioni interpersonali
3. Il cervello emotivo ovvero il sistema limbico
4. I neurotrasmettitori
5. Sistemi dopamimergici, noradrenergici, serotoninergici, colinergici
6. Cervello e memoria
7. Memoria, stress, emozioni: il ruolo dell’amigdala
8. Psicobiologia dell’attaccamento
9. Attaccamento, stress e sistema immunitario. Implicazioni
educative
10. Psicobiologia della relazione: cervello ed empatia
11. La neuroplasticità
12. Mindfulness, cervello ed educazione
13. L’apprendimento mindful
14. L’educazione come esperienza di senso. Componenti psicobiologiche
15. Conclusione
Bibliografia
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“ 122
“ 124
CAPITOLO IV
I NEURONI SPECCHIO, L’IMITAZIONE, L’EMPATIA E IL
LINGUAGGIO
pag.127
1. La Scoperta del “Meccanismo Specchio”
“ 127
2. Il Sistema Specchio e il Cervello Umano
“ 129
3. L’Attribuzione di Significato
“ 133
4. L’Imitazione e l’Empatia
“ 136
4.1 Il Neurorazzismo empatico
“ 143
5. Il Linguaggio
“ 145
5.1 La confutazione delle tesi “vocalistiche” del linguaggio
“ 147
5.2 La Teoria Linguistica di Rizzolatti ed Arber
“ 149
5.3 Dal protolinguaggio al linguaggio verbale
“ 155
6. Conclusioni
“ 156
Bibliografia
“ 164
CAPITOLO V
FONDAMENTI ANTROPOLOGICI E NEUROSCIENTIFICI AD
UNA PSICOPEDAGOGIA DELLA CORPOREITÀ
1. Introduzione
2. Corpo e Corporeità: uno sguardo filosofico
3. La corporeità come prima dimensione dell’essere umano
4. Corporeità e persona
5. Sviluppo cognitivo ed apprendimento motorio
6. Attività motoria e sportiva e costruzione dell’identità
7. Ricerche sul “cervello in movimento”
8. Potenzialità dell’esperienza motoria nella diversabilità. L’educazione alla corporeità e lo sport per l’integrazione
9. Il laboratorio di movimento
10. Una proposta di formazione per insegnanti ed alunni
11. Conclusione: corporeità ed educazione
Bibliografia
CAPITOLO VI
EMOZIONE ED EMPATIA TRA FILOSOFIA E NEUROSCIENZE.
RISVOLTI PEDAGOGICI
1. Introduzione
2. Gli studi sulle emozioni
3. Sistemi fisiologici e loro attivazione nell’esperienza emotiva
4. Emozioni e sviluppo
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5. Emozioni e neurofenomenologia
pag.228
6. Atti emozionali conoscitivi e percezione affettiva dei valori “ 232
7. L’empatia
“ 232
7.1 Introduzione
“ 233
7.2 Empatia e neuroni specchio
“ 234
7.3 L’empatia come fondamento della conoscenza e dell’esperienza intersoggettiva
“ 236
7.4 L’empatia secondo E. Stein
“ 238
7.5 Risvolti pedagogici
“ 245
Bibliografia
“ 247
CAPITOLO VII
PREVENZIONE E TRATTAMENTO DELLO STRESS NELLE
PROFESSIONI D’AIUTO: DALLA PSICOBIOLOGIA DELLA RELAZIONE DI CURA AL SIGNIFICATO ESISTENZIALE DELLA
SOFFERENZA
1. Concetto di salute
2. Brevi cenni di psicosomatica
3. Cervello e stress
4. Aspetti psicobiologici del rapporto paziente-curante.
Correlati e costi dello sforzo mentale ed emotivo
5. Prevenzione e trattamento dello stress nelle professioni
d’aiuto
6. La relazione d’aiuto con i pazienti e tra i componenti delle
équipe di cura
7. Educazione alla salute, senso della cura e significato esistenziale della sofferenza
Bibliografia
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A Martina, Lucilla e Stefano, i nostri figli.
Ogni giorno con loro ha il sapore di un straordinario regalo:
poter scoprire e capire come una mente diversa dalla tua
organizza la conoscenza del mondo.
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INTRODUZIONE
“L’idea Montessori attraversa il tempo e conserva intatto il suo
valore anche oggi. Le sue scoperte, fatte un secolo, fa vengono confermate dalla ricerca psicopedagogica e dalle neuroscienze; le sue
risposte educative sono più vere ed utili oggi, all’inizio del millennio,
che non ieri, all’inizio del ventesimo secolo.
Montessori ci può aiutare a ripensare l’educazione nel tempo dell’incertezza, a non giocare mai al ribasso quando si tratta di capire
che nell’epoca delle passioni tristi i bambini sono la vera password
per il futuro” (Regni, 2007, p. 19).
Chi scrive è impegnato, da diversi anni, in percorsi di didattica e
di ricerca psicopedagogica i quali, tenuto conto dell’enorme sviluppo
che, da almeno un ventennio, caratterizza gli studi sul rapporto tra
mente e cervello, tentano di integrare studi neuroscientifici, psicologici, pedagogici ed offrire spunti di riflessione nella direzione di una
crescente comprensione della complessità di tale rapporto e del suo
impatto sulla qualità dei processi educativi e formativi.
Bob Garrett, nel bellissimo testo “Cervello e comportamento”
(2006) definisce le neuroscienze “lo studio multidisciplinare del sistema nervoso e del suo ruolo nel comportamento” (p. 2). Aggiunge
inoltre: “il termine neuroscienze identifica l’argomento su cui verte la
ricerca piuttosto che il percorso formativo degli scienziati. Un neuroscienziato può essere un biologo, un fisiologo, un anatomista, un
neurologo, un chimico, uno psicologo o uno psichiatra, ma anche un
informatico o un filosofo” (p. 2); e, proprio in virtù di quanto intendiamo dimostrare nel presente lavoro, perfino un pedagogista.
L’aveva ben compreso la grande Maria Montessori, la quale, pur
11
essendo un medico capace di seguire gli sviluppi della neurofisiologia,
è vissuta in un periodo che precedeva le grandi scoperte contemporanee della biochimica e della biofisica cerebrale eppure come pochi pedagogisti è stata consapevole della necessità di fondare l’educazione su
premesse scientifiche di questo genere; quella che oggi si chiama sinaptogenesi rappresenta una splendida base che conferma le caratteristiche ed il funzionamento della mente assorbente (Regni, 2007, p. 172).
L’attuale rapporto tra neuroscienze ed educazione si colloca dunque in un possibile quadro fondativo di una nuova pedagogia scientifica lontana da un asettico e freddo positivismo ed a servizio della
persona, intesa come unità bio-psico-socio-spirituale (Donnarumma,
D’Alessio, 2008), pedagogia della quale la Montessori è stata anticipatrice ed antesignana (Acone, 1997).
Quanto scrive Raniero Regni in “Infanzia e società in Maria Montessori” (2007), ben si applica ad introdurre il presente lavoro. Ci si
perdonino le lunghe citazioni, ma è quanto di più calzante si è trovato per l’obiettivo che ci siamo preposti. “Le straordinarie scoperte di
oggi fanno pensare al bambino con la reverenza, il rispetto e l’ammirazione a cui si richiamava cento anni fa Maria Montessori e che l’avrebbero riempita di gioia e di ammirazione, perché confermano la
ricchezza del potenziale umano, il tesoro nascosto nel bambino. Scoperte che vengono da discipline lontane dalla pedagogia di cui la
Montessori è stata puntuale precorritrice e che dovrebbero interessare molto le scienze dell’educazione, come la neurofisiologia e le neuroscienze. Basta anche solo accennare al fatto che, a differenza di tutti gli altri organi che aumentano la loro dotazione di cellule, il cervello si sviluppa attraverso una morte selettiva delle sue cellule, i neuroni, che avviene a causa delle esperienze che ne scolpiscono la struttura. Secondo alcune ipotesi ancora più ardite, la mente umana in generale e la mente del bambino in particolare possono rappresentare
addirittura una forma di discontinuità nei confronti delle leggi della
materia quali ce le presentano la fisica e la chimica. La mente, in contrasto con la materia, potrebbe essere un fattore di neghentropia, una
forza opposta all’entropia capace di ricreare l’ordine a partire dal disordine e costruire sistemi di livello energetico superiore. Oggi noi
sappiamo che i poteri innati del cervello, incapsulati nelle reti neura12
li, sono molto più grandi e numerosi di quello che si credeva. Anche
per questo ‘scienziati e bambini si assomigliano perché nessuno è più
bravo di loro ad imparare’. Il cervello dei bambini possiede quelle magiche potenzialità che si sono sempre sospettate e che noi ora possiamo concretamente osservare dall’interno e che l’educazione della prima infanzia è per questo decisiva. Dietro ogni gesto del bambino, dietro ogni materiale che afferrano le sue mani, dietro ogni relazione e
sintonia con gli altri esseri viventi esistono formidabili apparati neurali.
Vediamo perché agiamo e agiamo perché vediamo. Un cervello che
agisce è un cervello che comprende. Come già sapeva la Montessori, la
mano è l’organo dell’intelligenza, i bambini pensano con le mani. L’intrinseca psichicità del movimento, che non accetta la separazione tra il
sensoriale, il motorio ed il cognitivo, è oggi confermata dalle neuroscienze. Oggi noi sappiamo che non c’è percezione, cognizione e poi
movimento. Il movimento e le aree cerebrali addette non sono i terminali esecutivi: agire è comprendere. (…). La scoperta dei neuroni specchio e la spiegazione della loro funzione rappresentano, ad esempio,
una formidabile conferma della cura montessoriana per i dettagli nella
presentazione del materiale di sviluppo. Le cellule cerebrali che coinvolgono la corteccia visiva e motoria, ma anche le strutture emozionali,
anticipano movimenti ed oggetti. Grazie ad essi la visione di un’azione
eseguita o subita da un altro individuo attiva i medesimi centri nel cervello dell’osservatore. E questo apre orizzonti interessanti anche sul
ruolo dell’imitazione, della pedagogia mimetica del laboratorio e della
bottega, delle forme di apprendistato moderne che Montessori prima e
Gardner poi hanno proposto come vera e propria rivincita contemporanea dell’apprendistato” (Regni, 2007, p. 16, 17).
Ancora Regni, a proposito della possibile integrazione tra approccio biologico ed approccio spirituale nello studio dell’uomo già proposta dalla Montessori, così si esprime: “Per la Montessori la mente
umana ha qualcosa in sé che trascende il piano pienamente naturale,
ma intanto lei si interroga sulla sua struttura, la sua origine e la sua
educabilità. (…) Lo scopo della lunga infanzia è rendere la mente
umana disponibile ad apprendere il mondo della cultura, il regno
dell’artificiale, della supernatura e forse, superare costantemente i livelli di civiltà raggiunti. Maria Montessori definisce questa peculiari13
tà umana con un termine suggestivo: embrione spirituale. Il neonato
intraprende nel periodo postnatale un lavoro formativo, egli ha un
periodo di vita che non è quello dell’embrione fisico e non è simile a
quello che presenta l’uomo da lui formato…così l’umanità ha due
periodi: uno è prenatale, simile a quello degli animali, ed uno è postnatale, proprio dell’uomo. In questo modo si interpreta il fenomeno
che distingue l’uomo dagli animali: la lunga infanzia. Questa lunga
infanzia ha un decisivo valore evolutivo: la fede nel bambino non è
una fede ingenua ma è nutrita dalla conoscenza e confermata dalle
più recenti scoperte neuroscientifiche. Il dato collettivo conferma
quello individuale, esistenziale per cui la nascita di un bambino rappresenta una delle poche reali novità cariche di promesse offerte ad
ogni generazione di uomini. La lunga infanzia umana rappresenta un
discontinuità rispetto ad altri esseri, un salto nella vita: l’intrapresa di
nuovi destini. È quello che la montessori chiama ‘alone spirituale’
che lo avvolge, un alone spirituale che possiede basi biologiche che
risiedono nel sistema nervoso centrale, nel cervello umano con il
quale l’evoluzione naturale ha superato sé stessa. L’evoluzione biologica trascende sé stessa formando il supporto materiale, il cervello
umano, ad individui autocoscienti, che sperano ed amano. Nella
Montessori è evidentissimo il legame tra mente e cervello che è oggi
uno dei settori più importanti della ricerca attorno all’uomo. Il cervello è forse il congegno più complesso dell’universo, formato da 100
miliardi di neuroni in grado di formare milioni di miliardi di connessioni tra loro; sappiamo che il numero di neuroni tende a diminuire
con gli anni, per cui i neuroscienziati parlano di morte selettiva o potatura dei neuroni dopo la nascita e questo fatto ha grandi conseguenze sul piano educativo e sulla ricerca psicopedagogica, di cui per
prima la Montessori ha scoperto le reali potenzialità. Infatti sono le
esperienze vissute nei primi mesi e nei primi anni a modificare le
mappe neuronali; l’esperienza infantile è in presa diretta con la struttura stessa del cervello, l’esperienza incide a livello neuronale. Per
l’adulto le informazioni vengono inglobate in una struttura già organizzata mentre per il bambino le prime esperienze costruiscono la
struttura stessa, è quindi qualcosa di molto diverso dalla generica
considerazione del valore educativo delle prime esperienze di vita. Il
14
cervello oscilla tra il caso e la necessità, tra le necessità e gli imperativi biologici programmati dai geni e il caso delle esperienze che modificano il cervello stesso. Il programma genetico delle cellule cerebrali
è relativamente poco specializzato, il programma dei geni da solo
non è sufficiente per specificare la struttura e le funzioni del cervello.
I geni stabiliscono una traccia di connessioni essenziali ma queste
vengono stabilizzate solo dalle esperienze. Il giardiniere che pota le
sinapsi è l’esperienza del bambino ovvero gli stimoli ambientali, cioè
quello che egli vede, sente, tocca, fa. L’apprendimento per lui è il risultato di un’alterazione delle connessioni sinaptiche tra cellule.
Questa straordinaria attività neuronale è segnalata anche dal metabolismo del cervello del bambino; esso infatti consuma a due anni la
stessa quantità di glucosio di quello di un adulto, ma già a quattro
anni è il doppio. Nel cervello del bambino c’è una vulcanica attività
cerebrale che lo rende molto più potente di quello di un adulto. Se
avviene un trauma od una lesione quanto più precocemente essa è
avvenuta, tanto è più probabile che il cervello si riveli in grado di
eseguire la funzione desiderata a prescindere dal sito della lesione. Il
cervello del bambino è in grado di riparare sé stesso, quello dell’adulto no, nel senso che i neuroni sono in grado di gettare dei ponti
sulla lesione dislocando le varie competenze nelle aree cerebrali che
ancora non si sono definitivamente localizzate (…). Oggi, intorno al
rapporto tra mente e cervello, è sorto un intenso dibattito che segue
alle strabilianti scoperte fatte in materia. La mente senza il cervello
non esiste ma il cervello non è tutta la mente. Le cellule cerebrali
rappresentano un vero e proprio ponte tra il supporto materiale delle cellule e quello immateriale della cultura, fin quasi a rendere obsoleta l’opposizione cartesiana tra res extensa e res cogitans, tra corpo ed anima, tra spirito e materia. L’evoluzione, come si vedrà nella
dimensione più propriamente filosofica montessoriana, fa emergere
una dimensione trascendente la stessa dimensione biologica, un’evoluzione emergente. I neuroni vanno dalla natura verso la cultura, sono un ponte gettato tra il regno delle cellule e quello dei simboli, tra
il materiale e l’immateriale. Come osserva Gardner, se è vero che il
sistema nervoso non sa nulla della cultura, le sue varie regioni sono
costituite in modo tale da sapere molto sul linguaggio. I neuroni non
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sanno niente di cultura ma sanno molto di informazione, di codici
biochimici ed elettrici. Forse per questo l’intelligenza umana ha una
tendenza naturale a materializzarsi in simboli, a cogliere cioè l’unione di un significante e di un significato e quindi dare vita a forme
simboliche che permettano all’uomo di emergere dal piano naturale
a quello storico e culturale. (…) Il viaggio evolutivo del cervello è
stato lunghissimo. Il bambino nella sua ontogenesi ripercorre le varie
tappe della filogenesi ed alla fine egli possiede un cervello capace di
un ulteriore salto evolutivo. La funzione dell’infanzia, con la sua
mente plastica, assorbente e dall’attività esplosiva è quindi quella di
permettere l’apprendimento della cultura accumulata nelle generazioni precedenti di uomini. Lo scopo è quello di incarnare, e quest’espressione montessoriana è, come abbiamo visto per il cervello, vera
alla lettera, la supernatura. Quest’ultima infatti cambia e dall’età moderna in poi, soprattutto negli ultimi decenni, cambia incessantemente a ritmi accelerati, esponenziali. Da qui la decisiva funzione del
bambino come mezzo di adattamento e la sua educazione per superare il divario, che rischia di diventare una tragica inadeguatezza tra
quello che siamo e quello che potremmo essere, tra il nostro corpo
tecnologico e la nostra anima culturale. La psicologia culturale contemporanea evidenzia come non esista qualcosa come una natura
umana indipendente dalla cultura e che il substrato biologico è una
vincolo o una condizione e non causa dell’azione umana” (Regni,
2007, p. 171, 172, 173).
Gli attuali studi sul funzionamento del cervello evidenziano nel
complesso il ruolo svolto dall’esperienza nel determinare la struttura
ed il funzionamento dell’organismo biologico. Sembra, infatti, che le
relazioni umane producano cambiamenti a livello molecolare, con
ampie implicazioni sulla memoria e sull’apprendimento (Kandel,
2007). Purtroppo gran parte delle attuali pratiche psicopedagogiche
mostra un dualismo marcato e problematico che rende difficile integrare il lavoro svolto dagli educatori con le risorse tecnologiche a disposizione della neurologia.
Esistono già in psicologia prove cliniche dei cambiamenti indotti
dalla psicoterapia nei circuiti cerebrali, il che fa pensare ad una stessa
possibile azione svolta dai processi educativi, ma l’impatto degli studi
16
neuroscientifici su queste discipline è ancora limitato1. Crediamo che i
tempi siano ormai maturi affinché le neuroscienze costituiscano parte
irrinunciabile della formazione di chi opera nel settore pedagogico,
favorendo la costruzione di metodi e strumenti di lavoro appropriati.
Il lavoro rientra in una precisa scelta epistemologica volta alla costruzione di un nuovo modo di pensare nelle scienze pedagogiche
che, abbandonando controproducenti distinzioni tra cervello e mente, biologia ed esperienza, natura e cultura, si basa sull’idea che, pur
avendo i fattori costituzionali e genetici un ruolo importante nello
sviluppo della mente umana, i fattori sociali e le relazioni umane plasmano lo sviluppo del cervello e della mente (ib.). Alla pedagogia si
presenta oggi una nuova, irripetibile opportunità. Quando si tratta di
studiare le relazioni i neuroscienziati non possono fare a meno di una
guida ed, in questo senso, la pedagogia può offrire un contributo di
grande valore alle neuroscienze. Le sue potenzialità risiedono nella
peculiarità delle sue prospettive, le quali possono indicare alle neuroscienze le funzioni mentali che devono essere studiate per giungere
ad una comprensione più complessa e profonda del rapporto educativo. La pedagogia in questo può svolgere il duplice ruolo cercando
di rispondere alle domande di propria pertinenza legate ai processi
educativi; dall’altro, porre domande sul comportamento cui le neuroscienze sono chiamate a dare risposta.
In seguito ai progressi compiuti dall’uso euristico delle tecnologie
negli ultimi anni, sia la pedagogia che le neuroscienze si trovano in
una nuova e migliore posizione per un riavvicinamento che consenti-
1
A questo proposito non possiamo non citare i lavori di E. Frauenfelder e del
suo gruppo di ricerca che, in Italia, hanno funto da apripista per coloro che,
avendo colto l’importanza del connubio neuroscienze-educazione, hanno
intrapreso tale filone di ricerca. Tra di essi vi sono i lavori di Maurizio Sibilio
e dei suoi collaboratori, uno dei quali è Filippo Gomez Paloma, curatore del
volume dal titolo: Corporeità, didattica ed apprendimento: le nuove neuroscienze dell’educazione (Salerno, Edisud, 2010), nel quale appare anche un
contributo di chi scrive.
17
rebbe alle intuizioni pedagogiche di informare la ricerca di una comprensione più profonda dei correlati biologici dell’educazione.
È possibile dunque delineare un modello concettuale designato ad
allineare l’attuale prospettiva pedagogica e la formazione dei futuri
educatori con le ultime scoperte neuroscientifiche.
Secondo il neuroscienziato Daniel Siegel l’educazione lavora in profondità nel cervello e nei neuroni modificandone la struttura e attivando i geni appropriati: essa agisce “parlando ai neuroni” (Siegel, 2008).
Un educatore efficace potrebbe in questa luce definito un vero e proprio microchirurgo della mente, un neuroscultore dei network neuronali, come la Montessori aveva ampiamente anticipato. Per questo “l’educazione fa direttamente biologia, modella il cervello plastico. Il rapporto tra cervello, mente, educazione è un tema quanto mai attuale di
ricerca educativa, un programma che la Montessori ha iniziato e avrebbe sicuramente seguito con passione” (Regni, 2007, p. 17).
Nei limiti delle nostre possibilità e, ammettiamo, piuttosto arditamente, tenteremo, nel corso di questo lavoro, di seguire le orme della
grande Montessori.
Chiara D’Alessio
Bibliografia
Acone G., Antropologia dell’educazione, La Scuola, Brescia, 1997.
Donnarumma M. – D’Alessio C., La danza dell’identità, Milano, Gribaudi, 2008.
Garrett B., Cervello e comportamento, Roma, Zanichelli, 2006.
Kandel E., Psichiatria, Psicoanalisi e nuova scienza della mente, Milano, Cortina, 2007.
Regni R., Infanzia e società in Maria Montessori, Roma, Armando,
2007.
Siegel D., Mindfulness e cervello, Milano, Cortina, 2009.
18
I
CAPITOLO
DECLINAZIONI PSICOPEDAGOGICHE
NELLA RICERCA PSICOBIOLOGICA
di Chiara D’Alessio e Irene Minchillo
Quando nuovi filoni emergono (...) non è sempre detto che riescano a
sopravvivere. L’entusiasmo stimolato dalla nascita di un nuovo campo
d’indagine non è molto diverso da quello suscitato da un cerbiatto che
si rizza sulle zampe per la prima volta ce la farà?. Questa nuova vita riuscirà a crescere e a svilupparsi? E davvero ne emergerà qualcosa di significativo? (Gazzaniga, 2005, p. 4)
1. Tra neuroscienza e psicopedagogia
Nell’antica Grecia, era già presente, con Ippocrate, la consapevolezza che fosse necessario all’uomo per capire l’uomo interrogarsi
non tanto o non solo sulla sua essenza, bensì sul suo concreto essere
fisico. Alcmeone di Crotone aveva già identificato il cervello come
sede fisiologica dei sensi e lo stesso Ippocrate aveva affermato che il
cervello, l’organo più potente del corpo, era la sede dell’intelligenza e
che gli organi di senso agivano in dipendenza dalle sue capacità di discernimento e che danni traumatici e malattie connesse con il sistema
nervoso avevano effetti sul comportamento. Sempre Ippocrate, inoltre, riprendendo le ipotesi formulate da Empedocle, aveva formulato
la sua famosa dottrina caratteriologica.
È possibile pertanto affermare che già nel VI secolo a.C., nel mondo greco, aveva avuto luogo una ricerca dell’uomo sull’uomo centrava
sulle funzioni e non sull’essenza, valorizzante l’osservazione clinica e
l’esperienza e, soprattutto, che riteneva il comportamento di ciascun
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individuo peculiare e distinto da quello di altri in funzione delle caratteristiche fisiche del singolo organismo vivente.
Lo studio del rapporto tra biologia e comportamento è stato successivamente ripreso e studiato solo dall’umanesimo in poi, soprattutto in epoca moderna.
Nell’epoca moderna, inaugurata del dualismo cartesiano, con
l’avvento della matematica e della fisica moderna, si è divenuti inclini ad estendere anche all’area biologica i parametri della meccanica classica e della scienza fisica; i successori di Cartesio, nello spirito della res extensa, scoprirono simmetrie continue tra organismi
e macchine definendo il corpo umano come macchina perfetta (Palumbieri, 1999).
Allo stato attuale delle ricerche vi è generale consenso nell’affermazione che ogni singolo individuo è il prodotto della componente
ambientale e della componente genetica. Quando si passa, negli esiti
finali, alla valutazione del contributo di ciascuna componente si ripresenta il punto critico, l’elemento di discordia, la controversia natura-cultura. Il superamento di decenni di contrasti tra i fautori della
prevalenza della componente ambientale o della componente genetica con la salomonica interazione/correlazione tra le due componenti
lascia irrisolto il dilemma.
Le prove dell’influenza genetica su un determinato comportamento o sugli esiti finali dello sviluppo di una persona possono dare origine a diverse interpretazioni, molte delle quali trovano fondamento
nei valori di una società e non nei risultati finali di studi effettuati; esse hanno altresì un’importante ricaduta in ambito educativo. Si pensi
ad esempio alla relazione genetica-capacità cognitiva, le scoperte in
questo campo possono dare origine a politiche socioeducative orientate a devolvere le maggiori risorse pubbliche ai soggetti più dotati o
viceversa ai soggetti meno avvantaggiati; una specifica società può intervenire per evitare fenomeni di marginalizzazione oppure può decidere di fornire le stesse possibilità di base e ognuno se ne avvantaggia
come può e come sa. Tutto ciò non dipende dalla relazione geneticacapacità cognitiva ma da valori socialmente condivisibili di cui si dota una società.
Ogni essere umano è un esperimento genetico unico ed i concetti di
20
trasmissione, ereditarietà, somiglianza inducono a riflettere sul fatto
che ciascun individuo è immerso in un universo familiare che via via si
allarga fino a comprendere l’umanità intera come comune espressione
del genoma umano.
La riflessione psicopedagogica si pone come obiettivo in tal senso
la comprensione e l’offerta ad ognuno della possibilità di esprimere
al meglio quanto ha avuto in dote a partire dalle differenze genetiche, il che costituisce un’importante base per la massima valorizzazione di ogni specifica individualità.
Nell’embrione in via di sviluppo segnali biochimici diversi regolano l’espressione genetica, i pattern metabolici, ordinando la differenziazione cellulare. Lo sviluppo neuronale porta gli assoni a trovare la
strada fino alle aree bersaglio, i terminali neuronali si collegano tra di
loro creando sinapsi e gradualmente, in maniera non uniforme, si sviluppa il nostro repertorio comportamentale e mentale che porta all’emersione di una persona, un Sé con tutti i suoi attributi (LeDoux,
2002), identico nei meccanismi base a quello di tanti altri e differente
negli esiti finali. Ma se e quali fattori ambientali, a partire da quelli
prenatali, determinano e selezionano la qualità e la quantità delle nostre connessioni sinaptiche?
L’affascinante sfida che questo interrogativo pone alla riflessione
psicopedagogica porta a confrontarsi con ipotesi e tesi che vogliono
la nostra natura mentale coincidente con il complesso di connessioni
sinaptiche presenti nel nostro cervello (Boncinelli in LeDoux, 2002)
e ad immergersi nella letteratura prodotta rispetto allo studio dello
sviluppo e del funzionamento delle strutture cerebrali, rifiutando le
troppo semplicistiche e scontate storie, più o meno verosimili, sulla
mente e sul rapporto con il cervello (ib.) e chiarire, alla luce delle
nuove scoperte, come “riempire” ciascun ambiente di crescita.
Chi si occupa del rapporto tra psicologia ed educazione non può
ignorare il fatto che la psicologia è all’alba di una nuova era nella
quale la ricerca sulla genetica si sposterà dalla dimostrazione dell’importanza dell’ereditarietà e dall’identificazione di specifici geni, alla
genomica cioè allo studio dei meccanismi che elicitano l’espressione
genica nella fenotipia, nella consapevolezza che il timone della ricerca si è spostato dalla relazione mente-cervello, a come emerge la no21
stra coscienza dal cervello (Solms e Turnbull, 2004), alle ipotesi di un
pensiero a base “agire” legato alla teoria dei neuroni specchio (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006), o ad un Sé individuale in relazione con la qualità e la quantità delle connessioni sinaptiche che caratterizzano il
cervello dove la soggettività e il mondo interiore di ciascun individuo
sono un tutt’uno con il complesso delle sue connessioni sinaptiche
(LeDoux, 2002).
Tutto ciò non è esente da interrogativi di natura etica: quali criteri
e fini devono guidare la ricerca e, soprattutto, l’orientamento socialmente condivisibile che ne deve derivare affinché, in ambito educativo, vi sia una utilizzazione e non una strumentalizzazione delle nuove
scoperte.
Solms e Turnbull, ad esempio, nel loro libro Il Cervello e il mondo
interno, parlano di una fobia per i geni rispetto al comportamento
umano, legando questa avversione all’equivalenza tra influenza genetica e predeterminazione. Ma le ricerche genetiche legata al comportamento, alle capacità cognitive, alla personalità non descrivono ciò
che dovrebbe essere ma ciò che è. Le ricerche genetiche indagano
l’individuo e la variabilità tra gli individui chiedendosi come esse si
originino, non che cosa porterebbe un dato individuo geneticamente
“di tipo X” ad essere un fenotipo “di tipo Y”.
La genetica e la genomica indagano su ciò che è effettivamente successo tra codice genetico, cervello, ambiente e esito finale. Non voglio
predire ma dire. Gli inevitabili collegamenti con l’eugenetica, le teorie
razziali, pulizie etniche, genocidi, esperimenti di ingegneria genetica
sono spesso espressione di un arbitrario generalizzante catastrofismo
anacronistico ed antiscientifico.
Alla comprensione dell’uomo devono necessariamente concorrere
vari settori di ricerca e tra questi la ricerca genetica e la ricerca neuroscientifica in funzione della determinazione della componente genetica
e ambientale e dei relativi meccanismi di funzionamento dei geni nella
individuale fenotipia, e in funzione della neurofisiologia dei singoli
processi cerebrali e di come questi si armonizzino tra di loro, per determinare l’emergenza spontanea dell’individuo a partire dall’attività
elettrochimica della massa protoplasmatica presente (LeDoux, 2002).
22
2. La prospettiva genetica e le neuroscienze cognitive
La psicobiologia è un settore di ricerca che studia il comportamento in relazione alle sue basi biologiche (Freberg, 2007). Si tratta di un
campo di studio interdisciplinare in cui convergono settori quali la psicologia, la biologia, la biochimica, la genetica, la genomica, le neuroscienze ed altri campi del sapere ad essa correlati e che indaga sulle relazioni fra l’attività del sistema nervoso ed il comportamento osservabile (apprendimento, sonno, fame, sessualità, emozioni, psicopatologia).
La psicobiologia si interroga sul come la biologia influenza il comportamento che a sua volta influenza la biologia, cioè sulla natura circolare
delle relazioni in essere tra biologia e esiti “finali” in una persona (un
esempio è rappresentato dal rapporto tra qualità del legame di attaccamento nell’infanzia e vulnerabilità allo stress da adulti).
La relazione tra le scienze biologiche e le scienze comportamentali
può essere messa bene in evidenza dalla genetica e dalla genomica,
nella loro accezione ampia (genetica comportamentale, genetica molecolare, genetica ambientale, genomica psicosociale, genomica molecolare, neuro genetica, ecc.), rispetto alla quale la psicopedagogia, partendo dalla considerazione che l’educazione deve favorire la massima
espressione di ogni essere umano a partire dal patrimonio genetico
avuto in dote, si avvantaggia dell’analisi genetica che prende in esame
geni, espressione genica, comportamento, ambiente e variabilità.
Un altro ambito di grande interesse all’interno della relazione tra
scienze biologiche e scienze comportamentali è rappresentato dallo
studio delle funzioni mentali superiori nelle neuroscienze cognitive e
nella neuropsicologia, la cui attenzione è incentrata sulle modalità di
organizzazione delle informazioni provenienti dall’interno e dall’esterno della persona in aree cerebrali specializzate, sui processi in base ai
quali la coscienza emerge dal cervello, sulla componente motoria del
pensiero e sulle teorie della mente (Gazzaniga, Ivry, Mangun, 2002).
3. Tra geni e neurogenetica: la nascita della variabilità
A partire dalle leggi di Mendel fino al sequenziamento del DNA
23
dell’intero genoma umano, avvenuto di recente, la genetica è considerata una delle grandi scoperte del ventesimo secolo.
Nell’ambito della psicologia applicata all’educazione, pur nella consapevolezza dell’importanza dei contributi genetici, persiste ancora
una certa resistenza ad accettarne il ruolo per le derivanti ed evidenti
implicazioni etiche.
Secondo Kagan (1994) la genetica influenza il comportamento in
quanto è il corredo cromosomico che determina, in massima parte, lo
sviluppo di un organismo umano, ed è il singolo organismo umano
che è adattivo rispetto all’ambiente. Il corredo genetico non può essere modificato dall’ambiente (se non con manipolazioni intenzionali)
ma quest’ultimo esercita un ruolo importante nell’espressione genica
(Siegel, 2001; Kandel, 2007).
Nell’ultima edizione di Genetica del comportamento (2002), Plomin et al. evidenziano come le ricerche nell’ambito della genetica,
quantitativa e molecolare in particolare, nonché comportamentale,
abbiano consentito di analizzare l’influenza dei fattori genetici (e
ambientali) nello sviluppo del comportamento e nella nascita della
variabilità. Plomin et al., nella loro trattazione, hanno effettuato
una verifica dell’esistenza della componente genetica (e ambientale)
del comportamento, preso in esame i risultati della ricerca per la
determinazione dei meccanismi attraverso i quali si esplica la componente genetica (e ambientale) e per la determinazione del contributo genetico (e ambientale) negli esiti della persona, utilizzando
come approccio metodologico il confronto di una data variabile in
coppie di gemelli (monozigoti e dizigoti) cresciuti in famiglia biologiche o adottive.
3.1 Il materiale genetico e l’espressione genica
In ogni cellula umana, a partire dallo zigote, è presente l’insieme
completo delle 23 coppie di cromosomi tipico della nostra specie. Il
genotipo, il genoma specifico di un individuo, attraverso processi di interazione e correlazione con l’ambiente produce il fenotipo, ciò che osserviamo. La funzione dei geni è quella di esprimersi, di dare origine
alle proteine, di trasferire dal nucleo al citoplasma l’informazione geni24
ca necessaria per la sintesi proteica: la sequenza dei nucleotidi del Dna,
nel nucleo della cellula, viene trascritta in sequenza di nucleotidi di
Rna, che a sua volta, nell’ambiente citoplasmatico, viene tradotta in sequenze di aminoacidi e, quindi, proteine. Ciascuna cellula dell’organismo umano, che si origina per mitosi dallo zigote, possiede l’intero
corredo cromosomico; tuttavia nelle strutture specializzate del corpo
umano solo una parte di esso, in base a precisi segnali biochimici, si
esprime. Quindi se confrontiamo una cellula del cervello e una cellula
del fegato il patrimonio genetico è lo stesso mentre l’espressione genica (alias i prodotti genici, alias il proteoma specifico) è differente (Griffiths, Gelbart, Lewontin, Suzuki, Miller, Wessler, 2006).
All’indomani della pubblicazione dell’avvenuta decifrazione dell’intero genoma umano, effettuata dal genetista Graig Venter, l’emozione nel mondo accademico fu grande: i geni umani risultavano essere solo trentamila e non centomila come si attendeva. La differenza
tra un essere umano e uno scimpanzé era affidata ad uno sparuto
1,5% di materiale genetico (Ridley, 2005), poco di più se confrontiamo la specie umana con quelle di altri mammiferi.
Se la differenza tra specie fenotipicamente così differenti è affidata
a poche centinaia di geni cosa ci rende così diversi? Ridley, ne Il Gene
Agile (2005) affida questa differenza ai geni hox. I geni hox, definiti
da Kandel interruttori e da Ridley termostati o promotori, sono dei geni che codificano proteine la cui funzione è attivare altri geni.
In ultima analisi possiamo dire che moltissimi geni non vengono
attivati fino a quando non intervengono i promotori e che i promotori possono esercitare effetti sulla quantità di espressione genica
che si riflette nella qualità. A livello dei promotori dovrebbe risiedere la maggior parte dei cambiamenti evolutivi che giustificano le differenze interspecifiche ma anche quelle intraspecifiche. Per apportare modifiche anche radicali nelle diverse specie (e tra individui diversi all’interno della stessa specie) non sarebbero necessari una
grande quantità di geni differenti ma sistemi in grado di attivare e
disattivare la comune matrice genetica in configurazioni diverse.
Piccole differenze genetiche, se a carico dei promotori, sarebbero in
grado di giustificare alterazioni significative nell’espressione genica.
E se è pur vero che quantità non implica necessariamente qualità
25
sappiamo, come nozione comune, che l’anatomia riflette la fisiologia, la struttura la funzione.
Nella controversia cultura-natura, le scoperte inerenti il genoma
umano con l’individuazione dei geni hox aprono nuovi ed interessanti scenari. Un sistema che può attivare l’espressione di un altro gene,
il cui prodotto attiva l’espressione di un altro gene e così via è di per
se un sistema aperto ove qualsiasi cosa esterna all’organismo (l’educazione, la dieta, uno stato d’animo) potrà influenzare uno dei termostati e, di conseguenza, tutto il sistema: l’ambiente si esprime servendosi dei meccanismi dell’eredità. Il cervello umano rappresenta il
luogo della possibilità massima di modifiche nell’espressione genica,
il luogo ove la natura incontra l’ambiente, l’esperienza e la cultura. I
geni sono al tempo stesso causa e conseguenza delle nostre azioni
(Ridley, 2005).
3.2 La trasmissione dei caratteri complessi e l’influenza genetica
In merito alla genetica quantitativa che si occupa delle modalità
di trasmissione dei caratteri associati a strutture poligeniche Plomin
et al. (2001), nella loro trattazione, prendono in esame le conoscenze accumulatesi rispetto all’ereditarietà dei caratteri associati al
comportamento.
Già da decenni è risaputo che i caratteri, quali la capacità cognitiva generale, associati a strutture poligenetiche rappresentano delle
eccezioni alle leggi di Mendel: ciascun gene viene ereditato in accordo con le leggi di Mendel ma il sistema poligenetico segue le regole
dell’ereditarietà quantitativa.
Plomin et al. (2001) riportano che nella genetica quantitativa legata ai “caratteri comportamentali”, che sono caratteri familiari,
l’approccio metodologico utilizzato dalla ricerca per determinarne
l’ereditarietà è di tipo indiretto: un carattere complesso quale la capacità cognitiva è una grandezza quantitativa, né più né meno come
il peso corporeo o la pressione sanguigna; se la capacità cognitiva
generale è una grandezza quantitativa è possibile attribuirle un valore e indagare sugli individui che ne sono affetti. Dallo studio degli individui si passa ad un’analisi statistica della distribuzione del
26
carattere quantitativo, quindi, alla somiglianza fra individui della
stessa famiglia (con l’uso del “coefficiente di correlazione” di Pearson). In tal modo è risultato evidente che la somiglianza tra membri
di una stessa famiglia è strettamente dipendente dalla loro familiarità genetica (l’ereditarietà quantitativa) in conseguenza della quale
due fratelli potranno differire o somigliarsi, rispetto ad un dato carattere, in base alla quantità di materiale genetico ereditato in comune. Detto in altri termini la somiglianza tra parenti è direttamente proporzionale alla quantità di geni condivisi e in funzione del
grado di parentela genetica cresce la somiglianza fenotipica, chiaro
segno dell’influenza genetica.
3.3 La componente genetica e ambientale del comportamento
Per la determinazione quantitativa della componente genetica e
ambientale del comportamento si esamina la somiglianza parentale.
Plomin et al. (2002) riportano i risultati degli studi condotti comparati sui gemelli monozigoti e sulle adozioni.
Gli studi sui gemelli e sulle adozioni evidenziano che la somiglianza familiare esiste anche quando consanguinei sono adottati da famiglie diverse. Già nel 1989 Loehlin dimostrò che genitori e figli biologici, pur non condividendo l’ambiente familiare, si somigliano in modo significativo. Le ultime ricerche genetiche dicono che, per la maggior parte dei tratti comportamentali anche complessi, la somiglianza
tra parenti è dovuta più alla condivisione del patrimonio genetico
che dell’ambiente di crescita: nella capacità cognitiva generale le somiglianze parentali sono dovute maggiormente a somiglianze genetiche, eventuali differenze a differenze genetiche.
Se l’ambiente non contribuisce alle somiglianze fra i membri di
una stessa famiglia ha una sostanziale influenza sulle differenze pur in
presenza di materiale genetico comune. È il caso dei gemelli identici
che possono tendere a differenziarsi in risposta all’ambiente: a parità
di patrimonio le somiglianze sono dovuti al genotipo comune e le differenze all’ambiente. La ricerca ha dimostrato che i gemelli identici,
considerati più individualmente di altri, non mostrano maggiori differenze pur nella considerazione che i gemelli monozigoti possono ave27
re esperienze simili in quanto simili geneticamente, ovvero, alcune
esperienze possono essere influenzate geneticamente.
La stima della dimensione dell’effetto genetico è data dalla ereditabilità, una funzione statistica che stima in quale proporzione, in un
gruppo di individui, le differenze fenotipiche sono da attribuire a differenze genetiche. L’ereditabilità si riferisce al contributo genetico, alle differenze individuali (variabilità) in una data popolazione in un dato momento (non cosa potrebbe o dovrebbe essere) (Plomin et al.,
2002). Per molti tratti e disturbi comportamentali, inclusa la capacità
cognitiva generale e la schizofrenia, l’influenza genetica non è solo osservabile ma anche sostanziale, spesso arrivando a determinare anche
fino al 50% della variabilità della popolazione.
Le differenze fenotipiche non riconducibili a differenze genetiche
sono da attribuire all’ambiente. A differenza di quanto si è comunemente portati a credere è proprio la genetica a fornire la prova migliore dell’importanza dell’ambiente.
3.4 L’identificazione dei geni legati al comportamento
Allo stato attuale sono stati individuati i geni, denominati gruppi
linkage, responsabili di tratti quantitativi complessi associati ad alcuni disturbi e patologie tra cui: il disturbo di lettura (cromosoma 6),
l’iperattività e l’alcolismo (cromosoma 11), la malattia di Alzheimer
ad insorgenza precoce (cromosoma 14), ad insorgenza tardiva (cromosoma 19), il ritardo mentale, il daltonismo nonché la preferenza
sessuale (cromosoma 10).
Secondo Plomin et al. (2002) la sempre maggiore identificazione di
gruppi di geni associati al comportamento, fornendo genotipi valutabili, consentirà di effettuare grandi passi in avanti nella comprensione
della relazione tra matrice genetica e comportamento, nella verifica
quantitativa dell’effetto dell’influenza genetica sul comportamento e
nella correlazione e interazione tra genotipo e ambiente. Identificato il
tratto genetico, sarà possibile verificare quali proteine vengano prodotte in corrispondenza (e in quali condizioni ambientali) e come i prodotti genetici influenzino il comportamento per mezzo del cervello.
In tal senso i geni devono essere considerati non il destino ma
28
l’aumento del fattore di rischio, l’aumento della probabilità che si
sviluppi un dato comportamento così come una malattia, poiché se
molti caratteri complessi sono influenzati da geni multipli ciò non significa che l’ambiente non abbia il suo sostanziale effetto. Al contrario, per tratti complessi, l’influenza ambientale sembra essere importante quanto quella genetica.
3.5 La genomica comportamentale, la neurogenetica e le neuroscienze
Da quanto finora esaminato è possibile dedurre l’importanza della
comprensione dei meccanismi di funzionamento dei geni in relazione al
comportamento, cioè dell’individuazione dei percorsi molecolari che
vanno dai geni al comportamento. Il corrispondente settore di ricerca è
costituito dalla genomica comportamentale, settore della genomica psicosociale. Poiché la maggior parte delle ricerche sono focalizzate sui
pattern metabolici cerebrali, la genomica comportamentale è strettamente connessa con la neurogenetica, che si occupa specificamente degli effetti genetici sulle funzioni del cervello in relazione al comportamento, e con le neuroscienze più in generale.
Per l’individuazione dei percorsi molecolari cerebrali che vanno dai geni al comportamento, un altro livello di analisi prende
in esame le variazioni molecolari che avvengono a carico delle sinapsi, dette plasticità sinaptica, sulle quali si sono concentrati gli
sforzi della ricerche neuroscientifiche che si occupano di apprendimento e memoria (Kandel, 2007).
La genomica comportamentale e la ricerca neurogenetica continueranno, negli anni a venire, nella determinazione dei meccanismi
attraverso i quali i geni sortiscono il loro effetto sul comportamento
e, più specificamente, sul cervello. Con il contributo delle neuroscienze, e grazie anche alle nuove tecniche di neurovisualizzazione
che rendono osservabile il cervello in vivo, diverrà sempre più chiaro
il quadro delle vie metaboliche, delle localizzazioni delle funzioni nel
cervello e dei meccanismi di funzionamento cerebrale. Emergerà,
sempre più chiaramente, quale straordinaria complessità vi sia alla
base del funzionamento della mente umana.
29
4. Geni e plasticità sinaptica
In riferimento all’apprendimento e ai vari tipi di memoria, alle vie
metaboliche e ad alcuni geni che entrano in funzione negli specifici
meccanismi neurali sono stati condotti studi i cui risultati impongono
numerose considerazioni in riferimento al ruolo dei promotori nelle
basi biologiche della memoria e alla relazione cultura-natura.
Nel moscerino della frutta, nome volgare della Drosophila, è presente un tipo di neurone chiamato mushroom body neuron che riceve
le informazioni sensoriali a seguito di stimoli olfattivi ed elettrici.
La Drosophila è suscettibile di condizionamento classico: i moscerini imparano ad evitare gli odori abbinati ad uno shock elettrico
(Jellies, 1981). Rispetto alla suscettibilità di condizionamento classico
della Drosophila, un singolo stimolo sensibilizzante è sufficiente a
produrre un cambiamento comportamentale della durata di alcuni
minuti. Sedute di sensibilizzazione, ripetute a intervalli di tempo regolari, possono dare origine a cambiamenti comportamentali della
durata di alcune settimane.
Nel corso di varie sperimentazioni, intervenendo sulla temperatura, si è visto che quando viene bloccata l’azione della proteina chinasi
A (PKA) i moscerini sono incapaci di apprendere nuove informazioni e formare memorie a breve termine (relazione odore-shock elettrico). Se si verifica, invece, un eccesso di CREB-2 si blocca la memoria
a lungo termine ma non quella a breve termine (Yin et al., 1994); viceversa un eccesso di CREB-1 causa un’immediata memorizzazione a
lungo termine di informazioni che normalmente portano solo alla
formazione di memorie a breve termine.
La capacità di produrre cambiamenti comportamentali della durata di alcuni minuti è dovuto all’azione della serotonina a livello della
sinapsi asso-assonica fra un interneurone e un neurone sensoriale (A.
Freberg, 2007). Il legame della serotonina sul neurone attivava un
enzima che converte l’ATP, in AMP ciclico, il cAMP. In seguito il
cAMP attiva la proteina chinasi A( PKA), la quale da’ origine a delle
reazioni che si risolvono in un aumento del rilascio di glutammato da
parte del neurone sensoriale. I cambiamenti comportamentali della
durata di alcune settimane sono legati all’attivazione ricorrente della
30
PKA. In effetti quando la PKA è attivata in modo ricorrente essa attiva un secondo messaggero: la MAP chinasi. Le due proteine vengono trasportate fino al corpo del neurone dove insieme contribuiscono ad attivare un interruttore genetico all’interno del nucleo cellulare. L’interruttore è una proteina, la CREB-1 avente funzione bloccante rispetto all’azione inibitoria della CREB-2 ; quest’ultima normalmente impedisce l’espressione di 2 geni. Il primo gene codifica per
un altro enzima che consente alla PKA di rilasciare glutammato in
modo pressoché costante anche molto tempo dopo che è cessato il
condizionamento. Il secondo gene codifica per una proteina che a
sua volta attiva altri geni che, in ultima analisi, stimolano la crescita
di nuove terminazioni sinaptiche sul neurone sensoriale determinando delle modifiche strutturali nei terminali assonici. In tal senso deve
essere letta la plasticità delle cellule neuronali.
L’analisi dei risultati delle varie sperimentazioni condotte su Drosophila, Aplysia e su svariati casi clinici in campo umano ha reso possibile la comprensione del meccanismo di funzionamento dei sistemi
promotori e dell’importanza che rivestono in senso evolutivo, e di
approntare gli attuali modelli di funzionamento della memoria e localizzare le funzioni della memoria nel cervello (Kandel, 2007).
4.1 Genetica e personalità
I genetisti, come tutti, sono attratti dallo studio del temperamento
e della personalità sia in riferimento all’intervallo normale delle differenze individuali sia per valori differenti dalla media.
Plomin et al. (2002) riportano che la ricerca genetica sulla personalità suggerisce un ampio coinvolgimento della genetica sui tratti stabili
mentre i mutamenti sono in gran parte dovuti a fattori ambientali. I
tratti della personalità sono da considerarsi delle differenze tra individui
che si mantengono relativamente costanti nel tempo e che non mutano
a seconda delle diverse situazioni (Pervin & John, 1999). Rispetto all’interazione tra geni e ambiente i risultati mostrano come ambiente familiare, relazioni nel gruppo di pari ed eventi della vita siano correlati e influenzati dalla genetica: una diversa chiave sul modo in cui un individuo seleziona, costruisce, percepisce l’ambiente nel quale esperisce.
31
Altra direzione di ricerca è rappresentata dalla correlazione tra
personalità e relazioni sociali. Sembra vi sia un’influenza genetica sulle modalità di instaurare la relazione genitore-figlio, sull’autostima e
sulle attitudini. Rispetto alla relazione madre-figlio sembra che l’influenza genetica sia da associare a percezioni affettive a riflesso psicofisico che hanno una loro evidenza nelle prime fasi dello sviluppo,
piuttosto che a percezioni relazionali che si istaurano in epoche successive (Siegel, 2001).
La genetica opera una influenza notevolissima nel campo delle
differenze degli interessi che gli individui mostrano. È bene precisare
che ciò che si eredita, a differenza di ciò che qualcuno con eccessiva
semplificazione sosteneva in passato, non sono le idee ma l’attitudine
ad occuparsi di certe cose piuttosto che di altre.
Per quanto riguarda l’identificazione dei geni da associare a tratti
della personalità e lo studio sui meccanismi di espressione genica la
ricerca è cominciata da appena un decennio. A tal proposito sono
particolarmente interessanti gli studi condotti da E.L.Rossi (2004)
nell’ambito della genomica psicosociale. Essi esaminano la natura circolare della relazione tra società, psicologia e sistemi genici (una trattazione approfondita verrà effettuata in una futura pubblicazione)1.
4.2 Studi genetici su capacità e disturbi cognitivi
4.2.1 La capacità cognitiva generale
Se si vuole dare origine ad una animata discussione tra studiosi
basta chiedere di definire il termine intelligenza. Una definizione di
intelligenza è la capacità di apprendere e risolvere problemi (Sternberg e Grigorenko, 1997). Charles Spearman ha proposto l’esistenza
di un fattore generale (g), un unico tratto alla base di tutti i comportamenti intelligenti. Gardner (1983) ha invece teorizzato l’esistenza
di diversi tipi di intelligenza che possono essere presenti anche indipendentemente gli uni dagli altri.
1
32
Sul rapporto tra espressione genica e sviluppo di nevrosi o psicosi si veda
anche Kandel (2007), Freberg (2007).
Anche nella genetica comportamentale quello dell’intelligenza è
uno degli ambiti più largamente studiati (Plomin, op. cit.).
In campo genetico comportamentale si utilizza il termine capacità
cognitiva generale (g), in sostituzione del termine “intelligenza”, proprio perché quest’ultimo ha troppe differenti implicazioni (Jensen,
1998) pur nella consapevolezza che l’intelligenza, nella sua accezione
più ampia, ha una significato ben maggiore e prende in considerazione anche la personalità di un individuo nonché le sue motivazioni e
la sua creatività.
Nelle varie analisi, il valore di g deve essere inteso come un punto
di partenza in un campo in cui manca ancora l’esatta percezione di
tutte le interrelazioni, le correlazioni e le forze sinergiche che collegano i diversi aspetti della vita delle persone. In effetti al fine di mantenere la ricerca in un ambito quantificabile, valutabile e confrontabile
Plomin et al. scelgono, come iter metodologico, quello di non ampliare il termine intelligenza, di non includervi elementi come la sensibilità emotiva (Goleman, 1995) o la capacità nella musica o nella
danza (Gardner, 1983) escludendo, di fatto, tutti quegli aspetti che
non consentono di correlare risultati dei test e capacità cognitiva.
Buona parte delle ricerche effettuate in tale ambito si basano sul
modello psicometrico. Secondo tale modello le capacità cognitive sono organizzate in maniera gerarchica (Carroll, 1993, 1997) da capacità specifiche (valutabili mediante test specifici) a fattori di impatto
più ampio fino alla capacità cognitiva generale. Attraverso l’utilizzo
di test d’intelligenza o test di QI vengono valutate le diverse capacità
cognitive specifiche quali sono la capacità verbale, la capacità spaziale, la memoria e la velocità di elaborazione delle informazioni specifiche. Analizzati i singoli processi cognitivi si passa ad una integrazione dei risultati ottenuti attraverso la tecnica dell’analisi fattoriale; in
tale tecnica viene attribuito un peso diverso a processi più complessi,
quale il ragionamento astratto rispetto alle semplici discriminazioni
sensoriali, ricavando, in ultima analisi, un valore indicativo, una stima, della capacità cognitiva generale
Il valore della g rappresenta, comunque, una delle misure più credibili e valide nel settore dello studio del comportamento. La maggior parte degli studi effettuati, gli studi sulle adozioni di Leahy
33
(1935), quelli di Skodak e Skeels (1949), quelli di Erlenmeyer, Kimling e Jarvik (1963), quelli di Snyderman e Rothman (1988), di Chipeur, Rovine e Plomin (1990), ecc. concordano nell’evidenziare una
significativa e sostanziale influenza genetica; circa la metà della varianza dei punteggi dei test sulle Q.I si può imputare a differenze genetiche tra gli individui (nella popolazione campionata in questi studi). Molti di questi studi forniscono anche una stima dell’ereditabilità valutata nella misura del 50%. Se metà della varianza della g può
essere imputata all’ereditabilità, l’altra meta è legata all’ambiente.
La ricerca sulla capacità cognitiva generale, comunque, si è spinta
oltre il modello psicometrico.
Particolarmente interessanti sono le misurazioni, ottenute in
campo neuroscientifico, che valutano direttamente la funzione del
cervello (Vernon, 1993). Tali ricerche, pur nel loro estremo interesse e nella loro estrema validità, non sono ancora state poste sufficientemente in correlazione con la genetica.
Un esempio di ricerca è rappresentato dalle indagini di Thompson
et al (2001) che si sono serviti della MRI per creare mappe tridimensionali della sostanza grigia del cervello umano. Il volume della sostanza grigia era altamente correlato alla misura di un’abilità specifica. Sono stati posti a confronto i risultati ottenuti su gemelli omozigoti e dizigoti. Nei gemelli omozigoti la quantità di sostanza grigia
era praticamente la stessa (0,95%), cioè l’abilità specifica si presentava pressoché con identico valore misurato. Tale risultato suggerisce
che i geni sono in grado di influenzare il volume di sostanza grigia
che sembra direttamente correlato all’abilità cognitiva.
Nel campo della ricerca sulla g si è cercato anche di capire se gli
effetti dell’ereditabilità, col trascorrere degli anni, divenissero più o
meno importanti. Comunemente si è portati a pensare che le esperienze e l’apprendimento aumentino, in crescendo, la loro significatività sul fenotipo: col passare del tempo aumenta l’influenza ambientale e decresce l’influenza genotipica; in qualche caso si pensa che il
rapporto tra genotipo e ambiente si mantiene costante. Ma è vero
esattamente il contrario i fattori genetici diventano a mano a mano
più importanti per la g durante la vita di un individuo (McCartney,
Harris, Bernieri; 1990; McGue, 1993, Plomin, 1986); l’ereditabilità
34
nella età adulta è maggiore. Perché l’ereditabilità aumenta nelle varie
fasi dello sviluppo, si pensa che effetti genetici relativamente piccoli
in tenera età aumentino vorticosamente durante le fasi successive,
andando a generare effetti fenotipici via via maggiori. Per il bambino
le agenzie formalmente deputate all’educazione, rivestono un ruolo
centrale nella sua esperienza intellettuale anche in virtù del suo grado
di dipendenza; per l’adulto l’esperienza intellettuale è di tipo più autonomo. Possiamo, però, fare anche un‘altra riflessione. Dalla biologia sappiamo che i sistemi viventi si attestano, in una situazione di
equilibrio, a livelli minimi di energia o, se vogliamo, si attestano in situazioni di minor dispendio di energia. Nel passaggio dalla fanciullezza all’adolescenza e infine all’età senile si manterrebbero maggiormente quei comportamenti più in linea, più corrispondenti alla propria natura profonda, per i quali è necessario un minor dispendio di
energia. La maggiore ereditabilità in età adulta sarebbe il riflesso della tendenza conservativa dell’organismo umano.
L’ereditabilità, quindi, cambia durante lo sviluppo e i fattori genetici contribuiscono ai vari cambiamenti che intervengono durante lo
sviluppo. Di contro l’effetto dell’ambiente condiviso (l’ambiente condiviso viene stimato come la quota della somiglianza tra gemelli non
spiegabile attraverso i fattori genetici) sembra decrescere passando
dalla fanciullezza alle fasi successive dello sviluppo. L’ambiente condiviso risulterebbe significativo per la g quando due bambini vivono
nella stessa casa; il suo effetto tenderebbe a decrescere per l’aumento
dell’esperire al di fuori della famiglia.
Crescere è sicuramente un continuo mutare. Nel campo della ricerca sulla g si è cercato di capire se i fattori genetici possono contribuire sia ai cambiamenti che alla continuità. Nel cambiamento un
primo momento critico è rappresentato dal passaggio, con lo sviluppo del linguaggio, dall’infanzia alla prima fanciullezza. Un secondo,
intorno ai 7 anni, è rappresentato dal passaggio dalla prima fanciullezza alla media fanciullezza. Quest’ultimo è considerato uno dei passaggi fondamentali dello sviluppo. I fattori genetici contribuiscono
sia al cambiamento che alla continuità con uno spostamento sostanziale verso la continuità. Inoltre sono stati evidenziati nuove componenti genetiche che entrano in gioco a 3 e a 7 anni, i cui effetti si so35
vrappongono nel senso del cambiamento. Sono altresì in corso studi
volti all’identificazione, nel genoma umano, di tratti del DNA responsabili dell’ereditabilità della g; ricerche che utilizzano mappe
dense di marcatori stanno dando risultati promettenti (Ridley, 2005;
Freberg, 2007).
4.2.2 Capacità cognitive specifiche
Nel modello gerarchico della capacità cognitiva generale, al di sotto di essa, ci sono le capacità cognitive specifiche. In tale gerarchia il
livello più basso può essere considerato quello dei processi elementari che si pensa siano coinvolti nell’elaborazione delle informazioni,
dal recepire, immagazzinare e infine recuperare il prodotto finale.
Anche in merito ai processi cognitivi specifici e ai processi elementari sono stati condotti svariati studi, nonché sulla genetica correlata ad aspetti quotidiani delle capacità cognitive come il rendimento scolastico (Plomin,op. cit.)
Uno degli studi più ampi sulle capacità cognitive specifiche è lo
Hawaii Family Study of Cognition (DeFreies et al., 1979) che ha coinvolto più di un migliaio di famiglie.
Grazie a due studi condotti separatamente negli stati Uniti e in
Svezia è stato possibile evidenziare che tali somiglianze famigliari sono, per la maggior parte, di origine genetica.
L’ereditabilità aumenta durante l’infanzia e come già per la g sono
stati individuati nuovi effetti genetici rispetto alle fasi critiche della
infanzia e soprattutto della prima fanciullezza che rimanda ad una
trasformazione genetica delle capacità cognitive nei primi anni di
scuola (Cardon, Fulker, 1993). Le capacità cognitive specifiche geneticamente distinte possono essere identificate già a 3 anni. In conclusione sia la capacità verbale che quella spaziale mostrano un’influenza genetica sostanziale e solo una piccola influenza rispetto all’ambiente condiviso. Il grado di influenza rispetto alle capacità di velocità, percezione e di memoria è minore a favore dell’ambiente condiviso. Anche le misure dell’elaborazione delle informazioni mostrano
una influenza genetica, soprattutto per operazioni complesse (Plomin, op.cit.; Ridley, op. cit.).
Interessante è una previsione, derivante dagli studi effettuati per
36
l’identificazione di specifici geni, secondo la quale, rintracciati i geni
associati a specifiche funzioni, si scopre che il loro funzionamento
soggiace ai geni associati alla g nel rispetto del modello gerarchico: si
troverebbero però anche geni specifici solo per alcune capacità e non
per altre, in accordo agli attuali modelli “a multiprocessori” della
mente e con la teoria di Gardner (ib.).
4.2.3 I disturbi della lettura
Tra i disturbi dell’apprendimento numerose ricerche sono state
condotte sulle difficoltà legate alla lettura. I bambini che presentano
delle difficoltà nella lettura variano in un range compreso tra il 10%
e il 30% della popolazione. La dislessia sovente si accompagna con
disturbi del calcolo (discalculia) e dell’espressione scritta (disgrafia e
disortografia). Il livello intellettivo di questi bambini è nella norma;
sono solo le capacità specifiche ad essere compromesse. La diagnosi
viene effettuata per comparazione con la normocapacità cognitiva
generale dei bambini e le normostrutture.
Le basi anatomiche della dislessia coinvolgono probabilmente differenze nella simmetria degli emisferi (Freberg, 2007). La maggior
parte delle ricerche evidenzia nei dislessici una minore differenza tra
i piano temporale destro e il sinistro (Beaton, 1997). È possibile che
le persone affette da dislessia abbiano una probabilità leggermente
maggiore di essere mancine o ambidestre rispetto ai non dislessici
(Engliton e Annett, 1994) e con una anamnesi familiare di malattie
autoimmuni (Galaburda, 1985). I bambini hanno una probabilità
leggermente più alta rispetto alle bambine di manifestare tale disturbo (Tallal, 1991), un risultato in accordo con l’ipotesi che il livello
prenatale di androgeni influenzi lo sviluppo degli emisferi (Freberg,
2007) e correlato con i processi di neuro genesi, confermato dalle osservazioni di Galaburda che ha osservato in 4 casi di dislessici di sesso maschile la presenza, nell’emisfero sinistro, di gruppi di neuroni in
posizione anomala e cellule adulte con un’organizzazione anormale.
Oltre ad uno sviluppo della struttura cerebrale diverso dalla norma,
la dislessia presenta anche diverse connessioni neuronali necessarie
all’elaborazione delle informazioni, in termini di difficoltà nell’elaborazione di stimoli presentati molto rapidamente, presentano attiva37
zioni cerebrali diverse durante la lettura. Esattamente nei soggetti
dislessici si osserva una sovra attivazione dell’area di Broca, abbinata
alla mancata attivazione dell’area di Wernicke e del giro angolare
(Shaywitz et al., 1998).
Diversi studi familiari, sia su famiglie che su gemelli, hanno mostrato che la dislessia si trasmette di generazione in generazione. I vari
studi non hanno condotto allo sviluppo di tesi univoche. L’opinione
più diffusa lega il disturbo di lettura sia a geni multipli (probabilmente localizzati sul cromosoma 15) che a fattori ambientali (Marino,
2004) ma non è ancora chiara la modalità in cui i due aspetti interagiscono nell’insorgenza del disturbo.
4.2.4 Il disturbo da deficit di attenzione e da comportamento dirompente
Il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) si manifesta come una mancata inibizione di comportamenti non appropriati e una scarsa capacità di pianificazione nelle proprie azioni. Una
percentuale alta di genitori e fratelli di bambini a cui è stato diagnostico questo disturbo dichiarano di averne, a loro volta, sofferto (Faraone, Biderman e Milberger, 1996). Utilizzando sempre studi comparati sui gemelli l’ADHD manifesta una sostanziale ereditabilità. Rispetto all’iperattività i dati stimati mostrano che la componente genetica, in questo caso, è maggiore rispetto ad altri tipi di psicopatologie
dell’infanzia (ad eccezione dell’autismo). Infatti mettendo insieme
tutti i dati si stima una ereditabilità di oltre il 70%. Il meccanismo di
questa influenza genetica è attualmente sconosciuto; è probabile, però, che vi si coinvolto un sistema di poligenico. Le strutture coinvolte
nella ADHD, i gangli della base, sono ricchi di neuroni dopaminergici. I farmaci utilizzati per il controllo dell’ADHD svolgono una funzione agonista della dopamina. La ricerca si è, quindi, spostata sui
geni associati alla dopamina, compreso il gene per il trasporto (Gill.
Daly, Heron, Hawi e Fitzgerald, 1997) e per il recettore della dopamina (Ebstein et al. 1996).
Nello studio del cervello, ad un certo punto, si è evidenziato che le
persone con lesioni nei lobi frontali avevano comportamenti simili a
quelli affetti da ADHD. È stato ipotizzato che il lobo frontale fosse co38
involto nella manifestazioni iperattive. I lobi frontali, in effetti, intervengono nella pianificazione delle azioni e nella inibizione di comportamenti non appropriati. Molti ricercatori hanno, inoltre, notato, una
differenza volumetrica associata con il disturbo in una struttura dei
gangli della base (Castellanos et al. 1994).
Il disturbo da comportamento dirompente ha una minore influenza genetica a favore dell’ambiente familiare condiviso. Rispetto alla
condotta, la componente genetica è maggiormente rilevante nei casi
di comportamento sociale a insorgenza precoce che tende a perpetuarsi anche in età adulta come disturbo della personalità antisociale
(DiLalla, Gottesmann, 1989; Lyons et al., 1995; Robbins, Prince,
1991). Per il resto è la componente ambientale, nel senso di ambiente
condiviso, a mostrare la sua influenza.
4.2.5 La balbuzie
La balbuzie è un tipo di disturbo della comunicazione che si manifesta in età precoce, già tra i 2 e i 7 anni e la percentuale di maschi è tripla
rispetto alle femmine. Nei soggetti balbuzienti alcuni processi linguistici
avvengono nell’emisfero destro (De Nil, 1997, Van Borsel, Achten, Santens, Lahorte e Voet, 2003); è possibile, pertanto, che entrambi gli emisferi cerchino di controllare simultaneamente l’apparato vocale, generando un conflitto (Freberg, 2007).
Vari studi, sempre condotti con il metodo dell’analisi comparata
di gemelli e adottivi, hanno indicato che tali disturbi sono ereditari.
Circa un quarto dei parenti di primo grado di bambini affetti da
questo tipo di disturbi manifesta le stesse patologie; mentre i disturbi della comunicazione ricorrono solo nel 5% dei parenti dei
soggetti di controllo. Tre studi condotti su gemelli hanno dimostrato una forte influenza genetica: concordanza media del 90% per
gemelli monozigoti e del 50% per gemelli dizigoti. Sembrerebbe
che ai disturbi, sia di espressione che di ricezione, corrispondano le
stesse aree genetiche mentre quando è presente solo un singolo tipo
di disturbo siano distinti. Il balbettamento sembra, quindi, essere
di origine prevalentemente genetica (Andrews, Morris-Yates, Lahorte e Voet, 2003).
39
4.2.6 L’ambiente
Le ricerche in campo genetico stanno dunque profondamente
cambiando il modo di considerare l’ambiente. In effetti le scoperte
più importanti della genetica, in campo psicologico, riguardano soprattutto l’ambiente. Sempre attraverso ricerche condotte su gemelli
e fratelli cresciuti nella stessa famiglia biologica o in famiglie differenti, è stato possibile verificare che le esperienze ambientali (ambiente non condiviso) tendono a rendere i bambini cresciuti nella
stessa famiglia differenti piuttosto che simili. In secondo luogo una
serie di ricerche suggerisce l’interpretazione che le persone creano le
proprie esperienze in parte per ragioni genetiche. Si pensa, cioè, che
in base alle proprie propensioni genetiche un singolo individuo
“scelga” il proprio esperire creando in tal modo una correlazione tra
genotipo e ambiente. È stata inoltre individuata una interazione tra
il genotipo e l’ambiente che rappresenta la sensibilità genetica all’ambiente (Kandel, 2007).
Lasciate alle spalle tutte le controversie tra genotipo e ambiente,
attualmente alcuni psicologi stanno sinostosando gli studi genetici e
ambientali al fine di comprendere lo sviluppo per determinare come il
genotipo si manifesti nel fenotipo. Dalla ricerca sono emerse interessanti considerazioni. Una prima considerazione evidenzia che i fattori
genetici sono importanti in psicologia poiché contribuiscono fino al
50 % della varianza. L’ereditabilità raggiunge valori anche fino al
50%. Il che di contro sta ad indicare che nella manifestazione del fenotipo l’importanza dell’ambiente è altrettanto del 50%. Una seconda
considerazione riguarda il termine ambiente che ha assunto grazie alla
genetica un’accezione più ampia arrivando a comprendere l’ambiente
prenatale ed eventi biologici come la nutrizione e la malattia.
In psicologia molte delle teorie relative all’influenza ambientale rispetto allo sviluppo di un individuo tendono a porre l’accento sulla
somiglianza tra diversi figli e tra figli e genitori come il prodotto dell’ambiente fornito e condiviso dai genitori. Eventuali differenze tra
figli sono maggiormente da attribuire a differenze nella prassi educativa genitoriale. La genetica ha dimostrato invece che la somiglianza
familiare è quasi interamente dovuta alla eredità condivisa. L’ambiente condiviso influisce poco sullo sviluppo della personalità. Poche so40
no state le eccezioni riscontrate in questo senso, una delle quali è
rappresentato dai disturbi da condotta. Parafrasando il sottotitolo
del celebre libro di J.R.Harris “Non è colpa dei genitori”, si potrebbe dire che “i genitori contano meno di quanto si pensi, è la compagnia a contare di più”, è l’ambiente non condiviso che gioca maggiormente un ruolo. Le influenze ambientali agiscono in maniera non
condivisa rendendo diversi tra di loro i bambini che crescono nella
stessa famiglia.
È bene precisare che per ambiente non condiviso bisogna intendere tutto ciò che non è paritetico all’interno di un nucleo famigliare.
In tal senso rappresentano ambiente non condiviso anche tutte le
esperienze non percepite alla pari quali l’ordine di nascita di fratelli,
la diversa età (minore variabilità), e l’eventuale diverso affetto genitoriale (maggiore variabilità). Tuttavia l’ambiente non condiviso è rappresentato soprattutto da fattori esterni alla famiglia, poiché le differenze nelle cure parentali, in relazione allo sviluppo della personalità,
appaiono più come effetti che come cause delle differenze tra fratelli.
Come agisca l’ambiente non condiviso sui fratelli non è ancora chiaro, non solo perché le tipologie di esperienze sono geneticamente influenzate ma anche perché identici meccanismi di pressione direzionale determinano effetti diversi a seconda del genotipo (Kandel, 2007).
In riferimento alla correlazione tra genotipo e ambiente, che è stata descritta come il controllo genetico dell’esposizione all’ambiente
(Kendler, Eaves, 1986), la ricerca ha evidenziato come ogni individuo
“crea e sceglie” le proprie esperienze, in parte, per ragioni genetiche.
Si parla di tre tipi di correlazione: attiva, passiva ed reattiva. Si consideri come esempio la propensione al disegno. Se tale abilità è ereditabile, un bambino molto dotato è probabilmente figlio di almeno un
genitore che ha spesso e volentieri le matite colorate in mano. L’ambiente familiare trasmetterà al figlio i geni ma anche un ambiente sviluppante tale capacità (correlazione passiva). Il bambino dotato per
il disegno potrà essere selezionato a scuola per particolari compiti
(creazione di cartelloni, di scenografie, ecc.) e avere quindi speciali
opportunità (correlazione reattiva). Qualora, per un qualsiasi motivo,
dovesse venire a mancare la figura genitoriale geneticamente corrispondente a tale abilità o nell’ambiente scuola non venisse coltivata
41
questa propensione, il bambino potrebbe agire sul proprio ambiente
per crearsi delle opportunità manifestando il desiderio di iscriversi
ad un corso di disegno o creandosi in casa, da solo, un angolino per
le attività artistico - manuali (correlazione attiva). La correlazione
passiva è quella che si verifica maggiormente nell’infanzia; nelle fasi
successive sono quelle reattive e attive (Plomin et al., 2002).
L’interazione tra genotipo e ambiente si riferisce alla sensibilità o
alla suscettibilità agli ambienti. Un esempio è rappresentato dai disturbi della condotta dove figli biologici cresciuti da genitori biologici
con difficoltà verso l’autorità (l’esposizione all’ambiente) mostrano
una percentuale di rischio più alto allo sviluppo di caratteristiche antisociali rispetto a figli adottivi cresciuti nella stessa tipologia famigliare.
L’esistenza di una relazione tra ambiente e genotipo porta, come
conseguenza, alla possibilità che esistano geni implicati nelle esperienze. L’individuazione di questi geni renderebbe possibile indagare
maggiormente sui meccanismi attraverso i quali la predisposizione genetica guida gli individui nel creare attivamente le proprie esperienze.
L’individuazione dei geni associati al comportamento comporterebbe
un ulteriore rivoluzione rispetto all’esperire in chiava genetica.
La domanda critica sarà, negli sviluppi futuri della ricerca, ancora
rappresentata da cosa rende diversi bambini cresciuti nella stessa famiglia, cioè da come l’ambiente influenzi lo sviluppo psicologico e,
quindi, l’esito finale, il fenotipo che si manifesta. I geni, si ripete, non
sono il destino.
5. Ipotesi neuroscientifiche sul rapporto mente-cervello
All’inizio degli anni cinquanta del XX secolo la visione comportamentista dell’uomo iniziò a sgretolarsi. La ricerca si spostava nuovamente dal comportamento alla genesi del pensiero e dell’io individuale.
In effetti già con Hebb, comportamentista canadese, l’asse della
ricerca aveva subito uno slittamento, una profonda rivoluzione soprattutto nel modo di concepire il ruolo del sistema nervoso centrale
in rapporto al comportamento (Legrenzi, 2002). L’interesse dei ricer42
catori si volse al modello logico dello svolgimento dei processi mentali, dando origine al cognitivismo classico.
I modelli di funzionamento della mente che furono teorizzati in
quegli anni, erano caratterizzati da forti criteri interni di logicità, di
serialità, scollegati però dal substrato concreto, reale, fisico da cui
emergevano. L’algoritmo del flusso dell’informazione, della sua strutturazione, dalla sensazione alla percezione e al pensiero, veniva risolto attraverso diagrammi di flusso lineari, dal basso verso l’alto, con
zone di convergenza finali dei dati elaborati. Un flusso dell’informazione di tipo verticale sulla base di una concezione dell’essere umano
concepito come un elaboratore di informazioni.
La ricerca sempre incentrata sui processi e sulle strutture mentali
legati al pensiero e alla conoscenza venne man mano ampliata fino a
comprendere la motivazione, la percezione e il contesto sociale .
Con il passare dei decenni, gli studi sui disordini mentali causati
da lesioni cerebrali, e sull’anatomia funzionale e strutturale del cervello hanno messo in evidenza una certa inadeguatezza dei modelli
cognitivisti: l’osservazione di casi clinici specifici e le tecniche di neurovisualizzazione suggeriscono infatti un flusso dell’informazione,
per singolo processo nel cervello, caratterizzato da un simultaneo trasferimento di dati in diverse aree del cervello specializzate e interconnesse; resta, a tutt’oggi, da chiarire se avvenga un costante confronto
tra le elaborazioni parziali o una integrazione finale dei dati.
Attualmente la ricerca neurocognitivista (Gazzaniga, op. cit.) è
impegnata a determinare con sempre maggiore accuratezza e precisione, il singolo processo cognitivo e, nel contempo, come questi singoli processi si armonizzino tra di loro nel cervello per fare emergere
ciò che ciascuno di noi è. Un punto di arrivo potrebbe essere sarà
rappresentato dalla localizzazione, accettata e condivisa dalla comunità scientifica, della mente individuale in rapporto al cervello.
In altre parole, per capire il rapporto esistente tra mente e cervello, il mondo della ricerca si è interrogato sulle basi della cognizione, cercando di acquisire certezze sia sull’elaborazione dell’informazione a livello dei singoli processi cognitivi, sia su come essi si
integrino tra di loro per dare origine a ciò che siamo, secondo un
percorso dal particolare al generale, dove il particolare può essere
43
rappresentato, di volta il volta, dal linguaggio, dalle emozioni, dalla
memoria e in generale dal nostro essere in termini di personalità e
pensiero.
Chi attualmente si occupa di neuroscienze cognitive (ib.) sa che
l’oggetto di studio è rappresentato dalle basi neuronali della cognizione, che tale settore di ricerca affonda le proprie radici nella neurologia, nelle neuroscienze e nelle scienze cognitive, che deve considerarsi un settore di ricerca mutuato dalla neuropsicologia e le neuroscienze e che infine nuovi collegamenti si sono aperti con la genetica
e l’anatomia comparata. Al di là dell’ aneddotica sulla nascita del termine “neuroscienze cognitive”, la domanda cruciale, attorno alla
quale si svolge tutta la ricerca, è se e come possa scaturire la mente
dal funzionamento del cervello (LeDoux, 2002).
Per comprendere come emerge la mente dal cervello è quindi necessario capire il meccanismo di funzionamento del neurone che
rappresenta la singola unità funzionale, come tali singole unità si organizzano reciprocamente per dare origine alla percezione e più in
generale ai processi cognitivi. È necessario capire come si strutturano e funzionano le diverse aree specializzate del cervello in funzione
della loro reciproca relazione, cioè come i singoli processi cerebrali,
a base neuronale, si integrino tra di loro. È inoltre importante comprendere la natura delle relazioni esistenti tra singoli processi e funzionamento complessivo del cervello ed esiti finali nella personalità
e nel comportamento.
5.1 Metodi e tecniche di indagine
Le metodologie d’indagine su specifiche attività mentali e sulle relazioni cervello/mente, sono di varia natura e alcune prettamente appartenenti a specifici settori di ricerca (tests neuropsicologici, studio
di casi, studi a campione su patologie specifiche ecc.). Estremamente
interessante è l’integrazione delle diverse metodologie a cui si assiste
in campo neuroscientifico cognitivo in quanto tutti gli elementi (dati
neuroradiologici, neuroimmagini e dati elettrofisiologici) sono necessari al fine di valutare le aree cerebrali e le caratteristiche funzionali
responsabili del comportamento.
44
Le tecniche di indagine possono essere divise in due tipologie: gli
esami elettrofisiologici e le neuroimmagini.
Tra gli esami elettrofisiologici si annoverano: l’elettroencefalogramma (EEG) che fornisce una registrazione dell’attività elettrica
cerebrale spontanea e la magnetoencefalografia (MEG) che, utilizzando un casco con 155 sensori registra i campi relativi ai potenziali sinaptici prodotti (Freberg, 2007).
Le tecniche di visualizzazione del cervello, con l’osservazione in
vivo del cervello, hanno consentito alla ricerca di fare grandi passi
in avanti nella comprensione dei meccanismi del funzionamento cerebrale.
Esempi di tecniche di visualizzazione sono la TC (tomografia
computerizzata), evoluzione della tecnologia TAC (tomografia assiale
computerizzata), che consente la formazione di una immagine bi e
tridimensionale ad alta risoluzione di un cervello in vivo con la visualizzazione di sezioni di parti dell’organismo, la PET (Tomografia ad
emissione di positoni), che rende possibile studiare le attività dei vari
sistemi nervosi, e la MRI (Neurovisualizzazione con risonanza magnetica), che consente di esaminare l’attività cerebrale grazie a visualizzazioni delle strutture celebrali ottenute attraverso il monitoraggio
delle variazioni dell’ ossigeno e del flusso sanguigno nel cervello,
l’angiografia che permette di visualizzare i sistemi arteriosi e venosi,
lo scanner a ultrasuoni mediante il quale si può studiare la variazione
del diametro delle arterie in malattie cerebrovascolari.
5.2 Dallo sviluppo neuronale dell’embrione all’emersione del Sé
Lo scontro tra ruolo della cultura e ruolo della natura si è presentato anche nello sviluppo cerebrale. Opinione condivisa è che i circuiti
cerebrali interconnessi si realizzino attraverso una combinazione di
influenze genetiche e ambientali e che l’effetto dei due fattori, genetico e ambientale, si elicita nello stesso modo: collegare sinapsi. L’attenzione, di conseguenza, si è volta sui meccanismi che portano, già a
partire dalle primissime fasi della vita, alla formazione delle connessioni sinaptiche legate ai geni e all’esperienza.
L’attenzione della ricerca è stata attratta, in particolare, dai precisi
45
segnali che guidano, durante le prime fasi dello sviluppo embrionale
cerebrale, le cellule nelle loro giuste sedi e i terminali assonici alle rispettive connessioni sinaptiche.
In merito alla formazione del cervello è accertato che avviene secondo criteri geneticamente scanditi: si producono specifiche proteine che contribuiscono ad orientare assoni verso aree prestabilite. In
via di determinazione è il sistema genico che controlla la formazione
iniziale e i meccanismi di funzionamento.
A partire dallo zigote, una serie di divisioni mitotiche portano alla
formazione della blastula prima e della gastrula poi. Nella gastrula è
possibile osservare la presenza di tre strati cellulari, di cui il più esterno darà origine al sistema nervoso. È a partire da questo stadio che il
sistema nervoso inizia a formarsi attraverso un processo noto come
neurulazione (Berardi, Pizzorusso, 2006). La crescita neuronale dell’embrione continuerà attraverso la formazione della placca neuronale che evolverà in tubo neuronale. In quest’ultimo stadio avvengono
dei processi molto importanti. Il tubo neuronale si suddivide in regioni, le future aree cerebrali, e i precursori neuronali danno origine
ai neuroni e alle cellule gliali (neurogenesi) che migrano verso la loro
destinazione finale nel sistema nervoso, differenziandosi. Raggiunta
la loro postazione definitiva gli assoni delle cellule si accrescono andando ad individuare le cellule neuronali con cui connettersi (sinaptogenesi) e formando i primi circuiti.
La neurogenesi e la sinaptogenesi sono, pertanto, due processi distinti. Il primo si riferisce al processo di formazione dei neuroni e il
secondo alla formazione di sinapsi. Il numero di cellule neurali con
cui si nasce è, pressoché, lo stesso per tutta la vita (per quanto recenti
ricerche confermino un certo grado di rigenerazione della cellule neuronali in età adulta sia per fenomeno naturale che indotto) mentre il
numero di sinapsi è soggetto a modifiche lungo tutto l’arco della vita.
Grazie a degli studi condotti sulla Drosophila et al. è stato possibile individuare il sistema genico, detto omeotico, in relazione al sistema nervoso nel periodo prenatale e capirne il meccanismo di funzionamento. In Drosophila si è visto che la proliferazione delle cellule
neuronali nel periodo prenatale è sotto il controllo di un pool genico
la cui espressione è rappresentata da proteine che controllano la di46
sposizione delle cellule, dando origine a barriere che guidano e contengono il movimento cellulare, e a superfici esterne adesive che consentono alle cellule di aggregarsi (LeDoux, 2002; Ridley, 2005).
Giunte alla loro postazione definitiva le cellule si differenziano. In
particolare iniziano a crescere le terminazioni assoniche in direzione
dei loro bersagli, con il quale interagiranno attraverso specifici neurotrasmettitori, che guideranno la formazione delle sinapsi.
I circuiti neurali, così formati, verranno progressivamente raffinati
dall’esperienza, attraverso l’attività elettrica che essa evoca nei circuiti stessi e matureranno verso il loro definitivo assetto (Berardi, Pizzorusso, 2006).
Secondo LeDoux (ib.) se vi è unanime accordo sul fatto che la transizione dalle iniziali, immature connessioni neuronali del cervello giovane alla connettività matura e altamente specifica che caratterizza il
cervello adulto implichi attività neurale, vale a dire trasmissione sinaptica, ciò che bisogna stabilire e se l’attività innescata dalla stimolazione
ambientale contribuisca a realizzare le connessioni mature oppure si limiti a selezionare, dall’insieme iniziale di connessioni stabilite, quelle
che saranno mantenute e quelle soggette a sfoltimento nell’arco del secondo anno di vita. In altre parole bisogna chiedersi se il sum e il cogito cartesiano emergono, nelle prime fasi della vita, da un insieme preesistente di opzioni sinaptiche, oppure se le esperienze esplicano un loro effetto additivo aggiungendosi alle basi sinaptiche iniziali.
Le teorie neodarwiniane forniscono interessanti spunti di riflessione in merito alla relazione esperienze-sinapsi.
Il premio Nobel N. Jerne ha contestato il concetto di mente “tabula rasa” scritta dall’esperienza di Locke, riprendendo quanto esposto dalla filosofia greca in merito all’apprendimento. Secondo Jerne
l’idea di apprendere dall’esperienza deve essere sostituita dall’idea
che l’esperienza realizza una selezione da una sorta di conoscenza latente preesistente.
Jean-Pierre Changeux, neuroscienziato francese, ha concluso che
l’attività neurale non crea nuove connessioni, piuttosto contribuisce
all’eliminazione di quelle preesistenti.
Successivi neodarwinisti neurali hanno affermato, in ottemperanza
al principio biologico che la natura non commette sprechi, che le
47
connessioni sinaptiche sono in competizione tra di loro, tendono a
sopravvivere solo quelle utilizzate, le altre vengono eliminate. Il meccanismo attraverso il quale avviene questo “sfoltimento” sinaptico risponde ai principi della ridondanza (alla nascita sono presenti un numero maggiore di sinapsi), dell’utilizzo (si mantengono sono quelle
attive) e della sottrazione (le altre vengono eliminate). Le influenze
esterne avrebbero pertanto il ruolo di selezionare le sinapsi da un insieme preesistente, geneticamente predeterminato e specifico del genere umano. In tal contesto teorico la nascita della variabilità sarebbe
correlata all’esistenza di un certo numero di sinapsi casuali cioè al casuale incontro tra terminali e dendriti al di là dello schema generale
geneticamente stabilito. Il mantenimento delle sinapsi risponderebbe
ad preciso significato in termini di prodotti genici: le vie metaboliche
non attive, non supportate sufficientemente da input ambientali, si
atrofizzano. Lo sfoltimento sinaptico maggiore, l’eliminazione di vie
sinaptiche non attive, si realizzerebbe tra i 12 e i 24 mesi di vita di un
individuo. Se le teorie neodarwiniane fossero corrette, il Sé emergerebbe per selezione da possibilità preesistenti per mezzo dell’attività
(LeDoux, 2002).
In effetti già gli studi compiuti da da Hubet e Wiesel negli anni
Sessanta del XX secolo avevano ampiamente suggerito che l’uso abbia un effetto limitante sulla morte sinaptica (ib.).
Ulteriori studi hanno messo in evidenza come l’attività mentale interviene sia sulla conservazione sinaptica che sulla qualità della singola connessione determinandone un aumento in complessità. L’attività mentale, quindi, è responsabile di un accrescimento in termini di
complessità sinaptica, cioè in un numero maggiore di terminazioni
assoniche e di conseguenza di sinapsi per dato neurone.
Come già evidenziato in precedenza, studi sulla Drosophila melanogaster hanno evidenziato la sensibilità di questa specie al condizionamento classico: i moscerini imparano ad evitare gli odori abbinati ad
uno shock elettrico (Jellies, 1981); l’esposizione alla variabile indipendente, nel lungo periodo, porta a durature variazioni nel comportamento, legate a variazioni nella sintesi proteica (la via del cAMP-PKAMAPK-CREB) che determinano, in ultima analisi, l’attivazione di geni
che stimolano la crescita di nuove terminazioni sinaptiche. L’attività
48
“mentale” che generalmente avviene in conseguenza di tali sollecitazioni è strettamente legata alla morfologia delle sinapsi, all’aumento del
numero delle sinapsi tra neuroni sensoriali e neuroni motori e all’efficacia sinaptica, cioè all’incremento dei numeri dei pacchetti di quanti
di neurotrasmettitore rilasciato per ogni potenziale sinaptico (Kandel,
2007). L’accrescimento in sinapsi riferita all’organizzazione cerebrale,
legato all’attività mentale e sottogiacente all’effetto ambientale, può essere visto come un moto ascendente: parte da due cellule neuronali di
identiche tipologie, si estende alle connessioni tra diversi sistemi neuronali fino a considerare le connessioni tra i due emisferi e risulta essere un’implementazione cerebrale di connessioni già preesistenti e non
una creazione di vie “ex novo”.
Da quanto sin qui esposto è possibile effettuare una serie di riflessioni-conclusioni.
I geni codificano per un sistema predeterminato di connessioni sinaptiche, su tale sistema interviene attivamente l’ambiente di crescita
determinando un decremento (per sfoltimento) ma anche, per tutto il
ciclo vitale, un aumento nella quantità e nella quantità delle connessioni preesistenti all’interno e tra i sistemi cerebrali (selezione e implementazione mirata). L’insieme di tali meccanismi porta alla differenziazione di un individuo dagli altri dello stesso gruppo parentale (con il
quale condivide un maggior numero iniziale di geni e quindi, di connessioni) e, più in generale, alla variabilità fenotipica. Nel corso della
vita dell’individuo intervengono altri pool di geni, precisamente nell’infanzia, nella prima fanciullezza e nella media fanciullezza che esplicano la loro azione in senso epigenetico, un rafforzamento o meno della selezione e dell’implementazione mirata dei circuiti sinaptici. L’implementazione mirata e la selezione devono essere viste come due facce della stessa medaglia: lo sviluppo sinaptico. L’ambiente, sortendo il
proprio effetto in termini di selezione e implementazione mirata di alcuni percorsi sinaptici piuttosto che altri, gioca il suo ruolo sulle caratteristiche individuali e sulla variabilità poiché le caratteristiche di un
individuo, psicologiche, mentali e comportamentali sono mediate proprio dalle sinapsi del cervello.
Secondo LeDoux le sinapsi del nostro cervello ci rendono ciò che
siamo; dalle nostre sinapsi emergerebbe la coscienza dell’Io individua49
le, la percezione del Sé, il nostro essere. A causa delle miliardi di diverse combinazioni sinaptiche possibili, siamo esseri unici e irripetibili.
5.3 Il sé sinaptico
Nel testo Il Sé sinaptico Joseph LeDoux prova appunto a dare una
sua interpretazione al meccanismo del funzionamento del cervello
nella sua interezza, per avvalorare la tesi secondo la quale siamo in
luogo delle nostre sinapsi.
Le prime ipotesi sulle modalità di funzionamento della mente, all’interno del movimento cognitivista, erano basate sulla cibernetica in
una sorta di parallelismo con i processori di tipo seriale. Esempi di
diversi sistemi neurali erano rappresentati dalla funzione sensoriale,
dal controllo motorio, dall’emozione, dalla motivazione, dall’intensità dell’attivazione fisiologica e comportamentale dell’organismo nel
caso della regolazione viscerale, dal pensiero, dal ragionamento e dai
processi decisionali.
Ad esempio, nel caso dei fenomeni sensoriali, percettivi e motori,
si pensava che fossero ripartiti in aree corticali ben distinte: nel lobo
occipitale le aree sensoriali, un insieme costituito dalle aree visive, somatosensoriali e uditive, nella parte posteriore del lobo frontale le
aree motorie e tra le prime e le seconde, interposte, le vaste regioni
corticali, le cosiddette aree associative aventi il compito di elaborare i
dati informativi provenienti dalle diverse aree sensoriali per trasferirli
alle aree motorie.
I dati sperimentali degli ultimi vent’anni hanno profondamente
cambiato questa visione trasformandola in un mosaico di aree anatomicamente e funzionalmente distinte ma interconnesse tra di loro e
formanti circuiti destinati a lavorare in parallelo e a integrare le informazioni in apposite zone di convergenza dati.
Il parallelismo è oggi effettuato con i multiprocessori, sistemi caratterizzati da più vie che lavorano in parallelo sia in modalità autonoma che con trasferimento simultaneo di dati in vie processuali differenti, interconnesse, e con zone di convergenza per l’integrazione
dei dati.
Ciascun processore (sistema neurale) può avere una sua specifica
50
funzione operativa e diversi tipi di compiti possono essere eseguiti
dal cervello in simultanea: guidare un’autovettura, comunicare con
un altro individuo tramite cellulare (con auricolare!) e controllare le
attività del proprio figlio posto nel seggiolone. Nella realtà dei fatti,
però, ciascun sistema non è isolato ma immerso in una complessa trama di relazioni: ciascun circuito neurale è parte di sistema di vie
parallele, rispetto alle quali vi è un simultaneo trasferimento di dati e
una integrazione degli stessi.
Prendiamo, ad esempio, l’esempio della “tazzina di caffè” (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006).
Afferrare una tazzina di caffè, un oggetto qualsiasi, sembra il frutto di due processi indipendenti seppur coordinati tra di loro, raggiungere e afferrare, con il primo che precede il secondo. La registrazione dei movimenti del braccio e della mano ha mostrato che i due
movimenti iniziano e si svolgono in parallelo. Il braccio si muove per
raggiungere la tazzina, simultaneamente la mano prefigura la presa
necessaria per afferrarla (ib.).
Pertanto alla semplice immagine di processazione dell’informazione in circuiti in parallelo, indipendenti l’uno dell’altro, dobbiamo sostituire l’immagine di processazione dell’informazione attraverso regioni differenti interconnesse ove la processazione stessa si armonizza
in virtù del fatto che cellule di diverse regioni scaricano in sincronia
potenziali d’azione incrociando, altrettanto in sincronia, i dati in zone
di convergenza. La comprensione di un evento visivo, ad esempio la
vista di un oggetto, avviene in virtù del fatto che colore e forma si armonizzano sin da subito poiché le cellule che processano tali elementi
si attivano nel medesimo istante confrontando e integrando dati.
I dati si integrano costantemente arricchendosi di sfumature, modificandosi in funzione del numero e della qualità delle connessioni
sinaptiche presenti (all’interno di un singolo processo e) tra i processi cerebrali.
Riprendendo l’esempio della tazzina, per afferrarla è necessario
scegliere la tazzina tra i vari oggetti presenti nel campo visivo attivando in contemporanea i circuiti mnemonici, simultaneamente bisogna
orientare testa e occhi per apprezzarne forma, orientamento del manico e colore della tazzina e sempre in sincronia localizzarla rispetto al
51
corpo per raggiungerla, e prendere le giuste misure per afferrarla rispetto alle nostre intenzioni (bere, spostarla).
Un altro esempio potrebbe essere rappresentato dall’esperire del
neonato a cui si accosta la madre. Un sistema processa le immagini,
un altro i suoni e un altro gli odori; dal punto di vista del nostro cervello non sono tre diverse esperienze ma aspetti diversi di una unica
esperienza.
Il livello finale raggiunto, il grado di complessità espresso dal cervello nel processare l’informazione, dipendente dal numero di connessioni esistenti nei e soprattutto tra i diversi circuiti, riflette la plasticità sinaptica, cioè la capacità dei sistemi cerebrali di essere modificati dall’esperienza, che a sua volta riflette le esperienze vissute.
Le funzioni pertanto dipendono dalle connessioni, interrompendo
le quali si perderanno le funzioni (LeDoux, 2002) o meglio si perderà la capacità di scambiarsi informazioni tra diverse aree cerebrali
con perdita dell’unità della mente e del comportamento (sindrome
da disconnessione).
Un caso di sindrome da disconnessione riguarda un paziente in
età adolescenziale che aveva subito un intervento di commisurotomia
per il controllo dell’epilessia. L’operazione consisteva nella recisione
dei nervi tra i due emisferi al fine di evitare che gli attacchi si trasferiscano da una parte all’altra. In conseguenza dell’intervento i due
emisferi divennero indipendenti l’uno dall’altro. A vari giorni di distanza dall’intervento il paziente si abbassava i pantaloni con la mano
destra e li alzava con la sinistra. Considerando che la mano destra e
la mano sinistra sono sotto il controllo, rispettivamente, dell’emisfero
sinistro e destro, non essendo più collegati i sistemi cerebrali ove si
confrontano i dati, era avvenuta una dissociazione dell’integrazione
dell’informazione (le due mani) inerente il controllo motorio.
Molti disturbi psichiatrici possono essere considerati come deterioramento delle connessioni, come nel caso di alcune depressioni
ove le alterazioni nell’organizzazione sinaptica di una zona, legate all’innalzamento di ormoni stressori per lunghi periodi di tempo, possono produrre effetti similari alle sindromi da disconnessione.
I danni a carico della corteccia prefrontale ventrale si possono interpretare come una interruzione nella capacità di scambiarsi infor52
mazioni emotive per orientare pensieri e azioni. In effetti la sola cosa
che un’area cerebrale sa di un’altra è lo stato delle sue sinapsi (LeDoux, 2002).
Da ciò possiamo dedurre che il Sé è tenuto insieme dal cervello attraverso le connessioni sinaptiche; al cambiare delle connessioni, per
esperienza o trauma, il Sé potrà subire modifiche.
Il Sé è quindi modellato dalle esperienze che effettuiamo lungo
tutto l’arco della vita.
Ne consegue che sistemi differenti (individui diversi) possono
esperire lo stesso mondo, creando di fatto una cultura condivisa, ma
con risultati differenti nei sistemi cerebrali distinti in termini di gradi
di complessità della processazione dell’informazione in funzione delle esperienze già vissute.
Un esperire comune darà risultati differenti in riferimento all’elaborazione finale dell’esperienza ma anche ad un’ulteriore modifica
della plasticità sinaptica con un’ulteriore differenziazione.
In questo sistema di costante integrazione di dati la plasticità è coordinata anche dai sistemi dei neurotrasmettitori quali la dopamina,
la serotonina e l’acetilcolina (LeDoux, 2002).
La principale funzione dei neurotrasmettitori è quella di regolare
la neurotrasmissione tra neuroni a livello delle sinapsi che sono già
attive quando essi giungono a destinazione. Inoltre essi, come già evidenziato, possono indurre plasticità sinaptica e, quindi, apprendimento e memoria.
Poiché la processazione di una informazione può avvenire con il
contributo di sistemi cerebrali caratterizzati da diverse reciproche velocità di esecuzione, che tendono ad aumentare in funzione della
complessità del processo, un’altra funzione importante dei neurotrasmettitori è quella, una volta rilasciati, di influenzare un’ampia gamma di processi e l’assimilazione dei molteplici elementi di una esperienza, consentendo che essa venga memorizzata simultaneamente
anche se attraverso sistemi multipli (LeDoux, 2002). Gli stimoli emotivi hanno un’influenza sui neurotrasmettitori svolgendo su di essi un
forte effetto innesco (questo, ad esempio è uno dei campi d’indagine
della genomica psicosociale).
Già è stato detto che l’elemento di convergenza della plasticità in
53
parallelo è rappresentato da regioni in cui le informazioni provenienti da diversi sistemi vengono integrate e che prendono il nome di zone di convergenza. La convergenza, come già detto, avviene sia in itinere che nella fase finale e il grado di complessità finale sarà proporzionale al grado di complessità espresso nelle fasi intermedie. La convergenza si verifica all’interno dei sistemi prima che tra i sistemi. Si
ritiene, riprendendo l’esempio forma e colore di un oggetto e analizzandolo rispetto alla forma, che il sistema del riconoscimento dell’oggetto sia organizzato in modo gerarchico: nella prima fase ogni cellula riconosce l’orientamento di uno spigolo o di un contorno; le cellule della seconda fase ricevono quanto già riconosciuto e sono in grado di organizzare una rappresentazione dell’oggetto maggiore. Questo tipo di convergenza si ripete in modo gerarchico fino alla fine del
processo nel quale in un piccolo complesso di cellule sinapticamente
connesse si riversano tutti gli input convergenti dai livelli inferiori e
si rappresenta la forma dell’oggetto. Alla fase intrasistemica segue
quella intersistemica.
L’ipotesi prospettata da LeDoux prevede l’esistenza di specifiche
regioni cerebrali di convergenza quali ad esempio la corteccia prefrontale. In tal senso si preferisce far riferimento a quella avanzata da
Solms e Turnbull (2004) che, rifacendosi alle intuizioni di Lurija,
suggeriscono una distribuzione omogenea di zone di convergenza in
tutta l’area cerebrale, ritenendola maggiormente corrispondente a ciò
che avviene nel cervello anche solo in virtù del principio della conservazione dell’energia nei sistemi viventi.
Il Sé viene assemblato e reso coeso da processi dal basso verso
l’alto ma anche di tipo discendente. I pensieri e le memorie collocati nella memoria di lavoro, per esempio, possono influenzare ciò di
cui ci occupiamo, il modo in cui vediamo le cose, il modo in cui ci
comportiamo (LeDoux, 2002). Il processo attraverso il quale un
pensiero può diramare ordini prende il nome di casualità discendente.
Anche gli stati emotivi svolgono un ruolo cruciale nell’organizzazione dell’attività cerebrale.
Abbiamo già visto che influenzano il sistema dei neurotrasmettitori, ma è attraverso l’amigdala che gli stati emotivi influenzano tutto il
54
sistema cerebrale. In presenza di uno stimolo attentivo, l’amigdala attiva tutte le aree cerebrali. I sistemi emotivi organizzano anche l’apprendimento attraverso una corrispondenza tra situazione emotiva,
stato attentivo e la tipologia di apprendimento che si sta mettendo in
essere. Ne consegue che qualora l’apprendimento sia legato agli stati
emotivi, essendo attivate un maggior numero di aree cerebrali, la significatività dell’apprendimento stesso è maggiore. Ciò deve farci riflettere sulla necessità di correlare l’attività educativa ai bisogni anche di natura emotivo-affettiva tipici delle diverse età. Infatti, l’esperire una vasta gamma di emozioni, nella misura in cui attiva gran parte delle aree cerebrali, favorisce lo sviluppo e la coesione del Sé nella
misura in cui migliora la qualità e la quantità delle connessioni tra sistemi emotivi e capacità cognitive.
Nel corso dell’evoluzione, lo sviluppo delle funzioni superiori,
caratteristico della nostra specie, è stato possibile, oltre che con
l’aumento delle dimensioni della scatola cranica, anche con una riorganizzazione dello spazio cerebrale. In questo processo di risistemazione delle aree cerebrali un punto critico è rappresentato
dalla connettività tra i sistemi cognitivi, i sistemi emotivi e motivazionali. Ne deriva che la casualità discendente, dal pensiero all’azione, dal sapere cosa fare al fare effettivamente, è a volte cosa non
semplice; non sempre gli elementi acquisiti in modo esplicito corrispondono a quelli impliciti e ciò avviene in particolare nei sistemi emotivi.
Nell’attuale stadio evolutivo del cervello, è come se non esistessero connessioni ancora sufficientemente sviluppate per tenere insieme
capacità cognitive e stati emotivi. Ciò comporta un certo grado di
difficoltà alla coesione del Sé nella misura in cui esso dipende sia da
sistemi che operano in modo esplicito che implicito. Attraverso i sistemi espliciti affermiamo in modo intenzionale ciò che siamo e come
ci comporteremo; ma solo in parte riusciamo a fare ciò, dal momento
che abbiamo un accesso inconscio imperfetto ai sistemi emotivi, che
svolgono un ruolo tanto cruciale nel coordinare l’apprendimento
proveniente da altri sistemi (LeDoux, 2002).
55
6. I neuroni specchio: sostrato neurale dell’esistenza preverbale e
prerazionale
Effettuando un parallelismo con la teoria della mente a processori
paralleli e zone di convergenza continue, potremmo dire che, oggi, le
domande “come funziona il cervello?” e “qual è la relazione mentecorpo?” sono state simultaneamente trasferite in tutto il mondo; in
tutte le aree del globo vi sono unità funzionali (équipe di lavoro) che
stanno trattando dati in base al proprio ambito di studio specifico,
confrontando e incrociando, già in itinere, i risultati parziali delle
proprie ricerche con quanto elaborato e/o in via di elaborazione in
altre aree del globo.
Per dirla con Solms e Turnbull (2004) quando uomini di scienza
cooperano, è possibile raggiungere una immagine più accurata di ciò
che è davvero la mente.
Un esempio di convergenza di studi è rappresentato dalla trattazione, nel libro Il cervello e il mondo interno di Solms e Turnbull (ib.)
dei sistemi esecutivi localizzati nei lobi prefrontali (in qualità di “sede ove si radica l’essenza della nostra natura umana”) in relazione ai
risultati di una scoperta tutta italiana, quella dei neuroni specchio.
I neuroni specchio sono una classe di neuroni che si attiva sia
quando si compie un’azione in prima persona sia quando la si osserva compiuta da altri e il cui ruolo primario è quello di far da mediatori per la comprensione del significato delle azioni altrui (Rizzolatti,
Sinigaglia, 2006).
In merito alle ricerche sui neuroni specchio condotte dall’équipe
di Giacomo Rizzolatti presso l’Università di Parma, si è accertato che
le aree costantemente attive durante l’osservazione delle azioni altrui
sono la porzione rostrale anteriore del lobo parietale inferiore e il settore inferiore del giro precentrale più quello posteriore del giro frontale inferiore. In alcuni esperimenti si è osservata attività anche in
un’area più anteriore del giro frontale inferiore, nonché nella corteccia premotoria dorsale (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006). Più precisamente il sistema dei neuroni specchio, nonostante un notevole grado di
sovrapposizione, ha un’organizzazione somatotopica, con foci corticali dedicate ad azioni condotte con la mano, la bocca e il piede.
56
Fino alla scoperta di Rizzolatti si pensava che tali neuroni si attivassero solo quando si compie un’ azione in prima persona e che l’attivazione di questi neuroni fosse correlata solo a funzioni motorie.
Nel corso di alcune ricerche, inerenti lo studio di neuroni specializzati nel controllo dei movimenti della mano, i ricercatori di Parma
si accorsero che gli stessi neuroni che si attivavano quando una scimmia compiva un’azione in prima persona (ad esempio prendere una
banana), si attivavano anche quando era un altro a compiere la stessa
medesima azione (uno sperimentatore che prende una banana da un
cesto di frutta posto dinanzi la gabbia del macaco mentre la scimmia
è intenta ad osservare la scena). L’utilizzazione della fMRI ha consentito una localizzazione successiva più precisa delle aree coinvolte nel
sistema umano dei neuroni specchio in presenza di azioni complesse
(afferrare per mangiare, dare un calcio a un pallone, prendere oggetti
per ordinare): la parte posteriore della cosiddetta area di Broca (tradizionalmente deputata al controllo dei movimenti della bocca necessari per l’espressione verbale), larghe parti della corteccia premotoria e del lobo parietale inferiore e pertanto più esteso rispetto a
quello identificato nella scimmia. Sperimentazioni successive, condotte da Giovanni Buccino e altri nel 2001, hanno evidenziato come
il sistema dei neuroni specchio non sia limitato ai movimenti della
mano e neppure agli atti transitivi ma risponda anche agli atti mimati
con un pattern di attivazione analogo ma limitato al lobo frontale
(Rizzolatti, Sinigaglia, 2006).
In effetti l’osservazione di atti compiuti da altri determina, nell’uomo, un immediato coinvolgimento delle aree motorie deputate
all’organizzazione e all’esecuzione di quegli stessi atti. Questa sorta
di coinvolgimento cerebrale consente di decifrare e comprendere il
significato delle azioni altrui ad un livello privo di qualsivoglia mediazione riflessiva, concettuale e/o linguistica e fatto solo di conoscenza motoria e vocabolario d’atti. Da esperimenti condotti da Marco Iacoboni è emerso che il coinvolgimento delle aree motorie si attiva anche si manifesta solo la chiara intenzione di un atto motorio. La
conoscenza motoria, in varie specie e in misura maggiore nell’uomo,
di conseguenza avrebbe un ruolo decisivo nella comprensione del significato delle azioni altrui. Ciò non implica che le stesse azioni e/o
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intenzioni non possano essere comprese in modo diverso, grazie a
processi intellettivi basati su elaborazioni di informazioni sensoriali
e/o visive (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006). Tra le due modalità di comprensione vi è una profonda differenza. L’attivazione delle aree motorie comporta un coinvolgimento in prima persona del soggetto,
una profonda empatia, che gli consente di esperire l’azione come se
fosse lui stesso a compierla e di comprenderne a pieno il significato.
Il “come se” diviene patrimonio del soggetto coinvolto nell’osservazione, parte del suo esperire concreto e non virtuale, patrimonio individuale e di specie.
Già all’inizio della scoperta dei meccanismi di funzionamento dei
neuroni specchio ci si è chiesto se essi potevano essere alla base dell’imitazione.
Il termine imitare è strettamente connesso con la capacità di un individuo di replicare un atto, già appartenente al proprio patrimonio
motorio, dopo averlo visto compiere da un altro e/o con la capacità di
apprendere uno schema d’azione nuovo dopo averlo osservato.
Nel primo caso la scoperta dei neuroni specchio suggerisce una riconsiderazione dei meccanismi di imitazione visti come una traduzione motoria immediata dell’azione osservata e di cui è già stato decifrato e compreso il significato motorio proprio attraverso il sistema
specchio. Più che di imitazione, quindi, bisognerebbe parlare di una
replicazione. Nel secondo caso, quando si parla di apprendimento di
nuovi profili d’azione, esperimenti mostrano che le forme di imitazione di eventi motori dipendono dall’attivazione di aree corticali dotate di proprietà specchio: una sorta di corrispondenza semantica
delle informazioni visive provenienti da osservazioni di atti altrui con
le rappresentazioni motorie corrispondenti.
Non tutte le azioni osservate vengono replicate. Nel cervello umano deve esistere un sistema che consenta, una volta codificato un
evento, il passaggio da “azione potenziale” ad azione esecutiva qualora necessario. Le attuali conoscenze portano a pensare che questa
sorta di segnale o di interruttore esista e che esso sia in associazione
con dei sistemi genici.
La relazione tra sistemi specchio e sistemi di controllo potrebbe
chiarire taluni aspetti legati all’imitazione precoce dei neonati. A po58
che ore dalla nascita i bambini sanno già riprodurre alcuni gesti quali
la propulsione della lingua o il sorridere. Una possibile spiegazione
potrebbe risiedere in un sistema specchio già attivo associato con un
sistema di controllo ancora immaturo, fattore chiave dell’autoregolazione del cervello neonato e fondamento preverbale e prerazionale
dell’intersoggettività.
Il meccanismo della comprensione di azioni compiute dagli altri è
stato estremamente utile per ampliare il campo di indagine. Gli stessi
scopritori dei neuroni specchio hanno dichiarato che proprio la comprensione delle loro caratteristiche di attivazione diretta e pre-riflessiva determina, intorno agli individui, l’esistenza di uno spazio d’azione condiviso da altri individui, per cui si originano forme di interazione sempre più elaborate.
In campo evolutivo evidentemente la formazione di questa capacità di interazione è avvenuta contemporaneamente all’interno dell’organismo biologico come al suo esterno, e questo ci aiuterebbe a capire
dove indirizzare le ricerche future, dato che proprio le interazioni si
basano su sistemi di neuroni specchio sempre più complessi, articolati
e differenziati man mano che li si studia. La capacità di parti del cervello umano di attivarsi alla percezione delle emozioni altrui, espresse
con moti del volto, gesti e suoni; la capacità di codificare istantaneamente questa percezione in termini “viscero-motori”, rende ogni individuo in grado di agire in base a un meccanismo neurale per ottenere
quella che gli scopritori chiamano “partecipazione empatica”.
Dunque un comportamento bio-sociale, ad un livello che precede
la comunicazione linguistica, che caratterizza e soprattutto orienta le
relazioni inter-individuali, che sono poi alla base dell’intero comportamento sociale.
Comunque sia, gli ultimi esperimenti hanno confermato che di
fronte al comportamento dei soggetti, i neuroni specchio hanno manifestato la loro presenza in aree del cervello più ampie di quelle intraviste all’inizio. Di volta in volta hanno presentato un’architettura e
un’organizzazione cellulare diversa, semplice o sofisticata a seconda
dei fenomeni emotivi che provocavano la reazione neurale. Perciò se
lo studio precedente del sistema motorio aveva portato la ricerca a
concentrarsi sull’analisi neurofisiologica dei movimenti più che dei
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comportamenti, individuando “semplicemente” i circuiti neurali preposti al nostro rapporto con le cose, la scoperta dei neuroni specchio e
lo studio della loro natura profonda ci permette di fare un salto nella
conoscenza del cervello, di gettare le basi unitarie per indagare sui
processi neurali responsabili dei rapporti fra le persone. In pratica si
sta scoprendo il complesso meccanismo biologico alla base del comportamento sociale degli uomini.
Nel testo Il cervello e il mondo interno (2004), Solms e Turnbull
prendono in esame il tronco encefalico superiore e la correlazione
con i sistemi d’azione. Il tronco encefalico rappresenta una struttura
che riceve input da tutte le modalità sensorimotorie, ed è una zona di
convergenza. Secondo Antonio Damasio questa regione cerebrale
rappresenta il SELF (Simple Egolike Life Form) o Sé Primario o Sé
Primitivo; una sorta di Io di base su cui vanno a innestarsi tutte le
rappresentazioni più complesse del nostro Io che può essere visto come l’origine del sentimento di essere vivi e la consapevolezza di esserlo. Tale fonte di coscienza non deve essere pensata solo come di tipo sensoriale. La percezione dello stato fisico del corpo è estremamente correlata con il sistema motorio e con il sistema delle emozioni
in quanto scopo primario della percezione è guidare l’azione e scopo
fondamentale della coscienza è la percezione delle emozioni (Solms e
Turnbull, 2004). Come dire che il SELF guida le azioni sulla base di
un’attribuzione di valori (ib., 2004).
Tale attribuzione di valori innesca dei programmi motori (comportamenti) di tipo riflessivo e istintivo (comportamenti stereotipati e
aventi carattere di compulsività). Il Sé Primario è essenzialmente,
quindi, un meccanismo passivo, privo di libero arbitrio, in grado,
cioè, di innescare programmi motori ma senza alcuna capacità di scelta. Concettualmente il libero arbitrio si connota, quindi, come la capacità di scegliere di non fare una cosa, come una capacità inibitoria.
Rappresentazioni più complesse dell’Io, che si innestano su questo
Io primitivo, appaiono come lo sviluppo di un sistema del Sé fortemente correlato a meccanismi inibitori. Lo sviluppo di questi meccanismi inibitori, localizzati nei lobi prefrontali, ci rende diversi da altri
mammiferi in quanto capaci di reprimere le compulsioni primitive e
stereotipate. Nell’uomo, grazie ai lobi prefrontali, esiste la possibilità
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di ritardare una data azione a fronte dell’intervento del pensiero, che
può essere visto come un agire immaginario, cioè a fronte della valutazione delle conseguenze delle nostre azioni. In altre parole, partono i
programmi dell’azione prevista, ma l’azione vera e propria viene inibita. Il pensiero ha valore, quindi, di un agire senza l’azione.
I lobi prefrontali maturano dopo la nascita principalmente intorno ai due anni di età e intorno ai cinque anni di età, pur continuando
la loro crescita per i primi vent’anni di vita. Le esperienze che attivano questi meccanismi esecutivi nei primi anni di vita ne determineranno la struttura individuale.
L’operatività di tali intrinseche capacità inibitorie, di natura neurochimica, è, di conseguenza, letteralmente plasmata dalle figure parentali e dalle figure di riferimento nell’ambiente di crescita del bambino.
Grazie alle scoperte di Rizzolatti sappiamo che il pattern di neuroni scarica allo stesso modo nel caso di un’azione compiuta in prima
persona e nel caso di una azione osservata e “immaginata”. Questa
classe di neuroni è stata osservata solo nei sistemi di azione.
È probabile però che sia rintracciabile anche nei sistemi dell’emozione, cioè che essi rappresentino la base neurobiologica dell’empatia. Pertanto questo meccanismo sarebbe alla base del processo di interiorizzazione del comportamento delle figure di riferimento. Ciò
consentirebbe di stabilizzare i programmi esecutivi, attivandoli ripetutamente attraverso l’osservazione senza che i comportamenti debbano essere concretamente eseguiti. La passività è in questo modo
tramutata in attività (auto inibita) mentre simultaneamente l’azione si
trasforma in pensiero.
Relativamente all’empatia, da esperimenti condotti (Singer, 2004)
risulta che in soggetti che osservano altri provare dolore l’empatia attiva automaticamente l’insula e la corteccia cingolata anteriore, aree
che sembrano coinvolte come se il dolore fosse un dolore fisico intenso e reale. In un successivo esperimento si studia la reazione di un
soggetto che non può osservare direttamente un’altro che soffre ma
può vedere attraverso una lancetta i livelli del dolore: in effetti, immagina il dolore dell’altro. Anche in questo caso, pur in assenza del
contatto oculare facilitante l’immedesimazione emotiva, nel soggetto
si attivano quelle specifiche aree, a testimonianza della interconnes61
sione tra razionalità ed emotività-affettività: tale meccanismo di osservazione-imitazione-comprensione è stato definito simulazione incarnata.
Ricadute e declinazioni psicopedagogiche delle ricerche citate
possono essere rinvenute nelle seguenti riflessioni: se vi è un sostrato
neuronale alla base dell’esistenza preverbale e prerazionale dell’identità sociale, se il nostro cervello risuona con quello di un’altra persona in una sorta di metacomunicazione, nel nostro essere è già inserita
geneticamente la possibilità di una relazione significativa con l’altro,
elemento che è alla base di ogni percorso educativo possibile (Donnarumma D’Alessio, 2008).
In base agli studi citati è possibile concludere che la ricerca neuroscientifica, in quanto studio delle basi biologiche dei processi mentali
e sociali umani, acquisterà crescente rilievo e spazio in campo psicopedagogico.
Quando si parla di funzionamento mentale infatti anche i neurobiologi sentono un grande bisogno di punti di riferimento esterni
(Kandel, 2007). In questo senso la psicopedagogia, come disciplina
preposta allo studio dei processi antecedenti e concomitanti alle situazioni educative e didattiche e all’elaborazione di matrici volte alla
loro ottimizzazione, può offrire un contributo prezioso ad una comprensione profonda e sfaccettata della mente umana. Rispetto infatti
alle teorie neurobiologiche, più soddisfacenti dal punto di vista
scientifico ma spesso centrate su aspetti troppo specifici a discapito
di una visione globale dei fenomeni, essa può rilevare aspetti del funzionamento mentale che si esplicano solo all’interno della complessità tipica delle situazioni educative e didattiche.
Citando Kandel (2007, pag. 27-28) possiamo dire che “gli studi cellulari sugli stadi critici di sviluppo e di apprendimento hanno mostrato
che le connessioni tra neuroni sono influenzate da processi genetici ed
evolutivi: ciò che resta ancora da determinare è la forza di tali connessioni. Dobbiamo a questo fattore – l’efficacia a lungo termine delle connessioni sinaptiche - influenze ambientali quali l’apprendimento.
Negli studi finora compiuti, è emerso che l’apprendimento modifica
l’efficacia di percorsi preesistenti, inducendo in tal modo l’espressione
di nuovi schemi comportamentali. Così quando parlo a qualcuno e lui
62
mi ascolta, non solo io e lui raggiungiamo un contatto visivo e vocale,
ma l’azione dell’apparato neuronale del mio cervello produce effetti diretti e duraturi sull’apparato neuronale del suo cervello e viceversa”.
Dunque, l’intervento educativo mutua la propria efficacia grazie alla capacità delle parole e dei gesti di indurre trasformazioni nel cervello ed agire conseguentemente sui processi mentali delle persone coinvolte. Facciamo un semplice esempio che sottolinea altresì la circolarità di questo processo. L’insegnante o l’educatore che ha contatti continuativi con il mondo dell’infanzia e della fanciullezza, può sperimentare come le esperienze della meraviglia e dell’entusiasmo, che spesso
vengono sostituite in età adulta da un disincantato cinismo, possono
essere mantenute in maniera quasi automatica grazie al meccanismo
ascrivibile ai neuroni specchio. L’adulto che vive tra bambini sperimenta spesso una curiosità ed una freschezza mentale ed emotiva difficili da ritrovare in soggetti che vivono in contesti differenti.
6.1 Neuroetica ed educazione
Quanto detto finora ha numerose implicazioni evidenziate anche
da una neonata disciplina: la neurotica, un campo di studio interdisciplinare che indaga sulle precondizioni biologiche della capacità
morale, nel tentativo di colmare il gap esistente tra principi etici e
corporeità dell’uomo, elemento questo profondamente connesso
con ogni discorso di tipo educativo che continuamente fa i conti
con un dover essere. La neuroetica propone una visione del cervello
in continua relazione con l’esterno e lo definisce come realtà organica in costante rapporto con il corpo, il contesto intersoggettivo
ed il mondo considerato come repertorio di strumenti utilizzabili
(Boella, 2008).
Tale disciplina, focalizzandosi su quanto precede, prepara o impedisce l’obbedienza alla norma, s’incentra su una morale trascendentale di tipo husserliano, in base alla quale la morale stessa si radica nel vissuto, chiedendosi se nei funzionamenti corporei sia già insito un significato morale (ib., 2008).
Le tecniche di imaging cerebrale prima citate infatti, tramite
esperimenti su punti moralmente critici o significativi, permettono
63
di evidenziare la neurofisiologia ad essi sottesa (aggressività, disperazione, menzogna, altruismo…).
Secondo Boella (2008) nelle nostre scelte morali (e dunque anche
in quelle di natura educativa) l’approccio iniziale alla realtà è mediato dalle emozioni, definite forme di saggezza pratica che ci orientano
nella vita quotidiana e poi seguito, mediante una successiva astrazione, dall’atteggiamento cognitivo “oggettivo”. Nel rapporto educativo
vi è un coinvolgimento, un interesse ed una preoccupazione che può
esser fatto rientrare nel senso hedeggeriano della “cura”: per questo
motivo risulta di particolare interesse poter visualizzare la relazione
tra meccanismi cerebrali e convinzioni e comportamenti morali. Ciò
porterebbe ad un’accresciuta consapevolezza che potrebbe condurre
ad un’estensione della moralità, con le innegabili ricadute anche in
campo formativa.
7. Conclusione
Nei molteplici sensi che abbiamo prospettato psicobiologia e psicopedagogia sono dunque profondamente connesse. Per tale motivo
ci si augura, parafrasando Kandel, che il radicato dualismo che in passato le ha scisse in approcci diversi alle situazioni educative si riveli
solo un fatto transitorio.
Il connubio tra le due discipline si pone dunque come strumento
scientifico e clinico assai promettente per la valutazione degli esiti dei
processi educativi e la diagnosi dei disturbi connessi e come importante premessa per una crescente comprensione del pensiero e del comportamento in grado di aprire nuovi affascinanti scenari di ricerca.
64
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71
72
II
CAPITOLO
DAL GENE AL MEME: I FATTORI EPIGENETICI-AMBIENTALI
NELLA NEUROGENESI E NEI PROCESSI MNEMONICI
di Irene Minchillo
Le neuroscienze cognitive sono un settore di ricerca che mette in relazione il comportamento con i processi corporei, in particolare con le attività
cerebrali. In altre parole le neuroscienze cognitive studiano le base biologiche del comportamento e dei processi psicologici (anatomia cognitiva) e
come l’attività del cervello si manifesta nel comportamento e nei processi
mentali (fisiologia cognitiva). In quanto settore di ricerca che vuole indagare sulla relazione che esiste tra anatomia e fisiologia del comportamento e dei processi mentali o, in altre parole, sulla relazione mente-cervello,
esse si avvalgono degli apporti di altre discipline tra cui: genetica del
comportamento, genomica comportamentale, psicobiologia dello sviluppo, modelli neurali, psicologia evoluzionistica, neurologia per immagini,
biologia molecolare, biologia dello sviluppo, citologia, anatomia, ecc..
(Gazzaniga e al, 2009; Freberg, 2007)
1. Le Neuroscienze Cognitive, L’Educazione e il Ben-Essere
Attualmente è in corso un dibattito accademico per chiarire l’epistemologia delle Neuroscienze cognitive e la sua eventuale costituzione
in “Scienza” (oggetto di studio, campo di esistenza, metodologia di ricerca). All’interno di questo dibattito non è ancora chiaro quale debba
essere il confine tra la psicologia biologica e le neuroscienze cognitive:
se trattasi dello stesso campo di ricerca o se la prima si occupa della localizzazione delle funzioni cerebrali e la seconda della determinazione
della struttura e dei meccanismi di funzionamento delle stesse.
Secondo Breedlove, Rosenzweig e Watson, se si parte dal postulato che le neuroscienze cognitive ricerchino come dai processi neurali
73
possano affiorare i processi cognitivi, dato uno specifico comportamento, per poterlo caratterizzare sotto il profilo neurocognitivo, devono essere seguiti cinque passi consecutivi: 1) descrivere il comportamento, 2) studiarne l’evoluzione, 3) osservare lo sviluppo del comportamento e le sue caratteristiche biologiche nel corso della vita, 4)
studiare i meccanismi biologici del comportamento, 5) studiare le
possibili applicazioni della psicologia biologica (Breedlove et al.,
2009). In merito all’ultimo punto i tre neuroscienziati precisano che
un importante obiettivo delle neuroscienze cognitive e/o psicologia
biologica è quello di utilizzare le scoperte ottenute per migliorare la
salute e il benessere dell’uomo in riferimento alla manifestazione di
eventuali malattie e/o disturbi (soluzione di problemi umani). Lo
studio dell’anatomia e della fisiologia del comportamento e degli stati mentali verrebbe pertanto finalizzato alla cura delle disfunzioni cerebrali del comportamento quali le alterazioni dei circuiti della memoria: visione comune ad un po’ tutto il mondo neuroscientifico.
Non si può fare a meno di notare che tale approccio applicativo alla
conoscenza risente di impostazioni di tipo “medico-psichiatrico”
piuttosto che investire l’area della piena realizzazione del sé, del benessere della persona. A riprova di ciò si sottolinea che i tre neuroscienziati, nel loro testo di introduzione alle neuroscienze cognitive,
pur sottolineando l’interdisciplinarità della ricerca (la necessità della
convergenza di più saperi alla costituzione delle conoscenze neuroscientifiche), e la partecipazione alla stessa, a vario titolo, di genetisti,
psicologi, medici, psichiatri, biologi, ecc., non fanno alcun riferimento, tra i settori apportativi, all’educazione, come scienza che si occupa della formazione della persona, dell’autorealizzazione del soggetto
persona, socialmente e culturalmente orientato sulla scorta di una costellazione e di valori e significati in vista di un orizzonte di senso
(Acone, 2001), e alla pedagogia, come scienza generale della formazione e dell’educazione dell’uomo, come sapere filosofico che pensa
l’educazione dell’uomo in vista di orizzonti valoriali indispensabili
per ogni tempo storico e per ogni longitudine e latitudine (Burza,
1999). Ne consegue un appiattimento dell’interpretazione dei dati
sperimentali solo su posizioni inerenti il disturbo e la patologia del
comportamento, e non una ricaduta degli stessi sulla riflessione del74
l’uomo sull’uomo, sulle modalità biologicamente più corrette per la
costituzione di luoghi, socialmente e culturalmente orientati, che
consentano la massima espressione delle potenzialità cognitive, emotive e sociali individuali, consegnando di fatto le neuroscienze al perpetuarsi della dualità cartesiana, della parcellizzazione dei saperi. Ancora una volta si fa innanzi il difficile nesso tra soggetto, tecnica ed
educazione (Acone, 1986). La Pedagogia e l’Educazione dovrebbero
essere, invece, figure guida per la ricerca scientifica sul cervello in
quanto le uniche legittimate, per proprio statuto epistemologico, alla
ri-fondazione teoretica e all’orientamento teleologico delle altrui metodologie e scoperte scientifiche. In nessun altro campo dello scibile
umano, qualsivoglia pensiero, qualsivoglia enunciazione, viene immediatamente assunta e ripensata secondo logiche di centro, fine, valore, orizzonte di senso, persona (come essere progettante e progettato), piena realizzazione del sé, assunzione di responsabilità reciproca
dell’alterità. Sia ben chiaro, ciò non significa che studiosi illustri, come Kandel, Kagan, Damasio, LeDoux, non spingano talvolta le proprie riflessioni anche in campo educativo, ma l’educazione e la pedagogia devono entrare a pieno titolo nella ricerca neuroscientifica. La
posta in gioco è grande, è la felicità del fanciullo, dell’adolescente,
dell’adulto, dell’anziano, nella consapevolezza che la difficoltà non
risiederà tanto nella determinazione dei meccanismi specie specifici
(ormai in via di definizione), meccanismi riferibili al genoma, ma
quanto nella loro trasduzione in prassi educativo-didattiche che assumano, come valore aggiunto, la variabilità individuale, il genotipo
specifico. Si è giunti alla consapevolezza che la pressione selettiva
della cultura sul genoma ha sicuramente imboccato la via della diversità individuale perché solo diversi approcci alla realtà hanno potuto
garantire il successo della specie umana rispetto ad altri organismi viventi. Tuttavia, plasticità cerebrale, sinaptogenenesi, neurogenesi,
meccanismi specchio, processi pressoché chiari nel loro riferirsi alla
specie umana tutta, rimarranno privi di un significato pieno se non si
terrà conto di stili cognitivi, di specifici approcci alla conoscenza, di
motivazioni individuali, di bisogni educativi, di contesti culturali e
sociali di riferimento. Un approccio olistico alla persona che abbia
come fine valoriale il ben-essere della persona, l’esistere bene, non
75
come condizione di assenza di patologia (ossia sinonimo di salute),
ma come condizione dinamica di equilibrio, includente tutte le dimensioni dell’essere (fisiche, emotive, mentali, sociali, spirituali), fondata sulla capacità del soggetto di interagire con l’ambiente in modo
positivo, pur nel continuo modificarsi della realtà circostante.
Sicuramente siamo ben lontani da un sistema chiaro di indicazioni
neuroscientifiche rispetto alla trattazione dello sviluppo del singolo
individuo, ma sicuramente osservare un cervello mentre pensa aiuterà nel tempo, con il proseguire della ricerca, a chiarire i meccanismi
individuali.
D’altro canto la riflessione pedagogico-educativa non può sottrarsi ad un processo di confronto, di verifica delle proprie osservazioni
sul campo, dei propri modelli teorici della formazione con il quadro
biologico in divenire dell’essere umano.
Probabilmente la ricerca si orienterà prima in una differenziazione
dei meccanismi per genere, come nel caso delle ricerche di Louann
Brizendine sul cervello femminile e maschile, per poi arrivare alla
singolarità.
Rimaniamo in attesa.
2. Dal concetto di gene al concetto di meme
Secondo Kagan (1994) la genetica influenza il comportamento in
quanto è il corredo cromosomico che determina, in massima parte, lo
sviluppo di un dato organismo umano, ed è “lo specifico organismo
umano che è adattivo rispetto all’ambiente”. In altri termini sono di
determinazione genetica gli organi di senso attraverso cui un individuo costruisce la propria percezione della realtà.
Secondo i neodarwinisti è casuale il numero di neuroni e, soprattutto, di connessioni sinaptiche con cui si nasce. Il termine casuale,
nella concezione neodarwiniana, è da riferirsi alla casuale combinazione di geni in rapporto al miliardo possibile, nella formazione dello
zigote, e che da origine a strutture cerebrali piuttosto che ad altre.
Ne viene fuori un quadro sotto il profilo teleologico che fa tremare i
polsi: organi di senso e strutture cerebrali con le quali si interpreta la
76
realtà ontologicamente predeterminate! In realtà i dati delle più recenti sperimentazioni mostrano che le cose non stanno proprio così, ma
per poterle bene intendere è necessario effettuare un passaggio culturale dal concetto di gene al concetto di meme attraverso l’epigenia.
2.1 Dal gene all’epigene
Nell’ottica della concezione genetica mendeliana si è abituati a
pensare che, in ogni cellula umana, a partire dallo zigote, è presente
l’insieme completo delle 23 coppie di cromosomi della nostra specie.
Il genotipo, il genoma specifico di un individuo, interagendo con
l’ambiente produce il fenotipo, ciò che osserviamo. I geni, situati sui
cromosomi, che nel loro insieme costituiscono il genotipo, codificano
la produzione di specifiche proteine: geni per il colore degli occhi o
dei geni per la produzione dei recettori della dopamina. I geni, situati su di un cromosoma, possono essere presenti in diverse versioni alternative che prendono il nome di alleli (colore marrone, colore celeste, colore verde degli occhi, gruppo sanguigno A, gruppo sanguigno
B o gruppo sanguigno 0). La variabilità di una specie sarebbe pertanto legata alla esistenza di versioni alternative, di alleli. Un individuo
ha la probabilità di ereditare da ciascun genitore una delle due forme
alleliche, per un singolo gene, del 50% (coincidente nell’omozigote,
divergente nell’eterozigote). I caratteri complessi sono associati, però, a strutture poligenetiche. Quando un carattere è associato a più
geni, la sequenza genica, nella sua versione allelica, tende a rimanere
unita nella gametogenesi (gruppi linkage), ad essere ereditata in blocco. Nella visione della genetica classica la variabilità sarebbe data da
fenomeni di ricombinazione genica e di mutazione. All’interno del
processo meiotico esiste questo passaggio fondamentale che porta alla nascita di nuova variabilità; avviene quando, all’inizio della meiosi,
i due cromosomi omologhi si dispongono uno affianco dell’altro e si
replicano. A questo punto può avvenire un fenomeno di incrocio e
scambio di segmenti equivalenti di materiale genetico che va sotto il
nome di ricombinazione genica. Si possono originare, così, sequenze
nuove di Dna, sequenze nuove di alleli (che unite ad eventuali fenomeni di mutazione, aberrazioni cromosomiche, espansioni di triplet77
te, e imprinting genomico) che danno origine alla variabilità genetica
che si riflette nel fenotipo. In questa visione la funzione che esplicano
i geni è quella di “dare origine” alle proteine, di trasferire l’informazione genica necessaria per la sintesi proteica dal nucleo al citoplasma: la
sequenza dei nucleotidi del Dna, nel nucleo della cellula, viene trascritta danno origine ad una sequenza di nucleotidi di Rna, che a sua
volta, nell’ambiente citoplasmatico, viene tradotto in sequenze di aminoacidi e, quindi, in proteine. Necessariamente ogni gene codificherà
– predeterminatamente – per un gruppo di proteine affini. Come dire
o si è intelligente o non lo si è!
In realtà, a partire dal sequenziamento dell’intero genoma umano,
avvenuto nel 2000, si è visto che l’interpretazione mendeliana dei fenomeni genetici è molto riduttiva e rispondente solo alla trasmissione
ereditaria di un singolo gene o di gruppi linkage.
Le strutture di base della vita, e quindi i geni, sono comuni a più
organismi viventi filogeneticamente affini (i mammiferi, gli uccelli).
Le differenze tra specie affini sono decretate da uno sparuto gruppo
di geni che prendono il nome di “geni promotori”. Il gene promotore è un gene che influisce direttamente sulla espressività di un altro
gene o di un altro gruppo di geni: ne regola l’attività in termini di
prodotti genici, di proteoma specifico (Griffiths, Gelbart, Lewontin,
Suzuki, Miller, Wessler, 2006). Per fare un esempio i geni che codificano per la lunghezza del collo o per il numero di circonvoluzioni cerebrali sono le stesse in tutti i mammiferi. Da una specie ad un’altra
ciò che varia è il loro grado di espressività codificato dai geni promotori ad essi associati. L’insieme dei geni promotori prende il nome di
“tratti epigenetici di DNA”. Nella categoria dei fenomeni epigenetici
ricadono tutte le attività di regolazione dei geni mediate da processi
chimici che non comportano cambiamenti del DNA ma che possono
modificare il fenotipo dell’individuo e/o della progenie. Uno studio
internazionale coordinato da Andrew Feinberg della Hopkins University e pubblicato nel 2008 sul Journal of the American Medical
Association, ha evidenziato che i tratti epigenetici del DNA si modificano nel corso della vita e con loro i livelli di espressione dei geni in
seguito a fattori ambientali: variazioni nella dieta possono portare a
cambiamenti epigenetici e determinare insorgenze di malattie come il
78
cancro o il diabete. Nel corso del tempo, nel passaggio dalla nascita
alla morte, si possono avere modifiche di tratti epigenetici, modifiche
nell’attivarsi/inattivarsi di geni promotori in rapporto all’ambiente. I
geni promotori, o geni hox, codificano per fattori di trascrizione,
strutture proteiche, che si legano ad altri geni attivandoli. In maniera
più specifica nella cellula avviene che segnali biochimici si muovono
dal citoplasma al nucleo dispiegando la cromatina e legandosi a specifiche porzioni di DNA, i geni hox, attivandole; i gruppi proteici derivanti si legano tridimensionalmente ai geni regolati rimuovendo l’inibizione alla trascrizione. La soggiacenza del DNA epigenetico ai
fattori ambientali ha fatto dire a Matt Ridley nel suo “Gene Agile”,
che esiste una relazione circolare tra genetica ed ambiente: un input
biochimico determinato da un fattore ambientale modifica l’espressione genica con la comparsa di un nuovo comportamento individuale che modifica l’ambiente. Nella visione di Ridley i geni non sono
uno spazio chiuso (gene-carattere), ma uno spazio aperto, per propria intrinseca costituzione, all’ambiente. Nella visione di Ridley i geni non sono dei codificatori di caretteri ma piuttosto un range, una
probabilità che un determinato evento si manifesti: il se e il quanto
dipendono dall’ambiente. La specie umana si sarebbe affermata, in
habitat estremamente differenti da quelli originari, proprio in virtù di
un sistema genetico pronto a rispondere alle sollecitazioni ambientali; il suo modificarsi prontamente rispetto alle pressioni selettive
esterne sarebbe dovuta alla specificità del sistema hox. Secondo Ridley il cervello umano rappresenta il luogo della massima possibilità
di modifiche nell’espressione genica, il luogo ove la natura incontra
l’ambiente, l’esperienza e la cultura. I geni sono al tempo stesso causa e conseguenza delle nostre azioni (Riddley, 2005). Meno del 2% di
differenza genetica tra l’uomo e lo scimpanzè sarebbe sufficiente a
decretarne la differente fenotipia, in quanto, tale percentuale, consiste in tratti di DNA epigenetico, andati incontro nel corso dell’evoluzione a ripetute mutazioni che ne avrebbero alterato profondamente
l’attività di regolazione rispetto ad antichi progenitori.
Lo studio di Feinberg, che ha evidenziato la stretta interdipendenza tra epigeni ed ambiente, è stato condotto prendendo in esame
fattori ambientali quali la variazione del regime alimentare e corre79
lando modifiche nell’attività epigenetica ed eventuale insorgenze di
patologie quale il diabete (applicazione su un disturbo). Eppure la
relazione epigeni/ambiente ha fortissime ripercussioni nella formazione della persona in rapporto all’ambiente, sulla plasticità cerebrale, sull’apprendimento e sulla memoria, elementi questi non messi
assolutamente in evidenza nell’interpretazione dei dati. Per leggere i
geni promotori in chiave educativa si può fare uso delle scoperte di
Kandel sulla memoria e sulle riflessioni nella costruzione del sé di
LeDoux.
2.2 La memoria di Kandel e i fattori epigenici-ambientali
Kandel, a partire dagli anni ’50, ha condotto una serie di esperimenti per capire come si forma nell’uomo l’apprendimento e la memoria a breve e a lungo termine.
L’apprendimento si può definire come il processo con cui si acquisiscono nuove informazioni e la memoria come il processo che
consente il persistere dell’apprendimento in una forma che può divenire evidente in un momento successivo (Gazzanica et al., 2009).
In altri termini l’apprendimento può essere visto come una modifica relativamente stabile del comportamento e la memoria può essere definita come l’immagazzinamento e il recupero di informazioni apprese che hanno indotto il cambiamento. (Freberg, 2007).
Non esiste, in realtà, un precisa linea di demarcazione tra apprendimento e memoria, sarebbe più corretto vedere la relazione esistente tra i processi di apprendimento e memoria come una relazione di tipo circolare.
Gli studi di Kandel, nel rispetto del principio riduzionista, si sono
serviti del moscerino della frutta, nome volgare della Drosophila. In
Drosophila è presente un tipo di neurone chiamato mushroom body
neuron che riceve le informazioni sensoriali a seguito di stimoli olfattivi ed elettrici (D’Alessio, Minchillo, 2006). I moscerini imparano ad
evitare gli odori abbinati ad uno shock elettrico (Jellies, 1981) e sono
suscettibili di condizionamento classico, ossia un singola sessione
nella procedura di sensibilizzazione basta a produrre cambiamenti
comportamentali della durata di alcuni minuti. Una reiterazione del80
l’informazione sensoriale determina una modifica del comportamento di varie settimane (in presenza dello stimolo olfattivo frutta volano
via velocemente memori dello choc elettrico), ossia la formazione di
memoria a lungo termine.
Nel corso di varie sperimentazioni si è visto che nella formazione
della memoria giocavano un ruolo la proteina chinasi A (PKA), la
proteina CREB-1 e la proteina CREB-2:
quando l’azione della proteina chinasi A (PKA) veniva bloccata,
i moscerini erano incapaci di apprendere nuove informazioni e
formare memorie a breve termine;
se si verificava, invece, un eccesso di CREB-2 si bloccava nei
moscerini la memoria a lungo termine ma non quella a breve
termine (Yin et al., 1994);
viceversa un eccesso di CREB-1 causava un’immediata memorizzazione a lungo termine di informazioni che normalmente
avrebbero portato solo alla formazione di memorie a breve termine.
Si è visto che, nel caso della singola seduta di sensibilizzazione, l’azione combinata odore/choc elettrico – input ambientale – determinava il rilascio di serotonina nelle sinapsi fra un interneurone e un
neurone sensoriale. (Freberg, 2007). La serotonina rilasciata dal interneurone nello spazio sinaptico si legava al sensoneurone attivando
un enzima che convertiva la molecola ad alto contenuto energetico,
l’ATP, in AMP ciclico (cAMP); in seguito il cAMP attivava la proteina chinasi A, PKA, la quale originava delle reazioni che si risolvevano
in un aumento del rilascio di glutammato, neurotrasmettitore eccitatorio, da parte del neurone sensoriale con la messa in atto, lungo le
vie neuromotorie, della reazione di fuga.
L’attivazione del PKA rappresentava il punto in cui la memoria a
breve termine si arrestava.
Quando si esponevano ad intervalli di tempo regolari i moscerini
a ripetute sedute odore/choc (input ambientale), la PKA si attivava
in modo ricorrente. L’attivazione pressoché continua della PKA determinava l’attivazione di un secondo messaggero biochimico: la
81
MAP chinasi. Le due proteine, legandosi tra di loro (fattore biochimico in risposta ad un input ambientale), venivano trasportate fino
al nucleo del neurone dove insieme contribuivano ad attivare un interruttore genetico, un gene hox, che regolava l’attività di un altro
gene che normalmente inibisce la trascrizione dei geni creb-1 e creb2. Il primo dei due geni codifica per una sostanza enzimatica che
consente alla PKA di rilasciare glutammato in modo pressoché costante (anche molto tempo dopo che è cessato il condizionamento)
formando in tal modo memoria a lungo termine. Il secondo gene codifica per una proteina che a sua volta attiva altri geni che, in ultima
analisi, stimolano la crescita di nuove terminazioni sinaptiche sul
neurone sensoriale determinando delle modifiche strutturali nei terminali assonici.
In conseguenza di quanto esposto si può asserire che gli studi di
Kandel sulla memoria, oltre a chiarire i processi biochimici attraverso i quali si apprendono e consolidano comportamenti permanenti, consentono di stabilire innanzitutto che la formazione di memoria a lungo termine implica l’aumento in dimensioni di sinapsi
già preesistenti e la crescita di nuove connessioni. Inoltre è possibile asserire che il Sé, nella sua componente di autoconsapevolezza e
di autorappresentazione, ha il suo correlato biologico nei circuiti
neurali tenuti insieme dalle connessioni sinaitiche selezionate ed
implementate dall’esperienza (LeDoux, 2002). Se un elemento
esterno modifica l’impalcatura delle sinapsi modifica il sé, la struttura mentale di un individuo. In altre parole fattori ambientali, collegati a geni promotori, collegati a variazioni sinaitiche hanno conseguenza sulla plasticità cerebro-mentale. La plasticità è, quindi, un
processo che può accompagnare un individuo lungo tutto il percorso della sua esistenza: la mente può sempre cambiare le connessioni
tra i propri circuiti neurali e, quindi, se stessa. E la possibilità di
operare modifiche è affidata, in ultima analisi, al gruppo di geni
promotori presenti nel DNA umano.
Il genoma umano non ha un significato di predeterminato, piuttosto, di un sistema pronto a costruire nuove vie neurali, nuovi percorsi
sinaptici, qualora richiesto dal contesto di appartenenza. Il processo
di apprendimento/memoria sicuramente è un processo di incremen82
to quanti-qualitatico di connessioni sinaptiche (ma non solo). La plasticità, l’attitudine a cambiare radicalmente, a differenza di quanto si
credeva in passato, nei suoi correlati neurali non è una breve finestra
dell’infanzia o della giovinezza, ma un elemento che può accompagnare tutta la vita di un individuo.
Estendendo il discorso si può dire che la specie umana non è legata in modo deterministico alle strutture cerebrali in dotazione
alla nascita e che pensiero, azione, apprendimento possono attivare o disattivare geni, modellando l’attività cerebrale (D’alessio in
Paloma, 2009). In questa visione l’educatore può e deve essere un
neuroscultore.
2.3 La memetica
La memetica studia la velocità con cui si diffondono le unità di informazione culturale denominate meni, termine coniato da Dawkins
in analogia con il più familiare concetto di gene. Un esempio di meme potrebbe essere un particolare modo di usare il fuoco, che conferisce un migliore adattamento all’uso di una risorsa alimentare. Di
norma un meme di questo tipo si diffonde nella popolazione se è
vantaggioso per i portatori. I memi si trasmettono da un individuo all’altro mediante l’apprendimento sociale, a base mirror, che come
sappiamo, è stato e continua ad essere molto importante nell’evoluzione umana (Arjiamaa e Vuorisalo, 2010). Dagli studi condotti da
Arjiamaa e Vuorisalo in Finlandia è emerso che un meme, una unità
di informazione culturale, può determinare una pressione selettiva
sul patrimonio genetico in rapporto al tipo di proteoma prodotto. In
altre parole non sarebbe corretto parlare di un sistema genetico aperto all’ambiente o di una relazione circolare ma piuttosto di fattori
ambientali che selezionano il patrimonio genetico in virtù delle vie
metaboliche, più o meno adattive, espresse. È l’ambiente che influenza il gene e non il contrario o, se si vuole, è l’ambiente che codifica
per il gene! L’ambiente e i geni sarebbero pertanto due parametri in
coevoluzione e non in interazione. Gli studi di Arjiamaa e Vuorisalo
sono stati condotti esaminando, in chiave evoluzionistica, la genetica,
la fisiologia e l’ambiente dei primi ominidi attraverso variabili come
83
la dieta umana. In particolare è stato esaminato l’adattamento al consumo di latte, dovuto alla comparsa, in alcuni ceppi umani, di un singolo gene mutato (il gene che codifica per l’enzima lattosio). Per tanto, la specificità degli organismi viventi, in correlazione con gli recentissimi studi che hanno mostrato che è la vita che ha modellato il sistema mineralogico terrestre, sarebbe quella di innescare azioni di
modellamento di sistemi genetici. La specie umana è il massimo
esempio di questo principio: la cultura, ciò che viene ritenuto condiviso e soprattutto condivisibile, seleziona il sistema genetico. Il meccanismo attraverso cui l’ambiente seleziona, nel corso della vita e nelle generazioni successive, il patrimonio genetico è a base ormonale
nonché a base corporea inteso come indice di massa. Infatti i due
studiosi parlano rispetto alla pressione selettiva del gene per il lattosio di “un associazione sia con l’indice di massa corporea sia con la
concentrazione di leptina e grelina, gli ormoni che regolano la sensazione di fame e sazietà, che hanno avuto origine più o meno ai tempi
della transazione dalla cultura paleolitica a quella neolitica” (Arjiamaa e Vuorisalo, 2010). Dagli studi di Hamer, di Lawrence Rossi sulla genomica psicosociale, sappiamo quanto è importante la triangolazione sistemi ormonali, sistemi immunitari e neurotrasmettitori nel
cervello e come la cultura di appartenenza possa influenzare in maniera deterministica tutto ciò. Da quanto esposto ne consegue che
non è tanto la genetica che influenza l’emersione ultima del sé, ma la
cultura espressa, in un dato tempo e in un dato luogo, da una comunità di essere umani.
3. La neurogenesi nei cervelli adulti
In tutti i cervelli vi sono tracce di nuove cellule neurali. Le cellule
staminali nervose, i progenitori capaci di trasformarsi in ogni tipo di
cellule cerebrali, hanno creato, ogni giorno, da cinquecento a mille
nuovi neuroni in persone che avevano abbondantemente superato
l’età in cui si sosteneva cessasse la neurogenesi dell’uomo. Con queste parole Gage, nel 1999, annuncia la scoperta di processi di neurogenesi nel cervello adulto.
84
In effetti, la nascita di nuovi neuroni (neurogenesi) non cessa
completamente dopo lo sviluppo ma accompagna, in alcune zone del
cervello, l’intero ciclo vitale di una persona. Una serie di ricerche recenti hanno mostrato che essa è indispensabile per la formazione della memoria e interessa in particolare l’ippocampo, una parte del cervello che si trova nel lobo temporale e che è sede di funzioni cognitive di vitale importanza.
Con il proseguire della ricerca è divenuto chiaro che, per la sopravvivenza di questi neoneuroni, il fattore di fondamentale è rappresentato da scansioni temporali che portano le cellule progenitrici ad essere inserite nei circuiti già esistenti del tessuto ippocampale. Da questo rispetto delle scansioni temporali dipenderà infatti
il buon esito di tutto il processo. I nuovi neuroni devono quindi
maturare secondo una corretta sequenza temporale affinché divengano funzionali per l’acquisizione di nuove memorie e per il recupero di memorie già esistenti, e devono essere impegnati in nuovi
compiti cogniti entro due settimana dalla loro nascita per poter sopravvivere.
In altre parole, ogni giorno, migliaia di cellule nuove sono generate nel cervello adulto, in particolare nell’ippocampo, una struttura
importante nell’apprendimento e nella memoria. Nell’arco di un paio
di settimane, però, la maggior parte dei nuovi neuroni è destinata a
morire, a meno che il soggetto non sia stimolato a imparare qualcosa
di nuovo. L’apprendimento - in particolare quello che richiede impegno mentale - può mantenere in vita questi neuroni (Shors, 2009).
Anche se non sembrano coinvolti nella maggior parte delle forme di
apprendimento, questi neuroni, avrebbero un ruolo nella previsione
del futuro sulla base di esperienze passate.
In effetti, nel corso della vita, possiamo essere impegnati, ogni
giorno, negli stessi compiti cognitivi, in tal caso le strutture cerebrali
preesistenti risultano essere più che sufficienti per le nostre necessità.
Oppure possiamo essere chiamati a nuove sfide, in tal caso è necessario un salto neurale, la possibilità di formare nuove ed estese memorie. Le cellule neurali differenziatesi, in tal caso, sopravvivono e sono
integrate nel tessuto ippocampale. Oltre alla considerazione, effettuata da Shors, che incrementare la neurogenesi potrebbe rallentare
85
il declino cognitivo e mantenere in forma il cervello sano, potremmo
ipotizzare, in termini educativi, che la neurogenesi insieme alla sinaptogenesi rappresentino le basi biologiche dei meccanismi piagettiani
di assimilazione ed accomodamento, ossia dei meccanismi di ottimizzazione delle strutture esistenti (sinaptogenesi) e dell’accrescimento
delle stesse in funzione degli stimoli ambientali (neurogenesi). Ancora una volta l’ambiente avrebbe selezionato un sistema genetico aperto alle variazioni culturali.
86
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88
III
CAPITOLO
ESPERIENZE SOCIALI, SVILUPPO DELLA MENTE,
EQUILIBRIO EMOTIVO: UN APPROCCIO PSICOBIOLOGICO
ALLA STUDIO DELLA RELAZIONE EDUCATIVA
di Chiara D’Alessio
“Se diamo alle persone, bambini, adolescenti o adulti che siano, delle
informazioni sulla correlazione tra il funzionamento e la struttura del
cervello, sullo sviluppo neurale e l’impatto dell’esperienza e sullo sviluppo della loro vita mentale, noi le aiutiamo a sviluppare una capacità
di discernimento che permette loro di vedere la propria mente in una
luce nuova (…) Riflettere sui correlati neurali ci permette di comprendere l’esperienza, anziché elaborare razionalizzazioni tese a spiegare i
nostri comportamenti inappropriati allo scopo di liberarcene; gli insight
neurali sembrano aiutarci davvero ad avere più compassione e discernimento per noi stessi e per le altre persone” (Siegel, 2009, p. 258).
1. Lo sfondo epistemologico: discipline e antidiscipline nel progresso scientifico
Parte del mondo pedagogico e psicologico attuale sottostima ancora il ruolo della psicobiologia, ovvero di quella branca della psicologia che studia le relazioni tra cervello, corpo e comportamento, ritenendola una disciplina lontana da approcci di tipo più tradizionale.
In realtà la conflittualità è solo apparente ed è una caratteristica dell’interazione tra discipline scientifiche strettamente correlate, cosa
che ha spesso stimolato il progresso della conoscenza (Kandel, 2007).
Come evidenziato da diversi storici delle scienze, per ogni disciplina esiste in genere un’antidisciplina che genera una tensione creativa
all’interno della disciplina madre, mettendone in discussione tesi e
89
precisione dei metodi. In questo caso la psicobiologia rappresenta la
nuova antidisciplina rispetto alla quale la psicologia e la pedagogia
costituiscono le discipline madri. La nostra ricerca tenterà di dimostrare come la psicobiologia acquisterà crescente rilievo e spazio in
quanto biologia dei processi mentali umani; nello stesso tempo la pedagogia e la psicologia possono aiutare a definire e chiarire i processi
che devono essere studiati se si vuole pervenire ad una comprensione
profonda e sfaccettata della biologia della mente umana (ib.).
Il tentativo di pervenire a basi epistemologiche comuni allo scopo
di studiare e perfezionare le pratiche pedagogiche e psicologiche,
sollecitato dalla disponibilità di molti neuroscienziati di farsi carico
degli strati biologici dei comportamenti sociali complessi, consentirebbe di prevedere le implicazioni psicobiologiche di tale connubio
applicato ai processi educativi, con l’obiettivo di far convergere studi
pedagogici, psicologici, biologici e correlare i rispettivi linguaggi
scientifici nello studio delle relazioni umane , passando da una ricerca puramente teorica ad una ricerca applicata (ib.).
2. Cervello e relazioni interpersonali
Gli studi sul funzionamento del cervello nelle relazioni interpersonali (nell’ambito della psicobiofisiologia, della neuropsichiatria, della
psiconeuroendocrinologia, della psicosomatica, della biogenetica) sono oggi numerosi. Per citarne alcuni: i lavori sulla psiconeuroendocrinologia dello stress di Biondi, quelli di Sacks, di Turnbull, di Solms
sulla neuropsicoanalisi, quelli sui rapporti tra costruzione del sé e anatomofisiologia cerebrale di LeDoux, gli studi psicobiologici sull’empatia di Trevarthen, i lavori sulla memoria e sulla relazione tra psicoanalisi, psichiatria e biologia della mente di Kandel, quelli sui neuroni
specchio del gruppo di Rizzolatti, quelli sulla coscienza di Damasio e
Edelmann, gli studi psicogenetici di M. Ridley e D. Plomin, gli studi
di D. Siegel sulla neurobiologia dell’esperienza interpersonale.
Tali studi evidenziano nel complesso il ruolo svolto dall’esperienza
nel determinare la struttura ed il funzionamento dell’organismo biologico. Prendendo in esame numerose ricerche sulle esperienze nega90
tive precoci che possono derivare da deprivazioni, esse mostrano
quanto possa essere determinante la qualità delle esperienze interpersonali per un normale sviluppo psicologico e neurobiologico.
Sembra che le relazioni umane producano cambiamenti a livello molecolare, con ampie implicazioni sull’apprendimento e la memoria
(Kandel, 2007).
Oggi numerose ricerche condotte in ambito psicobiologico si basano sulla combinazione di studi epidemiologici, studi di genetica
molecolare e tecniche di brain imaging (ib.): per favorire tale corso
sarebbe opportuno unire le risorse a disposizione per la ricerca nei
diversi settori (pedagogico, neurologico, psicologico, biologico, farmacologico, ecc.). Gran parte delle attuali pratiche psicopedagogiche
oggi mostra un dualismo marcato e problematico che rende difficile
integrare il lavoro svolto dagli operatori con le risorse tecnologiche a
disposizione della neurologia.
Esistono già in psicologia prove cliniche dei cambiamenti indotti
dalla psicoterapia nei circuiti cerebrali, il che fa pensare ad una stessa
possibile azione svolta dai processi educativi, ma l’impatto degli studi
neuroscientifici su queste discipline è ancora limitato. I tempi sono
maturi affinché le neuroscienze costituiscano parte irrinunciabile della formazione di chi opera nel settore psicologico e pedagogico, favorendo la costruzione di metodi e strumenti di lavoro appropriati.
Il nostro contributo è, abbiamo detto, a carattere epistemologico
essendo volto alla costruzione di un nuovo modo di pensare le scienze pedagogiche e psicologiche che, abbandonando le controproducenti distinzioni tra cervello e mente, biologia ed esperienza, natura e
cultura, si basi sull’idea che, pur avendo i fattori costituzionali e genetici un ruolo importante nello sviluppo della mente umana, i fattori sociali e le relazioni umane plasmano lo sviluppo del cervello e della mente e favoriscono il raggiungimento di un equilibrio emotivo,
indissolubilmente legato, come afferma Siegel (2001), ad un corretto
funzionamento delle aree cognitive.
L’integrazione tra ricerca biologica, neurologica, psicologica, filosofica e pedagogica può consentire di colmare le lacune esistenti tra
definizioni di comportamenti che poggiano su costrutti psicologici e
loro correlati neurali, comprendere le basi biologiche della comuni91
cazione emotiva e gli effetti delle esperienze traumatiche sullo sviluppo del cervello.
In questa prospettiva la valorizzazione del rapporto mente-cervello si dipana nell’ambito di un’antropologia di stampo umanisticopersonalista, che, aggiornata alla luce delle teorie neuroscientifiche,
tenta di connettere causalità, fisiologia e fenomenologia per una rivalutazione del cervello inteso non più come meccanismo ma come organismo con una sua teleologia, in proficua scambievole relazione
con l’ambiente, dove l’essere umano appare come sinfonia di un sé
fisico, psichico, sociale, trascendente.
Il motivo per cui tale convergenza non è stata realizzata prima
perché le neuroscienze, ed in particolare la psicobiologia, non appariva abbastanza matura da un punto di vista tecnico, per affrontare le
questioni riguardanti i processi mentali in tutta la loro complessità;
considerati i recenti progressi oggi è possibile ampliare e perfezionare la nostra conoscenza sulle relazioni umane offrendo un nuovo livello di comprensione dei meccanismi in gioco (Kandel, op.cit).
Non si tratta di scalzare una disciplina a favore di un’altra: anzi,
nel suggerire idee fondamentali sulla mente umana, la pedagogia e
la psicologia hanno maggiori potenzialità della psicobiologia, decisamente meno adatta a contemplare gli aspetti esistenziali; se la psicobiologia si mostrerà all’altezza del compito, è probabile che le
scienze della mente assorbiranno le teorie e le tecniche principali
da essa generate, per poi proseguire per la loro strada (ib.). La dicotomia tra disciplina madre e antidisciplina indica quanto le due
discipline possano interagire con profitto. In questo la psicopedagogia ha un duplice ruolo: da una parte deve cercare di rispondere
a domande di sua competenza in campo didattico ed educativo; da
un altro lato è chiamata a porre una serie di domande cui dovrà rispondere la psicobiologia. Le potenzialità della psicopedagogia e
della psicobiologia risiedono nella loro visione del mondo e delle
loro teorie specifiche sulle variabili interconnesse. L’interazione sinergica tra psicopedagogia e psicobiologia è stata finora descritta in
due paradigmi: le conseguenze sullo sviluppo di alcune forme di
deprivazione sociale vissute in età precoce e i meccanismi dell’apprendimento (ib.).
92
Questi due filoni di ricerca sono paradigmatici in sensi diversi: essi esemplificano il genere di problemi che le scienze del comportamento sono chiamate a sintetizzare ed a portare all’attenzione della
psicobiologia e sono interessanti da un punto di vista metodologico
perché illustrano la capacità di semplificare e ridefinire i modelli
comportamentali (ib.). La grande opportunità che si presenta oggi alla psicopedagogia è la seguente: quando si tratta di studiare il funzionamento mentale, i biologi non possono fare a meno di una guida,
dunque la psicopedagogia può offrire un contributo di grande valore
alle neuroscienze (ib.). Le sue potenzialità risiedono nella peculiarità
delle sue prospettive, le quali possono indicare alla biologia le funzioni mentali che devono essere studiate per giungere ad una comprensione più complessa e profonda dello studio della mente umana
(ib.). Come affermato nella parte introduttiva di questo lavoro, la
psicopedagogia in questo può svolgere il duplice ruolo cercando di
rispondere alle domande di propria pertinenza legate ai processi
educativi; dall’altro, porre domande sul comportamento cui la biologia è chiamata a dare risposta, al fine di pervenire ad una visione verosimilmente avanzata dei processi mentali superiori dell’uomo (ib.).
In seguito ai progressi compiuti dalle neuroscienze negli ultimi anni, sia la pedagogia sia le neuroscienze si trovano in una nuova e migliore posizione per un riavvicinamento che consentirebbe alle intuizioni psicopedagogiche di informare la ricerca di una comprensione
più profonda delle basi biologiche del comportamento. È possibile
dunque delineare un modello concettuale designato ad allineare l’attuale prospettiva psicopedagogica e la formazione dei futuri educatori con le ultime scoperte della biologia (ib.).
L’attuale pensiero degli psicobiologi sul rapporto tra mente e
cervello può essere riassunto, in forma semplificata, in cinque principi (ib.): 1) tutti i processi psichici, perfino i più complessi, derivano da operazioni del cervello; l’assunto cardine è che ciò che chiamiamo mente rappresenta un insieme di funzioni svolte dal cervello; l’azione del cervello non si limita a comportamenti motori semplici ma si estende a tutti gli atti cognitivi complessi, consci ed inconsci, che associamo al comportamento proprio dell’uomo, come
il pensiero, il linguaggi e la creazione di opere letterarie, musicali
93
ed artistiche. Un principio correlato è che i problemi di natura cognitiva ed emotiva che sorgono in ambito formativo rappresentano
anche disturbi del funzionamento cerebrale, anche quando le loro
cause sono di origine ambientale; 2) le combinazione tra geni esercitano un controllo significativo sul comportamento; 3) una modificazione tra geni da sola non può spiegare tutta la variabilità osservabile in un dato tratto di personalità: vi contribuiscono, in misura
notevole, anche fattori sociali ed evolutivi; proprio come le combinazioni di geni contribuiscono a determinare il comportamento,
anche il comportamento ed i fattori sociali possono esercitare un’azione retroattiva sul cervello modificando l’espressione genica ed il
funzionamento delle cellule nervose; l’apprendimento si traduce in
un’alterazione dell’espressione genica: pertanto tutta la “cultura” si
esprime sotto forma di “natura”; 4) modificazioni dell’espressione
genica indotte dall’apprendimento producono cambiamenti negli
schemi di connessione neuronale che contribuiscono a formare le
basi biologiche dell’individualità e sono probabilmente responsabili
dell’insorgenza di differenze comportamentali indotte da circostanze sociali; 5) se l’educazione e la formazione sono efficaci è presumibile che ciò avvenga attraverso il processo di apprendimento che
modifica l’espressione genica agendo sull’efficacia delle connessioni
sinaptiche e riscrive i percorsi anatomici delle interconnessioni tra i
neuroni del cervello; dunque le tecniche di visualizzazione cerebrale potrebbero consentire alla fine una valutazione quantitativa dell’esito dei processi formativi.
L’assunto fondamentale delle neuroscienze è che tutte le funzioni
della mente riflettono funzioni del cervello: specifiche lesioni del cervello producono alterazioni del comportamento e specifiche alterazioni del comportamento si riflettono in tipici cambiamenti del funzionamento del cervello. Bisogna però premettere che del modo in
cui il cervello genera i processi mentali abbiamo solo una conoscenza
parziale ed approssimativa. La grande sfida per i neurobiologi e gli
psicopedagogisti consiste nel delineare questo rapporto in termini
che siano soddisfacenti per il neurobiologo che studia il cervello e
per lo psicologo che studia la mente o il pedagogista che studia l’educazione. Le ricerche di Kandel mostrano che quando impariamo an94
che la mente influenza la trascrizione genetica nei neuroni. Quindi
possiamo modellare i nostri geni, cosa che a sua volta influisce sull’anatomia cerebrale a livello microscopico. L’educazione cambia le
persone attraverso l’apprendimento producendo dei cambiamenti
nell’espressione genetica che modifica l’intensità della connessioni sinaptiche e, attraverso cambiamenti strutturali che alterano lo schema
anatomico delle interconnessioni tra le cellule nervose e il cervello.
L’educazione lavora in profondità nel cervello e nei neuroni modificandone la struttura e attivando i geni appropriati: essa agisce “parlando ai neuroni” (Siegel, 2009). Un educatore efficace è dunque un
vero e proprio microchirurgo della mente che aiuta gli educandi a
sviluppare in modo sano i network neuronali.
Il nostro lavoro prevede la presentazione di una sintesi critica sul
corpus di conoscenze esistenti sugli aspetti psicobiologici delle relazioni interpersonali, la prima e più importante delle quali è l’attaccamento. Ci soffermeremo in seguito sul concetto di mindfulness, l’alfa
e l’omega del benessere psicofisico. Saranno poi evidenziate le implicazioni di tali studi in campo educativo.
Iniziamo col descrivere le strutture cerebrali ed i circuiti neurotrasmettitoriali coinvolti nella memoria e nell’esperienza emozionale,
che sappiamo essere strettamente connessa alla qualità della relazione interpersonale.
3. Il cervello emotivo ovvero il sistema limbico
Il sistema limbico (Freberg, 2007) è un gruppo di strutture del
prosencefalo organizzate attorno alla parte superiore del tronco encefalico coinvolte nella generazione delle emozioni. Le strutture e le
funzioni sono le seguenti: ippocampo (memoria), amigdala (paura,
aggressività), talamo (smistamento dell’informazione sensoriale), ipotalamo (aggressività, regolazione fame, sete, temperatura, comportamento sessuale, ritmi circadiani), giro del cingolo (percezione del dolore ed altre emozioni), setto pellucido (ricordi ed emozioni), giro
paraippocampale (memoria esplicita).
95
4. I neurotrasmettitori
I neurotrasmettitori (ib.) sono messaggeri chimici che mediano la
comunicazione tra neuroni adiacenti nello spazio della sinapsi. Sono
sintetizzati all’interno del neurone e rilasciati in risposta all’arrivo di
un potenziale d’azione; dopo il rilascio sono disattivati per il riassorbimento o mediante l’azione di enzimi. Il principale gruppo di ammine biogene con funzione di neurotrasmettitori sono la dopamina, l’adrenalina, la serotonina. Un sottogruppo è costituito dalla catecolammine (dopamina, adrenalina o epinefrina e noradrenalina o norepinefrina). L’acetilcolina è il neurotrasmettitore principale nelle giunzioni
neuromuscolari, ed è coinvolta nella divisione parasimpatica del sistema nervoso autonomo.
5. Sistemi dopamimergici, noradrenergici, serotoninergici, colinergici
I neuroni dopaminergici del cervello proiettano sui gangli della
base, sul sistema limbico e sui lobi frontali della corteccia e sono coinvolti nel controllo motorio, nella ricompensa e nella progettazione
del comportamento (ib.).
I sistemi noradrenergici usano la noradrenalina come mediatore e
sono localizzati nel ponte, nel bulbo e nell’ipotalamo. Le proiezioni
di tali neuroni raggiungono tutte le regioni principali del cervello e
del midollo spinale: il loro ruolo principale è quello di produrre lo
stato di attivazione fisiologica (arousal) e di vigilanza (ib.).
I neuroni serotoninergici sono situati nel tronco encefalico con
proiezioni fino al midollo spinale, cervelletto, sistema limbico e neocorteccia. Essi partecipano al controllo dell’umore, del sonno, dell’appetito. I neuroni colinergici sono ampiamente distribuiti nel cervello. Un importante sistema di tali neuroni si origina nel prosencefalo, nel tronco ed invia proiezioni al sistema limbico ed alla corteccia.
Tale sistema partecipa ai processi di apprendimento e memoria (ad
es. degenera nei soggetti affetti da Alzheimer) (ib.).
96
6. Cervello e memoria
È noto che fin dalla nascita il cervello risponde alle nostre esperienze attraverso la creazione di connessioni tra le diverse cellule nervose; circuiti che vengono attivati simultaneamente, secondo l’assioma
di Hebb, tendono ad associarsi ed a essere attivati contemporaneamente. Prima che l’ippocampo (una struttura cerebrale della quale
parleremo più estesamente più avanti) si sviluppi, il cervello è in grado di registrare ricordi di tipo implicito i quali, se successivamente riattivati, non sono accompagnati da consapevolezza ma creano l’esperienza mentale di comportamenti, emozioni e percezioni (Siegel,
2001). La memoria implicita ha come contenuti schemi e modelli
mentali derivati dalla sintesi e dalla generalizzazione di tali esperienze;
essa si organizza a partire dall’attivazione dell’amigdala che presiede
alle emozioni; alla memorizzazione implicita delle esperienze affettive
partecipano l’amigdala, che presiede alle emozioni, le aree temporoparieto-occipitali dell’emisfero destro, i nuclei della base e il cervelletto (ib.). L’attivazione dell’amigdala porta all’attivazione dell’ipotalamo
laterale che, sollecitando il midollo rostrale-ventrale-laterale, stimola il
sistema nervoso autonomo. La midollare surrenale, che è la parte più
interna della ghiandola surrenale produce adrenalina; le sue emissioni
raggiungono il locus coeruleus che secerne noradrenalina le cui molecole passano la barriera ematoencefalica. Le aree temporo-parieto-occipitali della corteccia archiviano le esperienze depositate nella memoria implicita; nell’acquisizione di memorie procedurali (le cosiddette
abitudini) ha un ruolo importante il corpo striato che favorisce la costruzione di associazioni dirette tra input percettivi e sequenze motorie riguardanti l’avvio automatico dei movimenti (ib.).
Il completo sviluppo dell’ippocampo intorno alla fine del secondo
anno di vita permette lo sviluppo della memoria esplicita, che è accompagnata dalla sensazione interna precisa dello star ricordando e
permette di ricordare le esperienze nell’ordine in cui si sono verificate, permettendo lo sviluppo del senso del tempo e della successione
degli eventi; tali capacità sono legate alla maturazione del lobo temporale mediale che include l’ippocampo e la corteccia orbito-frontale
(ib.). L’ippocampo può essere definito un organizzatore cognitivo
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primario nel determinare lo sviluppo del senso di sé nel tempo e nello spazio. La sua maturazione è legata anche allo sviluppo della memoria autonoetica, ovvero di coscienza di sé stessi, mediata dalle aree
corticali frontali che, secondo Siegel (ib.), vanno incontro ad uno sviluppo esperienza-dipendente.
Il cervello è dunque costituito da connessioni nervose che rendono possibile l’apprendimento e la memoria; l’energia passa attraverso
reti di neuroni attivati che contengono informazioni immagazzinate
e/o recuperate attraverso cambiamenti a livello delle connessioni sinaptiche influenzati dall’esperienza. Lo sviluppo cerebrale esperienza-dipendente si riferisce ai meccanismi attraverso i quali le esperienze determinano il mantenimento, la creazione o il rinforzo dei collegamenti neuronali. In virtù di ciò le esperienze positive nei primi anni di vita costituiscono la base per l’espansione della neocorteccia,
per lo sviluppo e la formazione dei circuiti neuronali, per il rilascio
dei neurotrasmettitori e per tutti i meccanismi che prendono parte al
sistema emozionale legato al processo di memorizzazione (ib.).
7. Memoria, stress, emozioni: il ruolo dell’amigdala
L’amigdala è la struttura cerebrale responsabile dell’attivazione
emotiva conseguente alla percezione di un pericolo. Essa percepisce i
segnali dei neuroni che si trovano nella corteccia, in maniera conscia
o subliminale preconscia (LeDoux, 2002).
L’amigdala manda segnali ad una serie di regioni cerebrali, facendo abbondante uso di una neurotrasmettitore chiamato ormone di rilascio della corticotropina; sono sollecitati i neuroni che portano dall’a. verso il mesencefalo ed il tronco encefalico, ossia le strutture responsabili del sistema nervoso autonomo. L’attivazione dell’amigdala
fa sì che il sistema nervoso simpatico ordini alle ghiandole di secernere adrenalina il che provoca effetti quali tachicardia, ecc.
L’amigdala è implicata nell’amplificazione emotiva della memoria
esplicita: le sue efferenze provocano il rilascio di ormoni da parte
della ghiandola surrenale che ritornano al cervello, rivestendo un
ruolo fondamentale nel processo di retroazione (LeDoux, 2002).
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L’amigdala per mezzo delle sue connessioni con l’ippocampo e
con altre regioni del sistema mnestico esplicito potenzia il processo
di consolidamento delle memorie esplicite che si sono formate durante un arousal emozionale, nei circuiti dell’ippocampo. Se l’arousal
è troppo intenso la memoria può essere compromessa. In che modo?
Lo stress compromette la memoria esplicita mutando il funzionamento dell’ippocampo poiché, in condizioni di forte stress, aumenta
la concentrazione di cortisolo nel circolo ematico (Siegel, 2001). Il
cortisolo si diffonde nel cervello e si lega ai recettori dell’ippocampo
provocando un disturbo dell’attività ippocampale, che compromette
le capacità del sistema mnestico del lobo temporale di formare le memorie esplicite (ib.). Nel caso in cui lo stress permane, le cellule ippocampali cominciano a degenerare ed alla fine muoiono.
La percezione dello stress da parte dell’amigdala regola la secrezione di adrenalina e glucocorticoidi, che attivano il locus coeruleus (nucleo del tronco cerebrale i cui neuroni producono adrenalina e noradrenalina), il quale a sua volta invia all’amigdala potenti segnali di attivazione che la stimolano all’attivazione della produzione di CRH (fattore di rilascio della corticotropina), che porta alla secrezione di più
adrenalina e glucocorticoidi, formando un circolo vizioso tra la mente
ed il corpo (ib.). Gli ormoni dello stress influiscono sul funzionamento
della corteccia orbitofrontale e sembrano contribuire a far sì che le
persone sotto stress prendano cattive decisioni; in contrasto con i suoi
effetti sull’ippocampo e sulla corteccia, un intenso stress sembra potenziare l’intervento dell’amigdala in situazioni di paura (ib.).
La presenza di glucocorticoidi può disturbare la formazione della
memoria dell’ippocampo e far sì che i neuroni ippocampali si atrofizzino e perdano alcune delle loro numerose ramificazioni determinando difficoltà ad apprendere ed a ricordare (ib.). Lo stress ed i glucocorticoidi possono dunque impedire la formazione e la crescita di
nuove cellule nervose (ib.). La neurogenesi nell’ippocampo, anche in
individui adulti, può essere influenzata da diversi fattori quali l’apprendimento e l’attività fisica (approfondiremo quest’argomento nel
corso del lavoro).
L’amigdala ha connessioni dirette con l’ippocampo, che è la struttura responsabile della componente esplicita dei ricordi sia di eventi
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emozionali, sia del contesto ambientale e dei particolari sensoriali
che accompagnano eventi emozionali passati. La stimolazione indotta dall’esperienza relazionale attiva contemporaneamente l’ippocampo e l’amigdala, due diversi tipi di memoria che si fondono insieme,
dando origine al ricordo dell’evento come rappresentazione ed immagine mentale di esperienze personalmente coinvolgenti (ib.).
8. Psicobiologia dell’attaccamento
Ciò che segue è una serie di riflessioni sul corpus di conoscenze
esistenti sugli aspetti psicobiologici delle relazioni interpersonali, la
prima e più importante delle quali è l’attaccamento. Ci soffermeremo
in seguito sul rapporto tra attaccamento e stress; saranno poi evidenziate le implicazioni di tali studi in campo educativo.
Sappiamo che l’attaccamento si basa su meccanismi cerebrali che
spingono il bambino a cercare la vicinanza dei genitori ( o delle persone che principalmente si prendono cura di lui) e a stabilire una comunicazione con loro, instaurando rapporti che influenzano lo sviluppo e l’organizzazione dei suoi processi motivazionali, emotivi e
mnemonici.
Da un punto di vista evolutivo tale sistema comportamentale aumenta le possibilità di sopravvivenza del bambino; a livello della mente le relazioni di attaccamento aiutano il suo cervello ancora immaturo
a coordinare le sue attività attraverso i processi cerebrali del genitore.
Gli scambi emotivi che caratterizzano un rapporto d’attaccamento
sicuro, implicano che l’adulto sia in grado di reagire in maniera pronta e adeguata ai segnali trasmessi dal bambino, con risposte che favoriscono l’amplificazione di stati emozionali positivi e facilitano il controllo di quelli negativi. In particolare, i genitori possono aiutare i
bambini a ridurre l’impatto di sensazioni spiacevoli come paura, ansia, o tristezza, fornendo un senso di sicurezza che contribuisce a calmarli, quando sono turbati. Esperienze ripetitive sono registrate dalla
memoria implicita generando attese, e quando schemi o modelli mentali d’attaccamento che portano allo sviluppo di quella che Bowlby
(1983) ha definito come una “base sicura” per affrontare il mondo.
100
Numerosi studi condotti in questo campo hanno dimostrato che i
diversi tipi di relazioni d’attaccamento che si stabiliscono durante
l’infanzia corrisponde lo sviluppo di caratteristiche specifiche in termini di regolazione delle emozioni, capacità sociali, memoria autobiografica, funzione riflessiva e processi narrativi. Per descrivere qualitativamente la natura dell’attaccamento sono utilizzati i termini “sicuro” e “insicuro”, definendo così due categorie generali che comprendono tutta una serie di situazioni intermedie possibili.
Il sistema dell’attaccamento svolge molteplici funzioni. Nel bambino, l’attivazione di questi processi porta a cercare la vicinanza del
caregiver, ricerca che gli consente di essere protetto nei confronti di
pericoli di vario genere – mancanza di cibo, variazioni termiche sfavorevoli, incidenti, calamità naturali, attacchi da parte di altri individui o separazione dal gruppo.
Per questi motivi, i meccanismi di attaccamento sono estremamente sensibili alle indicazioni di pericolo: l’esperienza soggettiva interna che si accompagna alla loro attivazione è quindi spesso associata a sensazioni di paura o ansietà. Può essere scatenata da avvenimenti che per qualche motivo spaventano il bambino, oppure dal timore di essere separato dalla figura di attaccamento.
Oltre a svolgere un ruolo cruciale nell’aiutare il bambino ad organizzare le sue esperienze, i rapporti d’attaccamento influenzano profondamente lo sviluppo dei suoi circuiti neurali, e hanno effetti diretti sulla maturazione delle attività cerebrali che mediano processi
mentali fondamentali: memoria narrativa, autobiografica, emozioni,
rappresentazioni e stati della mente (Siegel, 2001).
Queste relazioni emotivamente importanti costituiscono la base
sulla quale poi si sviluppa la nostra mente. In questo senso, un attaccamento insicuro può rappresentare un fattore di rischio indicativo
per quanto riguarda il successivo manifestarsi di condizioni psicopatologiche; al contrario, relazioni di attaccamento sicuro nei primi anni di vita sembrano favorire lo sviluppo di forme di regolazione emotiva (ib.). Le esperienze influenzano i processi della mente durante
l’intero corso della nostra esistenza: quelle che si verificano nei primi
anni di vita pongono le basi fondamentali delle nostre successive relazioni con il mondo; determinati tipi di relazioni precoci di attacca101
mento favoriscono la regolazione emotiva, la competenza sociale, le
funzioni cognitive e la capacità dell’individuo di reagire positivamente alle avversità (ib.).
Un attaccamento insicuro non porta necessariamente allo sviluppo di disturbi mentali, ma aumenta il rischio di disfunzioni psicologiche e sociali. La competenza sociale dei bambini con attaccamento
evitante è, ad es., gravemente compromessa.
Secondo studi recenti la deprivazione materna negli animali è associata a problemi di comportamento sociale che possono essere ridimensionati o risolti con la somministrazione di farmaci serotoninergici, sottolineando l’esistenza di un’influenza diretta delle esperienze di
attaccamento precoci sullo sviluppo del cervello. Il fatto che i problemi comportamentali riemergano con la sospensione del farmaco,
indica che essi sono radicati nei circuiti nervosi che controllano attività fondamentali, come il comportamento, la regolazione delle emozioni e le relazioni sociali (ib.).
Tali osservazioni ricordano che un’eventuale risposta positiva ad
un farmaco non è sufficiente per considerare una disfunzione di natura genetica e non legata alle esperienze dell’individuo: le esperienze
precoci plasmano la struttura e le funzioni del cervello influenzando
le modalità con cui i geni sono espressi (Kandel, 2007).
Anche se i fattori genetici possono portare ad una particolare vulnerabilità nei confronti di un dato disturbo, i fattori ambientali giocano un ruolo cruciale nel determinare le modalità con cui si manifestano i sintomi della malattia.
Dopo la nascita, le componenti ambientali influenzano in maniera
importante la formazione delle connessioni sinaptiche (Siegel, 2001).
I genitori e le altre figure di attaccamento diventano, quindi, gli artefici principali dei processi con cui le esperienze del bambino influenzano lo sviluppo, geneticamente programmato ma esperienza-dipendente, del suo cervello. Il potenziale genetico è espresso all’interno di
esperienze sociali che esercitano effetti diretti sulle modalità con cui
le cellule nervose sono collegate tra loro: in questo modo le connessioni umane portano alla creazione di connessioni neurali. Il fatto
che l’aver subito esperienze traumatiche in età precoce porti ad un
rischio particolarmente elevato di sviluppare disturbi emotivi, ha una
102
base neurobiologica (ib.). In questo periodo infatti la sovrapproduzione di sinapsi è controllata geneticamente, ma il loro mantenimento o la loro eliminazione dipende direttamente da fattori di natura
ambientale.
Chiaramente, ciò implica che negli individui in cui il sistema limbico è di per sé geneticamente programmato ad una sottoproduzione
di sinapsi, il sovrapporsi di condizioni di sviluppo che inducono
un’eccessiva eliminazione di terminazioni sinaptiche porta allo stabilirsi di un quadro ad alto rischio (ib.).
Esperienze traumatiche possono avere effetti tossici diretti sul cervello del bambino: gli ormoni secreti in risposta allo stress determinano fenomeni di morte neurale a livello dei circuiti fondamentali
delle aree limbiche e neocorticali responsabili dei processi di regolazione delle emozioni. Se esperienze di questo genere s’inseriscono in
un quadro di “sottoproduzione sinaptica” geneticamente determinato, il risultato finale sarà una particolare vulnerabilità nei confronti di
disturbi emotivi: geni ed esperienze interagiscono nel creare condizioni di rischio per lo sviluppo di patologie successive, rischio che
viene alla fine espresso a livello dei circuiti cerebrali (ib.).
Una serie di ricerche condotte su animali ha evidenziato che cure
parentali attente ed affettuose facevano diminuire nell’intero corso
dell’esistenza dell’animale la risposta dell’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene), sistema il cui prodotto finale è il rilascio di ormoni glucocorticoidi da parte della ghiandola surrenale in risposta agli eventi
stressanti. I cuccioli accuditi in modo adeguato sono meno vulnerabili alle malattie da stress (ib.).
Inoltre, separazioni prolungate madre-bambino producono un incremento dei glucocorticoidi che produce effetti negativi sull’ippocampo: si è visto che uno stress negativo prolungato produce atrofia
dei neuroni dell’ippocampo. Ciò provoca un deterioramento irreversibile della memoria nel potenziamento a lungo termine, un meccanismo essenziale nel consolidamento delle connessioni sinaptiche legate all’apprendimento. Gli animali che sperimentano in età precoce
lunghi periodi di separazione dalla madre, crescono ansiosi, aggressivi e leggermente più vulnerabili alla dipendenza da sostanze (ib.).
103
9. Attaccamento, stress e sistema immunitario. Implicazioni educative
Si è visto che il potenziale genetico di un individuo viene espresso
all’interno di esperienze sociali che esercitano effetti diretti sulla modalità in cui le cellule nervose vengono collegate fra loro e che le connessioni umane portano alla creazione di connessioni neuronali.
Secondo Siegel (2001) le esperienze traumatiche possono avere effetti tossici diretti sul cervello: gli ormoni secreti in risposta allo stress
determinano fenomeni di morte neuronale a livello dei circuiti fondamentali delle aree limbiche e neocorticali responsabili dei processi di
regolazione delle emozioni. Il risultato finale sarà una particolare vulnerabilità a disturbi emotivi: geni ed esperienze interagiscono nel
creare condizioni di rischio per lo sviluppo di patologie successive, rischio che viene alla fine espresso a livello di circuiti cerebrali (ib.).
Uno stress molto intenso, quale quello indotto da una relazione di
attaccamento disturbata, può provocare un blocco delle funzioni
mnemoniche. Tale effetto è mediato dai processi neuroendocrini con
cui l’organismo reagisce normalmente allo stress attivando l’asse ipotalamo-ipofisario-adrenocorticale che prevede una liberazione immediata e transitoria di noradrenalina ed una risposta più prolungata
mediata dagli ormoni glucocorticoidi come il cortisolo (ib.). I glucocorticoidi, secondo studi recenti, hanno un effetto diretto sull’ippocampo che presenta un’alta densità di recettori specifici per questi
ormoni. Uno stress molto forte può determinare un blocco transitorio delle sue funzioni (ib.).
Uno stress continuato può invece indurre un’alterazione dei normali ritmi quotidiani di secrezione, con livelli ormonali che risultano
cronicamente elevati ; ciò può portare ad un inibizione della crescita
neuronale e a processi di tipo degenerativo a carico dei dendriti (Freberg, 2007).
Tali fenomeni sono inizialmente reversibili; se però l’esposizione
ad alte concentrazioni di glucocorticoidi persiste nel tempo, possono
subentrare anche fenomeni di morte neuronale. In pazienti affetti da
disturbo post-traumatico da stress di è osservata una riduzione del
volume dell’ippocampo (ib.). Gli individui caratterizzati da pattern
104
di attaccamento sicuro hanno una diminuzione della risposta dell’asse HPA – il livello plasmatico dei glucocorticoidi – ad una varietà di
agenti stressanti ed una conseguente diminuzione delle malattie da
stress. Invece, le esperienze negative precoci di attaccamento incrementano l’espressione genica del fattore di liberazione delle corticotropine CRF, l’ormone rilasciato dall’ipotalamo che attiva la risposta
dell’asse HPA (ib.).
Uno stress ripetuto provoca atrofia dei neuroni dell’ippocampo
che hanno recettori dei glucocorticoidi. Tale atrofia è reversibile se
l’esposizione è discontinua, ma se è permanente essa provoca un deficit a livello cellulare, nel cosiddetto potenziamento a lungo termine.
L’espressione dei recettori per i glucocorticoidi che si determina nelle
situazioni di attaccamento insicuro si traduce in una maggiore vulnerabilità futura a stress (ib.).
I correlati biologici dell’attaccamento sono anche legati ai livelli di
ossitocina e ai sistemi serotoninergici. Per tale motivo la perdita o il
lutto scatenano la seguente tempesta biochimica: il turnover delle
monoamine cerebrali viene modificato dando luogo a fenomeni di
apoptosi, produzione di ossido nitrico, fosforilazione proteica. Tali
fenomeni si evidenziano anche nelle neuroimmagini ottenute dal cervello sotto stress (Biondi, 2008).
Circa la riformazione della serotonina in seguito ad un grande dispendio di essa, occorre precisare che essa non si riforma in tempi
brevi come la dopamina e la noradrenalina e ciò può dar luogo ad un
vero e proprio stato di esaurimento delle risorse funzionali. Nell’animale separato sperimentalmente cambiano sensibilità e numero dei
recettori postsinaptici per la serotonina creando una situazione simile
a quella di soggetti umani depressi (ib.).
La teoria dell’attaccamento ha attratto anche l’interesse della psicoimmunlogia. Sembra infatti che lo stress psicologico conseguente
ad una modalità di attaccamento insicuro determini anche modificazioni della funzione immune. In “Mente, cervello e sistema immunitario”, Biondi spiega il rapporto esistente tra stress oggettivo e parametri immunitari (es. riduzione della capacità rosettante dei linfociti). Studi recenti evidenziano interessanti legami tra attaccamento sicuro e salute. L’attaccamento insicuro è stato associato non solo alla
105
presenza di disordini mentali ma anche di malattie fisiche e ad alterazioni delle reattività endocrina allo stress. Sebbene la relazione tra
stile d’attaccamento e funzione immune non sia stata ancora oggetto
di moltissimi studi, ne citiamo uno di Picardi et. alii (2007), apparso
in Psychosomatic Medicine, dal titolo “Atttachment security and immunity in healthy women” che esplora la relazione tra stile di attaccamento e parametri immunitari in donne sane. Considerato che l’attaccamento insicuro è associato a peggiori condizioni di salute e ad
un’alterata reattività psicofisiologica, tale studio ipotizza che esso sia
correlato con un’immunità più bassa. Sono stati considerati i fattori
psicosociali associati all’immunità o alla salute (stress percepito, supporto sociale, alessitimia), e vari comportamenti relativi alla salute
che influenzano la funzione immune (esercizio fisico, qualità del sonno, fumo, alcool, uso di farmaci). Alla luce dei risultati appare che i
soggetti (donne) con stile di attaccamento insicuro in situazione di
stress si percepivano scarsamente supportate nelle relazioni significative e ciò era associato con peggiori condizioni di salute ed un abbassamento della risposta immunitaria; lo stile di attaccamento evitante
era inoltre legato ad una inefficace ricerca di supporto, alla percezione di ricevere scarso supporto dal partner e predisponeva all’isolamento sociale, il maggior fattore di rischio associato con una ridotta
attività delle cellule natural killer (NK). Le spiegazioni psicobiologiche legate all’associazione tra l’attaccamento evitante e la ridotta funzione delle cellule natural killer fanno capo alla relazione tra stile di
attaccamento e regioni cerebrali associate con la memoria e la regolazione delle emozioni. L’attaccamento insicuro può influenzare la regolazione dello stress ed è in relazione alla reattività endocrina allo
stress. I mediatori possibili dell’associazione tra l’attaccamento evitante e la ridotta funzione NK sono il cortisolo, che inibisce la lisi
mediata dagli NK delle cellule bersaglio, le citochine e le proteine legate allo stress, le metallotionine e le macroglobuline alfa-2, che possono indurre morte cellulare e ridurre la biodisponibilità dello zinco
che è fondamentale per il normale sviluppo e la funzione delle NK.
Tali studi suggeriscono che lo stile di attaccamento insicuro e lo
stress emotivo che ne deriva, è un fattore di rischio per la salute.
Dunque la problematicità o la rottura dei legami affettivi porta ad
106
un’aumentata vulnerabilità alla malattia e ad un’aumentata morbilità.
Anche la vulnerabilità alle malattie cardiache sembra altresì essere
correlata alla mancanza di supporto sociale. Ciò implica anche che lo
stile di attaccamento sicuro sia un fattore protettivo.
Lo sviluppo di un attaccamento sicuro si basa su interazioni continue e coerenti tra educatore ed educando. Se i momenti di corrispondenza e d’intensa comunicazione emotiva sono rari perché l’educatore non può assicurare la presenza, la sua figura non è per l’educando fonte di sicurezza e conforto. La presenza costante dell’educatore, che in virtù di ritmi lavorativi adeguati è capace di stabilire
una comunicazione efficace e collaborativa, prevede la sintonizzazione reciproca degli stati psicobiologici ed uno scambio d’influenze
che amplificano gli stati affettivi positivi e riducono quelli negativi,
permettendo all’educando di creare modelli interni sicuri che permettono lo sviluppo di aspettative positive nei confronti di interazioni interpersonali successive. L’educando interiorizza la relazione con
l’educatore in un modello operativo di attaccamento.
Se a questo modello interno corrisponde un senso di sicurezza, l’educando sarà in grado di esplorare il mondo, di maturare e di separarsi dall’educatore in maniera “sana”; al contrario, se la relazione di
attaccamento è problematica, il modello operativo interno che ne deriva non fornirà all’educando una base sicura e avrà effetti negativi
sullo sviluppo dei suoi comportamenti (in termini di curiosità, attitudini esplorative o interazioni sociali). Ovviamente se le circostanze
cambiano, un attaccamento sicuro può diventare insicuro, e viceversa.
Abbiamo visto che l’attaccamento è il termine usato per descrivere la tendenza dell’educando a cercare il contatto stretto con gli educatori di riferimento e a sentirsi più sicuri se esse sono presenti. Numerosi studi hanno comprovato che se la relazione d'attaccamento è
risolta positivamente, se l’educando percepisce con sicurezza che l'adulto si prende cura di lui e lo accompagna e lo supporta nella scoperta del mondo, in lui si manifesta un corretto comportamento
esplorativo. Dunque la risoluzione della relazione d'attaccamento e il
corretto comportamento esplorativo sono quei processi dinamici che
porteranno ad uno sviluppo armonico della personalità e, in ultima
analisi, a bambini, adolescenti e giovani sani, felici, fiduciosi in se
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stessi e in grado di inserirsi con successo nell’ambiente che li circonda. Se invece la relazione d'attaccamento è insicura, ambivalente, si
manifesta una crescente difficoltà nell’esplorare lo spazio esterno,
nell'entrare in relazione, nell'affrontare nuove esperienze, nel perseguire con fiducia la ricerca di soluzioni, nel chiedere aiuto. I bambini, incerti e insicuri, diverranno adolescenti e giovani con disagi nel
processo di costruzione e affermazione della propria identità e nello
stabilire relazioni con l’ambiente circostante. L’esistenza di tali elementi critici nello sviluppo infantile, ai quali bisogna porre particolare attenzione, è, seppure in maniera implicita, oggi una conoscenza
diffusa. In minor grado è diffusa la consapevolezza che esistano, in
parallelo con quelli dell’educando, altrettanti elementi critici nell'educatore, al quale bisogna offrire un adeguato sostegno per garantirgli maggiore serenità. A questo proposito ecco dei passi tratti dal testo “Una base sicura: applicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento” di John Bowlby (1983). Il paragrafo verte sull'essere genitori:
Ad un certo punto della loro vita, io credo, la maggior parte degli esseri
umani desidera avere dei figli e desidera che essi crescano sani, felici e
fiduciosi in sé ... per coloro che non riescono ... le pene sotto forma di
angoscia, frustrazione, attrito, e forse anche vergogna o colpa, possono
essere severe ... Essere genitori con successo significa lavorare molto duramente. Occuparsi di un neonato o di bambino che fa i primi passi significa essere impegnati ventiquattro ore al giorno per sette giorni alla
settimana e spesso crea molte preoccupazioni. E se il carico di attenzione si allevia man mano che i bambini crescono, se si vuole che crescano
bene è ancora necessario fornire moltissimo tempo e moltissime attenzioni. Voglio anche rilevare che occuparsi di un neonato o di un bambino non è un compito per una persona singola. Se il lavoro deve essere
fatto bene, se si vuole che la persona che si occupa primariamente del
bambino non sia troppo esausta, chi fornisce le cure deve ricevere a sua
volta assistenza. Nella maggior parte delle società del mondo questi fatti erano dati per scontato e la società si organizzava di conseguenza ...
varie persone potevano offrire il loro aiuto ... l’aiuto poteva provenire
da una nonna, ... potevano essere coinvolte nell'assistenza ragazze adolescenti o giovani donne. Paradossalmente ci sono volute le società più
ricche del mondo per ignorare questi fatti fondamentali. Le forze del108
l’uomo e della donna contano come attivo in tutti i nostri indici economici. Le forze dell’uomo e della donna dedicate alla produzione, nella
propria casa, di bambini sani, felici e fiduciosi in se stessi non contano
affatto.... Il motivo per cui ho sollevato questi argomenti è per ricordare
... che esiste il rischio di adottare norme sbagliate ... di considerare uno
stato normale quello in cui i genitori dei bambini vengano abbandonati
a se stessi in una cronica insufficienza di aiuto… È importante fornire
una base sicura da cui il bambino o un adolescente possa partire per affacciarsi al mondo esterno e a cui possa far ritorno sapendo per certo
che sarà il benvenuto, nutrito sul piano fisico ed emotivo, confortato se
triste, rassicurato se spaventato. In sostanza il ruolo del genitore consiste nell’essere disponibile. Pronti a rispondere quando chiamati in causa, per incoraggiare e dare assistenza ma intervenendo attivamente solo
quando è chiaramente necessario. Nel caso di bambini e adolescenti,
noi li vediamo, man mano che crescono, avventurarsi sempre di più
lontano dalla base e per periodi di tempo sempre maggiori. Più hanno
fiducia che la loro casa sia un luogo sicuro a cui fare ritorno, più lo danno per scontato, più aumenta la loro capacità di avventurarsi nel mondo con fiducia”.
Da quanto letto emerge come, in realtà, possa essere difficile il ruolo dell’educatore: se non si assolve ad esso positivamente ciò genera in
lui un grande senso di frustrazione, di inadeguatezza che si riversa in
tutte le sue relazioni sociali comprese quelle lavorative. L’educatore deve essere messo nelle condizioni di potersi occupare dell’educando, di
poter mettere in atto dei comportamenti favorenti il suo sviluppo psichico, biologico, sociale e morale e rispettosi della sua dimensione
emotiva e affettiva. Per un corretto sostegno all’educatore occorre dargli il tempo di dedicarsi all’educando e preservargli la possibilità d’essere presenza attiva nella sua vita. Ad una base sicura per l’educando
corrisponde una base sicura per l’educatore. Un educatore messo in
condizioni di prendersi cura degli educandi è un investimento che la
società fa sulle generazioni future. Grazie ad esperimenti ai quali si è
già accennato prima, effettuati su varie generazioni di animali, è plausibile pensare che in un bambino, a livello biologico, la cura affettuosa
crei una sorta di predisposizione ed aumentino le probabilità nel futuro di fare altrettanto. Di fatto si è osservato che negli animali l’ossitoci109
na, un ormone fondamentale per la prestazione di cure materne adeguate, è presente in quantità elevate in animali femmine che hanno ricevuto alti livelli di cure materne; viceversa in un animale femmina che
ha ricevuto scarse cure materne la produzione di ossitocina o non è
elevata o, seppure elevata, non produce effetto. A livello neurale, ovvero delle cellule del cervello, avviene che bassi livelli di cure creano in
un cucciolo pochi recettori di ossitocina e, quando sarà adulto e diventerà genitore, anche se avrà un’elevata produzione di tale ormone, non
avrà i recettori per recepirla (Ridley, 2005).
L’ambiente nel quale educatori ed educandi sono immersi deve essere un ambiente sereno, nel quale sia possibile rilassarsi, non caratterizzato da livelli eccessivi di stress. Un educatore eccessivamente
stanco non potrà, come deve, mentre è con l’educando, interessarsi a
ciò che fa e dice, compito particolarmente oneroso per un educatore
che ha giornate lunghe e difficili (per questo motivo si rivelano particolarmente importanti le misure a favore dell’assistenza al genitore
lavoratore nel caso di famiglie monoparentali o i programmi di prevenzione del burnout per gli insegnanti).
In virtù del meccanismo già descritto dei neuroni specchio, un
educando percepisce immediatamente gli stati emotivi delle figure
adulte di riferimento, comprendano subito egli è realmente compartecipe o meno dei suoi racconti o dei suoi giochi. La possibilità che
l’educando esplori sereno il mondo circostante, allontanandosi via
via sempre di più dalla propria figura di attaccamento, sia in termini
di distanza che in termini di tempo ( dapprima saranno poche ore,
poi mezze giornate, giorni interi o mesi) dipende dal perdurare della
sensazione della casa base sicura alla quale tornare e alla quale faceva
riferimento John Bowlby. Nella costruzione della “casa base”, il mattone fondamentale è il racconto: il bambino, l’adolescente, il giovane
uomo sa che potrà tornare e trovare un ascolto attento e responsivo.
Bisogna dunque essere consapevoli, nel supportare gli educatori,
che il tempo sociale che si investe nell’educazione è un tempo sociale che si recupera ampiamente nelle fasi successive: un bambino
sicuro e sereno ha maggiori probabilità di non essere un adolescente o un giovane adulto che mette in atto atteggiamenti aggressivi
e/o antisociali.
110
Avere una presenza attiva significa affiancare l’educando con rispetto e cura nelle situazioni che l’educando è chiamato a vivere. L’educatore deve poter far percepire la propria rassicurante presenza sia
nelle attività quotidiane che nei momenti significativi dell’esistenza.
Gli effetti negativi di relazioni educative di tipo ambivalente, insicuro
o evitante, in famiglia o a scuola, hanno ampi margini di recupero se
vengono corretti con la creazione di condizioni ambientali adatte nel
periodo infantile o prepuberale. Essendovi dopo la pubertà un grado
di plasticità inferiore rispetto ai periodi precedenti l’effetto degli interventi rieducativi e correttivi, pur potendo essere efficace, ha tempi
e modalità più lunghi, che passano spesso attraverso dolorosi percorsi psicoterapeutici che comportano costi economici ed umani.
10. Psicobiologia della relazione: cervello ed empatia
Recenti ricerche sull’empatia (Rizzolatti, 2006) ne hanno esplorato
il versante neurofisiologico, fondamento biologico naturale, preverbale e prerazionale dell’intersoggettività. Le tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale (FMRI, risonanza magnetica nucleare funzionale) hanno permesso la scoperta di neuroni specchio, localizzati
in diverse zone dell’encefalo.
Compiere un’azione o immaginare di compierla, sperimentare un’emozione o assistere all’espressione emozionale altrui attiva le stesse
aree cerebrali. Osservare un soggetto che soffre provoca un’attivazione
automatica del lobo dell’insula e della corteccia cingolata anteriore: le
aree del cervello sono coinvolte come se il dolore non derivasse dall’empatia ma fosse un dolore fisico intenso e reale (Singer, 2004).
Anche quando il soggetto del quale si studia la reazione viene separato dalla persona della cui sofferenza può essere consapevole, non
mediante l’osservazione diretta ma guardando una lancetta che indica i livelli del dolore (il soggetto immagina il dolore dell’altro), le
aree cerebrali del dolore si attivano ugualmente. Dunque vi è un’attivazione del sistema limbico e delle aree corticali ad esso connesse,
non periferica, indipendente dalla stimolazione sensoriale.
Nel sentire il dolore circuiti e centri sensori ed affettivi del dolore
111
nel cervello sono separati: il cervello sente dolore anche se gli organi
sensoriali non sono attivati (Biondi, 2008). Tentare di ignorare stimoli potenzialmente dolorosi costa ugualmente: neanche la rimozione è
indolore. Anzi, quando la mente cerca di sopprimere una reazione
c’è un uguale consumo neurotrasmettitoriale e possibilità di somatizzazione (legata alla mancata elaborazione di contenuti inconsci).
Tutto ciò dimostra l’impossibilità di scindere e la strettissima
interconnessione tra emotività-affettività e razionalità in qualsivoglia relazione di cura e, nella fattispecie, in quella educativa, il cui
coinvolgimento comporta costi emotivi, costi in molecole, attivazione recettoriale ed impegno nel rimettere in moto i circuiti
(Biondi, 2008).
La capacità di comprendere gli altri in quanto agenti intenzionali,
lungi dal dipendere esclusivamente da competenze mentalistico-linguistiche, è fortemente dipendente dalla natura relazionale del comportamento. Secondo questa ipotesi è possibile conseguire una comprensione esperienziale diretta del comportamento altrui sulla base
di un’equivalenza motoria tra ciò che gli altri fanno e ciò che fa l’osservatore.
Il sistema di neuroni specchio è verosimilmente il correlato neurale di questo meccanismo, descrivibile in termini funzionali come simulazione incarnata (Gallese, ). L’azione, tuttavia, non esaurisce il
ricco bagaglio di esperienze coinvolte nelle relazioni interpersonali:
ogni relazione interpersonale implica infatti la condivisione della
molteplicità di stati, quali l’esperienza di emozioni e sensazioni. Ciò
si basa proprio sul fatto che le stesse strutture nervose coinvolte nell’analisi delle sensazioni e delle emozioni esperite in prima persona
sono attive anche quando tali emozioni e sensazioni vengono riconosciute negli altri.
Un simile meccanismo sembra essere attivo anche durante l’apprendimento imitativo e la comunicazione linguistica: sembra quindi
che una molteplicità di meccanismi di rispecchiamento siano presenti
nel nostro cervello. Il concetto di consonanza intenzionale implica
che in chi osserva vi sia un’attivazione della rappresentazione degli
stati corporei associati a quelle stesse azioni, emozioni e sensazioni
come se lui stesso ne stesse facendo esperienza diretta.
112
Ciò indica che vi sono notevoli implicazioni circa la ricchezza e la
molteplicità delle esperienze derivanti dalla relazione con gli altri e
che grazie alla consonanza intenzionale riconosciamo gli altri come
nostri simili e stabiliamo una comunicazione intersoggettiva ed una
comprensione implicita degli stati mentali altrui. Il circuito neuroni
specchio – simulazione incarnata – consonanza intenzionale sarebbe
dunque un meccanismo implicito di modellizzazione di oggetti ed
eventi, automatico ed irriflesso con cui l’organismo interagisce.
L’architettura funzionale della simulazione incarnata, originariamente scoperta con i neuroni specchio nel dominio delle azioni, è
una caratteristica di base del nostro cervello che rende possibili le
nostre ricche e diversificate esperienze intersoggettive.
Quanto detto ha a che fare anche con gli studi sulla Teoria della
Mente, definita come capacità di attribuire stati mentali all’altro
(pensieri, intenzioni, affetti, desideri). Essa matura nella prima infanzia e si modula sull’apprendimento: è essenziale per le interazioni sociali, ha la sua base tecnica nell’empatia ed ha circuiti cerebrali
che sono la corteccia del lobo dell’insula, la corteccia cingolata, l’amigdala, l’ippocampo, snodi e punti di un circuito che appartiene
al cervello sociale. Ad es., un grado di empatia maggiore comporta
una maggiore attivazione della corteccia insulare e della corteccia
cingolata anteriore.
La strada dalla sostanza biologica del funzionamento mentale è
dunque fortemente legata alla qualità della relazione di cura. Pertanto, la relazione educativa, che è la relazione di cura per eccellenza, si
concepisce anche in una dimensione biologica.
Si è visto che il corpo partecipa di ciò che accade a livello emozionale e che gli eventi di vita drammatici generano una tempesta neurochimica che può durare molto tempo (es. il disturbo post-traumatico da stress provoca un aumento del cortisolo e uno shrink, ovvero
un restringimento del volume dell’ippocampo probabilmente secondario ad apoptosi). Gli eventi traumatici sono dunque causa di danni
neuronali, così come si suppone che gli eventi connotati da alti livelli
di positività emozionale e relazionale siano capaci di riparare tali
danni ed “invertire” le rotte neurali senza interventi chirurgici o farmacologici.
113
11. La neuroplasticità
Gli esperimenti di Rosenzweig e Kempermann (2000) hanno dimostrato come gli ambienti ricchi di stimoli contribuiscano alla
crescita del cervello. Animali cresciuti in ambienti stimolanti circondati da altri animali, oggetti da esplorare, giochi da far rotolare, scale su cui arrampicarsi, ruote, imparano meglio di esemplari
identici dal punto di vista genetico allevati in ambienti poveri. I livelli di acetilcolina, neurotrasmettitore essenziale per l’apprendimento, sono più alti nei topi allenati a risolvere problemi più complessi. Negli animali l’esercizio mentale o l’ambiente stimolante
aumentano il peso della corteccia cerebrale del cinque per cento e
del nove per cento nelle aree direttamente interessate dagli stimoli.
I neuroni sottoposti a stimolazioni presentano uno sviluppo dendritico superiore del 25%, un aumento delle connessioni per ogni
singolo neurone, delle dimensioni e dell’afflusso sanguigno. Simili
effetti di arricchimento sull’anatomia cerebrale sono stati riscontrati in tutte le specie animali testate fino ad oggi. Nell’uomo le indagini postmortem hanno mostrato che l’educazione aumenta le
connessioni interneuronali. Un maggior numero di dendriti accresce la distanza tra i neuroni, aumentando così il volume e la densità del cervello. Grafman (cit. in Doidge, 2009) ha identificato 4 tipi di neuroplasticità:
1. Espansione della mappa che si verifica ai confini tra aree cerebrali
come risultato delle attività quotidiane. In ogni area del cervello
che svolge una certa attività sono i neuroni al centro dell’area ad
essere più impegnati nel compito. I neuroni più esterni sono molto meno coinvolti e questo fa sì che aree cerebrali adiacenti siano
in competizione fra di loro per arruolare “neuroni di confine”.Le
attività quotidiane determinano quale area cerebrale vinca la
competizione. Il neuroimaging ha evidenziato come le aree possano espandersi rapidamente, anche nel giro di pochi minuti, per rispondere alle esigenze del momento.
2. Riassegnazione sensoriale che si verifica quando un senso è
compromesso. (Quando la parte di corteccia preposta ad un
senso non viene stimolata da input esterni (come ad es. la cor114
teccia uditiva nella sordità, essa può ricevere input da un altro
senso, come la vista).
3. Mascheramento compensatorio, favorito dal fatto che ci sono
molti modi in cui il cervello può affrontare un compito e se ha
difficoltà o viene privato di una funzione utilizza strategie alternative che implicano funzioni non compromesse.
4. Sostituzione della regione speculare (quando un emisfero smette
di funzionare, la regione speculare dell’altro emisfero si adatta,
svolgendo come meglio può la funzione mentale compromessa).
Molti bambini trarrebbero beneficio da una valutazione mirata
delle aree cerebrali, così da identificare le funzioni deficitarie e quindi un programma che le rinforzi, un approccio ben più efficace e assai meno frustrante dell’insegnamento basato sulla semplice ripetizione di un compito (vedi p. 55) Possiamo immaginare quali sarebbero i
risultati ottenibili se ogni bambino venisse sottoposto ad una valutazione mentale mirata sulla cui base impostare un programma personalizzato per rinforzare le aree essenziali fin dai primi anni di vita,
quando la neuroplasticità è molto forte. Sarebbe molto meglio stroncare sul nascere i problemi anziché lasciare che il bambino si convinca di essere anormale o stupido, cominci ad odiare la scuola e l’istruzione e smetta di lavorare nelle aree compromesse, o sviluppi problemi emotivi e relazionali, vanificando così le proprie potenzialità.
Con opportune stimolazioni i bambini progrediscono più rapidamente degli adolescenti perchè in un cervello immaturo il numero di
connessioni neuronali o sinapsi è superiore al cinquanta per cento di
quelle di un cervello adulto. Nell’adolescenza il cervello mette in atto
un’operazione di radicale potatura. Le sinapsi o i neuroni che sono
stati utilizzati in maniera limitata improvvisamente muoiono, secondo i principio use or lose it, usalo o lo perderai.
La cosa migliore è rinforzare le aree più deboli finchè queste risorse corticali sono ancora disponibili. Inoltre, la valutazioni mentali
possono essere utili lungo l’intera carriera scolastica e finanche all’università quando molti studenti (chi scrive ne ha un’esperienza diretta) che pure hanno raggiunto buoni risultati all’età della scuola superiore, sono in difficoltà poiché le loro funzioni mentali sono sovraccaricate dalle maggiori prestazioni.
115
È vero che il grado di plasticità cerebrale dopo i primi anni di vita
e la maggiore/minore modificabilità di alcuni circuiti cerebrali nel
corso dell’esistenza sono questioni ancora aperte in campo neuroscientifico. Un recente contributo di Shors, “Sfida ai nuovi neuroni”
apparso su “Le Scienze” nel maggio 2009, illustra una straordinaria
scoperta: la neurogenesi, in particolare nell'ippocampo, continua anche in età adulta. La sopravvivenza dei nuovi neuroni è però legata al
loro utilizzo entro un paio di settimane: in quest’arco di tempo la
maggior parte dei nuovi neuroni è destinata a morire, a meno che il
soggetto sia stimolato a in attività nuove. Tale concetto era stato anticipato anche da Doidge (2009) che nell’opera “Il cervello infinito”
mostra le innumerevoli evidenze scientifiche di una neuroplasticità,
che, in tempi ed in modi diversi, perdura per tutta la vita ed è legata
proprio alla capacità di dedicarsi ad apprendimenti a carattere diverso da quelli già affrontati.
Dunque la mente è in grado di conservare le sue capacità di adattamento e di produzione di novità: per questo motivo, le esperienze
interpersonali possono contribuire ad alimentare i suoi processi di
sviluppo e ad indurre cambiamenti a livelli delle connessioni sinaptiche cerebrali anche in età adulta. Certo è che la completa assenza di
relazioni di attaccamento in età precoce o una storia di traumi importanti possono dar luogo ad alterazioni irreversibili delle strutture
neurobiologiche cerebrali. Com’è dunque possibile prevenire tali
esperienze? Se esse si sono già verificate, come migliorare le condizioni di tali individui?
Gli studi di Siegel sulla mindfulness tentano di dare risposta a
questa domanda.
12. Mindfulness, cervello ed educazione
Nel bellissimo libro Mindfulness e cervello, Siegel (2009) sostiene
che la cultura contemporanea ha dato vita ad un mondo tormentato
di individui alienati, scuole che non riescono a trasmettere alcuna
ispirazione né a relazionarsi con gli allievi e società prive di punti di
riferimento morali che orientino l’esistenza personale e comunitaria.
116
Il modus vivendi delle nuove generazioni è “sempre più distante
dalle interazioni umane che l’evoluzione della specie ha sancito come
necessarie per i nostri cervelli ma che non fanno più parte dei nostri
sistemi educativi e sociali. Le relazioni umane che ci aiutano a plasmare le relazioni tra i nostri neuroni sono drammaticamente poche
(…) Le vite frenetiche di molti di noi lasciano poco tempo anche per
sintonizzarci con noi stessi”. Gran parte dell’esperienza scolastica si
focalizza sull’acquisizione di capacità e conoscenze legate a contenuti
relativi alle diverse discipline. “Ma il benessere personale ed il comportamento prosociale richiedono la coltivazione della capacità di
comprendere sé stessi ed essere empatici fin da quando si è giovani,
qualità che emergono quando si apprende ad essere riflessivi. Questa
abilità della mente, che migliora la vita, si sviluppa come una capacità che promuove flessibilità e resilienza, in noi stessi e nelle relazioni
con altre persone . Gli ingredienti di base del benessere e del vivere
sociale compassionevole sono passibili di insegnamento. La riflessione è il sentiero comune per mezzo del quale i nostri cervelli sostengono queste capacità, le nostre relazioni si nutrono di esse e le nostre
menti possono raggiungere uno stato di sintonizzazione interna ed
armonia” (Siegel, 2009, p. 245).
Studi recenti hanno evidenziato come il benessere e la resilienza
siano promossi dalle relazioni di attaccamento sicuro e potenziate
dalla pratica di una consapevolezza che Siegel definisce “mindful”, la
quale attiva le funzioni di una specifica regione del cervello, la zona
mediale della corteccia prefrontale, che ha una funzione integrativa,
ovvero i suoi neuroni raggiungono aree distanti e differenziate del
cervello e del corpo. L’integrazione è il meccanismo di base comune
dei percorsi che portano al benessere.
Quando le relazioni educative promuovono la sintonizzazione tra
coloro che sono coinvolti (genitore-figlio, insegnante-allievo), ovvero la percezione reciproca di essere amati, tale comunicazione permette agli educandi di sviluppare i circuiti di regolazione del cervello che danno all’individuo una fonte di resilienza nel corso del tempo, in termini di autoregolazione e di impegno con gli altri in relazioni empatiche.
Le funzioni correlate all’attività dell’area mediale della corteccia
117
prefrontale sono nove: 1) regolazione corporea (coordinamento ed
equilibrio tra funzioni del sistema nervoso simpatico, che funge da
acceleratore e del sistema nervoso parasimpatico, che funge da freno); 2) comunicazione sintonizzata (coordinazione e risonanza degli
input che provengono da un’altra mente con l’attività della propria
mente); 3) equilibrio emotivo (attivazione delle aree limbiche in maniera emotivamente significativa e vitale ma non caotica); 4) flessibilità di risposta (valutazione degli stimoli, selezione tra varie opzioni, inizio dell’azione); 5) empatia (avvio di mutamenti del sistema
limbico e nel corpo avviati dalla percezione dei segnali di un’altra
persona i quali vengono interpretati e valutati sotto forma di immaginazione empatica di quello che sta accadendo nelle sua mente); 6)
insight (consapevolezza che connette il presente alla storia della nostra vita e alle immagini del nostro futuro, frutto dei collegamenti
tra zone corticali che fungono da magazzini mnestici e sistema limbico che dà loro una coloritura emotiva); 7) modulazione della paura (consentita dal rilascio del GABA, acido gamma aminobutirrico,
neurotrasmettitore inibitore che agisce sull’amigdala; la crescita
delle fibre prefrontali mediali può far sì che la paura sia disappresa); 8) intuizione (implica la registrazione degli input provenienti
dalle reti neurali che circondano i nostri organi interni che inviano
segnali alla corteccia prefrontale influenzando il ragionamento e le
reazioni: è ciò che comunemente definiamo “saggezza del corpo”);
9) moralità (il danneggiamento della regioni prefrontale mediale
determina una compromissione della capacità di agire per il bene
comune e non solo per il proprio).
Tali funzioni, secondo Siegel, sono ampiamente favorite dalla pratica di quella che egli definisce minduflness.
La mindfulness è l’esatto contrario del vivere in modo automatico,
ed implica la sensibilità alle novità delle nostre esperienze quotidiane. Essa può essere definita una ri-percezione (Shapiro et alii, 2006,
cit. in Siegel, 2008) che prevede autoregolazione dell’attenzione sull’esperienza immediata, permettendo un accresciuto riconoscimento
degli eventi mentali del momento presente ed un particolare orientamento verso le proprie esperienze nel momento presente caratterizzato da curiosità, apertura, accettazione.
118
Cinque sembrano essere i fattori sottesi alla mindfulness (Baer et
alii, 2006 cit. in Siegel, 2008): 1) non reattività all’esperienza interna
(percezione delle proprie emozioni e sentimenti senza costrizione a
reagirvi); 2) osservare/notare/occuparsi di sensazioni/percezioni/
pensieri/sentimenti; 3) agire con consapevolezza/concentrati/non distratti; 4) descrivere le proprie esperienze a parole; 5) atteggiamento
non giudicante nei confronti dell’esperienza.
La mindfulness è una capacità che può essere appresa tramite la
meditazione, le tecniche di respirazione, la focalizzazione sulla recettività dei sensi, la riflessività su sé stessi, la consapevolezza dell’intero
processo che porta alla conquista dell’ipseità, il nostro modo essenziale di essere al di sotto degli stati di pensiero e reazione, identità ed
adattamento.
Con la consapevolezza mindful, il flusso di energia ed informazioni che è la nostra mente entra nella nostra attenzione cosciente permettendoci di comprendere i suoi contenuti e regolare il suo flusso
in modo nuovo. Riflettendo sulla mente abbiamo la possibilità di fare
delle scelte e dunque di cambiare, guadagnandone in calma ed in
saggezza. Il modo in cui focalizziamo la nostra attenzione ci aiuta
dunque a modellare direttamente la nostra mente, migliorando il modo in cui regoliamo le nostre emozioni, riducendo gli assetti mentali
negativi, favorendo la capacità di guarigione, le risposte immunitarie,
la reattività allo stress, l’empatia.
La consapevolezza mindful può modellare direttamente l’attività e
la crescita delle parti del cervello responsabili delle nostre relazioni,
della nostra vita emotiva e della risposta fisiologica allo stress.
13. L’apprendimento mindful
La mindfulness nell’apprendimento e nell’educazione (Langer,
2000 cit. in Siegel, 2008), consiste nell’offrire il materiale in uno stile
condizionale anziché come una serie di verità assolute: ciò lascia in
uno stato sano di incertezza che dà vita ad una capacità attiva di imparare cose nuove; in questo modo la mente si mantiene aperta rispetto ai contesti in cui le nuove informazioni sono utili.
119
Il coinvolgimento degli studenti in questo processo è possibile se
gli studenti pensano che il loro atteggiamento plasmerà la direzione
dell’apprendimento in direzione dell’apertura alle novità, attenzione
alle differenze, sensibilità ai diversi contesti, consapevolezza delle
molteplici prospettive esistenti ed orientamento al presente. Considerare tali dimensioni della mindfulness permette agli studenti di ampliare ed approfondire la natura dell’apprendimento in tutta la loro
carriera di discenti (Siegel, 2008).
Nell’apprendmento mindful la mente si libera da conclusioni e categorizzazioni premature e da modi routinari di percepire e di pensare ed entra in uno stato flessibile della mente in cui notiamo attivamente cose nuove, siamo sensibili al contesto e ci impegnamo nel
presente. La molteplicità di prospettive, l’attenzione alle novità, il
contesto e la creazione di categorie nuove sono l’essenza dell’apprendimento mindful. Se affrontiamo le situazioni con una mente aperta
ci divertiamo di più e viviamo più a lungo (ib.).
Ciò che è importante è l’uso di affermazioni condizionali (potrebbe essere, può essere stato, a volte può ecc.) che inducono uno
stato cognitivo che implica il coinvolgimento attivo della mente dello studente. Un approccio mindful all’educazione implica un cambiamento del nostro atteggiamento nei confronti delle persone con
cui lavoriamo. Il coinvolgimento attivo dello studente nel processo
di apprendimento consente all’insegnante di unirsi nel viaggio di
scoperta che l’insegnamento può essere accettando sia la conoscenza sia l’incertezza con curiosità, apertura, attenzione e sollecitudine
gentile (ib.).
L’insegnante non deve alimentare l’illusione di possedere una conoscenza assoluta. Insieme, l’educatore e l’allievo possono affrontare
la sfida eccitante di sviluppare un insieme di conoscenze che comprende la natura della conoscenza, la sua dipendenza dal contesto ed
è attento alle novità ed alle distinzioni. Le ricerche sulla mindfulness
hanno rivelato che essa ha ricadute positive sulla vita della persone in
termini di accresciuto senso del piacere, consapevolezza interiore e
salute fisiologica (ib.).
120
14. L’educazione come esperienza di senso. Componenti psicobiologiche
Non vi è quindi dubbio sul fatto che l’educazione possa portare a
modificazioni rilevabili del cervello. Le indagini di neuroimaging eseguite prima e dopo interventi riabilitativi mostrano sia che il cervello
si riorganizza plasticamente nel corso del trattamento sia che quanto
più il trattamento ha successo tanto maggiore sarà il cambiamento.
Quando le persone rievocano i loro traumi hanno dei flashback e
provano emozioni incontrollabili il flusso sanguigno nei lobi frontale
e preforntale, che contribuisce a regolare il comportamento, diminuisce, indicando una minore attivazione di queste aree. Secondo Siegel
(op.cit.) lo scopo dell’educazione dal punto di vista neurobiologico è
estendere la sfera funzionale dei lobi prefrontali.
La relazione educativa può a nostro avviso collocarsi tra quelle
che definiremo “esperienze di senso”, secondo la teoria motivazionale di V.E.Frankl nella quale il costrutto definito “volontà di significato”, principio dinamico fondamentale per la persona, è l’aspirazione
di ogni essere umano a dar senso alla propria esistenza.
Nell’esperienza di senso l’individuo vive, cognitivamente ed emotivamente, l’appagamento della volontà di significato che si realizza
quando la persona realizza valori, ovvero prestazioni umane, caratterizzate da una forte connotazione altruistica, quale quella caratterizzante ogni processo realmente educativo. Coerentemente con la concezione antropologica multidimensionale in base alla quale l’uomo è
un unicum bio-psico-noetico, potremmo ipotizzare che l’esperienza
di senso ha radici nella dimensione psicobiologica dell’essere umano
e che vivere una prestazione altruistica intesa come fonte di esperienza di senso intesa attiverebbe zone sia corticali che limbiche , capaci
di indurre nell’organismo reazioni opposte a quelle implicate nell’attaccamento insicuro, nel distress o nella depressione, e simili invece a
quelle che si attivano nei processi della volontà, della decisione, dell’entusiasmo e dell’amore.
Qualora tale ipotesi fosse dimostrata, si potrebbe ulteriormente
ipotizzare che l’essere oggetto o soggetto di comportamenti altruistici
percepiti come altamente significativi per la propria esistenza, così
121
come avviene nelle relazioni educative, potrebbe comportare una
conseguente benefica ricaduta sui processi fisiologici (aumento delle
difese immunitarie, attivazione endorfinica ecc). Si è visto come lo
stile di attaccamento sicuro sia un fattore protettivo contro il rischio
di sviluppare patologie psicosomatiche. In educazione, ciò dovrebbe
valere per l’educando come per l’educatore amorevole, entusiasta,
capace di far emergere nuovi e personali orizzonti di senso in coloro
dei quali è responsabile.
Le implicazioni etiche da ciò derivanti confermerebbero che il
comportamento altruistico realizzato in un contesto educativo, è
un’esperienza di alto valore psicobiologico e morale, che supera la
frequente visione dell’altruismo come rinuncia a parte di sé con conseguente senso di deprivazione e sacrificio, ritenendolo invece una
straordinaria fonte di energia psicobiologica, in chi dà (ammesso che
viva l’esperienza in maniera autentica) ed in chi riceve. Che è quanto,
si può dire dalla nascita, quotidianamente sperimenta chi scrive: figlia, allieva, docente entusiasta di genitori, insegnanti, studenti che
donando hanno ricevuto e ricevono donando, in un processo che
non avrà mai fine.
15. Conclusione
Si è visto come lo studio delle relazioni mente-corpo necessita di
un approccio di natura sistemica, alla luce del quale il cervello è un
sistema composto di sistemi reciprocamente interattivi: ogni processo mentale ha infatti componenti affettive e cognitive, senso-motorie,
viscerali ed endocrine.
Tentare di spiegare il comportamento di una persona dedicandosi solo a descrivere la sua psiche è il medesimo errore di chi pensa
che basti misurare il livello ormonale o il ritmo cardiaco. Le scienze
biologiche, la psicologia e le scienze sociali sono a lungo vissute
ignorandosi reciprocamente: ma i progressi della conoscenza vengono dall’integrazione di discipline e non da specializzazioni eccessive. Ad es. la biologia molecolare è rafforzata dall’integrazione con
la biochimica e con la genetica, tuttavia l’efficacia di tale integrazio122
ne è legata a dividere referenti e concetti ed all’esistenza di formule-ponte sufficientemente dimostrate per legare i concetti di un
campo a quelli di un altro.
La comprensione dei fenomeni mentali e comportamentali non
può venire che da una sintesi tra le scienze biologiche e sociali, come
appunto dimostra l’applicazione della psicobiologia allo studio della
relazione di cura.
La complessità delle interazioni fra la psiche ed il corpo è stata selezionata dall’evoluzione perché conferisce un vantaggio decisivo all’organismo capace di servirsene per affrontare i problemi che incontra nell’ambiente circostante. Essa presenta però un rischio: la possibilità di disfunzione dei meccanismi di regolazione.
Dunque la sfida è proprio nel cercare di accogliere la complessità,
l’intreccio di fisico e spirituale, biologico e psicologico, nell’accettazione delle specificità come delle interazioni. Il ragionamento più
promettente sarà dunque quello basato sull’interdipendenza, in termini di legame e non di opposizione: non questo o quello che rifiuta,
contrasta, esclude ma questo e quello. In una prospettiva, senza dubbio, mindful.
123
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125
126
IV
CAPITOLO
I NEURONI SPECCHIO, L’IMITAZIONE,
L’EMPATIA E IL LINGUAGGIO
di Irene Minchillo
I neuroni specchio possono essere definiti come una specifica classe di
cellule nervose, presenti negli uccelli e nei mammiferi tra cui l’uomo,
che caratteristicamente si attivano sia quando un soggetto compie un
azione e sia quando osserva passivamente un altro (conspecifico e non)
realizzare lo stesso atto. In altre parole, si tratta di neuroni visuo-motori che hanno la capacità di simulare il comportamento altrui, dando al
soggetto una comprensione “dall’interno” (Lavazza, 2009). Già all’indomani delle prime pubblicazioni, non pochi neuroscienziati, filosofi e
scienziati cognitivi hanno accolto la scoperta dei “neuroni specchio” come una delle più interessanti ed eccitanti degli ultimi decenni. Questo
tipico caso di serendipità, di scoperta fortuita, potrebbe infatti essere lo
strumento con cui il cervello di un individuo interpreta ed apprende
azioni ed emozioni altrui. Attualmente il meccanismo innato di rispecchiamento motorio è al centro del dibattito sull’ empatia, cognizione
sociale, origine del linguaggio, teoria della mente, processi
evolutivi/adattivi dell’uomo e sull’eziologia di alcune patologie, tra cui
l’autismo e i disturbi dell’apprendimento (Saragosa, 2010). Secondo
Ramachandran, i neuroni specchio sono per la psicologia quello che la
scoperta del DNA è stato per la genetica (Ramachandran, 2000).
1. La Scoperta del “Meccanismo Specchio”
Agli inizi degli anni ’90, presso l’Università di Parma, un equipe di
ricerca, con a capo Giacomo Rizzolatti, conduceva, mediante un giovane macaco, una serie di sperimentazioni sulla modalità di funzionamento dei neuroni specializzati nel controllo dei movimenti della mano. Le indagini venivano compiute collegando degli elettrodi, corre127
lati ad un oscilloscopio1, nella corteccia frontale inferiore della giovane scimmia: sino a quel momento si pensava che tali neuroni si attivassero solo quando la scimmia compiva un’azione in prima persona
e che la loro attivazione fosse correlata solo a funzioni motorie (D’Alessio, Minchillo, 2008).
Nell’ambiente laboratoriale erano presenti dei piccoli contenitori
pieni di noccioline americane che venivano utilizzate sia come oggetto di azioni delle scimmie sia come comportamentistica ricompensa
per azioni svolte con oggetti diversi.
Nel corso delle varie sperimentazioni, casualmente, un giovane ricercatore prelevò dal contenitore una manciata di noccioline e la
portò alla bocca. Gli elettrodi dell’elettroencefalogramma2 (EEC) che
registrava l’attività dei neuroni motori del giovane primate si attivarono: la scimmia era immobile e l’oscilloscopio in movimento!
Come mai i neuroni che normalmente si attivavano quando la
scimmia era in azione, per esempio quando portava alla bocca un’arachide, ora sparavano se a mangiare l’arachide era qualcun altro?
(Rizzolatti, Vozza, 2008) Superata la meraviglia iniziale, cominciarono una serie di esperimenti volti a studiare l’attività dei neuroni
della scimmia quando questa, anziché agire, osservava le azioni di
altri soggetti. (Rizzolatti, Vozza, 2008). Nel corso di tali sperimentazioni si scoprì che esisteva un gruppo di neuroni motori che si attivavano egualmente sia quando una scimmia compiva un’azione in
prima persona sia quando osservava la stessa compiuta da altri. Data la loro capacità di attivarsi anche solo per riflessione di azioni altrui queste cellule della corteccia premotoria sono state battezzate
1
2
L’oscilloscopio è uno strumento di misura elettronico che consente di visualizzare, su un grafico bidimensionale, l’andamento temporale dei segnali
elettrici e di misurare tensioni, correnti, potenze ed energie elettriche; attraverso appropriati trasduttori, analizza qualsiasi fenomeno fisico, anche eventi casuali e non ripetitivi.
L’EEC è una tecnica per lo studio dell’attività cerebrale basata su registrazioni ottenute mediante il posizionamento di elettrodi sul cuoio capelluto
(Freberg, 2008).
128
con il nome di “neuroni specchio”. Come già per i motoneuroni
anche i neuroni specchio mostravano una specificità di attivazione
per differenti azioni (neuroni specchio per mano che afferrava,
neuroni specchio per mano che strappava, neuroni specchio per
mano che teneva e via dicendo) ed erano localizzati nelle aree motorie e premotorie.
Restava da stabile se lo stesso meccanismo specchio era presente
solo nel macaco o anche in altri esseri viventi tra cui l’essere umano e
se era limitato alla sola “funzione motoria mano”.
In effetti, alla fine degli anni ’80 del secolo scorso, in campo filosofico e in campo cognitivista, era stata avanzata l’ipotesi che, per
comprendere l’altrui comportamento, il cervello umano dovesse necessariamente utilizzare lo stesso linguaggio neuronale delle azioni
compiute in prima persona nel caso di osservazioni di altrui azioni
(traduzione di azioni osservate in meccanismi di azioni compiute).
All’ipotesi avanzata mancava, tuttavia, il sostegno di un riscontro
biologico.
Potevano i neuroni specchio, rintracciati nei macachi, rappresentare la base biologica del meccanismo di comprensione del comportamento osservato, un meccanismo automatico e immediato di “comprensione motoria” delle azioni degli altri esseri viventi?
2. Il Sistema Specchio e il Cervello Umano
Il gruppo di Parma in collaborazione con l’Istituto San Raffaele di
Milano iniziò un esperimento volto ad accertare la presenza di meccanismi specchio nel cervello umano. Data l’impossibilità di utilizzare per motivi etici le stesse metodologie utilizzate con le scimmie, si
scelse di indagare il cervello umano con misurazioni di tipo indiretto
quali le tecniche di neurovisualizzazione o brain imaging. Le tecniche
di neurovisualizzazione o brain imaging consentono di osservare il cervello in vivo mente è impegnato in processi diversi quale la lettura, o
una risposta emozionale. Fanno parte delle tecniche di neurovisualizzazione la TAC, la PET e la MRI. Nello specifico corso dell’esperimento, condotto con l’utilizzo della tomografia a emissione di posito129
ni3 (PET), ad alcuni volontari fu chiesto di osservare, “in vivo”, prima una mano che afferrava con modalità diverse alcuni oggetti, poi,
gli stessi oggetti fermi, senza alcuna mano che entrasse in azione.
Grazie all’utilizzo della PET furono evidenziate tre aree della corteccia motoria che si attivavano quando gli oggetti venivano afferrati da
una mano e che non si attivavano con i soli oggetti statici. Le tre aree
erano la porzione rostrale anteriore del lobo parietale inferiore, il settore inferiore del giro pre-centrale, il settore posteriore del giro frontale inferiore. In taluni esperimenti si osservavano attività anche in
un’area del giro frontale inferiore e nella corteccia pre-motoria (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006). Le aree evidenziate erano tutte coinvolte nel
controllo delle strategie del movimento della mano (Freberg, 2008) e
risultavano contigue e/o in parziale sovrapposizione all’area di Broca.
Già in questa fase quindi risultava evidente che il circuito specchio
avesse a che fare con il “significato del movimento” essendo coinvolte
sia la corteccia parietale, ove si decide un movimento, sia l’area premotoria, ove in parte un movimento viene pianificato integrando i segnali motori con quelli provenienti dal talamo e dai gangli della base,
sia la corteccia motoria primaria, deputata al controllo di singoli segmenti corporei. L’esecuzione del movimento non aveva luogo in
quanto non risultava coinvolta né la corteccia prefrontale, sede del sistema esecutivo, né la via laterale che trasmette i segnali dalla corteccia motoria primaria ai motoneuroni spinali avviando così le contrazioni muscolari (Freberg, 2008). Inoltre il coinvolgimento dei gangli
della base, strutture coinvolte nel controllo motorio, data la loro stretta interconnessione con l’amigdala, faceva presagire un qualche ruolo
nell’attivazione dei neuroni specchio anche del sistema emotivo.
L’insieme delle aree coinvolte venne chiamata “sistema dei neuroni
specchio” (Mirror Neuron System, MNS) o più semplicemente “sistema specchio”. Dal punto di vista funzionale esso formava un circuito
3
La PET è una tecnica di visualizzazione che fornisce informazioni sulla localizzazione dell’attività cerebrale misurando l’attività metabolica del cervello
(Freberg, 2008).
130
integrato che svolgeva un ruolo chiave nei processi di comprensione
del comportamento degli altri. La funzione primaria del sistema venne chiamata “matching function” e consisteva nell’accordare le rappresentazioni visive delle azioni con le corrispondenti rappresentazioni motorie (Umiltà, Kohler, Gallese, Fogassi, Fadiga, Keysers, Rizzolatti G., 2001).
Quindi anche la corteccia umana era dotata di un meccanismo
specchio, simile a quello individuato nella scimmia, che si attiva in
seguito all’osservazione di azioni altrui con oggetti (Rizzolatti, Vozza, 2008).
Successive sperimentazioni condotte con l’ausilio della risonanza
magnetica funzionale (fMRI)4 precisarono, circa l’attivazione della
corteccia motoria, che il meccanismo specchio si aveva anche per altre parti del corpo (mani, piedi, bocca, ecc.) e con attivazioni neuronali che risultano essere specifiche per le diverse parti corporali. Le
attivazioni delle aree corticali in corrispondenza di azioni osservate
erano coerenti con l’homunculus5 motorio.
Ulteriori sperimentazioni condotte da Giovanni Buccino e altri
nel 2001 mostrarono come, nell’essere umano, l’attivazione del sistema specchio non si verificasse solo per movimenti del corpo legate
ad azioni transitive, diretti ad oggetti, ma rispondesse anche ad azioni intransitive, non dirette ad oggetti, ed ad azioni mimate (Rizzolatti, Sinigaglia, 2006). Le attivazioni neuronali potevano aversi anche
in presenza di azioni transitive, intransitive e mimate esperite mediante filmati.
4
5
La fMRI è una tecnica che consente di visualizzare l’attività del cervello (le
aree cerebrali di maggiore e minore intensità) utilizzando una serie di immagini prese a determinati intervalli di tempo, immagini che riescono a monitorare le variazioni dell’ossigeno e del flusso sanguigno nel cervello (Freberg,
2008).
L’Homunculus è una mappa a forma di “omuncolo” che rappresenta sulla
corteccia sensoriale o motoria le diverse parti del corpo e le estensioni corticali relative (Freberg, 2008).
131
La ricerca mostrava, in tal modo, che la scoperta dei neuroni specchio andava ben al di là di un significato meramente motorio. Inoltre, la capacità di attivazione per azioni intransitive mimate si rivelava
peculiare dell’essere umano (specie specifiche). L’intero repertorio di
attivazione delle aree celebrali si verificava anche quando la conclusione dell’azione, sia essa transitiva che intransitiva, sia mimata che
non, era nascosta all’osservatore mostrando una certa capacità di
astrazione del sistema specchio.
Marco Tettamanti e altri colleghi nel 2005 si interrogarono sin
dove si spingesse tale capacità di astrazione del sistema specchio.
Con l’utilizzo della fMRI registrarono l’attività corticale di alcuni
volontari che ascoltavano frasi che descrivevano azioni effettuate
con la bocca, la mano o la gamba. I risultati misero in evidenza
una attivazione correlata di aree della corteccia premotoria specifiche per l’azione motoria descritta e di parti dell’area di Broca. I
risultati conseguiti da Marco Tettamanti potrebbero rappresentare la conferma di una stretta contiguità neurofisiologica ed evolutiva tra la mimesi gestuale ed l’articolazione linguistica, ipotesi già
avanzata da Giacomo Rizzolatti e Michael Arbib dalla fine degli
anni ’90.
In un articolo comparso su Le scienze nel Luglio 2009 Lavazza riportava la notizia (ultimo di una lunga serie) della pubblicazione dei
risultati conclusivi di una ricerca sui neuroni specchio nell’uomo,
condotta da un gruppo guidato da Alfonzo Caramazza e apparsa sulla versione on line dei “Proceedings of National Academy of Science”,
che non aveva evidenziato alcuna prova dell’esistenza di una meccanismo specchio nell’essere umano.
In effetti, nel corso degli anni sono nate numerose controversie,
nel mondo accademico, sulla effettiva esistenza o meno dei neuroni
specchio nell’uomo, sulla loro organizzazione, sul loro ruolo e sul loro coinvolgimento in funzioni cognitive quali ad esempio la comprensione delle azioni, l’apprendimento, il linguaggio.
Le animate discussioni si originano nella difficoltà di dare una dimostrazione certa della loro presenza nel cervello umano; per motivi
etici è possibile dedurre la loro effettiva esistenza solo in maniera in132
diretta, con tecniche quali l’elettroencefalografia6 (EEG) o la tecniche di neurovisualizzazione, che visualizzano l’attività di intere aree
cerebrali.
Saragosa nel numero di giugno del 2010 di “Le Scienze” riporta la
notizia di uno studio che avrebbe individuato in maniera diretta l’esistenza di queste cellule nel cervello umano. Un equipe con a capo
Fried e composta da vari ricercatori (tra cui l’italiano Iacoboni),
presso l’Università della California, afferma di aver rintracciato singoli neuroni specchio nell’uomo realizzando una mappa della loro
diffusione.
Per addivenire a questo risultato, il gruppo ha approfittato della
necessità di inserire degli elettrodi nel cervello di 21 persone epilettiche per determinare l’eziologia del loro disturbo.
Dalla ricerca è emerso che la percentuale di neuroni specchio nell’essere umano, rispetto ai macachi, è molto superiore e meglio distribuita. La loro presenza, inoltre, sarebbe stata rintracciata anche nella
corteccia visiva, nella corteccia frontale mediale deputata a selezionare i movimenti, e nella corteccia temporale mediale legata alla memoria (Saragosa, 2010).
3. L’Attribuzione di Significato
Dall’insieme delle sperimentazioni risulta evidente che il sistema
specchio innanzitutto consente ad un individuo, e in una certa misura ad una scimmia antropomorfa, di comprendere le azioni altrui in
virtù del fatto che le stesse vengono rappresentate, nei propri circuiti
celebrali, come se venissero eseguite in prima persona (traduzione di
azioni osservate in meccanismi di azioni compiute).
La capacità di comprensione dell’azione altrui si conserva anche
6
L’EEC è una tecnica per lo studio dell’attività cerebrale basata su registrazioni ottenute mediante il posizionamento di elettrodi sul cuoio capelluto
(Freberg, 2008).
133
in caso di informazioni parziali, di azioni parzialmente visibili. Il sistema specchio è, quindi, un meccanismo di comprensione e previsione motoria (anticipazione di schemi motori). Per sperimentazioni effettuate parallelamente con macachi ed essere umani, si è visto che
tale capacità è presente sia nell’essere umano che nel macaco. Esistono, però, delle differenze quanti-qualitative tra le due specie. La capacità di previsione motoria è presente nel macaco solo quando osserva parziali azioni correlate con il cibarsi (afferrare il cibo, rompere
una nocciolina) o con un pericolo ambientale (input auditivi quale il
suono di un foglio stracciato), mentre nell’uomo il range di attivazione per previsione è più ampio e investe anche la cosiddetta sfera sociale. Sia la comprensione che la previsione motoria sono accompagnati nella scimmia da un pattern metabolico di espressione genicomotoria (mimica facciale, contrazione muscolare degli arti superiori e
inferiori) parzialmente assente nell’uomo, ad eccezione dei casi di un
certo coinvolgimento emotivo (azioni legate al cibarsi in un osservatore affamato). La maggiore espressione delle vie metaboliche del movimento nel macaco rispetto all’uomo potrebbe essere legata a delle
differenze nella corteccia prefrontale, a delle differenze nei sistemi
esecutivi. L’attivazione delle stesse nell’uomo nel caso di un coinvolgimento emotivo farebbe presumere, attraverso i gangli della base, un
collegamento tra il sistema limbico e il sistema specchio. L’attivazione positiva del sistema limbico avrebbe, quindi, nell’uomo, l’effetto
di una soppressione dei sistemi esecutivi con il conseguente passaggio da una semplice traduzioni di azione osservate in azioni replicate.
In altri termini l’essere umano tende, in misura maggiore rispetto al
macaco, ad osservare – traducendo in circuiti celebrali – ciò che lo
circonda; la sfera corporale si attiva solo quando è sostenuta di buon
grado dal sistema limbico con la conseguente disattivazione dei sistemi inibitori e attivazione di un repertorio di atti motori percettibili
replicanti quanto osservato. Nel caso del macaco l’osservazione è più
selettiva già dall’inizio (correlazione iniziale “sistema emotivo”) e la
traduzione in atti motori più immediata.
Le registrazioni delle attivazioni celebrali hanno mostrato che, sia
nel caso di azioni visibili o parzialmente visibili, non si assiste ad una
susseguente attivazione di circuiti celebrali rispetto agli atti motori
134
osservati, piuttosto ad una anticipazione degli stessi. Si è visto, inoltre, che, pur in un apparente identità iniziale di atti motori (afferrare
per bere e afferrare per riordinare), il sistema specchio sa distinguere
l’intenzionalità, il perché dell’atto stesso, mostrando diversi gradi di
attivazione. Ad un gruppo di persone sono stati mostrati due filmati:
nel filmato A veniva mostrata una tavola imbandita per la colazione e
una mano che afferrava la tazza dal manico e nel filmato B una tavola
in disordine e una mano che afferrava la stessa a palmo aperto. Entrambi i filmati erano privi della conclusione motoria dell’azione.
L’attivazione fMRI ha mostrato la capacità del sistema specchio di
distinguere l’intenzionalità dell’atto motorio, gli obiettivi e le motivazioni dell’azione (prendere la tazza per bere e prendere la tazza
per riordinare): i segnali cerebrali erano gli stessi che venivano registrati nel caso di osservazione dell’intera azione. Probabilmente l’osservazione di azioni anche parziali ma appartenenti ad un repertorio
motorio acquisito degli osservatori, inserite in specifici contesti,
“sparano” per catene di neuroni sequenziali corrispondenti ai movimenti più idonei, più probabili, in quel contesto: per bere afferro la
tazza dal manico, mentre per riordinarla la agguanto a palmo aperto; e se per compiere un’azione scelgo dal mio repertorio cerebrale
una determinata catena di atti motori che corrisponde alla scopo
della mia azione in quel contesto, quando osservo la medesima azione nei movimenti di un altro il mio cervello opera la stessa cerniera
logica (Rizzolatti, Vozza, 2008). Infatti, la capacità di comprensione
dell’intenzionalità veniva meno quando agli osservatori si mostravano filmati con schemi motori non acquisiti. Poiché la capacità dell’essere umano di leggere gli obiettivi e le motivazioni che stanno
dietro un atto motorio altrui dipenderebbe dal repertorio motorio
acquisito, se ne può dedurre che la comprensione immediata ed automatica del mondo motorio circostante è direttamente proporzionale al grado di esperienza.
Cosa succede quando ci si ritrova ad osservare comportamenti motori che non appartengono alla propria specie come ad esempio l’abbaiare di un cane o lo schioccare le lebbra di una scimmia? In uno
studio di risonanza magnetica funzionale alcune persone hanno guardato filmati in cui si vedevano comportamenti conspecifici e non.
135
L’osservazione del mordere del cibo ha determinato un’attivazione
delle regioni specchio dei soggetti sia che a compiere un’azione fosse
una scimmia un cane o un essere umano; l’osservazione della scimmia
che schioccava le labbra o del cane che abbaiava hanno stimolato solo
il sistema auditivo e visivo ma non quello motorio delle tre specie
(Rizzolatti, Vozza, 2008). I risultati suggeriscono che l’essere umano
riconosce e comprende le azioni degli altri attraverso due meccanismi
neuronali, uno che riesce ad appaiare, lungo circuiti celebrali, l’azione
osservata con l’azione posseduta dall’osservatore, l’altro basato sul ragionamento o su processi cognitivi di ordine superiore. Solo nel primo caso si ha però una conoscenza intima del significato dell’azione
motoria in quanto l’atto osservato sembra proprio uscire dal medesimo stampo di un atto già eseguito dall’osservatore!
4. L’Imitazione e l’Empatia
I Neuroni Specchio sono coinvolti sia nei processi imitativi che
nei processi empatici. Il ruolo è tale che stanno “costringendo” non
pochi psicologi cognitivisti a rivedere la posizione che occupa il sistema motorio nell’impalcatura della mente.
Il sistema specchio è coinvolto anche nei processi imitativi, ovvero
nei processi in cui l’osservatore deve apprendere una sequenza di
schemi non appartenenti al suo repertorio motorio.
Per comprendere il ruolo dei neuroni specchio nei processi imitativi è bene precisare cosa si intende per imitazione.
Comunemente si dice che, se si osserva una persona ridere o sbadigliare, si tende ad imitarla. La tendenza a riprodurre ciò che altri
fanno, senza averne spesso neanche una comprensione conscia, è un
meccanismo evolutivo presente in molte specie animali. Questo tipo
di replicazione automatica di atti motori – che soggiace ad un sistema
specchio -prende il nome “facilitazioni di risposta” ed ha, per lo più,
un significato di “salvavita”. Anche nella specie umana sono presenti
processi imitativi automatici e involontari quali lo sbadiglio, il riso, il
pianto e la riproduzione involontaria delle espressioni facciali. Nell’evoluzione della specie umana questi processi cerebrali, non sogget136
ti al controllo della corteccia prefrontale, si sono conservati ed evidenziati in quanto predispongono un neonato alle relazioni sociali e
all’apprendimento linguistico. I casi di imitazione dovuti ad una facilitazione di risposta non sono dei veri processi imitativi in quanto
non comportano un apprendimento volontario di sequenze motorie
nuove. Nei processi imitativi deve esserci un individuo che vuole ripetere volontariamente un gesto osservato nuovo.
Spesso, impropriamente, con il termine imitazione ci si riferisce
anche alla replicazione volontariamente di movimenti che già si conoscono (io alzo un braccio, tu alzi un braccio). Sottoponendo a sperimentazione quest’attività, Iacoboni et al., presso il laboratorio di
quest’ultimo a Los Angeles, hanno verificato che essa è soggetta al sistema specchio (replicazione di un comportamento motorio ascrivibile al patrimonio di conoscenze già acquisite dell’osservatore).
L’imitazione propriamente detta è, invece, l’esecuzione volontaria
di comportamento motorio osservato e non conosciuto ed è un processo apprendivo: il bambino che passa dalla fase di gattonamento a
quella di deambulazione.
Le basi neurali dell’apprendimento per imitazione erano praticamente sconosciute, sino a quando Buccino, Vogt et al. nel 2004, presso un centro di ricerca tedesco e mediante l’uso della fMRI, non presero in esame i circuiti neurali sottostanti all’apprendimento imitativo delle azioni della mano. Nello specifico chiesero ad alcuni volontari, che non avevamo mai suonato la chitarra, di osservare un chitarrista mentre suonava. La sperimentazione riguardava, quindi, l’osservazione degli accordi che sulla chitarra venivano eseguiti dalle dita
del musicista e, dopo una pausa, la loro successiva esecuzione. La
prima parte dei risultati della sperimentazione furono in linea con
quanto atteso: le aree attivatesi durante l’osservazione degli accordi
erano quelle già note per essere coinvolte nella comprensione delle
azioni altrui (lobo parietale inferiore, parte posteriore del giro frontale inferiore e corteccia premotoria adiacente). Il dato sperimentale
nuovo veniva fuori dalla pausa. Infatti le aree che precedentemente si
erano attivate rimanevano tali (una sorta di ripetizione mentale degli
accordi/neuroni da eseguire), ma si attivava anche il giro frontale medio (area 46) e le strutture coinvolte nella pianificazione dei movi137
menti e della memoria (corteccia premotoria dorsale, lobo parietale
superiore, area rostrale mediale).
Venne proposto, date le caratteristiche funzionali dell’area 46, un
modello di apprendimento per imitazione basato proprio sulle interazioni tra questo settore e il sistema dei neuroni specchio (Buccino
G., Vogt S., Ritzl A., Fink G. R., Zilles K, Freund H., Rizzolatti G.,
2004). Quando un discente osserva il maestro eseguire degli accordi
sulla chitarra, le immagini percepite vengono elaborate dal sistema
specchio che produce una rappresentazione motoria interna all’azione stessa. Più precisamente, la rappresentazione visiva dell’azione è
scomposta nei suoi circuiti elementari, che trovano un riscontro in
segmenti già presenti nel repertorio cerebrale degli atti motori. I vari
segmenti sono quindi assemblati, organizzati, nell’ordine necessario a
permettere l’esecuzione fluida e armonica dell’azione da imparare.
Questo assemblaggio è compiuto dall’area 46 (Rizzolatti, Vozza,
2008); la ricostruzione, comunque, spiega solo una parte dei processi
di apprendimento per imitazione, che coinvolgono ovviamente anche
altre funzioni cerebrali quali la memoria e l’attenzione. Si sa , però,
che eventuali lesioni all’area 46 provocano deficit nella formazione di
memoria a breve termine di tipo automatico (sia di richiamo che di
neoformazione) e deficit nella capacità di selezione dall’ambiente circostante gli elementi rilevanti.
Il dato sperimentale di un cervello a riposo ma che mostra un alto
livello di attività è in linea con uno studio sulla funzionalità del cervello condotta da un team di ricerca diretto da Raichle, presso l’Università di Washington, i cui risultati sono stati pubblicati su Le Scienze nel 2010. Secondo questo studio il cervello conserva un livello di
attività persino quando lo si suppone a riposo.
In realtà compiti quale la lettura richiedono un’aggiunta minima
di energia, un incremento non superiore al 5 per cento rispetto a
quella già consumata durante lo stato basale. Per capire il perché di
questa incessante “attività di fondo”, nel suo articolo, Raichle utilizza
la metafora dell’orchestra sinfonica: durante la fase che precede l’esecuzione di un concerto ciascun strumentista singolarmente accorda il
proprio strumento, prova qualche passaggio, se mai quello che ha
appena imparato, quello che non è ancora perfettamente eseguito; i
138
violinisti eseguono assieme un breve passaggio, si ascoltano reciprocamente, si raccordano tra loro e così fanno anche i bassi e tutte gli
altri componenti dell’orchestra, pronti a percepire il segnale che arriverà dall’esterno, il segnale che il direttore sta entrando in scena.
Nei processi di apprendimento per imitazione, devono esistere dei
meccanismi di rimozione dell’inibizione dei movimenti osservati; se
così non fosse passeremmo il tempo a ripetere internamente tutte le
azioni che osserviamo durante il giorno. Ancora una volta eventuali
lesioni all’area 46 causano difficoltà nella inibizione delle risposte.
Pur con tutti i suoi limiti, i risultati della ricerca condotta in Germania comprovano il fondamentale coinvolgimento del sistema specchio dell’apprendimento per imitazione.
Infine, i dati sperimentali, hanno mostrato che i tempi di produzione di una esecuzione fluida e armonica dell’azione si accorciavano
quando nel repertorio cerebrale degli atti motori del volontario erano presenti, per esperienza, un numero maggiore di segmenti similari
a quelli da eseguire.
Uno degli aspetti fondamentali del comportamento umano è la
percezione interna del significato delle azioni degli altri insieme alla
percezione dell’emotività che accompagna l’azione osservata. Attraverso questa internalizzazione dell’altro è possibile entrare in una
condizione di “en pathos”, di empatia. L’uomo in quanto animale sociale deve molto della sua sopravvivenza, ancestrale e odierna, alla
sua capacità di comprendere, valutare e anticipare gli stati emotivi altrui, di entrare in relazione empatica con l’altro.
Vittorio Gallese, in un saggio apparso sulla Rivista di Psicoanalisi
nel 2007, definisce l’empatia come la dimensione implicita della capacità intersoggettiva di trasferire significati da una persona all’altra
utilizzando il corpo come veicolo di questo trasferimento, sia dal
punto di vista dell’espressione del significato, che da quello della capacità di decodificarlo quando ne siamo spettatori.
Nel corso della storia del pensiero umano ci sono stati vari tentativi di definire le modalità di questo trasferimento di significato che è
di tipo antepredicativo, pre-verbale ed implicito.
Fino alla scoperta dei neuroni specchio si pensava che la capacità
di comprensione degli stati mentali-emotivi altrui fosse di tipo logi139
co-deduttivo: se vediamo una persona piangere possiamo immaginare il dolore che quella persona sta provando attraverso una deduzione razionale. La dimensione razionale non restituiva, però, una esaustiva he spiegazione circa l’emozione altrui provata.
Uno studio sulla reazioni di disgusto, condotta da Wicker et al.
nel 2003, ha dimostrato che l’osservazione di una emozione, in un’altra persona, può determinare in chi l’osserva l’attivazione della medesima regione corticale che è attiva quando l’osservatore prova
quell’emozione in prima persona.
Il disgusto è un emozione molto forte e utile nella sopravvivenza
degli esseri umani perché indica che la sostanza che viene assaggiata
(o annusata) è cattiva, dannosa, potenzialmente pericolosa. Solitamente, ad esempio, una reazione di disgusto ad un determinato alimento in un bambino in fase di svezzamento è indice di intolleranza
alimentare.
Wicker et al., con l’ausilio della fMRI, sottoposero ad un esperimento “di disgusto” alcuni volontari, Fu chiesto loro di annusare sostanze dall’odore sgradevolissimo e, successivamente, di osservare
delle immagini in cui si vedevano volti di persone dall’espressione disgustata (dalle medesime sostanze). In entrambi i casi le aree corticali
attivate risultarono le stesse: l’insula anteriore e il cingolo rostrale.
Esiste, quindi, nel cervello umano un meccanismo simile a specchio? Capiamo le emozioni degli altri, e con essi empatizziamo, evocando la medesima attività neurale associata alle nostre equivalenti
emozioni?
Nel caso della comprensione delle azioni e delle intenzioni i circuiti cerebrali associati all’osservazione e all’esecuzioni di atti motori
sono gli stessi.
Nel caso invece della reazione di disgusto l’estensione dei meccanismi neuronali e funzionali al dominio delle emozioni e dell’empatia
non è diretto, in quanto le aree fino ad oggi identificate come "specchio" appartengono ad un circuito fronto-parietale che generalmente
non è associato al sistema libico delle emozioni.
D’altra parte, però, è innegabile che le azioni osservate hanno un
correlato emotivo e chi osserva l’esecuzione dell’azione partecipa empaticamente con l’esecutore (Ammanniti, Gallese, Lenzi, Muratori,
140
Pantano, 2005). Inoltre, il pattern di neuroni scarica nelle stesse aree
cerebrali sia nel caso dell’emozione vissuta in prima persona, sia nel
caso della stessa emozione osservata. Infine Carr et al., nel 2002, hanno dimostrato che il sistema limbico quando si genera empatia, riceve informazioni dal circuito "specchio" fronto-parietale attraverso
una area disgranulare dell’insula che connette le aree limbiche con la
corteccia fronto-parietale, parietale posteriore e temporale superiore.
Sembrerebbe, quindi, che l’insula giochi un ruolo nella genesi dell’equivalente affettivo dell’azione osservata e che agisca come stazione di passaggio tra le corteccie frontali e le strutture limbiche, rappresentando quindi una possibile via di risonanza empatica.
In effetti lesioni funzionali od anatomiche (infarto localizzato)
di questo circuito possano alterare le capacità di un individuo di
entrare in relazione empatica con le situazioni e con le persone che
sta osservando.
In merito all’empatia, un interessante ponte tra neuroscienze e
filosofia è rappresentato dalle riflessioni di Laura Boella presenti
nel libro “Sentire l’Altro - Conoscere e praticare l’empatia” pubblicato nel 2006 e in una intervista rilascia testata scientifica “Brainfactor” nel 2009.
Il libro prende l’avvio dalla fenomenologia husserliana: la certezza
che la realtà fuori di noi esista e che non sia semplicemente un fantasma, un’allucinazione, un punto di vista soggettivo, deriva, diceva
Husserl, dallo scambio di esperienza con altri che, come noi, percepiscono, sia pure in forme diverse, lo stesso mondo. L’accesso alla
realtà del mondo esterno è garantito dunque non solo dalla percezione delle cose, ma anche dall’atto che ci restituisce l’esistenza degli altri e le loro prospettive: l’empatia. Il libro continua ponendo l’attenzione sulle dissertazioni di Edith Stein che mirano a chiarire l’essenza
dell’atto che sta alla base di tutte le forme attraverso le quali ci accostiamo a un altro: quell’atto è l’empatia. Questa mette in contatto
con un’emozione altrui, dolorosa o di altro tipo, ma non è identificabile con la partecipazione emotiva, la condivisione di un affetto o
con altre forme particolari di comunicazione con gli altri. Piuttosto
l’empatia è la via che ci consente di accedere all’intera persona dell’altro, il termine che indica l’ambito di esperienza entro il quale si
141
danno le molteplici forme del sentire l’altro, a rendersi conto di ciò
che sente, a viverlo con intensità pur sapendo che è suo e non nostro
ma provandolo come se fosse in-comune. Non una qualche strana
identificazione nell’altro, ma una forma di accesso alla realtà vissuta
di un altro essere umano con la creazione di una realtà co-condivisa,
una percezione plurima che diviene il terreno del certo, del vero.
L’empatia diviene, quindi, l’acquisizione emotiva della realtà del
sentire altrui e si configura come l’esperienza di un altro in quanto
soggetto vivente di esperienza di me. Essa è ciò che restituisce la verità della realtà in sostituzione della visione di tante intrapersonali percezioni del mondo esterno dell’io soggettivo. Nella relazione con l’Altro, l’Io del soggetto che percepisce rimane in seconda posizione, non
vi è più la divisione tra un Soggetto, primo attore, ed un Oggetto della
relazione. Siamo in presenza di due soggetti che interagiscono, nella
certezza che la realtà di entrambi viene com-presa, presa insieme.
Lungi dall’essere equivocata con la simpatia, con la compassione,
con l’identificazione o con il contagio emotivo, e tanto più dall’esser
costretta in una teoria della mente, l’empatia si radica nel presupposto imprescindibile dell’ essere-in-relazione della specie umana ed è
condizione stessa della relazione intersoggettiva.
La corporeità ha un ruolo decisivo nell’emozione dell’incontro,
perché è tutto il corpo che vive qualcosa che assomiglia all’esperienza dell’altro in prima persona, che ha tutta l’intensità del sentire, che
è guidata interamente dal vissuto dell’altro, che ne segue il decorso,
ne assume il contenuto. È tutto il corpo che rende possibile il “mettersi nei panni dell’altro” (Boella, 2006).
Senza un’originaria associazione corporea, senza un meccanismo
di tipo organico che permette di “accoppiare” ciò che si sente e si sa
in prima persona a ciò che si vede e si sente nell’altro, non potrebbe
nascere nessun desiderio o curiosità di esplorare il mondo dell’altro.
Il sistema specchio parla di un meccanismo neurobiologico di rispecchiamento o di risonanza tra aree corrispondenti all’originario diretto legame intercorporeo tra esseri che fanno parte di un mondo comune. Da solo il sistema specchio non è esaustivo della complessità
del fenomeno, sicuramente sulla scena della relazione e della comprensione dell’altro è all’opera una complessa architettura neuronale,
142
in cui memoria e immaginazione hanno una loro cospicua parte
(Boella, 2006).
I numerosi studi sull’empatia del dolore, quali quelli di Singer,
hanno mostrato che altre aree, oltre al sistema specchio, hanno una
loro rilevanza e, in ogni caso, il processo di “assunzione” dell’altro
può non essere totale (vedo che ti taglio il dito, provo dolore, ma non
nella stessa misura) e presupporre un sistema di inibizione dell’azione specchiante e/o di modulazione delle emozioni e/o di autoregolazione corporea fondamentale per la conservazione – integra – di un
senso di sé. Tuttavia sono sicuramente ricollegabili a processi empatici di tipo specchio, automatico e involontario, fenomeni sia individuali, sia istintivo-naturali, sia storico-collettivi quali il contagio emotivo, la simbiosi madre-neonato, nonché fenomeni anche contemporanei come il “fare corpo” di un gruppo-branco, di una massa (Laura
Boella, 2006).
Ammanniti, Gallese, Lenzi, Muratori, Pantano hanno appena portato a termine, presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, una ricerca mirante a stabilire quando si formano i meccanismi
empatici. Partendo dalle osservazioni di Lorentz (nei mammiferi la
prima interazione empatica è con la propria madre), il focus della ricerca, con approccio riduzionistico, è stato rivolto al primo periodo
di vita di un individuo ed alle interazioni tra madre e figlio.
Sicuramente la pubblicazione dei loro risultati potrà chiarire molti
dei meccanismi empatici rimasti sin’ora insoluti.
4.1 Il Neurorazzismo empatico
Un gruppo italiano di ricerca, guidato da Salvatore Aglioti, dell’Università “la Sapienza” di Roma, si è chiesto se il pregiudizio razziale
potesse influenzare il grado di empatia verso il dolore altrui.
Quando una persona avverte dolore in una determinata zona, i
circuiti corticali e spinali che rappresentano quell’area divengono
meno eccitabili. Lo stesso accade osservando il dolore altrui. Si tratta
di una forma di empatia molto basilare, che non riguarda tanto i circuiti cerebrali superiori ma quanto i circuiti sensitivi e motori (Sabato, 2010).
143
Il gruppo di ricerca di ricerca di Aglioti ha messo a punto un
esperimento molto semplice per stabilire se un eventuale pregiudizio
razziale potesse influire su tale meccanismo specchio basilare. È stato
chiesto ad un gruppo di persone di etnia bianca e di etnia nera di osservare l’immagine di un ago che pungeva la mano del proprio o dell’altro gruppo etnico. Ai fini dell’esperimento, l’eccitabilità è stata
misurata somministrando stimoli alla corteccia motoria con la tecnica
della stimolazione magnetica transcranica e verificando la reazione
dei muscoli da essa controllati (Sabato, 2010). I risultati hanno mostrato gradi di eccitabilità diversi a seconda se l’ago pungeva una
mano “bianca” o “nera”. In altre parole ciascun gruppo mostrava
una forte reazione al dolore di membri del proprio gruppo, mentre
la condivisione del dolore dell’altro gruppo risultava piuttosto scarsa. Una minore familiarità dell’aspetto, ostacolo a processi di immedesimazione, poteva essere alla base dell’indifferenza mostrata. Per
verificare questa ipotesi i ricercatori hanno sottoposto il gruppo di
volontari ad un test in grado di rilevare i pregiudizi inconsapevoli
(lo IAT). Pur dichiarando tutti i volontari di essere esenti da pregiudizi razziali, il test ha rilevato che molti invece ne erano affetti.
Chi aveva più pregiudizi mostrava una minore reazione al dolore
dell’altrui gruppo e viceversa. A verifica ulteriore ad entrambi i
gruppi sono state mostrate delle mani viola: pur dichiarando che
l’immagine era percepita come poco familiare, la reazione è stata di
tipo intermedio. I risultati della sperimentazione, quindi, non sono
tanto da ascriversi a processi di mancata immedesimazione ma
quanto a pregiudizi razziali.
La scarsa empatia verso non appartenenti al proprio gruppo etnico non è una necessità ineluttabile inscritta nella nostra psiche. È vero che l’immedesimazione è maggiore verso chi si riconosce come
più simile, ma è possibile condividere il dolore anche di un perfetto
estraneo se non si applicano stereotipi negativi (Sabato, 2010). Il fatto che i volontari che hanno avuto una reazione simile in entrambi i
casi della prima fase della sperimentazione (mano bianca e mano nera) ed intermedia nella seconda fase (mano viola), dichiarassero di essere vissuti in ambienti aperti alla diversa alterità, mostra che non si
tratta di processi automatici ma piuttosto soggiacenti all’esperienza e
144
alla categorizzazione sociale espressa dall’ambiente di appartenenza.
In ogni caso la categorizzazione sociale influenza la nostra mente ad
un livello molto più profondo di quanto si fosse ritenuto sin’ora, influenzando fortemente il processo di circuiti neurali “imprinting” e
processi neurali di scarica.
5. Il Linguaggio
Il linguaggio verbale rappresenta una delle espressioni più alte
dell’uomo ed è sicuramente lo specchio delle sue abilità cognitive. La
comunicazione fra individui conspecifici è sicuramente presente nel
mondo animale ma il linguaggio umano è qualcosa di completamente
diverso, un “dono” che consente con semplicità di comunicare, manifestare, condividere i propri pensieri, le proprie emozioni, le proprie
speranze con altri esseri umani.
Nel corso dei secoli sono stati fatti vari tentativi di produrre un
modello teorico sulle origini evolutive del linguaggio verbale ma nessuno di questi ha dato sufficiente ragione delle peculiarità del linguaggio.
La scoperta dei neuroni specchio ha aperto nuovi interessanti scenari sulle origini e sullo sviluppo evolutivo del linguaggio verbale nella specie umana. Dagli ambienti pro-specchio, con sempre più forza,
è avanzata l’ipotesi che, sulla base delle specifiche funzioni dei neuroni specchio, il linguaggio verbale si sia evoluto da forme arcaiche
di comunicazione gestuale.
Da un punto di vista concettuale, la visione secondo la quale il linguaggio verbale si sia evoluto a partire dalla comunicazione gestuale
non è nuova, era già stata avanzata, ad esempio, nel Settecento dal filosofo francese Condillac7. La novità accademica è la messa appunto
7
Secondo tale filosofo il primo sistema di comunicazione che utilizzarono i
nostri antenati si basava sui gesti; successivamente e progressivamente ai
gesti sarebbero stati associati i suoni che avrebbero acquisito, in seguito, un
ruolo dominante formando il linguaggio verbale.
145
da parte di due studiosi, Rizzolatti e Arbib, di un modello interpretativo, a base specchio, coerente con i dati sperimentali che stanno via
via emergendo dalla ricerca neuroscientifica.
Caratteristicamente si definisce linguaggio una forma di comunicazione dotata di una grammatica e di una sintassi, dunque capace di
organizzare una relazione tra emittente e ricevente attraverso regole e
strutture codificate. Se si prende in esame il termine comunicazione
– processo di scambio di informazioni tramite un meccanismo condiviso – il linguaggio non è l’unica forma di comunicazione. Infatti, tra
gli esseri umani e non, è possibile comunicarsi informazioni anche
tramite gesti, postura, espressioni facciali, contatti oculari e movimenti della testa e del corpo. Tuttavia definiamo linguaggio solo ciò
che è codice.
Un codice linguistico, come ha dimostrato Ursula Bellugi con i
suoi studi sull’ASL (American Sign Language), non richiede necessariamente la componente vocale. L’Asl, il linguaggio dei non
udenti, come il linguaggio verbale è un codice, dotato di una sua
grammatica e di una sua sintassi, che attiva le stesse aree celebrali
degli udenti.
Gli studi della Bellugi hanno messo in evidenza una certa predisposizione della specie umana di codificare informazioni attraverso la
gestualità e rilanciato, con forza, l’ipotesi dell’origine gestuale del linguaggio. La tesi oppositiva ritiene che il linguaggio si sia evoluto a
partire dai versi emessi dai primati con funzione di richiamo verso un
pericolo.
Nel 1998 Rizzolatti e Arbib hanno pubblicato la loro teoria sull’origine del linguaggio. A questa prima pubblicazione ne sono seguite
altre, nel corso degli anni, che tenevano conto dei risultati delle sperimentazione che si andavano accumulando.
Nel loro modello interpretativo ruoli chiave hanno:
l’analisi comparativa dei meccanismi cerebrali delle strutture
deputate al richiamo animale e al linguaggio verbale nelle scimmie e nell’uomo;
i contesti emotivi;
i neuroni specchio e la condivisione dei significati gestuali;
l’analisi comparativa delle zone neurali deputate al controllo
146
volontario dei movimenti degli arti superiori nelle scimmie e
della produzione linguistica verbale nell’uomo;
la dominanza genico-manuale dei primati.
5.1 La confutazione delle tesi “vocalistiche” del linguaggio
I due circuiti cerebrali, quello per le vocalizzazioni e quello per il
linguaggio verbale, sono localizzati nei due gruppi di animali in zone
diverse del cervello. Nelle scimmie, i circuiti del richiamo sono localizzati in una parte interna della corteccia, il giro del cingolo, e in
strutture poste sotto la corteccia, chiamate strutture sottocorticali,
quali il diencefalo e il tronco encefalico. Le caratteristiche neurofisiologiche di queste aree indicano che i primati non umani hanno un
controllo corticale delle vocalizzazioni assai poco sviluppato. Questa
capacità, tuttavia, è ritenuta essenziale per lo sviluppo di un linguaggio vocale. Nell’uomo i centri del linguaggio sono localizzati nella
parte laterale della corteccia. L’uomo conserva la capacità di emettere, in particolari contesti emotivi, grugniti, grida o urla simili ai versi
animali ma la loro localizzazione è posta in zone omologhe a quelle
delle scimmie. Vocalizzazioni e linguaggio verbale sono, quindi, nell’uomo, comportamenti con un substrato neurale sostanzialmente
differente e separato.
Da questa prima comparazione si può dedurre che se il linguaggio
verbale umano fosse un’evoluzione dei richiami vocali delle scimmie, i
circuiti sottostanti avrebbero fatto, più che uno spostamento, un vero
e proprio “salto” dalle regioni profonde in cui si trovavano ad una posizione completamente diversa, sulla superficie laterale del cervello
(Rizzolatti, Vozza, 2008). Ma “la natura non compie salti”. Inoltre se le
attuali aree linguistiche verbali sono nell’uomo un evoluzione dei substrati neurali dei vocalizzi dei nostri ancestrali progenitori, non dovrebbero rintracciarsi entrambe le strutture nell’Homo sapiens come
invece avviene (di cui una, quella che codifica per i vocalizzi, in posizione omologa rispetto a quella delle scimmie). Non a caso gli individui affetti da afasia globale conservano la capacità di emettere “versi”.
Ciascun verso nelle scimmie è sempre collegato ad una e una sola
147
emozione particolare: un verso per la rabbia, un verso per la paura,
ecc.. Inoltre essi sono sempre rivolti all’intero gruppo piuttosto che
al singolo individuo. Nel linguaggio verbale umano, invece, una singola parola può non avere un emozione sottostante ma anche averne
diverse. Inoltre, solitamente, tra gli esseri umani la relazione comunicativa è di tipo duale, può anche allagarsi a più persone ma non è
mai costantemente rivolta a tutti i membri gruppali.
Già da queste prime analisi comparative sembra poco probabile
una derivazione del linguaggio dalle strutture neurali della vocalizzazione.
Esistono delle eccezioni. Le scimmie verdi africane, piccole scimmie
native dell’Africa Centrale, emettono grida diverse, rivolte all’intero
gruppo, a seconda del tipo di pericolo che avvistano (serpente o un rapace). Tali dati indicano che le grida non solo esprimono un’emozione,
ma hanno anche un carattere referenziale, di informazione sulla causa
del grido di allarme. Altri esperimenti, hanno evidenziato che in questa
specie i richiami possono contenere anche informazioni sull’emittente
e sulle relazioni gerarchiche. In altre specie sono stati individuati suoni
capaci di trasferire informazioni sulle relazioni sociali e sul cibo. I risultati di questi esperimenti sembrerebbero indicare una possibile derivazione del linguaggio verbale dai richiami animali (Rizzolatti, Vozza,
2008). Nel linguaggio verbale umano un termine può assumere un significato diverso da quello originario e/o principale oppure indicare
un emozione diversa da quella principale; in un sistema, come il “sistema versi”, ove il significato assunto da un termine dipende fortemente
dal contesto emotivo (allarme) da cui si è originato ciò non può, invece, avvenire. È difficile pensare che un sistema aperto come quello verbale umano, dove i singoli elementi possono combinarsi tra di loro assumendo valenze diversi dai contesti originari, si sia evoluto, invece, da
un sistema chiuso come quello dei vocalizzi.
Dalla comparazione del controllo volontario dei movimenti degli
arti superiori si evidenza che le regioni corticali sono omologhe nei
primati non umani e nell’uomo. Le caratteristiche neurofisiologiche
di queste aree indicano che i primati non umani e i primati umani
hanno un controllo corticale (dei movimenti degli arti superiori) dotato di un alto livello di complessità e che esso è paragonabile nei
148
due gruppi. Si tratta, inoltre, di specie che peculiarmente mostrano,
per caratteristiche genetiche, una dominanza manuale. In altre parole
i nostri antenati erano molto meglio preadattati per sviluppare un sistema di comunicazione intenzionale basato sui gesti manuali piuttosto che sulle vocalizzazioni (Gentilucci e Corballis, 2006).
5.2 La Teoria Linguistica di Rizzolatti ed Arber
La nascita di una comunicazione gestuale ha come condizione necessaria l’attribuzione univoca del significato del gesto da parte di tutti i soggetti interessati nonché la parità tra soggetti comunicanti. Secondo Rizzolatti ed Arber il sistema specchio soddisfa tale necessità.
Infatti, la caratteristica dei neuroni specchio è rappresentare un’azione osservata nei propri circuiti neurali come se venisse eseguita in
prima persona. Tale rappresentazione diviene comprensione intima
del significato dell’azione altrui nonché punto di partenza di un processo imitativo. Ciò implica che se in un gruppo un individuo compie
un dato gesto (afferrare con una mano del cibo), tutti gli altri componenti del gruppo comprendono il significato dell’azione in maniera
immediata (senza la necessità di un processo cognitivo). Le cellule
specchio sono quindi il legame tra colui che invia un messaggio e colui che riceve un messaggio, e garanzia che, nella relazione, il significato attribuito all’informazione dall’emittente sia lo stesso attribuito dal
ricevente. Inoltre, trattandosi di processi che hanno luogo su una base
neurale comune pongono emittente e ricevente sullo stesso piano.
La teoria di Rizzolatti e Arber risolve, in tal modo, due dei problemi più difficili nella comprensione della evoluzione del linguaggio:
l’univocità del significato attribuito e la parità dello scambio informativo. Gli ancestrali progenitori della specie umana, grazie al sistema specchio, avevano un mezzo di comunicazione immediato e condiviso. Ogni individuo era in grado di capire il “che cosa” e il “perché” delle azioni altrui. E data la dominanza manuale della specie, la
maggior parte dei gesti da capire erano gesti legati all’uso delle mani.
L’evoluzione del linguaggio sarebbe stata, quindi, preceduta dall’evoluzione di un sistema di comunicazione condiviso di tipo gestuale
(Rizzollatti, Vozza, 2008).
149
Per la prima volta una teoria sul linguaggio evidenzia il meccanismo neurofisiologico attraverso il quale si crea il legame comune,
non arbitrario, tra individui che comunicano tra loro in condizioni di
parità. I neuroni specchio cessano del tutto di essere solo motoneuroni e divengono, sotto il profilo filogenetico, i primi neuroni con significato comunicativo che appaiono nella corteccia laterale, elementi fondamentali per comprendere l’evoluzione del linguaggio.
Secondo i due studiosi, quindi, lo sviluppo del linguaggio verbale
nell’uomo è la conseguenza del fatto che, nel precursore dell’area di
Broca, esisteva, prima della comparsa del linguaggio, un meccanismo
per il riconoscimento delle azioni altrui e allo stesso tempo un meccanismo del controllo manuale.
Nella fase iniziale della costruzione di un mezzo di comunicazione
condiviso, l’uso della mano avrebbe avuto un ruolo fondamentale:
dal ruolo della mano, più che da quello della bocca, che probabilmente è dipeso lo sviluppo della capacità di articolare i gesti in maniera tale da dare vita a un primo sistema comunicativo aperto, cioè
in grado di esprimere significati nuovi sfruttando le possibili combinazioni dei singoli movimenti (Rizzolatti & Sinigaglia, 2008).
La conferma sperimentale che il sistema specchio crea un legame di
significati univoci tra emittente e ricevente è uno studio recente sui
passeri. Tale studio non solo ha dimostrato l’esistenza di “neuroni
specchio” anche negli uccelli ma anche che attività neuronali specchio
sono state registrate nel centro vocale superiore di passeri - un’area necessaria all’apprendimento e alla produzione di suoni musicali. Si tratta della prima evidenza sperimentale che dimostri come l’acquisizione
della capacità di comunicare, almeno negli uccelli, possa essere collegata all’attivazione del sistema dei neuroni con proprietà specchio.
Nella scimmia la regione corticale deputata al controllo manuale e
al riconoscimento delle azioni altrui è la porzione rostrale di corteccia premotoria ventrale, l’area F5, dotata di proprietà specchio. Come è stato ampiamente descritto nei paragrafi precedenti, i neuroni
di quest’area si dimostrano sensibili principalmente ad azioni eseguite con l’arto superiore, come ad esempio afferrare oggetti o cibo, manipolarli, tenerli in mano, strapparli, ecc.. Una piccola ma significativa percentuale di neuroni specchio si attiva anche per suoni prodotti
150
da determinate azioni, come ad esempio rompere una nocciolina o
strappare della carta (con una mano).
Le cellule neurali del controllo dell’arto scaricano dunque indifferentemente per osservazione, ascolto di rumori tipici,esecuzioni individuali di azioni: input sonori audio e visivi.
Sotto il profilo anatomo-fisiologico, nell’uomo le aree del controllo delle strategie del movimento degli arti superiori con proprietà
specchio risultavano contigue e/o sovrapposte all’area di Broca. Nella scimmia, invece prendono il nome di area F5. Tale area è considerata, da alcuni, come la regione omologa dell’area di Broca nell’uomo
(Rizzolatti & Arbib, 1998).
Ne consegue che la stessa area che nella scimmia controlla tali movimenti manuali e contiene un sistema in grado di stabilire una corrispondenza tra le azioni osservate e quelle eseguite, ha il proprio probabile omologo nell’area di Broca.
Stimolati dalle ipotesi di Rizzolatti e Arber, la Sezione linguistica del
Istituto Nazionale della Salute di Bethesda, il Dipartimento di Scienze
dell’Educazione della Hofstra University di New York, il laboratorio
per il Linguaggio e le Neuroscienze Cognitive dell’università di San
Diego, si sono chiesti quali fossero le aree cerebrali umane che processano l’interpretazione dei significati delle espressioni gestuali, (ossia
l’interpretazione di specifici movimenti del corpo e delle mani che possono sostituire completamente le parole e che hanno valore di enunciati completi dotati di significati propri compiuti) e che correlazione tali
aree avessero con i centri del linguaggio. Nello studio sono stati presi
in considerazione due tipi di gestualità: le pantomime, che mimano oggetti o azioni (come l’avvitamento di un tappo), e gli emblemi, usati solitamente nelle interazioni sociali e che hanno un significato astratto ed
emotivamente più carico rispetto alle pantomine, come quando per
esempio si accosta un dito alle labbra per indicare “non parlare” (Jiang
et al., 2009). I risultati dello studi hanno mostrato che le aree che decodificano per le espressioni gestuali dotate di significato compiuto sono
il giro frontale inferiore, l’area di Broca e l’area di Wernicke, ossia le
stesse aree che decodificano il linguaggio verbale e scritto.
Il gruppo di studiosi suggerisce che le aree di Broca e Wernicke,
individuate a partire dal diciannovesimo secolo come il cuore del si151
stema linguistico del cervello, non siano in realtà centri dell’elaborazione del linguaggio, ma piuttosto un sistema semiotico indipendente
che crea collegamento con i simboli di significato sia se queste sono
parole, gesti,immagini, suoni, o oggetti. Un ruolo ben più ampio nella comunicazione umana. I risultati confermerebbero l’ipotesi secondo cui i comuni antenati di grandi scimmie dell’essere umano comunicassero con gesti ricchi di significato e che col tempo le aree celebrali che elaboravano la gestualità si siano adattate all’uso della parola. Le nostre aree del linguaggio sono ciò che resta di un antico sistema di comunicazione, ciò che resta del punto di partenza del suo sviluppo evolutivo, e che ora elaborano – indifferentemente – sia gesti
che parole. (Jiang et al., 2009).
Questa scoperta non solo fornisce una prova dell’origine gestuale
del linguaggio ma aiuta anche a capire l’interrelazione che esiste fra il
linguaggio e i gesti quando il bambino sviluppa le proprie capacità
linguistiche. Nel bambini piccolo, ad esempio, la capacità di verbale
di comunicare è preceduta dalla comunicazione gestuale ed è possibile prevederne le abilità linguistiche sulla base del repertorio gestuale espresso nei primi mesi di vita (Jiang et al., 2009).
Nel continuare l’esposizione della loro teoria Rizzolatti e Arber
prendono a prestito le ipotesi formulate da Paget negli anni ’30 sull’origine del linguaggio (“Schematopoeia”). Secondo Paget, i gesti della
mano dei nostri progenitori sarebbero stati accompagnati da movimenti inconsapevoli della lingua, delle labbra e delle mascelle. In seguito gli individui avrebbero scoperto che, tramite l’aspirazione dell’aria, la bocca è in grado di produrre gesti sonori che gli altri possono
capire: questo, secondo Paget, sarebbe stato l’inizio del linguaggio. In
altre parole, è possibile che oggetti o eventi descritti attraverso i gesti
manuali, come ad esempio rappresentare un oggetto grande mediante
un gesto ampio oppure un oggetto piccolo mediante una piccola apertura delle dita, siano stati accompagnati da apertura labiale e chiusura
labiale (mimica facciale corrispondente al gesto). L’apertura e la chiusura labiale avrebbe prodotto un suono che avrebbe prima affiancato il
significato del gesto, poi sostituito. In tal modo si sarebbe sviluppato
un primitivo vocabolario di suoni aventi significato compiuto. In tal
modo un sistema a messaggi aperti e visibili, come quello dei gesti, si
152
sarebbe potuto trasformare in un sistema chiuso e invisibile, come
quello dei suoni della bocca e della laringe (Rizzolatti, Vozza, 2008).
A sostegno dell’ipotesi di Paget c’è la maggiore tendenza delle
scimmie rispetto all’uomo a riprodurre le azioni osservate. Nei paragrafi precedenti abbiamo visto che per certi tipi di azioni transitive
(afferrare del cibo con l’intenzione di mangiarlo), all’osservazione,
anche parziale, dell’azione segue tendenzialmente la comprensione
dell’intenzione dell’azione e la sua riproduzione in azione: la mano e
la masticazione. Il ciclo di apertura e chiusura della bocca legato alla
masticazione e ad altre azioni legate alla nutrizione, come ad esempio
il succhiare e il leccare cibo, associate al gesto manuale, costituirebbero la cornice sillabica specifica del linguaggio umano associato al
significato gestuale. L’attivazione di queste aree, sappiamo, che avviene anche per input auditivi (rompere una nocciolina) e ciò avrebbe
ampliato l’orizzonte dell’associazione gesto-suono.
Sotto il profilo anatomo-funzionale le cellule della zona cerebrale F5
scaricano sia per azioni manuali che durante i movimenti di protrusione
ripetuta delle labbra, uno dei gesti facciali comunicativi più comuni fra
i primati non umani. Jan van Hooff, un primatologo olandese, aveva
ipotizzato già negli anni sessanta che tali gesti fossero in origine azioni
per ingerire il cibo, pertanto legati agli arti superiori, e solo in seguito
trasformatesi in azioni intransitive che comunicavano affiliazione e rassicurazione (Rizzolatti, Vozza, 2008). Il complesso di azioni, dunque,
che osservate/udite oppure eseguite si dimostra efficace nell’attivare
una parte dei neuroni della corteccia premotoria ventrale di scimmia
comprende movimenti eseguiti con la mano o con la bocca (Gentilucci,
Dalla Volta, 2008). Non a caso, l’analisi comparata dei profili anatomofisiologico dei due gruppi (primati umani e primati non umani) evidenzia che la maggior parte delle modificazioni corticali necessarie alla
comparsa del linguaggio hanno avuto luogo in quella parte della corteccia frontale dei primati non umani, omologa della Broca e deputata al
controllo della masticazione. (Gentilucci, Dalla Volta, 2006).
Paget aveva anche notato che in molte lingue diverse vi era la tendenza ad associare il suono “a” a parole che indicano “larghezza” e il
suono “i” a parole che indicano “piccolo” o “minimo”. Per verificare
l’ipotesi di Paget, Gentilucci et al. a partire dal 2001 hanno effettuato
153
degli esperimenti volti ad accertare se esiste un collegamento fra i gesti
della mano e quelli della bocca. In un altro esperimento, videoregistrato, hanno chiesto a dei volontari di prendere in mano, di volta in volta,
un oggetto piccolo e un oggetto grande e di associare al gesto la stessa
apertura boccale. Malgrado l’ordine impartito, nelle videoregistrazioni
si vedeva che la bocca si apriva maggiormente quando veniva afferrato
l’oggetto più grande e che l’apertura boccale si restringeva con l’oggetto piccolo. In un altro esperimento hanno chiesto ai volontari di pronunciare le sillabe “ga” e “gu” scritte su ciascuno oggetto. In maniera
similare al primo esperimento, l’apertura della bocca era differente a
seconda della grandezza dell’oggetto. Le caratteristiche fisiche e cinematiche di un dato gesto brachio-manuale vengono ad assomigliare a
quelle delle posture (“gesti”) fono-articolatorie. In tal senso, il movimento della bocca può essere considerato ciò che rimane nell’uomo
dell’antico “capire l’intenzione dell’azione e, quindi, replicare – completando – l’azione” (afferrare per masticare e deglutire). Se ne può conseguire che i gesti della mano e della bocca sono regolati da circuiti comuni, che determinano anche corrispondenze nelle dimensioni e nella
velocità dei movimenti: al movimento ampio è associata una grande
apertura della bocca e viceversa (Rizzolatti, Vozza, 2008).
Durante l’evoluzione filogenetica, quindi, il linguaggio verbale pare aver sfruttato le possibilità consentite dall’area di Broca e dai circuiti specchio sia per quanto riguarda il riconoscimento del significato comune delle azioni sia per quanto riguarda l’articolazione vocale
(Rizzolatti, Sinisgaglia, 2006) con una interazione tra gesti manuali e
quelli oro-facciali legati alla masticazione.
L’area “motoria” di Broca, responsabile dei movimenti laringei,
oro-facciali, brachio-manuali, sede delle più importanti strutture
neurali specchio, si ritroverebbe ad avere nello sviluppo cognitivolinguistico un ruolo più che determinante (Rizzolatti, Arbib, 1998).
L’evoluzione del linguaggio sembra perciò passata attraverso una
serie di tappe in cui l’importanza dei sistemi neurali specchio coinvolti nei processi di comprensione-riconoscimento immediato di specifici atti motori, imitazione, apprendimento, riproduzione e uso intenzionale degli stessi appaiono necessari e determinanti. Dunque,
essi non solo costituirebbero il prerequisito (preconcettuale e prelin154
guistico) neurale e motorio dell’articolazione del linguaggio gestuale
e verbale umano, ma – come sembrano dimostrare altre ricerche –
avrebbero un ruolo determinante anche nel riconoscimento degli stati emotivi che sono alla base delle esperienze soggettive e sociali
(Gentilucci e Dalla Volta, 2008).
Secondo la teoria di Haekel (1896), la storia evolutiva della nostra
specie (filogenesi) viene ricapitolata o percorsa durante lo sviluppo
di ogni singolo individuo. Se così fosse, sarebbe lecito pensare che
un infante s’impadronisce del linguaggio prima attraverso una fase
“acquisizione comune di significati”, legata essenzialmente al meccanismo specchio, poi attraverso una fase di comunicazione gestuale
associata ad una mimica facciale, meno soggetta a processi inbitori
per immaturità dei sistemi corticali superiori, e, infine, per reiterazione, attraverso un’associazione gesto-suono.
5.3 Dal protolinguaggio al linguaggio verbale
Il passaggio da una comunicazione gestuale ad una verbale, pur
rappresentando un vantaggio competitivo, ha richiesto un percorso
evolutivo sicuramente lungo e difficile. L’utilizzo di un linguaggio verbale, come mezzo di comunicazione, implica infatti che i suoni siano
pronunciati in modo chiaro, preciso e sempre uguale e recepiti altrettanto chiaramente. Se si prendono in esame i centri di produzione dei
suoni nei primati, umani e non (rispettivamente il giro del cingolo e le
strutture sottocorticali per i primati non umani e l’area di Broca per i
primati umani), e si confrontano, non si può fare a meno di concludere che la parte laterale del cervello dei primi ominidi, sotto pressione
selettiva, si deve essere espansa. In effetti, studi compiuti sulle cavità
craniche dei progenitori dell’Homo sapiens, indicano che circa due
milioni di anni fa è cominciato un processo di espansione della parte
laterale della corteccia (dove ora si trovano l’area di Broca e di Wernicke) indotta, forse, proprio dal sistema di comunicazione e che ha
determinato un aumento delle dimensioni del cervello.
Interessante a tal proposito è stato lo studio che ha condotto Luciano Fadiga, uno dei membri dell’equipe che agli inizi degli anni ’90
scoprì l’esistenza dei neuroni specchio, sui processi neurali sottostanti
155
la capacità di riconoscere i suoni emessi dal sistema laringe-bocca. Ad
alcuni volontari è stato chiesto di ascoltare molto attentamente alcune
parole mentre la corteccia veniva sottoposta a stimolazione magnetica
(TMS). I risultati hanno mostrato che ascoltare parole contenenti una
doppia “r”, ma non una doppia “f” (muffa/carro), determina un’attivazione delle aree che controllano i muscoli della lingua (Rizzolatti,
Vozza, 2008). Il dato sperimentale riflette la maggiore/minore difficoltà di pronuncia di alcuni suoni: là dove la produzione del suono è più
difficoltosa, nell’ascolto si attivano le aree che controllano i muscoli
laringei. Si tratterebbe di un meccanismo specchio, definito “specchioeco”, in cui si verificherebbe una facilitazione motoria finalizzata alla
percezione del linguaggio indotta dall’ascolto. In altre parole, ascoltare fonemi induce, nell’ascoltatore, un meccanismo di scarica, un’attivazione di vie neurali che riproduce fedelmente la stessa sequenza
motoria di quella usata dal parlante per emettere quello specifico fonema (Rizzolatti, Vozza, 2008): comprendo ciò che dici perché è come se lo stessi dicendo io! Se a questo quadro sperimentale, applichiamo “il principio dell’anticipazione degli schemi motori”, il fenomeno tipico “dell’anticipazione delle conclusioni dei discorsi altrui”,
più che riflettere un dato cognitivo nel senso classico del termine, rifletterebbe la velocità relativa del sistema specchio-eco.
In conclusione si può dire che gli studi sull’origine del linguaggio
di Rizzolatti e Arber, oltre a chiarire molti dei meccanismi evolutisi
rimasti sin qui insoluti, delineano un comune meccanismo interindividuale di costruzione oggettiva della realtà per equivalenza tra percezione individuale e percezione collettiva.
6. Conclusioni
La scoperta dei neuroni specchio impone, nella riflessione dell’uomo sull’uomo, una visione del sistema motorio nettamente diverso da
quello proposto in passato (mero sistema di controllo dell’esecuzione
di movimenti), coinvolto in processi, quali percezione, apprendimento, linguaggio, conoscenza, emozione, ritenuti sin’ora di esclusivo appannaggio della sfera mentalistica.
156
Guardando la realtà, interna ed esterna ad un io-persona, attraverso
il significato della scoperta di Rizzolatti et al. sembra che, privi dei neuroni specchio siamo muti, ciechi e sordi gli uni di fronte agli altri, privi
di ogni possibilità di inter-comunicare e realmente comprendere, persi in
singoli giochi di astrattismo mentalistico in mezzo al mare, su di un’isola deserta. I neuroni specchio, rappresentano più che un ponte tra singoli mondi, il filo comune che tiene insieme il genere umano consentendo
di sfuggire a mere rappresentazioni individualistiche del vero e costruendo il presupposto indispensabile per una comune realtà oggettiva.
Il significato della scoperta del meccanismo specchio obbligatoriamente costringe a rivedere la teoria della mente, almeno per ciò che
riguarda la capacità di inferire gli stati mentali altrui (vale a dire con
pensieri, opinioni, desideri, emozioni non propri), l’abilità di usare
tali informazioni per interpretare, attribuire significati e prevedere
comportamenti (Baron-Cohen S, Leslie AM, Frith U. 1985): il campo
di studi del cognitivismo sociale. Secondo la scuola di Rizzolatti il
processo di inferenza si basa su un processo motorio che diviene, di
conseguenza, parte della coscienza, e non solo rispetto ai contenuti
ma anche rispetto ai processi. I processi motori acquisiscono, pertanto, dignità di fondamenta e parte costitutiva dei processi cognitivi.
Viene così a cadere quella tipica separazione tra processi motori e
processi cognitivi superiori (con un sistema motorio deputato all’azione e un sistema cognitivo superiore che “associa” all’azione significati sulla base di un proprio funzionamento autonomo) che alludeva alla divisione mente-cervello. Secondo Rizzolatti l’esistenza di
meccanismi motori, automatici, finalizzati alla comprensione non implica che alla stessa non si possa pervenire attraverso vie logico-deduttive, ma piuttosto che tra le due vi sia una differenza di attribuzione di significato: mentalistico nel primo caso, emotivo-corporeo
nel secondo8. A ben guardare non è solo, o non è tanto, la contrap-
8
In questo tipo di modello il processo cognitivo interverrebbe come processo secondario – di riflessione – ma non necessariamente di restituzione del
significato autentico.
157
posizione motorio/cognitivo che viene a cadere ma piuttosto la tripartizione di Hilgard, rifacentesi al concetto plutoniano di anima tripartita, in cognizione, emozione e motiv-azione. Il sistema motorio
entra quindi in tutti gli elementi spirituali dell’essere umano restituendo “l’ontologia dell’essere” alla relazione corpo-mente.
In altre parole, se si considera l’ipotesi “della mente che emerge
dal cervello” si avrebbe, un insieme di neuroni in attività autoregolata, interconnessi da sinapsi genico-ambientali, producenti una memoria , dai cui circuiti cerebrali emergerebbe la mente; quest’ultima
sarebbe solo un flusso di informazioni, un potenziale elettrico. Ma se
il flusso di informazioni avesse in sé anche un dato motorio, se avesse
oltre il valore energetico, anche quello di massa, ontologicamente dove saremmo? Nella mente, nel cervello o “nella mente che è cervello
e nel cervello che è mente”?
Sembrerebbe che, attraverso lo specchio del mondo, parte imprescindibile di ognuno di noi come valore costante di “soglia”, la corporeità sia mezzo che consente di esperire il mondo non perché mero
mezzo fisico ma in quanto mattone essenziale del processo di comprensione/conoscenza/consapevolezza della realtà circostante. Mezzo tanto più efficace perché restituirebbe il significato come valore
comune, quindi, oggettivo e colorito, inoltre, anche della sua dimensione emotiva.
In contrapposizione alla visione di Rizzolatti, Caramazza ha evidenziato che esistono due modelli principali dell’organizzazione della
mente nel cervello: l’approccio riduzionistico e l’approccio mentalistico. Secondo tale scienziato, che nega l’esistenza dei neuroni specchio,
l’approccio riduzionistico afferma che la cognizione si può ricondurre
alla rappresentazione senso-motorio e l’approccio mentalista afferma
che la cognizione non è riconducibile alla sola rappresentazione senso-motorie in quanto i neuroni specchio non sono in grado da soli di
spiegare la capacità degli esseri umani di rappresentarsi gli stati psicologici (credenze, intenzioni, desideri, emozioni) ed ascriverli ad altri
(Caramazza e Nicod in Lavazza, 2009). Il sistema specchio avrebbe
solo il significato di generatore di input motori, di contenuti preconsci della mente portati alla soglia della consapevolezza da processi cognitivi. Nella visione di Caramazza e Nicod, si avverte il riferimento
158
alla teoria evolutiva della mente e del comportamento come sviluppo
nei mammiferi della neocorteccia: poiché il pensiero, il ragionamento,
la memoria e la capacità di soluzioni di problemi sono meglio sviluppati nei mammiferi, in particolare negli esseri umani e in altri primati
che hanno una quantità relativamente più ampia di tessuto neocorticale, si credeva che questi processi fossero mediati dalla neocorteccia,
e non dalla paleocorteccia o altre aree celebrali; di contro, la paleocorteccia e le regioni subcorticali connesse costituiscono il sistema
limbico, che si diceva mediasse gli aspetti evolutivamente più antichi
della vita mentale e del comportamento, le nostre emozioni. In questo
modo, si era giunti a considerare la cognizione una funzione della
neocorteccia, e le emozioni del sistema limbico (LeDoux, 2006).
Sicuramente i neuroni specchio hanno un’influenza sulla costruzione dei processi cognitivi sociali e sui processi cognitivi più in generale. Iacoboni, in una intervista rilasciata al “Mental Health” nel
2009, parla di una “teoria della mente” troppo macchinosa quando
vuole spiegare la gran parte delle interazioni umane quotidiane, che sono incessanti, veloci, e basate su attività spesso ripetitive” (si vuole
spiegare la mente di Macchiavelli per capire l’uomo di tutti i giorni).
Sempre nella stessa intervista, afferma che “la scoperta dei neuroni
specchio sia molto rilevante per la psicologia, sia generale che cognitiva
in quanto queste cellule sono specializzate nel codificare le azioni proprie e altrui, e presumibilmente ci permettono di mappare le azioni altrui sulle nostre, cosicché capiamo queste azioni in modo diretto; qualunque aspetto del comportamento interpersonale e sociale che coinvolga azioni di qualsiasi tipo viene toccato. Ovviamente con questo non
voglio dire che i neuroni specchio da soli possono gestire questa gran
parte del comportamento interpersonale e sociale ma che quello che i
neuroni specchio fanno è importante e che senza queste cellule rischieremmo di percepire in modo fortemente alterato le azioni altrui”.
La rilevanza dei processi cognitivi sociali nella costruzione e ricostruzione del sé sono stati ampliamente sottolineati da Siegel ne “La
mente relazionale” ove aveva rilevato come “la narrazione autobiografica è il tentativo di organizzare un sistema coerente tra la processazione e la rappresentazione delle proprie attività e tra la processazione e la
rappresentazione della mente degli altri”(Siegel, 2001) negando, in tal
159
modo, una visione riduzionista dei processi cognitivi sociali rispetto
ai processi cognitivi individuali.
In un’altra intervista, rilasciata al “Brain Factor” nel 2009, sulla
contrapposizione Rizzolatti-Caramazza, è intervenuto Vittorio Gallese che ha sottolineato come ancora troppa parte del mondo accademico guarda alle neuroscienze semplicemente come a un mero percorso di localizzazione e validazione di meccanismi mentali e/o psicologici ritenuti validi a priori. Secondo il neuro scienziato nel momento in cui le neuroscienze producono risultati che mettono in discussione o addirittura confutano questi modelli, la tendenza è quella
di mettere in discussione i dati piuttosto che i modelli aprioristici.
“L’atteggiamento del Prof. Caramazza, al di là dei limiti intrinseci del
suo recente lavoro, da lui sbandierato come prova della supposta inesistenza dei neuroni specchio nell’uomo, ne costituisce un chiaro
esempio. Nel corso degli ultimi 10-15 anni, a partire dalla nostra scoperta dei neuroni specchio nel cervello del macaco, numerose ricerche hanno profondamente modificato sia il modo tradizionale di
concepire la relazione tra percezione e azione, sia il ruolo che percezione e azione hanno nella costruzione della cognizione sociale. La
scoperta del meccanismo di risonanza motoria dei neuroni specchio
ha dimostrato che il sistema motorio, lungi dall’essere un mero controllore di muscoli e un semplice esecutore di comandi codificati altrove, è in grado di assolvere funzioni cognitive che per lungo tempo
sono state erroneamente ritenute appannaggio di processi psicologici
e meccanismi neurali di tipo puramente associativo. La percezione
dell’agire altrui, cioè il riconoscimento che quelli che osserviamo non
sono puri movimenti fisici ma atti motori finalizzati caratterizzati da
uno specifico contenuto intenzionale, risulta essere una modalità dell’azione, dal momento che si radica nella stessa conoscenza motoria
che è alla base della capacità di agire di ognuno di noi. Questo concetto è incredibilmente difficile da accettare da parte delle scienze
cognitive classiche, secondo le quali il sistema motorio, per definizione, non può avere attributi di tipo cognitivo” (Gallese, 2009). Gallese, altresì, evidenzia che mentre in altre parti del mondo fioccano la
ricerche per capire meglio come il meccanismo specchio altera tutta
l’“impalcatura cognitiva umana”, in Italia si ci perde in discussioni
160
circa l’esistenza o meno di tali cellule neurali. “Il meccanismo incarnato dai neuroni specchio ci restituisce invece un’immagine molto più ricca dei processi che sottendono le interazioni sociali, a cominciare da
quelle filogeneticamente ed ontogeneticamente di base. La comprensione delle azioni e delle intenzioni motorie altrui, resa possibile dal meccanismo mirror, mette in discussione l’astratto mentalismo o “mentalese” di non pochi modelli di psicologia cognitiva, primi tra tutti i tanto
celebrati moduli della Teoria della Mente. Il dibattito sulla capacità di
comprendere gli altri concepita unicamente in termini di lettura della
mente altrui è stato per anni sviato dall’assunzione che una volta chiarito cosa serva alla mente per dar ragione del comportamento altrui (gli
atteggiamenti proposizionali) e come attribuiamo agli altri tali atteggiamenti proposizionali, quali credenze e desideri (che si suppone essere
alla base delle loro azioni), non rimanga che trovare dove dimori nel
cervello tutta questa “psicologia”. Così facendo, però, si è finito per dare a una presunta spiegazione psicologica assunta come vera a priori
una altrettanto presunta base neurale, lasciando, tuttavia, inspiegati
tanto gli effettivi processi psicologici quanto i reali meccanismi neurali
che sottendono la cognizione sociale. Per anni ci hanno raccontato che
quando siamo chiamati a comprendere il comportamento altrui attiviamo aree specifiche del cervello come la corteccia cingolata anteriore
(ACC) e la giunzione temporo-parietale (TPJ) che costituirebbero la sede nel cervello di un supposto modulo della Teoria della Mente. Tutto
ciò è falso. È stato infatti dimostrato che tali aree si attivano anche per
compiti del tutto scorrelati dalla “lettura della mente” altrui, come l’attenzione, o addirittura l’eccitazione sessuale. Questa è la frenologia del
ventunesimo secolo! E ad incarnare questa frenologia “high-tech” vedo
più gli psicologi cognitivi (che, mediamente, di come è fatto il cervello e
come funziona sanno poco o nulla) che i neuroscienziati che, almeno, si
pongono il problema di capire quale sia il meccanismo neurofisiologico
che determina l’attivazione di un dato circuito corticale durante un dato compito. La verità è che nessuno ha la più pallida idea del perché
aree corticali (come la ACC e la TP) si attivino sistematicamente anche
durante compiti di mentalizzazione. E sa perché? Perché a tutt’oggi
non conosciamo il meccanismo neurofisiologico che ne determina l’attivazione”. E ancora “L’oggetto del contendere, della disputa scientifica,
161
è l’esistenza dei neuroni specchio nel cervello dell’uomo. Il Prof. Caramazza, sulla base dei risultati del lavoro che ha appena pubblicato, sostiene di potere provare che essi non esistono. Ma delle due l’una: o i
neuroni specchio nell’uomo non esistono, e quindi non ha senso chiedersi se possano spiegare alcunché; oppure esistono, ma non spiegano
ciò che pretendono di spiegare. Dire come fa il Prof. Caramazza “che
non esistono e che non spiegano” è privo di senso logico, un non sequitur. La mia posizione è chiara e netta: la prova definitiva dell’esistenza
di neuroni specchio nell’uomo potrà venire solo ed esclusivamente dalla loro registrazione diretta9, ottenibile con metodiche invasive e per
questo di difficile ma non impossibile realizzazione. Credo sia solo questione di tempo. Fino a quel momento, speculare sulla loro esistenza è
legittimo. Non è invece legittimo affermarne l’inesistenza sulla base di
dati come quelli prodotti dal Prof. Caramazza. Devo aggiungere che le
evidenze scientifiche indirette circa la loro esistenza nell’uomo sono attestate da un impressionante numero di lavori scientifici internazionali
ottenuti con tecniche d’indagine le più diverse, quali PET, fMRI, TMS,
EEG e MEG. Il lavoro di Caramazza e colleghi non intacca assolutamente queste evidenze sperimentali. La presenza nel cervello umano di
un meccanismo riconducibile ai neuroni specchio rappresenta la spiegazione unificante più parsimoniosa di una serie di diversi dati comportamentali e clinici. Inoltre, i neuroni specchio esistono incontrovertibilmente negli uccelli e nelle scimmie. È pertanto altamente improbabile
che un meccanismo rivelatosi adattativo, tanto da essere stato conservato nel corso dell’evoluzione in specie evolutivamente così lontane, venga poi ad essere cancellato proprio nella nostra specie.
Dopo anni di geremiadi contro la scienza e la tecnica, dopo la deleteria predicazione favorente una rigida separazione tra le due culture, quella scientifica e quella umanistica, si sta arrivando alla consapevolezza che
la spiegazione neuroscientifica di un tratto comportamentale o cognitivo
9
La dimostrazione diretta dell’esistenza dei Neuroni Specchio è avvenuta nel
corso del 2010, come riportato nell’articolo di Saragosa pubblicato sul
numero di giugno 2010 de “Le Scienze”.
162
non si riduce alla semplice localizzazione, ma è tale solo nella misura in
cui individua i meccanismi neurofisiologici che rendono possibile l’attivazione di un dato circuito cerebrale durante l’esecuzione di un compito
specifico, un incontro tra due mondi che non deve essere reso vano”.
Alla luce della recentissima pubblicazione su “Le Scienze”, che
conferma la presenza di tali cellule nel cervello umano, non si può
non sottolineare la correttezza delle osservazioni di Gallese.
Tra l’altro il sistema specchio rimanda, più che ad un idea dell’importanza del meccanismo di rispecchiamento, all’importanza dell’interconnessione tra sistemi neurali, concetto ampiamente espresso ne
“Il Sé Sinaptico” da LeDoux. Il sistema specchio, infatti, necessita
costantemente della interazione di altri sistemi neurali. L’esempio più
classico è quello dell’empatia. I neuroni specchio contribuiscono alla
capacità di empatizzare quando, per fare un esempio, si vede qualcuno piangere, perché consentono di “simulare” il pianto altrui e perché mandano segnali neurali ai centri emozionali classici del lobo
limbico, così che si possono anche “sentire” le emozioni che tipicamente si associano al pianto. (Senza le interazioni con il lobo libico,
l’attività dei neuroni specchio, da sola, non basterebbe ad rappresentare la complessità del processo empatico.) Contemporaneamente,
pur essendo state attivate le vie neurali del pianto, non si piange perché i meccanismi di desensibilizzazione e di inibizione dei sistemi
esecutivi sono stati a loro volta interconnessi al processo in atto. Il
provare l’emozione del pianto – senza il piangere – consente di non
disintegrarsi costantemente e di conservare – integro – il senso del sé
(cfr. Laura Boella), continuando quella autonarrazione di equilibrio
tra il sé e il mondo (cfr. Siengel). E conservando il senso di sé, tenendo bene in mano il filo che unisce al mondo, è possibile separarsi un passo indietro - da se stessi e flettersi nuovamente su colui che
piange, con un’altra parte del sè, una parte che apparentemente avvicina ma che se non si procede con attenzione, spaventosamente allontana dal significato autentico delle cose.
163
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166
V
CAPITOLO
FONDAMENTI ANTROPOLOGICI E NEUROSCIENTIFICI
AD UNA PSICOPEDAGOGIA DELLA CORPOREITÀ
di Chiara D’Alessio
La corporeità è rivelazione dell’armonia che fa dell’uomo, come affermava Democrito, un microcosmo o convergenza delle diversità tendenti
all’unità. Sotto questo aspetto, la corporeità è un universo in piccolo
che condensa l’armonia del macrocosmo. E, insieme, costituiscono l’ineusaribile fonte della meraviglia (Palumbieri, 2006).
1. Introduzione
Il lavoro intende presentare una serie di piste di riflessione riguardanti la ricaduta pedagogica degli studi sul concetto di corporeità in
ambito filosofico e neuroscientifico. Riteniamo che ciò possa costituire un’importante base di partenza per ogni tipo di discorso psicopedagogico e pedagogico-clinico che voglia partire da una visione unitaria dell’essere umano ove l’artificiosa divisione tra mente e corpo (e
tra mente e cervello), appartenente ad un ragguardevole passato nel
quale certa riflessione filosofica ha avuto un ruolo preponderante,
non ha ormai ragione di esistere.
Il perfezionamento di tecniche di neuroimaging (si pensi alle
straordinarie potenzialità della magnetoencefalografia) ha permesso
lo studio del cervello “in vivo” sia dal punto di vista anatomico che
funzionale evidenziando in maniera progressivamente più precisa la
natura dei processi nervosi durante lo svolgimento di compiti cognitivi, motori o relativi a stati emozionali. Pur essendo ancora lontani
dal comprenderli in tutta la loro meravigliosa complessità, le suggestioni offerte sono molteplici.
167
Nonostante le recenti aperture della psicologia e della pedagogia i
tentativi di dialogo con le neuroscienze avvengono ancora prevalentemente all’interno delle accademie o in ambito strettamente psicoterapeutico o, talora, pedagogico-clinico. Dovrebbero invece al più
presto rientrare a pieno titolo nella formazione degli insegnanti e degli educatori in generale, consentendo in loro la creazione di una
mentalità aperta al dialogo e la costruzione di metodi e strumenti di
lavoro continuamente aggiornati.
Il nostro lavoro non ha la pretesa di appropriarsi di campi appartenenti tradizionalmente alla ricerca filosofica o neuropsicologica ma
vuol essere una riflessione su quanto queste ultime siano, rivisitate in
chiave psicopedagogica, in grado di prospettare scenari di enorme
interesse alcuni dei quali tenteremo di delineare.
L’ultimo ventennio ha visto la progressiva proliferazione degli studi sul rapporto mente-cervello (nell’ambito della psicobiofisiologia,
della neuropsichiatria, della psiconeuroendocrinologia, della psicosomatica, della biogenetica) che hanno fatto registrare una vera e propria esplosione negli ultimi anni (si pensi ai lavori sullo stress di H.
Selye, di O. Sacks e O. Turnbull sui rapporti tra cervello e mondo interno, agli studi sulla conoscenza del cervello di J. Eccles, alla messa
in luce dei rapporti tra costruzione del sé e anatomofisiologia cerebrale di J. LeDoux, agli studi psicobiologici di C. Trevarthen circa i
rapporti tra empatia e biologia, al lavoro di J. Kandel sulla relazione
tra psicoanalisi, psichiatria e biologia della mente, alla scoperta nei
neuroni specchio operata da G. Rizzolatti, e ai lavori di G. Sinigaglia,
e M. Iacoboni, fino ad arrivare alla genomica psicosociale di Rossi
(D’Alessio, 2008; D’Alessio, 2009).
Nell’ambito della psicofisicità dell’età evolutiva la relazione
mente-cervello-corpo alla luce delle recenti scoperte in campo neuroscientifico evidenzia i legami tra attività cerebrale, attività mentale, attività motoria, tanto più stretti quanto più precoce è l’età dei
soggetti.
Come già felicemente intuito da Piaget, Bruner, Gardner, Doman,
lo sviluppo delle rappresentazioni e dei processi cognitivi è strettamente legato alla qualità dell’attività motoria che il bambino può
esperire già dai primi mesi di vita. I recenti studi neuropsicologici
168
evidenziano come lo sviluppo dell’io parta da esperienze motorie, ed
è effetto della profonda correlazione tra sviluppo motorio e sviluppo
emotivo, intellettuale, sociale. Ogni movimento è strettamente correlato allo psichismo che lo produce, essendo al contempo fattore di
costruzione e modellamento di esso: l’interazione tra aspetti motori e
psichici è immediatamente ravvisabile nelle emozioni che comportano mutamenti delle funzioni fisiologiche. Per questo motivo si avverte la particolare necessità di convergenza tra studi pedagogici, psicologici, psicoanalitici, sociologici, antropologici, biologici, fisiatrici e
di correlazione tra linguaggi scientifici (psicogenetico, psicodinamico, neuropsicologico…) che spiegano lo sviluppo sensomotorio, intellettivo ed affettivo, estrapolandone nelle varie fasce d’età lo sviluppo progressivo della personalità.
Risulta dunque evidente la necessità, per chi si occupa di discipline
psicopedagogiche, di non trascurare tali apporti al fine di costruire i
fondamenti di una psicopedagogia della corporeità la quale, all’interno di una visione umanistico-personalistica dell’educazione e della
formazione, parte da un’idea di essere umano come unità bio-psicosocio-spirituale, in cui corpo e pensiero, indissolubili in ogni singolo
essere umano, gli conferiscano anche carattere di irripetibilità.
La valorizzazione del corpo e del movimento si muoverebbe dunque all’interno di un’antropologia di stampo umanistico-personalista
riletta alla luce delle più recenti teorie neuroscientifiche, la cui visione consenta di elaborare teorie e tecniche psicopedagogiche che traggano dalla prima fondamento e dalle seconde giustificazione (si pensi
alle suggestioni della neurodidattica o al valore compensativo e vicariante delle attività motorie e sportive che rappresentano veri e propri veicoli privilegiati per l’accesso ai saperi).
2. Corpo e Corporeità: uno sguardo filosofico
Dal punto di vista della filosofia occidentale, nell’antichità corpo e
anima sono stati sempre studiati in maniera dialettica o addirittura
oppositiva. Secondo Platone il corpo è tomba dell’anima, che se ne
distacca nell’ascesi; per i neoplatonici esso è semplicemente materia.
169
Anche Aristotele, pur tentando di risolvere tale dualismo nella teoria
dell’atto primo, considera la vita corporea come una condizione secondaria; essenza propria dell’uomo è invece la vita razionale, che
viene esplicata meglio se distaccata da ogni esigenza corporea. La visione cartesiana del corpo come compresenza di materia estesa e materia pensante conferisce una nuova importanza allo studio del corpo
e lo stesso Leibniz propone l’armonia tra anima e corpo (Palumbieri,
2006). Si tratta comunque di approcci dualistici, ove il corpo è considerato come sostanza estesa, quantizzabile, sede di processi fisiochimici non differenti dall’animale, né dal cadavere. Il secolo XIX è stato caratterizzato da due approcci contrapposti: quello logocentrico
dell’idealismo e quello somatocentrico che si focalizza su ciò che era
stato trascurato dalla cultura classica, tendente a ridurre il corpo a
puro strumento (ib.).
Nella cultura contemporanea il corpo è considerato all’inizio di
ogni discorso sull’uomo: ciò non è esente dal rischio di una visione
materialistica che lo considera come principio da cui tutto parte ed
in cui tutto si risolve. La separazione mente-corpo, avente radice nelle cartesiane res cogitans e res extensa, sembra ormai del tutto superata da parte di più comunità scientifiche lasciando spazio a visioni di
tipo olistico, che, pur partendo da studi che per necessità analitiche
vengono condotto su versanti differenti, integrano i loro apporti tentando di fornire descrizioni, spiegazioni, interpretazioni, applicazioni
in risposta ad interrogativi, problemi, esigenze riguardanti lo sviluppo dell’essere umano e la sua formazione. Il punto di partenza è una
visione dell’uomo come unità indivisibile, ove le dimensioni biologica, psicologica, sociale sono aspetti nella realtà vitalmente unificati e
dove l’uomo integrale non è oggetto osservato, ma soggetto percipiente (ib.).
3. La corporeità come prima dimensione dell’essere umano
Una prima chiarificazione è di tipo terminologico. Per corpo
s’intende l’espressione concreta della dimensione corporea fatta di
organi e funzioni e avente le caratteristiche della complessità, della
170
evolvobilità qualitativa, della verticalità somatica. Per corporeità
s’intende invece l’autopercezione di essere corpo che ci permette di
collocarci nel mondo; tale soggettivizzazione, secondo Marcel, permette di attuare processi di conoscenza io-mondo non di mero contatto ma di tipo trasformativo (ib.). Dunque alla visione del corpo
come oggetto (Korper), come materia da trattare ed osservare appartenente all’anatomofisiologia, si accosta quella mutuata dal metodo fenomenologico che ci permette di soggettivizzare sensorialmente il corpo, come esperienza organica significativa (Leib).
Scienze quali la psicosomatica e la psicoimmunologia hanno messo
il luce come nell’esperienza quotidiana le due entità non siano separabili. Nel momento in cui il corpo si coglie come mio-corpo, caratterizzato dalla endodinamicità (vita) abbiamo la prima esperienza fenomenologica della corporeità o corpo come esperienza vivente (ib.). Tale esperienza originaria o autocomprensione pre-riflessa
si fonda sulla percezione immediata del corpo.
La prima realtà che fenomenologicamente incontriamo nella coscienza è la realtà corporea propria. La prima scoperta che il bambino fa è il corpo e così anche la prima sensazione ancora indeterminata della nostra esistenza corporea prodotta dalla sensibilità degli organi interni è la cenestesi, sentimento fondamentale e pretetico dell’essere (ib.). L’esistenza come presenza viene colta fondamentalmente nel sentimento del proprio corpo e di quanto ad esso si riferisce; il
mondo stesso per l’uomo esiste – nel senso forte della parola - grazie
alla sua percezione corporea globale. Per questo motivo si può parlare di primato esistenziale del sentimento fondamentale corporeo, definito dalla corrente personalista “incarnazione”, ovvero autopercezione somatica facente parte della propria identità (ib.). La sensazione di unità corporea è caratterizzata dalla molteplicità somatica di
contro a quella della specificità degli organi diversi, carica di significato e di autoappartenenza profonda. Si può parlare di sentimento
fondamentale bio-organico come percezione di unificazione di tutto
il corpo che ci permette di sentirci corpo vivente.
Secondo Edith Stein (Donnarumma-D’Alessio, 2008), esso è autopercezione di centro intorno al quale si ordina tutto il mondo spaziale; il sentirsi corpo globale fa sì che l’interno sia dato da sé stesso,
171
non solo come corpo delimitato dalla superficie, in cui si sperimentano sensazioni isolate provenienti da vari organi integrate in sensazioni più complesse (es. stanchezza, freschezza) che pervadono l’intero
corpo e danno luogo a precisi stati mentali positivi o negativi.
4. Corporeità e persona
Considerare la corporeità come accezione dell’umano a partire da
un corporeo che si determina e funziona come un io pensante, consente di eliminare ogni interpretazione unilateralmente fisiologica o
materialista (Palumbieri, op. cit.).
L’uomo è certamente corpo biologico, ovvero universale corporeo
e pulsionale del vivente animale che però in lui diventa “cosciente”.
Grazie al Leib, forma percettiva dell’unità di tutte le sensazioni organiche, l’uomo ha la sensazione della presenza del suo corpo a sé stesso e all’esterno, dandogli la sensazione che il suo corpo è lui stesso, è
il suo corpo (Marcel, 1980) e non una cosa da nutrire, vestire, utilizzare come strumento (ib.).
Appare dunque che il corpo è il segno esteso, visibile, fenomenico
della corporeità come condizione ontologica dell’essere unitario dell’uomo. Nel pensiero di Antonio Rosmini il corpo-esperienza, quello
vissuto, alla base del sentimento fondamentale corporeo è percezione
immediata del proprio corpo e sfondo per ogni forma di conoscenza
dell’uomo, condizione per l’intuizione dell’essere (ib.).
La corporeità ha diversi ruoli all’interno di una visione globale
dell’uomo. Il ruolo individualizzante è quello del cogliersi sul piano
fisico, come individuo in possesso di questo corpo e sul piano autopercettivo come momento della sintesi coscienziale, in cui mi sento
corpo qui ed ora in questa porzione di mondo (ib.). Nel ruolo dialettizzante l’uomo, grazie alla corporeità, può sperimentare forme diversificate di unione con l’altro (ib.). Il ruolo relazionante della corporeità permette inoltre che l’uomo comunichi all’altro la sua interiorità, altrimenti inaccessibile, della quale la corporeità diventa modulo
espressivo (ib.). Vi è inoltre il ruolo manifestativo, del limite come
manifestazione di parti e soggezione alla corruzione, consunzione,
172
scadimento, fallimento, nelle esperienze estreme del dolore: nell’ambito di tale ruolo viene collocato anche l’organismo come disposizione armonica di parti e di funzioni biologiche, anatomiche, fisiologiche (ib.). L’armonia fa dell’uomo un microcosmo: la corporeità è un
universo in piccolo che condensa l’armonia del macrocosmo. Il corpo è, in sintesi, molto più che un aggregato materiale: è apparizione
dell’uomo completo, espressione nella quale l’uomo si manifesta in sé
stesso, l’esserci, la presenza, l’azione prima, il simbolo, la parola, l’excarnazione, l’interiorità che si apre (ib.).
La corporeità va dunque considerata nel quadro della unitotalità
antropologica: considerarla separata significherebbe ritornare alla
concezione riduttiva del corpo come mero oggetto e, insieme, far
perdere alla persona la sua integralità irrinunciabile (ib.). L’assunzione della dimensione corporea ai livelli ontologici – così da poter dire
con Marcel (cit. in Palumbieri, 2006): “Il mio corpo non è quella cosa che ho: io sono il mio corpo” – esige la collocazione nel quadro
dell’indivisibile realtà personale. Pertanto, portare squilibrio tra i significati costitutivi del corpo è attentare al bene della persona. “L’offesa al mio corpo – scrive Bonhoffer- è un’attentato alla mia esistenza
personale” (cit. in Palumbieri, 2006).
Quanto si è tentato di esprimere finora circa un concezione personalistica della corporeità è ben sintetizzato nelle parole di Mounier:
“Le due esperienze, in realtà, non sono distinte: io esisto soggettivamente ed esisto corporalmente formano un’unica e medesima esperienza. Non posso pensare senza essere ed essere senza il mio corpo:
per mezzo suo io sono esposto a me stesso, al mondo, agli altri: per
mezzo suo sfuggo alla solitudine di un pensiero che sarebbe solo il
pensiero del mio pensiero. Rifiutandomi di concedermi una completa trasparenza a me stesso mi getta continuamente fuori di me, nella
problematica del mondo e della lotta dell’uomo. Sollecitando i miei
sensi mi lancia nello spazio, invecchiando mi fa conoscere il tempo,
morendo mi mette di fronte all’eternità; fa pesare la sua schiavitù, ma
è contemporaneamente alla base di ogni forma di coscienza e di vita
spirituale, mediatore onnipresente della vita dello spirito” (Mounier,
1989, p. 36-37).
173
5. Sviluppo cognitivo ed apprendimento motorio
Passando al punto di vista neuroscientifico un campo promettente
di ricerca è rappresentato dall’indagine sulla portata euristica della
relazione tra funzioni cognitive ed affettive e movimento in età evolutiva, focalizzata sul cervello umano come oggetto di studio multidisciplinare di psicologia, neurofisiologia, neuropsicologia, psicobiologia, psicopedagogia. Si è visto come nel corso della storia del pensiero si sia partiti da una legittimazione metafisica delle funzioni mentali, in seguito connesse alla struttura del linguaggio, per poi arrivare
ad una loro naturalizzazione nel sistema nervoso ed infine alla totale
corporeizzazione di esse in interazione con l’ambiente.
In quest’ambito l’azione assume un’importanza basilare nella maturazione dei processi mentali. Da un punto di vista epistemologico
vi è un tentativo di connettere causalità, fisiologia e fenomenologia
dell’azione per una rivalutazione del corpo inteso non più come meccanismo ma come organismo con una sua teleologia in proficua
scambievole relazione con l’ambiente, dove l’essere umano appare
come sinfonia di un sé fisico, psichico, sociale, trascendente.
Si vuole dunque evidenziare come il concetto di incarnazione
della mente (embodiment) superi la rappresentazione proposizionale delle conoscenze proponendo invece la “corporeizzazione” di
esse sulla base delle più recenti acquisizioni neuroscientifiche. Circa il rapporto tra sviluppo cognitivo ed apprendimento motorio,
appare particolarmente suggestivo l’approccio post-funzionalista,
che ha come modello di riferimento le reti neurali ed i sistemi dinamici complessi e come punto centrale l’idea di soggetto cognitivo globale come fenomeno cognitivo emergente ed organizzato,
che pone il corpo e l’esperienza motoria tra gli elementi costituenti
la persona. Risulta dunque anacronistica ogni posizione che scinda
i diversi aspetti delle funzioni mentali e guardi alla mente come ad
un’entità divisa dal corpo.
Gli studi neuroscientifici hanno messo in luce il coinvolgimento
dei sistemi motori nella maturazione del sistema nervoso e dell’attività cognitiva all’interno della quale la componente motoria e motivazionale, nell’ambito di una visione unitaria della mente, è evolutiva174
mente la più antica. Considerando infatti l’embrione, vediamo che
esso è un organismo in cui l’azione precede la sensazione: il movimento produce modificazioni nell’ambiente circostante, le cui conseguenze vengono percepite modificando a propria volta i movimenti
successivi.
La stretta relazione tra funzioni cognitive e motorie è evidente dagli studi di Rizzolatti (2006), in base ai quali i neuroni detti speculari
rappresentano un meccanismo di natura motoria involontaria che si
trasforma in linguaggio. Il linguaggio umano deriverebbe quindi da
questa specificità del sistema motorio, all’interno del quale il movimento stesso è comunicazione e linguaggio, e rappresenta dunque un
importante veicolo per la maturazione cognitiva e l’integrazione socioaffettiva.
Per ciò che riguarda la relazione didattica, l’attuale gestione dei
contesti scolastici è ancora fortemente dominata da una visione dualistica del rapporto psiche-corpo, principalmente fondata sulle capacità
verbali dei suoi attori e risente ancora molto della parcellizzazione disciplinare che, pur essendo legittimata da esigenze analitiche, ha fatto
perdere di vista l’unità dell’io-corpo, in cui l’io è espressione dell’unità biopsicosociale che trova nel corpo la sua completa espressione.
Nel sistema scolastico attuale il comportamento del docente è caratterizzato generalmente dal porsi come ruolo-sapere e dall’utilizzo di criteri cognitivo-mentali in cui gli aspetti sensomotori sono generalmente trascurati. Per questo motivo interessanti suggestioni vengono offerte dalla neurodidattica, ove la modalità di trasmissione del sapere
utilizza l’educazione motoria come disciplina legata all’emotività e al
piacere per acquisire conoscenze o metodi in altri ambiti del sapere
(Gomez, 2009). In questa prospettiva il ruolo del corpo è quello di
mediatore nello sviluppo del germogliamento neurale connesso all’apprendimento: in tale processo l’azione reciproca degli schemi cognitivo-motori dell’individuo con le regole, i rapporti ed i significati insiti
in ogni ambiente retroagisce sul comportamento cognitivo ed affettivo creando un processo interattivo complesso. Importanti sono altresì
le implicazioni dell’integrazione dei sistemi di codifica cognitivo e
spaziale ed i loro effetti sulla capacità di assunzione di informazioni,
autorganizzazione delle conoscenze, orientamento spazio-temporale.
175
Un altro aspetto significativo da un punto di vista strettamente
psicopedagogico è la valenza condivisa dello spazio motorio sportivo
come fonte di significati all’interno di un sistema di relazioni favorente la sperimentazione della continuità della propria identità nel
tempo, l’utilizzo produttivo delle proprie energie e lo sviluppo di
esperienze di successo alla base del senso del proprio valore.
6. Attività motoria e sportiva e costruzione dell’identità
Le riflessioni che seguono sono mutuate, oltre che da studi specifici, (che ci si propone di approfondire ulteriormente), dall’osservazione diretta di una serie di dinamiche personali, relazionali, culturali, sociali riguardanti il rapporto fra bambini, attività motoria e modalità di affrontamento della pratica di discipline sportive in diversi
contesti (scolastico ed extra).
L’esito finale di questi approfondimenti dovrebbe consistere nella
realizzazione di percorsi costruiti sulla base dell’interazione continua
delle discipline psicologiche, pedagogiche, sociologiche e mediche, i
cui risultati vadano integrati in un prodotto finale inclusivo di tutti
gli apporti, ovvero con una valenza formativa di tipo globale.
L’idea è nata dalla condizione di chi scrive: contemporaneamente
docente, genitore, psicopedagogista, sportiva, la cui forte attenzione
ai problemi dell’educazione contemporanea ha portato a scorgere
nella valorizzazione delle pratiche legate al movimento in età evolutiva grandi potenzialità formative, un tempo prerogative della agenzie
educative tradizionali (famiglia, scuola, chiesa, associazioni), la cui
crisi (Acone, 2004) è purtroppo tristemente evidente. L’obiettivo di
tali pratiche va ben oltre il sviluppo fisico.
Affrontare lo sviluppo e l’educazione partendo dal corpo, inteso
come Leib e non come mero Korper, ci sembra una maniera tra le più
efficaci ed immediate, in tempo di crisi di valori, di veicolare contenuti che contribuiscano alla formazione integrale dell’essere umano
come essere maturo, competente, responsabile.
La pratica sportiva, a tutti i suoi livelli, costituisce forse ancora
uno dei pochi “universali” condivisi dalle diverse società. La ragione
176
di ciò, a nostro avviso risiede nel fatto che, quando correttamente
proposta ed attuata, induce una sensazione di benessere nelle dimensioni biologica, psicologica, sociale dell’uomo curandone anche la dimensione etica, all’interno della quale, quest’ultimo si dibatte nel
tentativo di trovare sfondi ed orizzonti comuni.
Partiamo da una riflessione di carattere generale: nello sport l’abilità e la destrezza fisica si coniugano alla competitività, in cui l’agonismo e l’antagonismo sono mediati dallo spirito di rispetto dell’avversario e dalla finzione della lotta che è tipica della gara. Anche lo
sport, di per sé, è un momento della rivelazione dell’uomo per l’esercizio del pluridimensionale della corporeità e dell’intelligenza, della
forza di volontà e della lealtà, della formazione del carattere, lo spazio per l’affermazione del sé (Palumbieri, op.cit.). Tale affermazione
del sé consiste nel rispetto dell’altro, nel conseguimento dell’unico
obiettivo concordato non per prevaricare, ma per misurarsi con la
forza dell’altro; lo sport, inoltre, è lo spazio per lo sviluppo delle attitudini della socialità, nella coordinazione dei sistemi di gioco, di attacco o di difesa e nella più ampia integrazione con la squadra (ib.).
Le patologie dello sport si evidenziano sia a livello individuale, quando viene esercitato come esibizionismo, sia a livello collettivo, quando prevale il commercialismo ove si cerca di oscurare la tensione intrinseca dell’attività ludica che è la spontaneità e la gratuità; pertanto,
quanto più lo sport viene praticato per mettersi in mostra o per ricavarne profitti a tutti i costi ,tanto più perde di slancio – che è invece
costitutivo- e si meccanicizza (ib.). Questo messaggio è tanto più urgente oggi, in cui si tende al mercato sportivo tanto diverso dall’agonismo ellenico impregnato di quelle idealità che non sono frutto delle ideologie del tempo, bensì espressioni di quella struttura d’essere
che è all’interno della tensione ludica.
Il fine dello sport può essere visualizzato o come prossimo o come
remoto: quello prossimo coincide con quanto immediatamente si intende conseguire con una certa azione ed è, nel caso particolare, sviluppare e fortificare il corpo sotto il profilo statico e dinamico; il fine
più remoto è lo sviluppo della personalità aperta alla socialità (ib.).
Ma c’è anche un fine profondo, che è la preparazione mai completata
alla vita come slancio verso una meta secondo la gerarchia dei valori
177
che il soggetto intravede; in questa complessa operazione si distinguono alcune virtù richieste per un atleticità a livello della formazione della personalità e sono disposizioni etiche che, mentre aiutano
l’atleta a vivere nell’integralità della sua esistenza personale e sociale
l’attività ludica, nello stesso tempo lo corroborano per una produttività specifica nel campo agonistico: esse possono essere il coraggio, la
fortezza, la docilità, l’umiltà, la resistenza, il sacrificio, la condivisione
della gioia dell’altro e dell’affermazione anche dell’avversario (ib.).
Nelle società occidentali, uno degli aspetti caratterizzanti la postmodernità è quello della quasi totale emancipazione dell’essere umano dalla necessità di movimento fisico. Gli innegabili vantaggi in termini di ottimizzazione dei tempi, che ciò comporta ha portato ad una
serie di conseguenze sul piano medico ben note a tutti: sembra che la
scarsità di attività fisica sia una condizione innaturale e anzi nociva
all’essere umano.
L’incremento progressivo della pratica di discipline sportive o
semplicemente del camminare1 ne è la dimostrazione: laddove non
deve più muoversi o stancarsi fisicamente per sopravvivere, l’uomo si
crea artificialmente occasioni in cui ciò può avvenire. All’interno di
questo fenomeno una grossa fetta è rappresentata da quella che definiremmo “tensione verso l’estetica” che culmina nell’idea di un corpo sano quindi bello, come conseguenza della pratica disciplinata di
una o più attività motorie. Diciamo che in questa sede le dinamiche
connesse a tale fenomeno nel mondo adulto non saranno prese direttamente in esame, se non in relazione alla loro valenza formativa sulle
giovani generazioni.
Partendo infatti da un punto di vista prettamente psicopedagogico (il che comprende anche il biologico) è evidente che, se per l’adul-
1
La semplice osservazione delle strade sia cittadine che periferiche può portare chiunque alla constatazione dell’aumento progressivo delle persone che
praticano la corsa lenta, il cosiddetto “jogging”. L’incremento di questo
fenomeno sarebbe, tra l’altro, una delle numerose assimilazioni di stili di vita
tipicamente statunitensi. Senz’altro non la peggiore, aggiungiamo.
178
to la scarsità di movimento è deleteria, per un bambino rappresenta
una forte limitazione, in alcuni casi addirittura la chiusura di un importantissimo canale formativo che può essere causa di una serie di
problemi di crescita fisica, psicologica, sociale. Si pensi anche solo alla molteplice valenza del gioco motorio spontaneo, di gruppo, all’aperto. Ovvero ciò che ha costituito gran parte della giornata dei
bambini, dalla preistoria fino a metà del secolo scorso e che per i
bambini di oggi rappresenta un vero lusso, essendo quasi impossibile
trovare tempi e spazi per praticarlo.
A differenza di molti altri giochi tradizionali, che non potendo
competere con la tecnologia di quelli attuali hanno perso interesse
agli occhi dei bambini, questo tipo di gioco è un classico senza tempo. Oltre infatti all’innegabile sensazione di benessere fisico indotta
dal movimento all’aria aperta, l’aggregazione spontanea di bambini
comporta il piacere connesso al divertirsi insieme, la condivisione di
pensieri e stati d’animo, momenti di grande importanza per la crescita psicologica. Dimensioni che sono limitate quando, ad esempio, si
pratica uno sport con l’istruttore, contesto nel quale non c’è necessità, come nel gioco di gruppo spontaneo, di prendere decisioni e stabilire regole accettate da tutti, gestire le conflittualità, negoziare: tutte attività preparatorie alla vita sociale di sicura efficacia.
Tornando all’interazione tra biologico e psicologico, il gioco all’aria aperta, abituando ad un impegno fisico che durava anche alcune
ore, induceva una maggior resistenza alla fatica ed alle temperature
(sia calde che fredde). Inoltre lo sporcarsi e i piccoli incidenti come
cadute, sbucciature e qualche inevitabile scazzottata erano all’ordine
del giorno e venivano ampiamente tollerate anche dai genitori inducendo una tolleranza del dolore fisico e delle inevitabili tensioni che
sorgevano nell’interazione, le quali fortificavano la capacità di affrontare le difficoltà dell’esistenza. Siamo convinti che questi momenti
siano assolutamente indispensabili e non vi sono, a nostro avviso, attività sostitutive che abbiano uguale valenza sull’evoluzione psicofisica e sulla formazione.
Alimentati con cibi di facile consumazione e digestione, spesso in
sovrappeso, inebetiti dalla pubblicità che li induce a circondarsi di
oggetti inutili, divisi tra compiti scolastici, corsi d’inglese, computer e
179
playstation, in case dove la televisione è sempre accesa, abituati ad
addormentarsi davanti ai canali che trasmettono cartoni 24 ore su 24
ed a svegliarsi davanti al medesimo spettacolo, le interazioni con i genitori ridotte al minimo, bambini e ragazzi al massimo dedicano settimanalmente 2 o 3 ore al movimento, dove nell’ora è spesso compreso
il tempo di spogliarsi e rivestirsi.
Una delle cose che inoltre capita sovente di osservare è una sorta di
iperprotezionismo fisico-psicologico: il tentativo di preservare il proprio spesso unico figlio da ogni forma di fatica, dolore, conflitto, e la
drammaticità con la quale questi momenti vengono vissuti prima di
tutto dal genitore e di riflesso, dai figli, sta generando, come sostengono molti pediatri intervistati da chi scrive, una generazione di “inetti”.
L’affrontamento autonomo della strada, anche per brevi percorsi,
o lo stesso gioco in strada, a causa di pericoli reali o presunti, sono
elementi quasi del tutto scomparsi dalla vita dei bambini: quasi nessuno gioca più per strada e moltissimi non fanno da soli nemmeno
piccoli tratti. Queste attività costituirebbero invece un poderoso allenamento per i processi attentivi , a nostro avviso, di valore trasversale: un bambino che percorre anche solo alcune centinaia di metri per
recarsi a scuola o va in bicicletta deve essere attento ad un’infinità di
cose, il che provoca l’allertamento contemporaneo di più sensi, e la
coordinazione sempre più precisa dell’attenzione con il movimento.
Volendo ulteriormente soffermarci su quella che potremmo definire una sorta di “fenomenologia” dell’infanzia contemporanea, sottolineiamo che chi scrive è da almeno vent’anni, per motivi sia professionali che familiari, osservatrice attenta e studiosa di quanto accade nel mondo dei bambini, a scuola, in casa, nei contesti ludici e
sportivi. La forte curiosità scientifica per il dipanarsi e l’evolversi di
dinamiche che vedono la connessione tra stili di vita e di pensiero di
genitori, insegnanti, istruttori, sportivi ed il loro esito sulle modalità
di sviluppo dei bambini, e le numerose richieste di aiuto in tal senso,
ci hanno portato spesso a riflettere su quale fosse la maniera ottimale
di affrontare alcune categorie di problemi.
La necessità di adeguarsi, nell’ambito dell’istruzione, al moltiplicarsi in maniera esponenziale delle conoscenze, la pubblicizzazione
continua della necessità di acquisire una serie di contenuti e compe180
tenze per “farsi strada” nella vita, porta molti genitori a bombardare
i propri figli con attività di vario genere, con la motivazione che questi rappresentino l’alternativa ad un pomeriggio passato, dopo aver
svolto i compiti, tra televisione, playstation, computer. In tutto ciò
spesso è inserita anche l’attività motoria e sportiva. Ma perché gli effetti di tipo globale che prima abbiamo menzionato si facciano sentire, dev’esserci una concomitanza di fattori: l’adeguatezza del luogo,
la possibilità di fruirne in un tempo disteso dove il bambino non arrivi già affannato e stanco o debba scappare via immediatamente dopo, la competenza professionale degli istruttori, sulla promozione
della quale da diversi anni sia il CONI che altre associazioni hanno
attivato diverse iniziative formative.
Vi è uno stretto rapporto tra lo sviluppo di un’identità solida ed
una realistica autostima, in larga parte costituita dal riconoscimento e
la valorizzazione della propria corporeità, non in senso riduttivamente estetico ma come entità corporea unica ed irripetibile. Lavorare
sulla corporeità significa dunque rafforzare l’autostima ed il senso di
identità: si pensi ai correlati psicologici della posturologia e dell’osteopatia, discipline olistiche in base alle quali è possibile modificare
il proprio “stare nel mondo” proprio a partire dal corpo.
È noto a tutti che la qualità dell’attività motoria ha un effetto sulla
costruzione dell’identità soprattutto in età evolutiva. Ciò sembra essere ignorato nella quasi totalità delle attuali scuole primarie, dove le
due ore che dovrebbero essere dedicate all’educazione motoria vengono occupate da altro. Bisognerebbe invece valorizzare le tematiche
teorico-pratiche ad essa relative, elaborando riflessioni e progetti
concreti riguardanti il rapporto tra corporeità ed identità ed i modi
in cui è possibile intervenire in età evolutiva.
Sommando gli effetti della scarsa attività fisica a quelli del circuito
economia-pubblicità-spettacolo-consumo, si favorisce la confusione
tra bisogni reali e desideri indotti, inducendo spesso i soggetti a comportamenti pericolosamente simili a veri e propri disturbi alimentari.
L’attività motoria come educazione alla gioia di muoversi, al rispetto
di sé e dell’altro può avere notevole valore formativo e rieducativo
nei casi di soggetti iperattivi, con disturbi della condotta o al contrario ipocinetici; potrebbe inoltre essere una forte antidoto alla pro181
gressiva pervasiva virtualizzazione dell’esperienza fin dalle tenera età,
favorendo il contatto significativo con luoghi e persone reali. La presentazione e la pratica inoltre delle diverse discipline sportive, ognuna delle quali oltre a sviluppare specifiche abilità ha anche valenze
formative differenti, ci induce a riflettere sul fatto che l’educazione
motoria riveste un’importanza tutt’altro che marginale, e come tale
non può più essere uno dei fanalini di coda nella scuola pubblica.
L’attività motoria e sportiva dovrebbe altresì favorire lo sviluppo
della capacità di resilienza (D’Alessio, 2008; Trabucchi, 2009) definita come la capacità dell’individuo di reagire con successo a situazioni
avverse imparando a sviluppare competenze a partire dalle difficoltà
e rafforzando la fiducia in sé e nel proprio agire. Le variabili psicologiche coinvolte nei processi di resilienza sono la forza d’animo, il senso del proprio valore, la speranza e l’ottimismo, il senso di competenza ed autoefficacia, l’empatia e la disponibilità, il potere, la comunità,
l’insight, l’indipendenza, la relazionalità, l’iniziativa, la creatività, il
senso dell’umorismo, la moralità: tutte dimensioni ampiamente favorite dall’educazione motoria e sportiva. Il principio in base al quale
ciò che viene appreso in un contesto viene applicato anche ad altri fa
sì che le competenze sociali ed i valori che lo sport trasmette e consente di vivere (spirito di squadra, disponibilità a fornire una prestazione, disciplina) vengano trasferite anche in altri campi dell’esistenza umana. Nello splendido testo “Resisto dunque sono” Pietro Trabucchi presenta numerose evidenze scientifiche a sostegno di tale tesi, riportando un’efficacissima espressione di Christian Zorzi, medaglia d’oro alle olimpiadi di Torino 2006: “La capacità di resistere allo
stress, di superare gli ostacoli e di rimanere motivati nel perseguire i
propri obiettivi: questa è la resilienza. Ho trovato estremamente interessante l’idea che si possa costruire, allenare ed insegnare alle nuove
generazioni. Se lo sport deve dare qualcosa di buono alle nuove generazioni, questa potrebbe essere la strada. Dai campioni dello sport
e dalle loro storie possiamo apprendere tecniche e metodologie per
portare nella vita, nella scuola, nel mondo del lavoro, nel quotidiano,
la capacità di essere resilienti… Credo che oggi nel nostro mondo ci
sia bisogno di molta resilienza” (Trabucchi, 2009, p. 210).
182
7. Ricerche sul “cervello in movimento”
La corrente funzionalista aveva già stabilito una diretta connessione tra esercizio fisico e abilità mentale, che aiuta i soggetti praticanti
attività ludico-motorie o sportive a conseguire una maturazione precoce di parametri intellettivi e maggiore prontezza nella prestazione
cognitiva. Nell’atto sportivo sono comprese le aree del linguaggio,
della memoria, dell’attenzione, dell’intelligenza e dunque l’attività
sportiva influisce positivamente su stili attentivi, percezione e processi di costruzione ed elaborazione dell’informazione.
Da un punto di vista neuroscientifico si è rilevato che l’esercizio
fisico aumenta la neurogenesi dell’ippocampo ed i neuroni neogenerati si inseriscono nei circuiti ippocampali, suggerendo che ciò possa
contribuire al potenziamento delle capacità cognitive (Kempermann,
2000). Il movimento causa non solo un miglioramento della vascolarizzazione dei muscoli ma anche del tessuto nervoso: l’attività fisica
aumenta il volume e le ramificazioni dei capillari cerebrali rendendo
possibile l’angiogenesi; inoltre, grazie all’attivazione ed alla disattivazione di geni specifici per la sintesi dei trasmettitori e delle strutture
cellulari presenti nel nucleo, il movimento stimola anche la neurogenesi. Anche il potenziamento mnestico a lungo termine è favorito dal
movimento (Ayan, 2009).
I neuroni dell’ippocampo, che è tra le regioni più studiate del cervello, sono così addensati che possono archiviare per lungo tempo le
informazioni in entrata tramite speciali meccanismi che provocano
rapidi cambiamenti plastici nelle cellule nervose: un’attività fisica regolare aumenta queste possibilità (Ayan, 2009). L’aumento della neurogenesi dovuto al movimento può favorire fenomeni di riparo cerebrale dopo una lesione del sistema nervoso centrale adulto: numerose evidenze sperimentali dimostrano che l’esercizio fisico determina
una forte riduzione della morte neuronale dell’ippocampo e migliora
il recupero motorio dopo l’ischemia cerebrale. L’attività motoria promuove negli animali adulti l’espressione di fattori neuroprotettivi che
favoriscono i fenomeni di plasticità, come le neurotrofine. Tali studi
hanno evidenziato come l’azione dell’attività motoria, agendo su fattori endogeni, potrebbe potenziare la capacità di far fronte al declino
183
delle funzioni cerebrali ed aumentare la capacità di risposta a lesioni
(Doidge, 2008).
Secondo la Kubesch (2004, 2005, 2007), per il cervello l’attività fisica è un’esperienza che provoca adattamenti neurobiologici mutevoli.
Essa influisce sull’attivazione o disattivazione di più di 500 geni differenti. Infatti, oltre a stimolare i processi di sviluppo del cervello infantile e di conservare anche in età adulta la capacità di fornire prestazioni
cognitive, il movimento favorisce la neoformazione, la crescita, la conservazione e la connessione di cellule nervose; adattamenti, questi, generati sia dall’aumento di fattori di crescita di tipo neurotropico dovuto all’allenamento ed ai carichi utilizzati, sia da una maggiore concentrazione di neurotrasmettitori come la serotonina. Ne consegue che,
essendo la quantità di cellule nervose e di sinapsi collegate con l’efficienza cognitiva, emozionale e sociale, si è potuto ipotizzare che l’attività fisica abbia effetto anche sulle prestazioni intellettuali di alto livello. Queste, definite funzioni esecutive, riguardano ad esempio la capacità di concentrarsi sull’essenziale e di inibire l’esecuzione di attività in
contrasto con l’obiettivo perseguito ed il contesto, ed hanno anche a
che vedere con il comportamento sociale (aggressività ed empatia). Per
verificare tali ipotesi sono stati utilizzati test neuropsicologici computerizzati (Marker Tasks, elettroencefalogramma ed analisi genetico-molecolari). È emerso che, tenuto conto che le prestazioni cognitive possono beneficiare maggiormente del neurotrasmettitore dopamina, nei
soggetti in cui nella parte frontale del cervello la dose di dopamina si
riduce più lentamente a causa di un processo genetico, se sottoposti a
sforzi fisici, la dose di dopamina viene incrementata e si nota un miglior rendimento in compiti particolarmente impegnativi. Ad esempio
si è rilevato che, dopo una corsa di otto minuti rispetto ad una condizione di riposo, migliorano i risultati su test di memoria a breve termine e concentrazione; due corse progressive della durata di tre minuti
consentono di memorizzare più velocemente dei vocaboli e di migliorare la capacità di memorizzazione nello spazio di 6 mesi, anche se lo
studio dei vocaboli precede una corsa di resistenza di 40 minuti. In
sintesi, associando la lettura, il calcolo, la ripetizione di vocaboli in lingua straniera a movimenti impegnativi dal punto di vista della coordinazione si ottengono risultati migliori (Kubesch, op. cit).
184
Anche secondo Kramer (2007), ai fini di un miglioramento delle
prestazioni fisiche e mentali attraverso le attività motorie sono particolarmente efficaci le offerte di movimento che associano un carico
aerobico alla forza e alla mobilità e che coinvolgono anche le capacità coordinative (equilibrio, reazione, adattamento e differenza). In
questi processi un ruolo importante è svolto dai lobi frontali e dal
cervelletto, responsabile di processi motori e di numerose funzioni
cognitive, come la concentrazione e la memoria di lavoro. Su questa
base è stato possibile dimostrare, che esercizi bilaterali basati sulla
coordinazione, grazie al coinvolgimento delle strutture neuronali
preposte a compiti sia cognitivi che coordinativi, migliorano la velocità e la precisione della concentrazione (ib.).
Ricerche condotte da Hillmann (2009) e Tomporowski (2008)
hanno messo in evidenza che i bambini più sportivi ottengono in media risultati scolastici migliori e che le loro prestazioni sono proporzionali alla loro resistenza fisica; sembra inoltre che l’allenamento alla
resistenza aerobica, attraverso un’attività muscolare protratta e tranquilla, sia molto efficace nel rafforzare le capacità di pianificare azioni e coordinare le capacità esecutive.
Secondo una ricerca di Petty (2009), l’attività fisica agevola lo sviluppo di una sana autostima promuovendo il benessere mentale ad
essa connesso. Confrontando lo stato d’animo di ragazzi in sovrappeso prima e dopo un programma di allenamento, è emerso che essi
avevano sviluppato più buonumore e soddisfazione per sé stessi.
L’allenamento aerobico riduce inoltre il livello dell’ormone dello
stress, il cortisolo (D’Alessio, 2009), rilasciato dalle ghiandole surrenali, che ha come primo effetto la produzione di energia a breve termine ma, a lungo andare, provoca fenomeni di morte neuronale nell’ippocampo; in ciò l’attività fisica ha una vera e propria valenza neuroprotettiva. Inoltre muoversi aumenta i livelli cerebrali di triptofano, che è un precursore della serotonina, la quale diminuisce nei soggetti depressi, unitamente al BDNF (fattore di crescita nervosa), per
cui spesso in tali sindromi viene somministrato un farmaco inibitore
della ricaptazione della serotonina. Uno studio di Blumenthal (1999)
ha dimostrato che l’allenamento produceva un effetto terapeutico
equivalente a quello di tali farmaci nella sindrome depressiva.
185
Anche gli effetti positivi generati dai giochi di integrazione e
fairplay possono essere neurologicamente provati. Sempre secondo
la Kubesch (op. cit.), l’assunzione da parte del cervello di un comportamento corretto e leale equivale ad una vittoria mentre, in caso di atteggiamento scorretto, esso reagisce manifestando dolore e
malessere fisico attivando l’area cerebrale relativa allo stomaco. Al
contrario in chi osserva uno sportivo che si comporta lealmente, si
mette in moto il sistema di compensazione, ad es. in occasione di
atteggiamenti cooperativi che, attivando le aree cerebrali ad essi
connesse, incita l’osservatore a fare altrettanto rafforzando tale
comportamento.
Tali considerazioni hanno tanto più valore alla luce degli studi relativamente recenti di Blalock (1989) che ha scoperto che non esiste
separazione tra i sistemi nervoso, endocrino, immunitario i quali comunicano tra di loro grazie a neurotrasmettitori detti “ubiquitari”.
L’addestramento sportivo si può dunque definire a pieno titolo
un tipo di apprendimento cognitivo con componenti emotive e sociali che consente, attraverso l’acquisizione di abilità motorie generali e
specifiche, di ampliare e differenziare le proprie competenze, riconoscendo all’individuo un ruolo attivo nella costruzione della competenza e delle sue prestazioni motorie.
Attraverso la pratica sportiva, oltre a sperimentare la percezione e
la padronanza del proprio corpo, si offre la possibilità a chi è portatore di una diversità di soddisfare in modo produttivo bisogni legati
all’esperienza di gioco, agonismo e vita di gruppo, occasione che raramente viene loro offerta nei contesti di vita quotidiani. I rapporti
con l’ambiente si strutturano anche attraverso il movimento e gli effetti autopercettivi di questo processo contribuiscono all’organizzazione della personalità.
L’azione reciproca degli schemi cognitivo-motori dell’individuo
con le regole, i rapporti ed i significati insiti in ogni ambiente, retroagiscono sul comportamento cognitivo ed affettivo creando un
processo interattivo complesso. In esso lo spazio motorio sportivo
assume anche una valenza simbolica condivisa che produce significati all’interno di un sistema di relazioni; ciò implica l’uso di due
sistemi di codifica della presa d’informazione spaziale: uno autor186
ganizzativo ed uno di codificazione spaziale, la cui integrazione
permette una migliore capacità di orientamento spazio-temporale.
Ciò comporta, ad esempio, la sperimentazione della continuità
della propria identità nel tempo che è alla base di un utilizzo produttivo delle proprie energie, condizione a sua volta importante
per avere di esperienze di successo che conducono a sviluppare il
senso del proprio valore.
L’attività motoria, attraverso la percezione, la verifica ed il confronto immediati della propria esperienza, affina le capacità autoregolativa e diviene motivo di emancipazione. L’acquisizione progressiva dell’indipendenza che ciò consente incide sulle dinamiche maturative di tipo cognitivo, investigativo ed affettivo aumentando il senso
di autoefficacia, ovvero il sentirsi capaci di raggiungere obiettivi preposti.
In quest’ambito la pratica di un’attività sportiva può senz’altro rivestire un ruolo di primo piano nell’acquisizione di nuove possibilità
di comunicazione e percezione del proprio mondo interno che, unitamente allo sviluppo di competenze relazionali con la realtà esterna,
favoriscono la costruzione di stili di vita attiva.
Partendo dal presupposto che ogni assetto cognitivo comporta la
messa in gioco di processi di tipo affettivo, emotivo e corporeo, chi
insegna dovrebbe conoscere bene i livelli primitivi di sviluppo ed essere formato ad utilizzare il corpo e la sensorialità come medium di
sistemi rappresentativi precedenti, acquisendo, più che nuove parole,
altre forme di pensiero che permettano di dare un senso alla cultura
molto oltre quello del semplice linguaggio verbale.
8. Potenzialità dell’esperienza motoria nella diversabilità. L’educazione alla corporeità e lo sport per l’integrazione
Nell’attività educativa sull’alunno diversabile o anche con gli alunni che per svariati motivi (immigrazione, appartenenza a fasce sociali
marginali) non hanno familiarità con la lingua italiana, la possibilità
di utilizzare l’esperienza ed il vissuto senso-motorio assume un’importanza centrale. Partire dall’azione corporea, ovvero dalla dimen187
sione non verbale, può rappresentare per questi soggetti il canale
d’accesso privilegiato a successivi livelli di comprensione logico-concettuali, sui quali l’intervento con un approccio puramente verbale o
al massimo grafico risulta spesso inefficace.
Tali alunni hanno spesso un vissuto caratterizzato da continui fallimenti cognitivi e spesso solo attraverso la scoperta della propria efficienza motoria apprendono nuove possibilità di relazionarsi con il
mondo esterno. Correre, lanciare la palla o tirare a canestro permette
di sviluppare una visione più articolata delle proprie potenzialità con
qualificazioni positive come efficienza fisica ed autonomia di azione.
Attraverso la pratica sportiva, oltre a sperimentare la percezione e la
padronanza del proprio corpo si offre la possibilità a chi è portatore
di una diversità di soddisfare in modo produttivo bisogni legati all’esperienza di gioco, agonismo e vita di gruppo, occasione che raramente viene loro offerta nei contesti di vita quotidiani.
Sovente i piani educativi individualizzati per gli alunni portatori di
una qualche diversità sono troppo incentrati sul potenziamento delle
capacità e delle competenze prevalentemente necessarie in ambito
scolastico e sono carenti negli aspetti che consentono di attivare processi di integrazione all’interno di un prospettiva esistenziale più vasta. Le attività sportive sembrano essere oggi uno dei modi più diffusi per impiegare il tempo libero, tranne che nel mondo della disabilità, dove prevale un approccio puramente riabilitativo, e, per motivi
culturali od economici, spesso anche nelle altre forme di diversità.
In questi ambiti la portata educativa dello sport offre invece occasioni irrinunciabili per compensare i problemi di sviluppo e/o la lacune formative dovute a deficit specifici, in quanto le attività psicomotorie tipiche delle sport sono alla base di ogni apprendimento e
possono accompagnare la crescita in ogni sua tappa. Tutto questo ha
un’importanza cruciale se si pensa che l’esperienza quotidiana in ambito educativo e sociale del disabile o comunque del diverso lo porta
a vivere situazioni in cui l’insuccesso e la frustrazione generano quella che viene definito “senso di impotenza appreso” che dà luogo a ripetute esperienze di fallimento, che alla fine conducono alla strutturazione di un’immagine di sé negativa.
Nella storia dello sport ha sempre prevalso un’idea di atleta sim188
bolo di perfezione, bellezza, ed abilità: solo da un trentennio le persone disabili, la cui unica caratterizzazione era spesso la malattia, si
accostano alla pratica sportiva. L’eccezionale valenza di quest’ultima,
da un punto di vista del superamento delle discriminazioni, sta nel
fatto che nell’atto sportivo la disabilità viene superata valorizzando in
modo massiccio le abilità, facendo leva sulla determinazione personale nel raggiungimento del confine dei propri limiti e nel superamento degli ostacoli, dove non vi sono disabili ma solo atleti.
Per ciò che riguarda gli sport di squadra, essi assolvono un’importante funzione socializzante, non in senso generico come avviene in
altri contesti, ma profondamente aggregativa e di appartenenza, fornendo quel tipo di sostegno sociale che permette di affrontare anche
momenti di sana competizione, dai quali spesso il disabile è escluso.
Tali momenti sembrano essere insostituibili nel mettere in grado chi
è spesso collocato già dal suo affacciarsi alla vita ai margini della società, di affrontare con grinta e slancio costruttivo il suo rapporto col
mondo. Per ovvi motivi, la promozione di tali percorsi all’interno
dell’istituzione scolastica nei suoi primi segmenti, appare di particolare urgenza.
Una delle più grandi sfide dell’educazione motoria e sportiva oggi
è rappresentata proprio dalla valorizzazione della differenza e con essa l’accettazione dei limiti e dei difetti del corpo come espressione di
autenticità ed unicità esistenziale (Naccari, 2006). Educare alla differenza significa cogliere la relatività assoluta della bellezza fisica, relativa all’appartenenza alla terra, ad un luogo geografico, ad una cultura, ad un sesso, ad un’epoca, cercando oltre tutti i condizionamenti
la bellezza dell’espressione del sé, nascosto nell’unicità insostitubile
di ciascun essere umano e nell’autentica disponibilità ad armonizzarsi con gli altri. La percezione di sé attraverso l’amplificazione della
realtà propriocettiva può portare ad una migliore accettazione della
propria realtà psicofisica e ad una valutazione dell’immagine personale come espressione della persona dotata di volume psichico che si
palesa nel volume corporeo, restituendo a chi si muove il senso del
proprio essere globale in movimento. Lo spessore del volume psicofisico, attraverso opportuni esercizi per l’amplificazione della consapevolezza sensoriale e la valorizzazione dei vissuti legati alle esperienze
189
di movimento, contribuisce alla ricerca di una bellezza non massificata che è quella dell’unicità della soggettività dell’esserci (ib.). Con
un’attitudine fenomenologicamente orientata, che preveda la sospensione del giudizio verso gli altri e verso sé stessi, si può imparare ad
ascoltarsi, muoversi e sentire autenticamente non solo in base ai dettami ed ai clichè della ragione, che paragona e giudica in base a criteri estrinseci, ma promuovendo la visione dal cuore (Donnarumma
D’Alessio, 2003) che va oltre l’apparenza, nell’autenticità profonda
dell’essere.
Spesso quest’attitudine è presente in chi, in base ai parametri
estrinseci della normalità, è più diverso. I cosiddetti diversabili sovente non sono inclini al giudizio e, se non fossero i presunti normodotati a far pesare con il loro sguardo il significato discriminante dei
clichè della bellezza, non soffrirebbero della loro diversità. Per lavorare nella direzione di un’autentica integrazione, come armonia di
tutte le differenze possibili, a scuola od in altri contesti, proprio l’educazione motoria e gli sport consentono notevoli potenzialità, considerando ovviamente di volta in volta la molteplicità ed eterogeneità
delle diversabilità possibili, senza con questo voler misconoscere il
reale problema di intervento specifico che il tipo di disabilità può
comportare.
È proprio l’intelligenza corporeo-cinestetica a permettere l’accesso a tutte quelle forme di intelligenza anche quando queste si presentano notevolmente depauperate. La realizzazione di laboratori di
movimento in cui sono presenti ragazzi normodotati e diversabili è
formativa per entrambi. I primi infatti possono imparare attitudini
generalmente in disuso tra i ragazzi, ovvero, l’empatia, il prendersi
cura dell’altro, l’accettazione della differenza, l’armonizzazione possibile fra ruoli e competenze diverse; i secondi possono ispirarsi nell’acquisizione di quel senso dell’io, di autoconsapevolezza e responsabilità carente in loro, non solo a causa dei deficit manifestati, ma
soprattutto perché di solito privati delle opportunità per interagire e
trovare forme di presenza e di esistenza. Tra l’altro la piacevolezza intrinseca delle attività motorie e del giocare insieme attiva la motivazione per l’attività da svolgere e agevola lo sviluppo della creatività.
190
9. Il laboratorio di movimento
I laboratori di movimento possono dunque valorizzare la specificità espressiva di ogni essere umano, anche se portatore di qualche
diversabilità (si pensi al lavoro di alcuni gruppi di teatro-danza, che
integrano soggetti normodotati con diversabili); ogni differenza è
pensata qui come ricchezza ed ogni contributo motorio può essere
letto, interpretato ed amplificato dagli altri, in un quadro complessivo e variamente significativo di creatività autenticamente individuale e di gruppo, che può nascere anche dagli stimoli più disparati
(Naccari, 2006).
Per questo ogni rieducazione strumentale che si indirizza specificamente al sintomo e mira a sopprimerlo mediante un apprendimento più o meno dissimulato, non fa che aumentare le pressioni interne,
diminuendo sempre più la sicurezza affettiva. L’espressione della motricità individuale non deve invece essere legata a standard di primato o di classifica, ma deve condurre a determinare ed a considerare
esclusivamente il livello personale di maturazione delle esperienze
specifiche vissute (ib.). Circa le diverse potenzialità che possono
emergere nel contesto dell’educazione motoria, non bisogna dimenticare che ognuno di noi è un soggetto diversamente abile se collocato
in un contesto che non valorizza le attitudini personali. Spesso inoltre i diversabili manifestano abilità vicarianti di iperdotazione rispetto agli standard comuni. Le abilità ritenuti oggi normali sono infatti
una selezione umana, culturale, epocale delle potenzialità dell’essere
umano terrestre.
Dunque non vi può essere un’educazione psicomotoria per il
bambino con ritardo, un’educazione psicomotoria per il bambino
dislessico, un’educazione psicomotoria per il bambino normale differenti l’una dall’altra.
Può invece esserci solo un’evoluzione verso una concezione globale dell’educazione e quindi verso un’accresciuta efficienza dell’azione
educativa che deve in ogni caso tendere a dare al bambino – al ragazzo, all’adulto – i mezzi per sviluppare al massimo le sue possibilità e
quelli per la sua indipendenza (ib.).
L’utenza scolastica nel suo insieme presenta ormai sempre più
191
forti immagini di varietà, molteplicità, disuguaglianza (si pensi alla
massiccia presenza di alunni immigrati), confondendo ulteriormente il confine già labile della normalità. L’educazione motoria
può in questo offrire un notevole contributo all’educazione sociale
e civica perché permette il confronto continuo tra le uguaglianze e
la diversità, il senso del gruppo, la divisione dei compiti, la cooperazione, lo scambio di ruolo. Per lavorare in questa direzione occorre adottare un approccio didattico che utilizza le potenzialità
dell’interazione tra soggetti attivi, autori e non amministratori del
proprio sapere, del proprio movimento e della propria identità.
Ciò comporta il passaggio da una didattica dell’integrazione (come
assimilazione ai modi di pensare, muoversi, sentire e comportarsi
tipici dei soggetti normodotati) e della prestazione ad una didattica della soggettualizzazione.
In questo l’educazione motoria concorre a sviluppare tutti gli aspetti della personalità ed a superare le barriere psicologiche e culturali.
Tra le diverse metodologie capaci di condurre ad un’integrazione
autentica, anziché di una riduzione del mondo del diversabile a quello del normodotato, vi sono le tecniche del setting, sia pedagogico
che terapeutico, centrati sulla mediazione corporea (ib.). Tali percorsi privilegiano tutti gli esercizi motori che vanno nella direzione dello
sviluppo dell’autonomia, dell’indipendenza e della socializzazione.
Le metodologie pedagogiche all’interno di un laboratorio del genere
prevedono l’integrazione di esercizi di educazione fisica (lavoro sul
ritmo, sullo schema corporeo, sul coordinamento motorio ecc.) con
giochi di relazione e rispecchiamento ed attività alle quali ad una
consegna semplice è richiesta una risposta creativa e personale (tecniche di improvvisazione e danza, giochi di ruolo danzati, meditazione in movimento, tecniche di massaggio e rilassamento, apprendimento e riproduzione di coreografie provenienti da contesti culturali
molto diversi, elaborazione di coreografie individuali e di gruppo,
produzione di storie e danze) (ib.).
192
10. Una proposta di formazione per insegnanti ed alunni
La realizzazione di tali percorsi all’interno della scuola prevede un
primo momento di formazione degli insegnanti, organizzato, coordinato e condotto in collaborazione tra i formatori ed i docenti di educazione motoria, i quali fungono da supporto nell’organizzazione, nel
coordinamento e nella conduzione delle attività. Queste ultime, sperimentate personalmente su sé stessi nel ruolo di corsisti, verranno
poi proposte dai docenti agli alunni, nel rispetto del principio didattico in base al quale ciò che si sperimentato in prima persona viene
meglio trasmesso.
La scansione dei momenti di un eventuale corso di formazione
potrebbe essere la seguente (Naccari, 2006):
1) Riflessione iniziale sulla necessità di attivare un’educazione non
depositaria ma problematizzante, orientata ad una formazione
di tipo globale e complesso che preveda il recupero delle dimensioni affettiva e corporea, espressiva e comunicativa, integrando la mediazione verbale con il linguaggio del corpo come
mezzo per veicolare il senso dei messaggi di cui l’insegnante
stesso si fa interprete;
2) Presentazione delle metodologie a mediazione corporea come
veicolo per il rovesciamento della prospettiva su di sé, che consenta di aprirsi e fare esperienza di aree personali ancora inesplorate o parzialmente integrate, permettendo di sviluppare
una maggiore consapevolezza e flessibilità comunicativa, apertura all’integrazione fra intelligenze diverse, lettura di stati
emotivi e di dinamiche affettive personali ed interpersonali
emergenti dalle espressioni corporee, attenzione alle connotazioni socioculturali dei fenomeni affettivi, capacità di ridurre
conflittualità e competizione ansiogena;
3) Realizzazione di attività, divise in due fasi (all’interno di ognuna
delle quali sono previsti più incontri a seconda del tempo a disposizione), aventi ognuna i seguenti obiettivi e modalità:
193
I FASE: lavoro sulla dimensione individuale
-
-
Obiettivi:
Favorire la consapevolezza del proprio percorso di autorealizzazione e dei bisogni personali
Potenziare la creatività personale come autenticità
Sviluppare l’immaginazione
Sviluppare ed integrare le proprie capacità intuitive
Riconoscere, canalizzare ed integrare le proprie esigenze profonde
Sviluppare la capacità di ascolto, canalizzazione, integrazione, verbalizzazione delle emozioni
Stabilizzare l’umore
Ritrovare la fiducia di base e strutturare l’autostima
Recuperare il piacere funzionale del corpo
Amplificare la consapevolezza sensoriale
Comprendere, gestire, trasformare i propri limiti e lati oscuri
Sviluppare la capacità di ascolto ed analisi fenomenologica della
coscienza attraverso le sensazioni, percezioni, propriocezioni
Appagare il bisogno di movimento e di gioco
Dare corpo ai propri sogni
Modalità:
Immaginazione attiva in movimento
Meditazione in movimento
Tecniche di rilassamento e visualizzazione
Immaginazione guidata
Sperimentazione della dimensione simbolica del movimento e della danza
Tecniche di improvvisazione e danza contemporanea
Tecniche di teatro-danza
Giochi di ruolo danzati
Integrazione di tecniche plastico-pittoriche e narrative a partire
dal movimento
Amplificazione della gamma dei movimenti
Sviluppo della capacità di coordinazione
194
- Lavoro sull’immagine corporea
- Tecniche di rilassamento
- Tecniche di autocontatto
II FASE: lavoro sulla dimensione relazionale
-
-
-
Obiettivi:
Favorire la consapevolezza della dimensione non verbale della comunicazione
Saper nominare, distinguere e verbalizzare emozioni e vissuti
Ampliare le possibilità espressive
Differenziare ed articolare le potenzialità relazionali
Sviluppare le capacità empatiche
Sviluppare le capacità di confronto con chi è diverso da noi
Sapersi rapportare ed osservare senza giudizio
Saper valorizzare lo spessore eterogeneo delle relazioni umane
Saper cooperare, condividere, guidare, seguire, dare attenzione,
ascoltare l’altro da sé, assumere ruoli diversi in base al gruppo di
cui ci fa parte
Consentire la strutturazione e l’elaborazione del senso di appartenenza
Strutturare abitudini improntate ai valori condivisi
Sviluppare la consapevolezza e la sensibilità della cittadinanza terrestre
Modalità:
Giochi di relazione e rispecchiamento in movimento
Dialogo motorio
Tecniche di massaggio
Elaborazioni coreografiche in coppia o in gruppo
Meditazione e rilassamento in coppia e in gruppo
Esercizi di sintonizzazione in movimento
Sperimentazione della dimensione simbolica del movimento e della danza
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- Immedesimazione creativa con elementi della natura
- Integrazione di tecniche plastico-pittoriche in coppia ed in gruppo, a partire dal movimento
- Conoscenza ed esecuzione di danze etniche di diversi paesi del
mondo.
11. Conclusione: corporeità ed educazione
Al termine di questo lavoro ci piace citare la bellissima espressione di Metz: “Il corpo è sempre apparizione dell’uomo completo: è
quell’espressione nella quale l’uomo intero si manifesta in sé stesso.
È l’esserci, la presenza, l’azione prima, la parola, il simbolo, il mediatore dell’essere, la excarnazione, l’interiorità che si apre dell’uomo.
Nel corpo si incontra non solo un aggregato materiale, bensì l’apparizione dell’unico uomo completo” (Metz, 1996, p. 336).
Abbiamo tentato di dimostrare, attraverso questo lavoro, come da
tutto ciò non possa assolutamente prescindere chi si occupa di educazione.
L’epistemologia pedagogica attuale non può che pensare ad una
corporeità che, lungi dal presentarsi come semplice dato oggettuale,
come un in sé inerte, è un in sé in movimento verso il sé. In essa, il
fattore movimento si coglie finalizzato al bene del sé, alla fortificazione del sé, alla riproduzione del sé. E tutto questo in forma non eterodiretta ma autodiretta. La corporeità, insomma, si offre sempre dotata di un movimento che sorge all’interno o autogeno. Tale movimento è denominato vita (Palumbieri, 2006). L’incarnazione, come specifica struttura d’essere dello spirito umano è esprimibile solo attraverso la corporeità; l’excarnazione è la struttura d’essere del corpo umano nel momento in cui essa si apre all’integrazione dello spirito umano (ib.). Il dualismo emerge solo nella misura in cui si ha una concezione oggettuale del corpo. Si è visto come la fenomenologia riscopra
il sentirsi corpo, alla base del sentirsi essere, che facilità il cammino
della ricerca della base dell’unità interiore. Se l’essere dell’uomo è un
esser-ci, esso è necessariamente un essere nel corpo, base di ogni atteggiamento interiore o comportamento personale e relazionale; la
196
concezione della corporeità come dimensione dell’uomo, grazie al
nucleo autocoscienziale al quale si riferisce, è strada necessaria per
superare il dualismo: su questa linea, il corpo è luogo dell’incarnazione dell’interiorità (ib.).
L’uomo esiste nel mondo grazie al suo corpo e, una volte che visibilizza la propria interiorità, resta proteso verso di essa, per continuare a svolgere il suo ruolo costitutivo di manifestare ciò che non è
altrimenti accessibile se non con la mediazione corporea (ib.).
Concludendo, una psicopedagogia che valorizzi la corporeità come imprescindibile basilare elemento ontologico della natura umana,
in cui la stessa corporeità ha dimensioni fenomenologicamente molto
diverse dalla corporeità animale, riprendendo tematiche già affrontate in passato nella storia della filosofia, della psicologia e della pedagogia, apre, con gli ulteriori apporti neuroscientifici, nuovi ed affascinanti scenari, di estremo interesse sia epistemologico che applicativo.
197
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200
VI
CAPITOLO
EMOZIONI ED EMPATIA TRA FILOSOFIA E NEUROSCIENZE.
RISVOLTI PEDAGOGICI
di Chiara D’Alessio e Chiara Pepe
Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce (B. Pascal).
Certe modificazioni quantitative, e perciò spesso, quasi continue nelle
funzioni vegetative, come possono corrispondere ad una serie qualitativa di stati tra loro irriducibili? Per esempio, le modifiche fisiologiche
che corrispondono alla collera non differiscono per intensità da quelle
che corrispondono alle gioie e tuttavia la collera non è una gioia più intensa, è ben altro (J. P. Sartre).
1. Introduzione
Il capitolo ha lo scopo di presentare diverse posizioni teoriche sulle emozioni elaborate all’interno di più discipline, nel tentativo di integrarle in una visione multiprospettica che le colleghi all’esperienza
empatica ed alle sue applicazioni in campo educativo.
Nel corso della storia della filosofia ed in psicologia l’emozione è
stata variamente definita ed interpretata: affezione-modificazione
dell’anima (Aristotele, S. Tommaso, Cartesio), principio invisibile di
azioni visibili (Hobbes), pensiero confuso oscuro e involontario
(Leibniz), prevaricare delle sensazioni sulla razionalità (Kant),
espressione emotiva funzionale alla comunicazione e alla convivenza
(Darwin), reazione viscerale e neurovegetativa (James). In termini attuali, essa può definirsi stato mentale o affettivo in cui il soggetto intuisce-percepisce il valore di una situazione, esperienza soggettiva
meno stabile e intensa del sentimento e della passione, organizzatore
cognitivo-affettivo, mediatore tra organismo e ambiente, spinta dina201
mizzata dal bisogno secondo la traiettoria bisogno-emozione-azione.
Essa è, con tutta evidenza, un fenomeno complesso.
Il pensiero filosofico fin dall’antichità classica ha sancito una
netta demarcazione tra la sfera emotiva e quella razionale e speculativa. La prima veniva identificata con il disordine, l’eccesso e la
passività, mentre la seconda rappresentava l’ordine su tutti i differenti piani: della polis, del soggetto e della coscienza morale. Tutto ciò ha contribuito alla formazione di una visione di tipo dicotomico, che oppone le cognizioni alle emozioni nella spiegazione
della condotta umana. È tuttavia chiaro che nell’analisi delle facoltà psichiche o, se vogliamo, della mente, dobbiamo riconoscere
tre elementi fondamentali: l’emotività, l’affettività e la capacità
cognitiva.
Tale differenziazione non è così facilmente riconosciuta perché generalmente non sono ben chiare le differenze tra emotività ed affettività.
Secondo Jung la funzione intellettiva del comprendere è incapace di pensare una facoltà come il sentire; egli fa collimare l’emotività con l’affettività, in una attività psichica riferita ai sentimenti. In
tal modo sembrerebbe impossibile capire i sentimenti con la razionalità e risulterebbe paradossale per l’uomo cercare di gettare un
ponte tra mondo del pensare e mondo del sentire. Nelle società dei
paesi più sviluppati sono assolutamente privilegiate le facoltà intellettivo- razionali e le emozioni sono considerate di secondo ordine.
Tale atteggiamento è retaggio della cultura classica greca, nella quale il razionale, l’estetico ed il vero si coniugavano anche nel giusto,
per assumere un valore assoluto di predominanza. Nel mondo antico infatti l’emotivo era coniugato come “passione” che, con un significato intrinseco di istintivo, incontenibile, infrenabile e cieco,
era da rifiutare.
Cartesio, invece, rivaluta i sentimenti come espressioni autonome
dell’Io che si propone così come soggetto, valore massimo della condizione umana che si distingue dal resto del mondo e dall’oggettività;
considera il sentimento come fonte della morale e dell’etica, espressione massima dell’estetica ed anche mezzo di conoscenza che incrina la supremazia dell’oggettività e, quindi, del razionale.
202
Pascal riconosce che il cuore ha una capacità conoscitiva diversa
dall’intelletto, ma assolutamente valida ed efficace: se il pensiero razionale è capace di acquisire conoscenza, non è tuttavia in grado di
afferrare l’oggetto nella sua completezza perché è del cuore la capacità di captare intuitivamente e rapidamente la situazione dell’oggetto.
Per Rousseau il sentimento riesce a percepire quella forma di bontà e
di valore etico di un ambiente inquinato dai condizionamenti, dal
profitto, dall’utile, dal predominio sociale. Un notevole progresso è
attuato dai sentimentalisti inglesi del settecento che, nel campo del
conoscere, pongono sullo stesso piano sentimenti e ragione.
Kant evidenzia, accanto alla ragione, il sentimento e la volontà che
diventano le funzioni mentali principali dell’uomo e che, anzi, lo elevano sopra ogni altro essere vivente. Il sentimento acquista sempre
maggior valore anche perché gli vengono attribuite particolari capacità di giudicare in base ad un nuovo metro che è quello del piacere e
del dispiacere. Contro i percorsi della logica e della razionalità, il
sentimento viene esaltato come ponte di spiritualità, come mezzo per
seguire il cammino della trascendenza e l’amore acquista un valore
che spalanca le porte alla relazione, alla compartecipazione ed alla
solidarietà. Accanto ai valori cognitivo-razionali, prendono posto valori esistenziali ed i sentimenti si differenziano fenomenologicamente
come “animici” (amore, odio, tristezza) o “spirituali” (speranza, felicità, estasi) dando una visione nuova al senso della vita e del mondo,
oltre alla finalità dell’uomo e della sua volontà.
Nel linguaggio comune non si è soliti distinguere tra emozione e
sentimento, ma li si adotta praticamente come sinonimi. Damasio
opera invece una separazione intendendo per emozioni le componenti del processo esibite e rese pubbliche, e per sentimenti le componenti che restano invece private. Bisogna specificare che tale distinzione nasce per esigenze di spiegazione ma, in realtà, emozione e
sentimento appartengono ad un unico processo (così come mente e
corpo appartengono alla stessa sostanza). Secondo le ricerche di Damasio in tale processo per primo viene il meccanismo dell’emozione
cui segue quello per produrre una mappa cerebrale e poi un’immagine mentale (o idea) dello stato dell’organismo che ne risulta, cioè il
sentimento.
203
«I sentimenti … non insorgono solo dalle emozioni vere e proprie,
ma da qualsiasi insieme di reazioni omeostatiche, e traducono nel linguaggio della mente lo stato vitale in cui versa l’organismo» (Damasio, 2003, p. 107).
All’origine del sentimento è quindi il corpo, costituito da diverse
parti continuamente registrate in strutture cerebrali. I sentimenti sono allora la percezione di un certo stato corporeo cui, talvolta, si aggiunge la percezione di uno stato della mente ad esso associato o anche la percezione del tipo di pensieri il cui tema è consono con il genere di emozione percepita. Già con altre ricerche Damasio aveva dimostrato il ruolo decisivo che i sentimenti hanno nel comportamento
sociale (si veda L’errore di Cartesio). E anche qui l’autore ribadisce
che l’integrità dei meccanismi dell’emozione e del sentimento è necessaria per un comportamento sociale umano normale. I sentimenti
«ci aiutano a risolvere problemi non standard che implicano creatività, giudizio e processi decisionali, e che richiedono l’esibizione e la
manipolazione di grandi quantità di conoscenza» (Damasio, 2003, p.
215). All’interno della critica del dualismo cartesiano, Damasio ritorna sull’importanza della figura di Spinoza, il quale modificò infatti la
prospettiva ricevuta in eredità da Cartesio quando iniziò a sostenere
che pensiero ed estensione sono sì distinguibili, ma sono anche attributi della stessa sostanza. Mente e corpo sono quindi inseparabili,
“tagliati dalla stessa stoffa”. Inoltre, Damasio richiama l’attenzione
su una strana situazione che si sta verificando oggi: la moderna associazione tra mente e cervello non ha eliminato la scissione dualistica
tra mente e corpo, ma l’ha solo spostata.
A tutt’oggi, rimanendo ancora in gran parte irrisolte le dicotomie
mente-corpo, biologico-psichico, corpo-anima, emozione-cognizione, i risultati attraverso i quali si è dimostrato come l’ambiente biochimico del cervello alteri le sensazioni, la partecipazione, la produzione eidetica ed il comportamento hanno aperto nuove prospettive
agli studi sull’interazione tra biologico e mentale nell’esperienza
emotivo-affettiva e cognitiva.
I lavori di Daniel Goleman (1996) e Antonio Damasio (1995), pur
destando nuovo interesse sul ruolo delle emozioni, hanno talora involontariamente contribuito a sottolineare la distanza tra sfera cogni204
tiva e sfera affettiva, mettendole in competizione o dimostrando che
lesioni cerebrali che alterano il funzionamento emotivo lasciano indenne quello cognitivo e razionale.
La neurobiologia dell’emozione e del sentimento dimostrano oggi
un’altra delle intuizioni spinoziane, e cioè che la gioia e i sentimenti
positivi sono preferibili al dolore in quanto «più favorevoli alla salute
e allo sviluppo creativo del nostro essere» (Damasio, 2003, p. 320).
Damasio, pertanto, propone di combinare alcuni aspetti della filosofia spinoziana con un atteggiamento più attivo nei confronti dell’ambiente che ci circonda: «un atteggiamento combattivo… sembra prometterci che non ci sentiremo mai soli finchè il nostro interesse sarà
concentrato sul benessere altrui» (Damasio, 2003, p. 339).
Sulle emozioni non esiste un’unica teoria sistematica e completa,
risulta quindi difficile formulare una definizione univoca: esse sono
reazioni adattive, di mediazione con l’ambiente, determinate da esperienze piacevoli o spiacevoli, caratterizzate da peculiari reazioni somatiche e da determinate qualità affettive.
Potremmo definire l’emozione una complessa sequenza di reazioni
ad uno stimolo che includono: valutazioni cognitive, cambiamenti
soggettivi, eccitazione neurale, impulso all’azione e comportamento
finalizzato ad avere un effetto sullo stimolo che era all’origine della
catena. Nella varietà di definizioni che si incontrano, si riscontra un
generale consenso sul fatto che le emozioni siano il prodotto dell’interazione tra modificazioni fisiologiche e processi psicologici, generalmente considerate il risultato di più componenti: neurofisiologica-biochimica, comportamentale ed infine legata all’esperienza soggettiva.
L’esperienza emotiva è prodotta dall’interazione di un insieme di
strutture neurali dal momento che, ad es., “sentirsi felice” è accompagnato contemporaneamente da processi sensoriali e periferici (le
modificazioni corporee correlate alle emozioni) e da processi cognitivi superiori (mediati dalla corteccia). Infatti, un’emozione suscita una
serie di risposte nell’organismo, tra cui distinguiamo risposte palesi
(il rossore per la vergogna, ad esempio) e risposte somatiche (l’aumento del battito cardiaco per la paura). Entrambe queste risposte
includono l’attivazione del sistema nervoso autonomo, del sistema
endocrino, dell’apparato motorio scheletrico, i quali per funzionare
205
necessitano di un insieme di strutture centrali come il tronco encefalico, l’ipotalamo e l’amigdala. Studi neuroscientifici condotti con tecniche di neuroimaging, che permettono lo studio del cervello vivo
nell’atto di esperire un’emozione, hanno messo in luce con sempre
maggiore chiarezza il ruolo dei sistemi centrali e periferici che intervengono direttamente nella mediazione dell’ esperienza emotiva, dei
quali parleremo estesamente nel corso di questo lavoro, il quale inizia
con un excursus storico che riassume i principali approcci allo studio
delle emozioni.
2. Gli studi sulle emozioni
È noto che i primi studi scientifici sulle emozioni, rappresentati da
teorie biologiche e filogenetiche, risalgono al XIX sec. Fu soprattutto la teoria di Darwin (1872) ad esercitare un’enorme influenza
sul modo di pensare alle emozioni. In essa si sostiene che le emozioni sono comuni sia agli uomini che agli animali e fondate sull’attivazione fisiologica di energie istintive ed innate. Pertanto, tutte le funzioni corporee dipendono dai rispettivi organi e tra queste
funzioni vengono collocate anche quelle relative al sentimento e alla sensazione.
Le prime teorie scientifiche sulle emozioni ne cercano una spiegazione e definizione attraverso il ruolo ricoperto dalle modificazioni viscero-somatiche che si verificano nell’organismo in risposta ad un dato set di stimoli.
Darwin fu il primo a sostenere che le emozioni svolgono una funzione centrale per la sopravvivenza dell’individuo e rappresentano
una risposta istintiva e universale alle minacce ambientali, focalizzando la sua attenzione sulle espressioni emotive, cioè su gesti visibili come lo stringere i pugni, il digrignare i denti, tendere i muscoli,
affermando che si trattava di repertori comportamentali automatici
e universali, trasmessi ereditariamente. Egli propose la teoria dell’evoluzione per spiegare l’origine della specie, giungendo alla conclusione che la diversità biologica era associata anche alla diversità
comportamentale e che un aspetto di quest’ultima fosse la moltepli206
cità delle forme di espressione emozionale osservabile in tutti gli
animali.
La concezione darwiniana del comportamento espressivo risulta
essere di tipo funzionale: le espressioni emozionali agiscono come segnali e sono preparatori all’azione. Nonostante fosse convinto del carattere non appreso di molte di esse, egli intuì che alcune erano invece il risultato di una interiorizzazione naturale e spontanea, come le
parole di una lingua, usate come mezzo di comunicazione, e ritenne
probabile che gli animali avessero un’innata capacità di riconoscere
le espressioni emozionali negli altri. Darwin inoltre riconobbe che il
concetto di evoluzione si sarebbe potuto applicare non soltanto allo
sviluppo di strutture fisiche, ma anche all’evoluzione della mente e
delle emozioni. Nell’opera L’espressione delle emozioni nell’uomo e
negli animali (1872), fornì molti esempi dei modi paralleli in cui animali diversi esprimono le emozioni, ritenendo che tali osservazioni
avrebbero fornito la base per operare generalizzazioni sulle origini di
vari tipi di comportamenti espressivi poiché, a differenza degli esseri
umani, è improbabile che gli animali basino le proprie espressioni
sulle convenzioni sociali.
I progressi della ricerca hanno confermato l’intuizione darwiniana
della fondamentale unità dei sistemi viventi: è indubbio che esistano
processi comuni a tutti i livelli di sviluppo biologico. Per poter comprendere appieno le emozioni, è necessario riconoscerne le origini
nell’evoluzione filogenetica oltre che nello sviluppo biologico (Plutchik, 1980), idea che ha determinato il passaggio dallo studio delle
sensazioni soggettive a quello del comportamento in un contesto biologico evolutivo. Gli studi in questo campo, definito della evolutionary psychology, hanno sviluppato ulteriormente le ricerche di Darwin ponendo l’enfasi sul ruolo delle emozioni ai fini della sopravvivenza umana. Le teorie delle emozioni fondamentali, infatti, sostengono che esse sono quadri di risposte che hanno una base innata, che
vi è una continuità di queste risposte osservabili fra le diverse specie
animali e che esse abbiano una funzione adattiva. Le emozioni fondamentali si riconoscono perché hanno segnali distintivi universali
come le espressioni facciali, le quali agiscono come veri e propri segnali di comunicazione, fornendo informazioni sugli antecedenti (per
207
esempio, la presenza di un pericolo), sull’emozione in atto (la paura),
sull’attivazione fisiologica (il volto che sbianca) e sulle azioni prevedibili (la fuga).
Nel 1884 lo psicologo americano William James pubblicò un lavoro nel quale propose nuovo modo di guardare le emozioni, considerando il problema della sequenza. James sottolineava che normalmente quando si verifica un’emozione, si pensa che la percezione di
una situazione origini una “sensazione di emozione”, che è poi seguita da varie modificazioni fisiologiche interne ed esterne. Secondo James questa sequenza era scorretta in quanto le modificazioni fisiologiche seguono direttamente la percezione di un evento eccitante, e la
sensazione di queste modificazioni è l’emozione. A suo avviso un’emozione sconnessa da ogni sensazione fisica era inconcepibile. James, considerando le emozioni “reazioni innate o istintive”, modificabili con l’addestramento e l’abitudine, precisava che la sua teoria
dovesse essere applicata solo alle emozioni grezze, quali sofferenza,
paura, rabbia e amore. L’importanza di questa che oggi difficilmente
definiremmo teoria stava allora nel conferire un’aurea di scientificità
a quella che era un’idea di senso comune, riprendendo il concetto
che un’emozione è uno stato introspettivo, soggettivo, personale,
idiosincratico.
Walter Cannon, un medico americano attivo all’inizio del XX secolo, studiò le modificazioni fisiologiche che si verificano negli animali sotto stress e utilizzò i suoi dati per mettere in discussione le
ipotesi di James, tentando poi di individuare nel cervello la “sede
delle emozioni”. Sulla base dei suoi numerosi esempi ed esperimenti,
si convinse sempre di più di quanto fosse limitativo il feedback viscerale nella produzione di sensazioni emozionali, riconoscendogli ottimisticamente solo un ruolo secondario. Secondo Cannon (1927)
quando il talamo (parte interna del cervello appartenente al sistema
limbico che funziona come centro di raccolta e smistamento dell’informazione sensoriale) viene eccitato, alla semplice sensazione si aggiunge la qualità peculiare dell’emozione. Invece di ipotizzare una sequenza lineare di eventi che collegano la percezione alla sensazione,
come supposto da James, Cannon affermò che la scarica talamica
produce simultaneamente un’esperienza emozionale e una serie di
208
modificazioni corporee. Egli era inoltre convinto che quasi tutte le
emozioni si potessero considerare in termini di attacco-fuga.
Contrapponendosi alla teoria periferica di James, Cannon ha elaborato e proposto una teoria centrale delle emozioni che da’ una
maggiore attenzione agli aspetti cognitivi del processo emozionale,
dipendendo l’esperienza emozionale dall’attività delle strutture del
sistema nervoso centrale che abbiamo menzionato al’inizio di questo
lavoro e che riprenderemo più avanti. Per Cannon i centri di attivazione, di controllo e di regolazione dei processi emotivi non si trovano in sedi periferiche come i visceri, ma sono localizzati centralmente
nella regione talamica, in quanto i segnali nervosi da essa provenienti
sono in grado sia di indurre le manifestazioni espressivo-motorie delle emozioni, sia di determinare le loro componenti soggettive attraverso le connessioni con la corteccia cerebrale.
Seguendo questo approccio, Cannon ha approfondito lo studio
dei processi neurofisiologici sottesi alle emozioni, individuando l’arousal simpatico come «reazione di emergenza». Si tratta di una configurazione di risposte neurofisiologiche che cambiano simultaneamente alla comparsa dell’emozione, e che comprendono, fra l’altro,
l’aumento della frequenza cardiaca e della portata cardiaca, la vasocostrizione cutanea e gastroenterica, la secchezza faucale, la contrazione degli sfinteri, la dilatazione pupillare.
Partendo dal contributo di Cannon, Papez (1937) ha avanzato l’ipotesi secondo cui i centri di elaborazione e di controllo delle emozioni si situano lungo un circuito composto dall’ipotalamo, dal talamo anteriore, dal giro cingolato e dall’ippocampo (circuito di Papez).
MacLean (1949), integrando il circuito di Papez con altre regioni,
quali l’amigdala, i nuclei del setto, porzioni della corteccia fronto-orbitaria e porzioni dei gangli della base, denominò l’insieme di queste
strutture neuroanatomiche con il termine di sistema limbico. Quest’ultimo è stato considerato, nel suo insieme, come un sistema generale di attivazione e di mediazione di funzioni essenziali per la sopravvivenza dell’organismo e sede di elaborazione e di regolazione
dell’emozionalità.
La teoria periferica di James e la teoria centrale di Cannon, pur
essendo fra loro antitetiche, hanno sottolineato aspetti unilaterali del209
l’esperienza emotiva, con particolare riferimento al versante neurofisiologico.
Un efficace contribuito all’introduzione di una dimensione genuinamente psicologica nello studio sperimentale delle emozioni è stato
Schachter con la teoria cognitivo-attivazionale (o teoria dei due fattori). Schacter elaborò una concezione dell’emozione intesa come la risultante dell’interazione fra due componenti distinte: una di natura
fisiologica con l’attivazione diffusa (cioè, emozionalmente non specifica) dell’organismo (arousal); l’altra di natura psicologica, con la percezione di questo stato di attivazione e con la sua spiegazione in funzione di un evento emotigeno plausibile. Entrambe queste componenti sono considerate condizioni necessarie per l’occorrenza di uno
stato emozionale, ma la loro semplice presenza non è tuttavia sufficiente a generare un’emozione. Secondo Schachter, occorre un’attribuzione causale che stabilisca una connessione fra queste due componenti, in modo da attribuire la propria attivazione corporea a un
evento emotigeno pertinente e da etichettare la propria esperienza
emotiva in maniera adeguata. Pertanto, l’emozione è la risultante dell’arousal e di due atti cognitivi distinti: uno che riguarda la percezione e il riconoscimento della situazione emotigena, l’altro che stabilisce la connessione fra questo atto cognitivo e l’arousal stesso. La percezione dell’attivazione fisiologica e la sua interpretazione cognitiva
attraverso il processo di etichettamento determinano il tipo di emozione che l’individuo prova.
La cognizione è intesa da Schachter come una conoscenza di tipo
causale, che consente di attribuire al tipo di situazione nella quale si trova l’individuo lo stato di attivazione fisiologica da lui vissuta, operando,
attraverso processi di attribuzione causale, al fine di definire la qualità
dell’esperienza emotiva. Schachter e Singer (1962), dopo numerosi
esperimenti, conclusero che l’emozione può essere considerata come
uno stato di risveglio fisiologico e di una cognizione appropriata a questo stato. È la cognizione che determina se lo stato di attivazione sarà
etichettato come gioia, paura, rabbia, ecc.
Anche Mandler (1984) distingue tra attivazione (arousal) dell’organismo e interpretazione cognitiva, sostenendo che l’arousal è la
percezione dell’attività del sistema nervoso simpatico. Si tratta però
210
di una percezione globale e indifferenziata che non può contribuire a
definire la qualità delle emozioni o a distinguerle l’una dall’altra. Secondo questo autore, l’esperienza emotiva è il risultato dell’interazione tra attivazione del sistema nervoso autonomo ed elaborazione cognitiva, che si basa sull’analisi del significato che gli eventi hanno in
rapporto alle aspettative della persona. Tale elaborazione è responsabile della qualità e del contenuto delle emozioni. Per Mandler l’esperienza emotiva richiede dunque la consapevolezza da parte dell’individuo dei fattori che determinano il processo emotivo.
In base alle teorie cognitivo-attivazionali, quindi, l’emozione è
composta da uno stato di attivazione dell’organismo (arousal) e dalla
conseguente interpretazione cognitiva della situazione.
La concezione bifattoriale di Schachter rappresenta una svolta
importante nello studio psicologico delle emozioni, perché individua nell’elaborazione cognitiva il principale aspetto costitutivo dell’esperienza emozionale. Da tale concezione prendono avvio le cosiddette teorie dell’appraisal che si sono affermate in psicologia negli anni ‘80, in base alle quali l’insorgere di un’emozione è connesso
alla valutazione di una situazione e patterns di risposte fisiologiche
differenziate dipendono dalla specifica valutazione cognitiva dell’evento. Gli elementi ritenuti essenziali per l’esperienza emotiva sono
chiamati valutazioni cognitive e tendenze all’azione e ad essi è attribuita la funzione di cogliere il significato di un evento emotigeno.
Secondo queste teorie, non è la natura dell’evento a suscitare l’emozione ma l’interpretazione che la persona dà all’evento in relazione al proprio benessere. La teoria dell’appraisal assume che le
emozioni insorgono nelle situazioni in cui accade qualcosa di importante per l’individuo e servono a prepararlo e a motivarlo rispondervi adattivamente. Dunque le emozioni non sono semplici
risposte agli stimoli situazionali, ma rispecchiano le implicazioni
personali di una persona, le sue conoscenze, la sua esperienza passata. Per questo motivo le reazioni emozionali di individui diversi
alla stessa situazione non sono identiche, così come la reazione dello stesso individuo potrà essere diversa in situazioni simili tra loro.
Il termine appraisal è stato introdotto da Magda Arnold (1960),
che lo definì come un elemento dotato di percezione, in quanto per211
mette di stabilire in modo immediato, quasi involontario, la presenza
o l’assenza di un oggetto o di un evento, ed il suo carattere di negatività e di positività e tendenza all’azione. Tale tendenza all’azione è
vissuta come emozione e si esprime attraverso modificazioni degli
stati dell’organismo che possono dar luogo a delle azioni.
Secondo Frijda (1994), le esperienze emotive sono essenzialmente
esperienze della situazione emotigena e delle sue potenzialità positive
o negative per la persona, per cui emozioni diverse saranno caratterizzate da significati situazionali diversi. Inoltre, le esperienze emotive sono motivazioni per il comportamento, poiché ogni emozione è
percepita dalla persona come una tendenza a fare qualcosa. La Arnold parla di “tendenze all’azione”, mentre Frijda usa l’espressione
“preparazione all’azione” per indicare sia la consapevolezza di uno
stato preparatorio all’azione, che la sua effettiva attivazione da parte
dell’organismo.
Scherer (1984), ad esempio, considera le emozioni come generate
da un processo continuo di valutazione degli stimoli, valutazione che
avviene attraverso una serie di svariati controlli, o “check”. Ogni
controllo produce a sua volta dei cambiamenti correlati che precisano le reazioni emozionali (elaborazione dell’informazione, sostegno,
esecuzione-motivazione, azione, monitoraggio). I vari stati emotivi
corrispondono perciò a differenti aspetti delle modificazioni di componenti diverse.
Per le teorie dell’appraisal le emozioni sono fenomeni adattivi che
adempiono a precise funzioni: 1) regolazione dell’attenzione: attraverso l’appraisal, il sistema emozionale monitora l’ambiente per l’individuazione di eventi significativi e mette in allerta in se conscio quando
li scopre; 2) motivazione: attraverso le attività fisiologiche associate e
le tendenze all’azione, la risposta emozionale prepara l’individuo e lo
motiva ad affrontare l’evento che ha provocato l’emozione.
La prima funzione non dipende dall’attenzione focalizzata, quindi
si deve supporre ampiamente inconscia e pre-attentiva. In quanto tale, il sistema è rapido, ma poco informativo. La seconda funzione, invece, richiede, una descrizione molto dettagliata dello stimolo situazionale, perché solo così può predisporre l’individuo a reagire appropriatamente ad esso, quindi il sistema non può essere pre-attentivo.
212
Vengono distinti così due tipi di elaborazione, corrispondenti alle
due diverse funzioni delle emozioni. Il primo tipo di processamento
è quello di tipo schematico: si tratta di processi veloci e automatici,
che possono attivare molti tipi di memoria simultaneamente o in
parallelo. In esso le emozioni operano inconsapevolmente, non dipendono dalla volontà e richiedono pochissime risorse attentive; non
dipendono completamente dall’informazione di tipo verbale ma anche da altri tipi di informazione come quella visiva uditiva, cinestetica olfattiva, etc. Il processamento concettuale è invece conscio e
pressocché esclusivamente verbale, quindi più flessibile, ma più lento
e funzionante solo in modo sequenziale e lineare. In quanto tale è capace di assimilare molte delle risorse attentive.
I due tipi di processamento interagiscono tra loro: l’attivazione
schematica facilita quella concettuale e viceversa (essendo le memorie associate). In particolare l’appraisal schematico può influenzare i
processi emozionali a un livello più basso di quello concettuale ma,
una volta attivato, può propagarsi a un livello superiore e irrompere
nella coscienza. I modelli più recenti dell’appraisal ritengono dunque
che l’elaborazione cognitiva debba essere concepita in modo più
complesso e differenziato: è infatti ormai comunemente accettato che
nell’ emozione non sia implicato un unico tipo di elaborazione e che
questa vada vista come operante a più livelli tra di loro interagenti.
Uno dei modelli più noti è quello descritto da Leventhal e Scherer (1987), che individuano tre differenti livelli di elaborazione: il
livello sensomotorio, il livello schematico e il livello concettuale. Il
livello sensomotorio, considerato il più primitivo, comprende molteplici componenti, costituite da una serie di programmi espressivo-motori innati e di sistemi cerebrali di attivazione, che possono
essere stimolati simultaneamente da vari fattori (ad esempio dalla
volontà, da una varietà di stimoli esterni o da cambiamenti interni
di stato). Questi meccanismi includono le capacità primarie di risposta emozionale dell’individuo e generano i primi comportamenti emotivi osservabili. Il livello schematico è attivato in modo
automatico ed è costituito dalle associazioni apprese nel corso dell’età neonatale, in base alle quali si formano rapidamente dei prototipi, simili ad immagini, delle situazioni emozionali, integrati alle
213
risposte sensomotorie innate e a quelle soggettive. Il livello concettuale, infine, è conscio, ha un formato proposizionale e include i
ricordi concernenti emozioni, aspettative, scopi e piani coscienti
dell’individuo e il concetto di sé. In quanto tale esso permette perciò di situare gli eventi emotivi in una prospettiva temporale a lungo termine. Secondo Leventhal e Scherer, questi tre livelli operano
ampiamente in parallelo e simultaneamente nelle persone adulte, e
a ciascuno di essi viene effettuata una serie di controlli valutativi
sugli stimoli, volti a verificarne la novità, la piacevolezza o spiacevolezza, la rilevanza rispetto agli scopi e ai piani dell’individuo, il
potenziale di coping nei confronti dell’ evento-stimolo e infine la
compatibilità con il concetto di sé e con le norme sociali. Dal profilo emergente da tutti questi controlli deriverebbero le diverse
emozioni. L’emozione muove l’organismo all’azione adattandolo
all’ambiente esterno in un movimento orientato, significativo, non
automatico e riflesso. L’emozione, dunque, guida e orienta il comportamento e la condotta.
Le emozioni “muovono” anche la vita cognitiva, precedendo la
percezione, il pensiero, l’immaginazione e risvegliando la memoria.
Un’emozione è sempre presente nella coscienza per facilitare, colorare, catalizzare, selezionare le attività cognitive. La sfera affettiva
intreccia una continua relazione e uno scambio comunicativo con la
dimensione più propriamente cognitiva della nostra psiche. Da
questa dinamica interazionale, scaturisce la soggettività di ogni essere umano, le sue peculiarità psicologiche, il suo modo di essere e
di mostrarsi al resto del mondo (Carotenuto, 2003). La presenza di
connessioni tra il sistema emozionale e quello del pensiero vigile e
cosciente è quanto mai evidente nel momento in cui ognuno di noi
può trovarsi a esperire dei segnali affettivi così intensi da riuscire a
sabotare la linearità di un pensiero corrente. È anche vero però che
il sistema operativo dell’uomo, quello razionale e logico, deputato
alla progettualità e all’intervento finalizzato, non potrebbe espletare il suo funzionamento in modo efficiente senza l’intervento e la
collaborazione delle emozioni. Esse sono “le bussole psichiche” che
orientano le nostre scelte, che danno l’avvio al nostro sentire (ib.).
Pertanto, il primitivo conflitto tra emozione e cognizione, che per
214
molto tempo si è risolto unicamente a favore della componente razionale, deve quindi essere inteso sotto un nuovo punto di vista che
cerchi di integrare e trovare il giusto equilibrio tra le due parti.
Goleman (1996) riconosce nell’uomo l’esistenza di due menti: una
che pensa, l’altra che sente. Queste due modalità della conoscenza,
così fondamentalmente diverse, interagiscono per costruire la nostra
vita mentale. La mente razionale è la modalità di comprensione di
cui siamo solitamente coscienti, dominante nella consapevolezza e
nella riflessione, capace di ponderare e di riflettere. Accanto ad essa
c’è un altro sistema di conoscenza, impulsivo, potente e a volte illogico: la mente emozionale. Il rapporto fra razionale ed emozionale nel
controllo della mente varia lungo un gradiente continuo; quanto più
intenso è il sentimento, tanto più la mente emozionale è dominante e
più inefficace quella razionale. Nella maggior parte dei casi, queste
due menti operano in grande sinergia e le loro modalità conoscitive,
così diverse si integrano reciprocamente per guidarci nella realtà. In
genere c’è equilibrio fra mente razionale e mente emozionale; l’emozione alimenta e informa le operazioni della mente razionale, mentre
questa rifinisce e a volte pone il veto agli input delle emozioni. Quando le emozioni aumentano di intensità, l’equilibrio si capovolge: la
mente emozionale prende il sopravvento, travolgendo quella razionale. Goleman sostiene inoltre che possediamo anche due distinte intelligenze: quella razionale, e quella emotiva. Quest’ultima, definita per
la prima volta da Salovey e Mayer nel 1989 come capacità di osservare le proprie emozioni e quelle altrui, di differenziarle e di usare tali
informazioni per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni, comprende la capacità di regolare le proprie emozioni, di controllare gli
impulsi, di essere empatici, di modulare i propri stati d’animo, evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare ed svolge un ruolo
importante nel guidare le nostre decisioni in stretta collaborazione
con l’intelligenza razionale. Il nostro modo di comportarci nella vita
è determinato dal corretto sviluppo di entrambe le intelligenze: è importante che un individuo sia abile dal punto di vista logico e razionale come da quello emotivo e relazionale.
215
3. Sistemi fisiologici e loro attivazione nell’esperienza emotiva
Nell’esperienza emotiva fondamentale è il contributo dei sistemi
fisiologici, di tipo centrale e periferico. Il sistema nervoso centrale
(SNC) comprende l’encefalo e il midollo spinale, il sistema nervoso
periferico (SNP) comprende i nervi afferenti ed efferenti e unisce il
SNC con il resto dell’organismo. Fa parte del SNP anche il sistema
nervoso autonomo (SNA) che regola le risposte autonome o vegetative. Le modificazioni prodotte dal SNA non accedono a livello di coscienza e per questo motivo che esso viene definito anche sistema
motorio involontario.
Il SNA viene diviso in due sottosistemi: il sistema simpatico e sistema parasimpatico, oltre che nel sistema enterico. La risposta emotiva è data dall’attivazione del sistema nervoso simpatico, esso attiva
il corpo durante lo stato di attenzione fisiologica, aumenta la frequenza cardiaca e quella degli atti respiratori, stimola l’attività delle
ghiandole sudoripare, arresta l’attività digestiva e provoca una vasocostrizione periferica, con aumento di conseguenza della pressione
sanguigna e del flusso di sangue verso gli organi interni ed il cervello.
Quando lo stato di attenzione fisiologica termina, il sistema parasimpatico riduce quasi tutte le attività del corpo, ad eccezione della digestione che viene attivata. Infine, possiamo affermare che il sistema
nervoso simpatico prepara l’organismo “all’attacco o alla fuga”, mentre in genere quello parasimpatico diminuisce il livello di attività e promuove la conservazione dell’energia con il reintegro delle sue riserve.
Le aree cerebrali più importanti per le emozioni sono situate nel sistema limbico, una rete di strutture nervose organizzate attorno alla
parte superiore del tronco encefalico. A partire dagli studi di Papez
(1937) è stata rilevata l’importanza di uno specifico circuito cerebrale
nella vita emotiva degli individui, costituito da un substrato anatomico di sistemi corticali primitivi, collocati intorno al tronco encefalico,
chiamato da Broca lobo limbico e includente alcune strutture come
l’ipotalamo, ippocampo, i corpi mammillari, il talamo anteriore e la
corteccia del cingolo. Alla originaria struttura presentata da Papez sono state aggiunte ulteriori componenti anatomiche, quali l’amigdala, i
gangli della base, i nuclei del setto e la corteccia frontale.
216
Il sistema limbico, la corteccia parietale posteriore dell’emisfero
destro e la corteccia prefrontale sono connessi ad aree sottocorticali a
loro volta interconnesse, in modo tale che l’informazione elaborata in
una regione cerebrale possa facilmente essere convogliata in altre regioni. Ad esempio, strutture sottocorticali come l’amigdala, il talamo
anteriore e l’ipotalamo svolgono un ruolo prioritario nell’attribuzione del significato affettivo degli stimoli e nella mediazione delle risposte fisiologiche associate alle risposte emotive. Al contrario, tra le
aree centrali, la regione posteriore dell’ emisfero destro risulta fondamentale per l’interpretazione delle informazioni emotive. Infine, la
corteccia prefrontale è implicata sia nell’esperienza emotiva (intesa
come vissuto emotivo) sia nell’espressione delle emozioni mediante il
controllo delle funzioni motorie.
Gli studi compiuti da Mac Lean hanno fornito una spiegazione
del rapporto esistente tra strutture sottocorticali e corticali, secondo
cui il controllo neurofisiologico dell’esperienza e dell’espressione
emotiva prevede l’interazione di tre strutture nervose centrali: il tronco encefalico, il sistema limbico e la neocorteccia. Oltre alle emozioni, il sistema limbico interviene anche nell’apprendimento, nella memoria e nei comportamenti motivati, come l’aggressività e il comportamento sessuale.
Di tutte le strutture del sistema limbico, quella maggiormente coinvolta nella generazione delle emozioni è l’amigdala che riceve le informazioni di tutte le modalità sensoriali e produce paura e ansia
proiettando verso una varietà di strutture nervose che producono a
loro volta le risposte emotive. Essa coordina l’attività delle strutture
che intervengono nell’espressione fisiologica e facciale delle emozioni
e le aree corticali che sono presumibilmente sede delle sensazioni
consce in particolare della paura. L’amigdala è coinvolta anche nella
generazioni di altre emozioni e svolge un ruolo cardine proprio nella
paura e nell’ansia. Essa ha un rapporto diretto con l’ipotalamo e con
il sistema nervoso autonomo, nonché con le strutture talamiche, per
mezzo dei quali esercita le proprie funzioni emotive. Tale circuito garantisce una circolazione efficace delle informazioni in entrata ed in
uscita dall’amigdala, che ha alcuni nuclei interconnessi con l’ipotalamo, la formazione ippocampale, la neocorteccia e il talamo. I due nu217
clei principali che intervengono nella regolazione degli stati emotivi
sono i nuclei del complesso basolaterale e il nucleo centrale.
L’amigdala svolge due importanti funzioni nel processo cognitivo
di comprensione e valutazione della situazione emotiva: valuta il significato emotivo degli stimoli e media i processi di condizionamento
emotivo.
Con la prima funzione, l’amigdala contribuisce alla valutazione del
significato dello stimolo, in termini di positività o negatività per l’organismo. Tale processo avviene con l’ausilio di due percorsi anatomici
distinti supportati dall’amigdala: la via talamica e la via corticale.
La via talamica ha la funzione di stimolare risposte comportamentali repentine e di attivare processi di elaborazione sufficientemente
veloci in attesa di input corticali più specifici che provengono dalla
via corticale. La via corticale infatti prevede l’invio di informazioni
analitiche che forniscono maggiori dettagli sulla struttura percettiva e
semantica dello stimolo, con meccanismi di risposta che sono mirati
alla specificità della situazione: soltanto a tale livello è possibile riconoscere pienamente le proprietà simboliche dello stimolo e preparare
una risposta volontaria congrua al contesto.
Con la seconda funzione relativa all’immagazzinamento in memoria delle informazioni con valore emotivo, l’amigdala e le strutture ad esse collegate rappresentano un sistema neuronale coinvolto nella memoria emotiva, implicato nell’apprendimento inconscio
delle informazioni emotive degli stimoli.
Le funzioni mnestiche dell’amigdala svolgono contemporaneamente un ruolo nel condizionamento emotivo, sia per le esperienze emotive negative sia per le esperienze positive: infatti, tra le funzioni principali dell’amigdala vi è la capacità di definire il valore di ricompensa e
di rinforzo degli stimoli.
Tra i principali modelli che hanno riconosciuto il ruolo principale
del sistema limbico e in particolare dell’amigdala vi è quello di LeDoux (2002), secondo il quale ciò che caratterizza l’emozione è la risultante di un’attività integrata di strutture interconnesse, caratterizzata da alcune proprietà principali. L’emozione è composta da un insieme di processi, come la valutazione della situazione emotigena, l’esperienza soggettiva dell’emozione e la sua manifestazione mediante
218
canali di comunicazione verbale e non verbale. Per LeDoux tali meccanismi sono la risultante dell’evoluzione filogenetica della specie e
non rispondono al contrario ad apprendimenti recenti nello sviluppo
dell’individuo.
Tra le strutture importanti del sistema limbico abbiamo anche l’ipotalamo, che contiene un elevato numero di circuiti neuronali implicati in funzioni che regolano sia il sistema autonomo, sia i parametri vitali, come la temperatura, la frequenza cardiaca o i meccanismi
di fame. L’ipotalamo inoltre agisce indirettamente anche sul sistema
endocrino mediante l’attivazione dell’ipofisi. Tra le funzioni principali di regolazione svolte dall’ipotalamo abbiamo in particolare: regolazione del sistema endocrino e del sistema nervoso autonomo
(funzioni simpatiche e parasimpatiche).
4. Emozioni e sviluppo1
Nel corso della storia della filosofia ed in psicologia l’emozione è
stata variamente definita ed interpretata: affezione-modificazione
dell’anima (Aristotele, S. Tommaso, Cartesio), principio invisibile di
azioni visibili (Hobbes), pensiero confuso oscuro e involontario
(Leibniz), prevaricare delle sensazioni sulla razionalità (Kant),
espressione emotiva funzionale alla comunicazione e alla convivenza
(Darwin), reazione viscerale e neurovegetativa (James). In termini attuali, essa può definirsi stato mentale o affettivo in cui il soggetto intuisce-percepisce il valore di una situazione, esperienza soggettiva
meno stabile e intensa del sentimento e della passione, organizzatore
cognitivo-affettivo, mediatore tra organismo e ambiente, spinta dinamizzata dal bisogno secondo la traiettoria bisogno-emozione-azione.
Essa è, con tutta evidenza, un fenomeno complesso.
1
Parte del contenuto di questo paragrafo è già stato pubblicato nel testo di
M. Donnarumma D’Alessio e C. D’Alessio: La danza dell’identità,
Gribaudi, 2008.
219
Secondo C. Trevarthen (1998) le emozioni dirigono la cognizione
(cioè l’attenzione, il comportamento e l’apprendimento) e le forniscono una valutazione soggettiva e comunicabile. Esse fanno parte
integrante dei motivi del soggetto e presentano una forte organizzazione adattativa innata. Presiedono alle regolazioni del corpo, del sé
cosciente, dell’intersoggettività e risuonano tra i soggetti accoppiando i loro motivi e le loro coscienze e animandoli reciprocamente.
Trevarthen ritiene che le emozioni umane vengano elaborate attraverso l’apprendimento, soprattutto quello di carattere socioculturale
e intersoggettivo, ma che la loro origine non sia in esso.
Si è visto che, secondo la teoria evoluzionistica, paura, collera, tristezza e gioia sono emozioni fondamentali regolate dai programmi
neuronali deputati all’adattamento.
Le ricerche neuroscientifiche già citate di LeDoux (ib.) hanno chiarito l’iter delle emozioni: a partire dall’input sensoriale il percorso
giunge al talamo che invia segnali all’amigdala, che spinge immediatamente all’azione, e alla neocorteccia la quale elabora un piano d’azione
non più impulsivo ma consapevole. Le reazioni nei lobi prefrontali,
nell’amigdala e nell’ippocampo attivano i sistemi immunitario, nervoso
autonomo, endocrino. In sintesi, il circuito si articola tra percezione,
emozione, reazione fisiologica, azione.
Le emozioni, dunque, sembrano confermare l’esistenza, nell’uomo, di una mente razionale e di una mente emozionale impulsiva e
immediata ma dotata di una sua logica e, dunque, non irrazionale:
via rationis e via amoris possono integrarsi.
Gli studi neurofisiologici di LeDoux e le ricerche di Goleman
hanno rilevato l’esistenza di un archivio della memoria emozionale
che risiede nell’amigdala. Abbiamo visto che negli esseri umani l’amigdala è un gruppo di strutture interconnesse, a forma di mandorla,
posto sopra il tronco cerebrale, vicino alla parte inferiore del sistema
limbico. Ci sono due amigdale, una su ciascun lato del cervello. L’amigdala umana è relativamente voluminosa rispetto a quella di tutti
gli altri primati (le specie a noi più affini dal punto di vista evolutivo). L’ippocampo e l’amigdala erano due parti fondamentali del rinencefalo che, nel corso della filogenesi, diede origine alla corteccia
primitiva e poi alla neocorteccia. Oggi queste strutture limbiche
220
compiono gran parte del lavoro di apprendimento e memorizzazione
svolto dal cervello; l’amigdala è specializzata nelle questioni emozionali: se viene resecata dal resto del cervello, il risultato è un’evidentissima incapacità di valutare il significato emozionale degli eventi –
condizione che viene a volte indicata con l’espressione “cecità affettiva”. Private del loro significato emozionale le relazioni umane perdono di interesse. La vita senza l’amigdala è un’esistenza spogliata di significato personale. All’amigdala è legato qualcosa di più dell’affetto:
tutte le passioni dipendono da essa (Goleman, 1996).
L’amigdala coglie le microespressioni e armonizza le aree cerebrali
utilizzando le connessioni neurali e la stessa mente razionale perché
riceve gli input prima che siano stati registrati dalla neocorteccia. Le
nostre emozioni, insomma, hanno una mente che può avere opinioni
diverse da quella della mente razionale.
La ricerca di Richard Davidson (2000) sulla funzione dei lobi prefrontali e del sistema limbico mette in luce come i collegamenti tra
queste strutture ci permettono di mescolare pensiero e sensazioni,
cognizione ed emozione. Secondo Davidson le emozioni implicano
un’orchestrazione dell’attività dei circuiti di tutto il cervello, in particolare del lobo frontale, che ospita le facoltà operative del cervello
(ad esempio la pianificazione), dell’amigdala, particolarmente attiva
quando si provano emozioni negative come la paura; dell’ippocampo, che regola le azioni rispetto al contesto. Inoltre, i lobi frontali, il
sinistro per le emozioni positive, il destro per quelle negative, l’amigdala e l’ippocampo sono collegati con i sistemi immunitario, endocrino, nervoso autonomo. Le emozioni, dunque, impattano sulla salute
mentale ma anche su quella fisica.
Trevarthen, in Empatia e biologia (1998), ci presenta una interessante serie di quesiti intorno alla presenza delle emozioni nel
primo anno di vita del bambino chiarendo la funzione delle emozioni che definisce stati centrali di regolazione del cervello, generate internamente, che unificano la coscienza e coordinano l’attività
coerente del soggetto.
Le emozioni si comunicano tra i soggetti e operano a tre livelli e in
tre diversi ambiti: 1) per proteggere l’integrità vitale e il milieu interne del corpo del soggetto; 2) per guidare l’azione, la percezione e
221
l’apprendimento attraverso la valutazione delle opportunità (vale a
dire,delle possibilità che si percepiscono per un uso attivo del corpo)
offerte da oggetti e situazioni nel mondo esterno fisico (non mentale); 3) per promuovere e sviluppare l’interazione con i comportamenti e i motivi di altri soggetti nell’ambiente sociale.
Secondo tale studioso, le emozioni, innate, creano intersoggettività, cooperazione, cultura e vanno analizzate rispetto a tre ambiti: il
milieu interno al corpo del soggetto, gli oggetti e le situazioni del
mondo esterno, l’interazione con gli altri soggetti nel mondo sociale.
Un neonato, anche prematuro, di due mesi può impegnarsi con le carezze, le vocalizzazioni e gli spostamenti del corpo di una persona
che gli offre sostegno in modo gentile e affettuoso, e può compiere
movimenti che l’adulto percepisce come sforzi per parlare e gesticolare. Questo coinvolgimento empatico e inconsapevole, fondamento
di ogni sviluppo futuro di ogni forma umana di segnalazione, linguaggio compreso, influisce sullo stato neuro-ormonale del piccolo,
che contribuisce alla regolazione dell’accrescimento eccezionalmente
intenso del cervello verso la fine della gestazione. L’affetto della madre, la sua “preoccupazione materna” e il legame (bonding) diventa
così un fattore chiave dell’autoregolazione del cervello neonato in rapido sviluppo, e parte dello schema adattativo della crescita mentale
del bambino. Secondo l’autore citato, le attuali ricerche sulla psicologia del cervello immaturo hanno evidenziato il ruolo dell’imitazione.
Il neonato imita vocalizzazioni e movimenti delle mani: lallazioni,
sorrisi, gorgoglii, gesti sono protoconversazioni dinamizzate da sentimenti interpersonali. La comunicazione neonatale è, insomma, preceduta da un vero e proprio apprendimento intrauterino reso possibile da strutture cerebrali sede endogena ed autonoma di emozioni.
Queste, dunque, non sono del tutto apprese: un neonato prematuro
può, infatti, già vocalizzare e sorridere interagendo con l’affetto e le
cure della madre.
Microanalisi di osservazioni della comunicazione dialogica effettuate con il doppio video da Trevarthen rivelano la ricchezza delle
protoconversazioni madre-neonato: una bimba di due mesi scambia
con la madre espressioni e vocalizzazioni giocose. Già a due mesi
dalla nascita un bimbo è in possesso di competenze che gli permetto222
no di gestire una relazione dinamica. Vocalizza, sorride, muove le
labbra, la lingua e le sopracciglia e lo sguardo, ruota il capo, si sincronizza con l’altro: il bambino danza e canta con la madre. Secondo
Trevarthen le protoconversazioni riescono ad innescare sistemi coordinati nei due individui che, avendo trovato sfogo espressivo attraverso il movimento simultaneo di diversi organi, generano un contatto, una regolazione reciproca nonché una intensificazione dei loro
stati motivazionali centrali.
Lo sviluppo del cervello e la crescita psicologica sono il frutto di
una felice e armoniosa continuità e refluenza di affetti che costituisce
il fondamento della interazione complessa di moduli espressivi. Una
soverchia eccitazione o depressione, così come il disturbo bipolare,
limita la capacità di protoconversazione tra madre e neonato e, se
protratta, la possibilità di azione e cooperazione tra loro. Non si può,
dunque, più affermare, sulla scorta di approcci empirici riduttivi, basati su scarsi dati, che nel bambino non siano presenti schemi cognitivi, un concetto di sé, script sociali ed emozioni. Contrariamente a
quanto affermato da Piaget sull’impossibilità da parte del bambino
di provare emozioni prima di aver raggiunto lo stadio cognitivo della
costanza dell’oggetto e da Daniel Stern sull’assenza della paura prima
dei sei mesi (si tratterebbe solo di angoscia primitiva), C. Trevarthen
sostiene che analisi dettagliate delle videoregistrazioni di protoconversazioni e giochi madre-figlio rivelano l’esistenza sin dalla nascita
di un’ampia gamma di emozioni che regolano l’intersoggettività.
Il neonato, dunque, già possiede non solo un sistema di emozioni
coerente e differenziato, generato per autopoiesi fin dallo stadio embrionale, ma anche la distinzione fondamentale tra funzioni emotive,
relative alla persona, agli oggetti e al corpo, base genetica dell’epigenesi cerebrale. Allo stesso modo, il colore, il calore, i toni, i tempi e i
ritmi delle protoconversazioni materne, o comunque adulte, con
neonati non sono appresi ma innati. La prova di ciò è la somiglianza
di tali vocalizzazioni nelle culture più disparate.
Si può dunque sostenere, sulla scorta delle più recenti ricerche, che
il substrato neurofisiologico dei codici emotivi sia identico nei piccoli
e negli adulti le cui risposte emotive si accomodano, completano, inter-animano.
223
Le ricerche di C. Trevarthen, condotte dagli anni ’70 ad oggi
hanno provato il ruolo delle emozioni nello sviluppo dei sistemi
percettivi corticali, dell’apprendimento e della memoria. Come già
rilevato, la depressione materna (maternity blues) può incidere sulle
funzioni cognitive del bambino e, in particolare, sul linguaggio il
cui sviluppo dipende dalla sintonizzazione positiva col partner
emotivo. L’espressione delle emozioni (vocalizzazioni, smorfie, gesti) già nel neonato è variegata e non frutto dell’apprendimento sociale. Sebbene le convenzioni sociali influenzino limitando o favorendo l’espressione delle emozioni, un neonato è già in grado di
scambiare empaticamente emozioni con un’altra persona, a patto
che essa desideri presentarsi emotivamente disponibile al piccolo
nei modi a lui comprensibili. In conclusione possiamo affermare
che la comunicazione si serve di basi innate. Pensare ad una “cultura innata” può sembrare paradossale. In effetti, però, la socializzazione (inculturazione, acculturazione) parte da motivazioni innate
che abitano un sé neonato giocoso, espressivo, creativo e sperimentatore, un sé organizzato, coerente, volitivo e intenzionale.
In estrema sintesi, possiamo a ragione affermare che la cultura
giunge al cucciolo d’uomo veicolata, riscaldata e condita da espressioni e sentimenti. Come è noto, l’embrione possiede già abbozzi di
tessuti e di organi che fanno, sicuramente, di lui un essere umano; il
feto ha già un sistema nervoso in grado di elaborare mappe comportamentali; il neonato è l’autore della psicogenesi dei suoi stati mentali, di atti intenzionali sempre più specifici e completi in risposta alle
stimolazioni del mondo esterno.
I reiterati tentativi di esplorazione del piccolo rispondono all’esigenza di costruire una vita sociale ricca di emozioni. A tale scopo egli
modula atti comunicativi sempre più complessi che preludono ad
una vera e propria interazione. L’esplorazione della realtà viene favorita dal contatto con persone disponibili a giocare col bambino: in tal
modo egli differenzia e raffina i propri sensi e la propria anatomia e,
sotto un certo aspetto, anche il proprio sesso e la propria personalità:
è un primo abbozzo di identità personale, sociale, di genere. L’assenza di partner sociali determina, come sappiamo, insicurezza, disadattamento, mancanza di empatia, di assertività, di curiosità.
224
Le figure parentali prima, quelle amicali poi esercitano, dunque,
influenze determinanti il successivo sviluppo dell’intelligenza e la
crescita psicologica. Dal quarto mese in poi il gioco sociale attiverà
relazioni affettive che evolveranno in direzione di condotte di condivisione e di cooperazione con gli altri. Sono atti di significazione, di
istruzione, di saluto, di riconoscimento, di interesse; sono atti vissuti
con entusiasmo e piacere.
Possiamo senz’altro definire tale comportamento come protolinguistico, protoculturale, protocivile,in quanto la comprensione del
nome di oggetti e persone immette il bambino nel proprio ambiente culturale, nel linguaggio, nelle tecniche, nei valori di un tempospazio specifico. Trevarthen (ib.) sostiene che tali comportamenti
che tratteggiano la sintassi e la semantica del linguaggio, oltre che il
suo tono emotivo e la sua prosodia, prefigurando azioni cooperative di tutti i generi e la ricerca cooperativa di conoscenza, sono manifestazioni dello stato del dispositivo cerebrale umano, che lavora
entro un organismo indifeso, tanto immaturo da dover essere nutrito, portato in giro e protetto da condizioni ambientali estreme. La
strategia di questa storia di vita rappresenta una notevole inversione del percorso evolutivo. Umano nella sua essenza, il cervello può
iniziare il processo della comunicazione umana prima di aver appreso qualsivoglia concetto relativo agli oggetti o ai modi per spostarsi nel mondo, ed è in grado di avviare il proprio coinvolgimento
nell’assimilazione e nell’estensione dell’uso culturale dell’esperienza prima di poter parlare di essa (ib.). Il cervello umano rappresenta dunque un organo culturale che stimola in maniera intuitiva l’ottenimento di educazione da parte di altri esseri umani che meglio
conoscono i dettagli del mondo. Il trasferimento di conoscenze avviene in risposta a una richiesta del bambino (ib.).
L’attualità di tali ricerche, considerati i progressi delle neuroscienze dagli anni ’70 ad oggi, prova con chiarezza il possesso, nei piccoli,
del germe della cooperazione culturale. Fin dall’inizio della vita, nel
cervello, organo plastico e misterioso, portatore di dinamismi ancora
oggi sconosciuti, esistono strategie e risorse potenziali che permettono la crescita personale e la formazione dell’identità: non si tratta di
qualcosa di fisico e chimico ma, conclude Trevarthen, di epifisico ed
225
epichimico poiché il nostro cervello è programmato per crescere ed
integrarsi con altri cervelli che presiedono agli atti cooperativi.
Negli ultimi due decenni, l’embriologia cerebrale, e la comparsa
delle prime strutture nei primi mesi del periodo prenatale sono stati
osservati e mappati; lo studio delle forze che dinamizzano i sistemi
complessi ha messo hanno messo in luce i processi di interazione natura/cultura nella formazione di reti neurali e di mappe cerebrali come è documentato dagli studi di Edelman (1987), Cowan (1997), Levi-Montalcini (1990) Fracokwiak (1997). In aggiunta a ciò, la teoria
della regolazione genetica che presiede alla nascita e alla selezione
delle connessioni sinaptiche conferma l’esistenza di sistemi innati di
percezione, motivazione, azione che predispongono e rendono possibile adattamento e modificazione dell’offerta ambientale.
Le ricerche della psicologia cognitiva hanno inoltre contribuito ad
elaborare la teoria del cervello-computer che, su base logica, elabora
le esperienze. C’è, tuttavia, da osservare che aree relative all’intuizione e alla motivazione, sedi della potenza creatrice (Whitehead, 1985),
sono ancora poco frequentate dagli studiosi. Sarebbe opportuno che
studi, ricerche, applicazioni integrassero la storia, filogenetica e ontogenetica, del cervello con lo studio del comportamento perinatale
che scopre l’esistenza, nel neonato, di una sorta di know how nei
confronti dell’emozione, della comunicazione e del coinvolgimento
con partner.
Trevarthen (ib.) si ritiene sicuro che un neonato conosca e riesca
ad entrare in contatto empatico con le emozioni della mamma perché
è in grado di mappare anche il corpo di lei, che attraverso il medesimo principio di mappatura intersoggettiva, la madre è evidentemente
empatica nei confronti delle emozioni che il corpo del bambino, ritmicamente mobile, esprime e che la reciproca regolazione di bambini
e adulti per mezzo delle emozioni nel corso della comunicazione rende possibile l’ordinato sviluppo dell’autocoscienza.
Esiste, dunque, anche in cervelli immaturi, la capacità di accoppiamento emotivo di percezioni, emozioni, azioni del neonato con
pensieri, sentimenti, atti coscienti regolati da cervelli maturi. Ci riferiamo a quel processo di maturazione intercellulare che, iniziato nell’embrione, giunge alla formazione della neocorteccia, dimora dei
226
pensieri coscienti relativi a eventi, situazioni, ricordi. Ne consegue,
secondo Trevarthen, la consapevolezza che nell’embrione cerebrale è
presente, in nuce, lo spirito umano che energizza il comportamento
pre e neonatale naturalmente aperto e capace di danzare e cantare le
transazioni con altri esseri umani. In estrema sintesi, noi siamo innatamente umani e ciò è terribile e affascinante. In ogni cosa percepita
come bella esiste una caratteristica comune definibile come linea della bellezza che la nostra innata sensibilità è capace di cogliere fin dalla nascita. Bambini e adulti sono attratti da sguardi che dimostrano
interesse e da voci affettuose. La visione cromatica è fonte di informazioni relative alla realtà ed ecologicamente utili. Il rosso e il giallo,
ad esempio, indicano dolcezza e maturazione per uccelli e mammiferi e, allo stesso modo, avvertono, se integrati da macchie e strisce,
della presenza di veleni. La visione cromatica è valutante perché carica di affetti. Valori cromatici ed estetici sono in relazione con la chimica cerebrale delle emozioni come ben sanno gli studenti che, dovendo evidenziare gli argomenti da memorizzare usano di preferenza
il rosso. La visione del rosso incentiva la produzione di un neurotrasmettitore nei sistemi cerebrali deputati alla regolazione delle emozioni, influenzando l’attenzione, la coscienza e il ricordo. I giudizi
estetici innati, integrandosi con le cognizioni apprese, possono contribuire alla formazione di una personalità sociale matura sul piano
della percezione, del controllo delle emozioni e dell’integrazione.
Nel neonato i meccanismi corticali primari sono influenzati da
contatti esterni che risuonano con e sostengono gli stati regolatori
centrali in un processo intercerebrale in cui cure, calore e affetto materno assumono un’importanza decisiva per la produzione degli ormoni della crescita. Gli studi di Trevarthen e di Siegel (2002) mostrano come gli input del sistema limbico ai lobi frontali, temporali e parietali regolano le connessioni intracerebrali che permettono lo sviluppo del sistema cognitivo.
In breve, il neonato può costituire un esempio dell’esistenza di
universali estetici innati che si articolano e maturano nell’esperienza emozionale e nella comunicazione. L’imitazione neonatale è infatti immediata, transmodale e dunque anch’essa un’esperienza artistica. Una madre, infine, come l’artista, non è mai gelida e oggetti227
va: comunica emozioni, trasmette valori nuovi e soggettivi, immagina e tesse narrazioni, condivide e celebra miti e invenzioni musicali,
aprendo al bambino l’universo della comunicazione.
5. Emozioni e neurofenomenologia
Non vi è intelligenza senza emozione.
Ci può essere emozione senza molta intelligenza,
ma è cosa che non ci riguarda.
Ezra Pound
Alla luce di quanto finora esposto, la nostra conoscenza del mondo, lungi dall’essere ottenuta con la sola ragione astratta e calcolante,
è mediata dalle ragioni del cuore. L’intuizione e l’orizzonte di conoscenza emozionale ci consente di cogliere il senso di ciò che un’altra
persona prova e rivive: le emozioni e sentimenti ci fanno conoscere
cosa ci sia nel cuore e nell’immaginazione degli altri-da-noi. Essi vengono però inariditi e svuotati nelle persone nelle quali la ragione e la
volontà siano dominanti, oscurando così la figura fragile e discontinua, labile e carismatica della vita emozionale ed affettiva.
Nella loro incandescenza, ma anche nella loro vulnerabilità e gracilità, le emozioni sono portatrici di conoscenza e di metamorfosi, e
nondimeno sono facilmente attutite e livellate da contesti interpersonali aridi e da interiorità desertificate. Le emozioni sono molteplici
nelle loro connotazioni tematiche, ma l’elemento comune a ciascuna
di esse è rappresentato dal fatto che ci conducono fuori dai confini
del nostro io e ci mettono in contatto, in risonanza, con il mondo
delle cose e delle persone, essendo contrassegnate radicalmente dalla
in-tenzionalità (nel senso inteso da Edmund Husserl), dalla trascendenza come orizzonte di conoscenza che si oltrepassa infinitamente,
al di là di ogni confine individuale.
Lo sfondo filosofico entro cui si colloca la riflessione sulle emozioni e sull’esperienza dell’incontro con l’altro è rappresentato dall’approccio fenomenologico i cui temi classici sono quelli dell’alterità al228
l’interno della problematica dell’intersoggettività e quello della corporeità, rielaborato in modo approfondito e originale da MerleauPonty (1972).
Uno degli aspetti principali della corrente filosofica inaugurata da
Husserl e poi continuata secondo differenti declinazioni – spesso in
conflitto tra loro – da filosofi come Martin Heidegger, lo stesso Merleau-Ponty, Paul Ricoeur, Emmanuel Lévinas, consiste nell’indagare
le modalità con cui si costituisce l’esperienza che facciamo del mondo, cercando di capire da dove traggano la propria validità e legittimità gli oggetti di tale esperienza, da quelli più semplici a quelli più
complessi, come gli enti matematici, i principi della logica, le leggi
scientifiche, ma anche e soprattutto gli altri soggetti.
Va sottolineato, dunque, come aspetti importanti della riflessione
fenomenologica trovino oggi evidenti riscontri nei risultati dell’indagine neuroscientifica, e come i risultati della ricerca empirica condotta
dalle neuroscienze possano fornire un valido contributo a una nuova
formulazione, se non a una risoluzione, di svariati problemi di natura
filosofica che per decenni sono stati e che sono tuttora al centro della
ricerca fenomenologica. Negli ultimi anni, si è assistito ad un processo
di naturalizzazione della ricerca fenomenologica cui ha contribuito
negli ultimi decenni, tra gli altri, Francisco Varela (1996), scienziato
cileno noto per avere introdotto, assieme a Humberto Maturana, il
concetto di autopoiesi, mediante il quale si sottolineava l’intrinseco
nesso tra funzione e struttura, tipico di ogni forma vivente.
Varela approfondì il ruolo dell’interazione corpo-ambiente nei processi cognitivi, approdando alla formulazione programmatica di un
nuovo approccio allo studio della coscienza e dei processi cognitivi definito neurofenomenologia, la quale costituisce un approccio interdisciplinare allo studio del problema della coscienza, capace di coniugare la metodologia empirica delle neuroscienze con l’analisi in prima
persona propria della fenomenologia.
In tal modo, secondo Varela, si può superare il dualismo
corpo/mente, ponendo al centro dell’indagine empirica il Leib, cioè
il corpo nel vivo dell’esperienza, che può essere considerato tanto dal
punto vista di un’analisi filosofica trascendentale, quanto dal punto
di vista dello studio empirico dei processi nervosi che lo sottendono.
229
Questa impostazione, tuttavia, può risultare molto problematica,
soprattutto se si tiene presente che fin dai suoi esordi la fenomenologia si è programmaticamente contrapposta all’atteggiamento naturalistico della scienza psicologica, nonché, secondo molti, delle attuali
neuroscienze.
Già prima di Husserl, Franz Brentano e Wilhelm Dilthey avevano
posto al centro delle proprie riflessioni l’indagine dei vissuti di coscienza (Erlebnisse). L’intento originario della fenomenologia di Husserl consisteva nel raffinare tale indagine nel tentativo di fare emergere la dimensione costitutiva dell’esperienza. Un tale intento si proponeva come alternativo alle strategie epistemiche della contemporanea
psicologia naturale, in particolare di quella fisiologica, incapaci di cogliere, secondo Husserl, l’effettiva esperienza dello psichico ridotto a
mera cosa tra le cose.
Tali discorsi conservano la loro attualità ancor oggi. La frattura
suggerita da Dilthey tra scienze della natura e scienze dello spirito
continua ad alimentare il dibattito contemporaneo in filosofia della
mente e all’interno delle scienze cognitive. Le stesse critiche mosse
da Husserl al naturalismo, in nome dell’analisi fenomenologica della
dimensione psichica e dei processi che sottendono il nostro avere a
che fare con le cose del mondo (altri soggetti inclusi), possono in
qualche misura essere applicate anche all’approccio neuroscientifico
allo studio della natura umana.
Ciò è tanto più vero dopo lo sviluppo delle potenti tecniche di visualizzazione per immagini dell’attività cerebrale, come la risonanza
magnetica funzionale, le quali consentono di osservare direttamente
ciò che accade nel nostro cervello quando siamo impegnati in una varietà di compiti percettivi, esecutivi e cognitivi.
Nonostante tali tecniche abbiano una comprovata efficacia euristica, esse vanno comunque supportate da un’analisi fenomenologica
dei processi (percettivi, esecutivi e cognitivi) indagati, nonché dai dati neurofisiologici derivanti dallo studio diretto dell’attività dei singoli neuroni (per ora in gran parte esclusivamente possibile nel modello
animale).
Queste problematiche sono particolarmente evidenti nello studio della cognizione sociale. Trasferire automaticamente nel cer230
vello un modello della mente umana quale quello proprio delle
scienze cognitive classiche, che appiattisce ed esaurisce la cognizione sociale a una mera utilizzazione degli atteggiamenti proposizionali della psicologia ingenua (credenze, desideri, intenzioni)
può condurci a risultati inesatti.
Come c’insegna la fenomenologia, la cognizione sociale non è
soltanto “metacognizione sociale”, cioè il pensare esplicitamente al
contenuto della mente altrui per mezzo di simboli o di altre rappresentazioni in un formato proposizionale. Le possibilità di trovare
nel nostro cervello aree contenenti i correlati neurali di credenze,
desideri e intenzioni in quanto tali sono probabilmente vicine allo
zero. La mentalizzazione, ossia il modo con cui spieghiamo il comportamento altrui attribuendo un ruolo causale a stati mentali interni comporta un livello di competenza personale, e dunque non
può essere interamente ridotto all’attività subpersonale di gruppi di
neuroni nelle aree della corteccia cerebrale, ipoteticamente specializzate nella “lettura della mente”. È ad esempio quanto magistralmente sostengono Bennett e Hacker, il filosofo morale ed il neurofisiologo autori dell’opera Philosophical Foundations of Neuroscience nella quale, tra le altre cose, avvisano del rischio di incorrere nella cosiddetta “fallacia mereologica”, consistente nello scambiare
una parte con il tutto. In base a ciò dire “il cervello pensa, il cervello sente” è un’affermazione priva di fondamento, in quanto non è il
cervello come singolo organo ma l’intera persona a vivere l’esperienza.
I neuroni, infatti, non sono agenti epistemici nè sono soggetti
di conoscenza: essi conoscono solo il passaggio degli ioni attraverso le loro membrane. Il mentalizzare ha bisogno di una persona,
che potremmo definire come un sistema d’interconnessione tra
cervello e corpo che interagisce in modo situato con uno specifico
ambiente popolato da altri sistemi cervello-corpo. Pertanto, è
proprio attraverso l’analisi dei differenti meccanismi subpersonali
che emergono quei diversi strati dell’esperienza che, pur non
esaurendola in toto, consentono di descriverne progressivamente
genesi e struttura.
231
6. Atti emozionali conoscitivi e percezione affettiva dei valori
Un contributo di grande interesse sul ruolo dell’esperienza emozionale nella percezione del valore è quello di Scheler (1937), fenomenologo che coniuga i due aspetti in una sintesi mirabile.
Nel pensiero di Scheler il valore è oggetto di esperienza-conoscenza emozionale che precede la conoscenza intellettuale della cosa. Secondo tale autore le percezioni affettive , che si manifestano nei più
profondi strati della vita emozionale, connotano il più elevato gruppo di esperienze, quelle valoriali. La percezione affettiva dei valori si
compie dunque in atti emozionali conoscitivi la cui origine è però
puramente emozionale. Attraverso le esperienze emozionali, ad es.
dell’amore e dell’odio, stringiamo il contatto più immediato ed appropriato col valore e solo in conseguenza di tale contatto quel valore si manifesta a noi conoscitivamente nella percezione affettiva intenzionale.
Il rendiconto dei fondamenti emozionali teorico-conoscitivi nel
sistema di Scheler attribuisce un ruolo prioritario alle emozioni,
affermando che le esperienze emozionali ci svelano uno dei fattori
primari della struttura soggettiva della realtà, che è appunto il valore. È l’emozione che manifesta l’essenza assiologica degli oggetti:
nella percezione affettiva intenzionale del valore è implicita una
motivazione emozionale, una causalità dell’attrazione che agisce da
spinta psichica dinamizzante la volontà in direzione dell’oggetto
del fine, del valore.
Per Scheler dunque è proprio attraverso la conoscenza emozionale, le cui energie sono l’amore e l’odio, l’uomo entra in contatto con
l’ordine dei valori. Ragion per cui essa non può essere in alcun modo
disattesa.
7. L’empatia
«L’empatia scatta nel momento in cui un essere umano parla con un altro.
È impossibile comprendere un altro individuo se al tempo stesso il
nostro sé non riesce a identificarsi con lui (…) Se ricerchiamo l’origine
232
di questa capacità e di sentire come se fossimo qualcun altro, potremo
trovarla nell’esistenza di un innato senso sociale.
Si tratta, di fatto, di un sentimento cosmico e di un riflesso dell’interdipendenza dell’intero cosmo che vive in noi; si tratta di una caratteristica ineluttabile insita nel nostro essere uomini».
A. Adler
7.1 Introduzione
Alla luce di quanto fin qui discusso, se i vissuti e le esigenze della
sfera emozionale della persona non vengono decodificati e sono annullati in ritmi e standard di comportamento che producono un livello di attivazione anomalo di alta frequenza ed intensità, la persona
coinvolta può sperimentare distress, il quale si materializza in una
sindrome che si esprime come disequilibrio biologico, emotivo, comportamentale, sociale.
Nei precedenti paragrafi si è visto come la qualità delle esperienze
emozionali delle persone ha necessariamente a che fare con la possibilità nel corso dell’esistenza di relazionarsi con persone capaci di rispecchiamento empatico.
Una sana empatia quale esperienza affettiva di condivisione si costruisce in un ambiente che soddisfa i bisogni emotivi, scoraggia un
eccessivo investimento sul sé contribuendo a rendere salienti bisogni
ed emozioni altrui, capace di guidare ad identificare ed esprimere
un’ampia gamma di emozioni sviluppando contemporaneamente
sensibilità e responsività emotiva verso gli altri. Gli stati emozionali
registrati nell’ambito dei sistemi affettivi interagiscono con l’analisi
cognitiva nel fenomeno del priming, ovvero dell’attivazione emozionale di una rete nel sistema cognitivo.
L’empatia può dunque essere definita tendenza filogenetica alla
condivisione emotiva che si configura diversamente a seconda delle
mediazioni cognitive e delle relazioni interpersonali.
L’atteggiamento empatico prescinde da precomprensioni personali e si apre all’unicità dei fenomeni senza veicolare valutazioni o interpretazioni della realtà, della quale offre un’angolazione fenomneno233
logica indispensabile alla trasparenza ed alla non direttività della comunicazione (Donnarumma D’Alessio, 1999).
L’empatia è inoltre metacomunicazione, mediante la quale si trasmette all’altro la fiducia nelle sue possibilità di contattare le proprie
emozioni, formulare valutazioni e decisioni, scoprire compiti e significati personali (ib.).
7.2 Empatia e neuroni specchio
Da qualche decennio, nell’ambito delle neuroscienze , si stanno
indagando i correlati neurali delle componenti “incarnate” dell’esperienza del mondo, il che mette fortemente in crisi l’equazione
mente = theoria, già criticata, seppure in modi diversi, da Husserl e
da Heidegger. L’approccio neuroscientifico parte infatti da una base epistemologica che colloca al centro della propria indagine il
corpo vivo.
Gli studi sui sistemi fisiologici coinvolti nell’esperienza emotiva
hanno ricevuto un grosso impulso grazie alla scoperta dei neuroni
specchio, avvenuta nel 1991, che ha suscitato una curiosità e un interesse che hanno valicato i confini delle neuroscienze, rilanciando temi
e dibattiti antichi e moderni sul rapporto mente e cervello, sulle modalità di funzionamento e di integrazione dei sistemi abilitati alla percezione degli stimoli sensoriali, alla elaborazione e all’effettuazione di
azioni automatizzate e/o intenzionali, alle procedure di memorizzazione e di apprendimento e sulla nascita delle prime relazioni empatiche.
I neuroni specchio sono una classe di neuroni che si attiva selettivamente sia quando si compie un’azione sia quando la si osserva
mentre è compiuta da altri. I neuroni dell’osservatore “rispecchiano” ciò che avviene nella mente del soggetto osservato, come se fosse l’osservatore stesso a compiere l’azione. Questi neuroni sono stati
individuati nei primati, in alcuni uccelli e successivamente anche
nell’uomo, da un gruppo di ricercatori dell’Università di Parma coordinato da Giacomo Rizzolatti che si stava dedicando allo studio
della corteccia premotoria. Nell’uomo, oltre ad essere localizzati in
aree motorie e premotorie, i neuroni specchio si trovano anche nell’area di Broca e nella corteccia parietale inferiore. Nel 1995 gli stu234
diosi citati dimostrarono per la prima volta l’esistenza nell’uomo di
un sistema simile a quello trovato nei primati ovvero che la corteccia
motoria dell’uomo viene attivata dall’osservazione di azioni e movimenti altrui. Più recentemente, altre prove ottenute tramite neuroimmagini e test comportamentali hanno confermato che nel cervello
umano esistono sistemi simili e molto sviluppati e sono state identificate con precisione le regioni che rispondono all’azione/osservazione
(Rizzolatti, Sinigaglia, 2006). Data l’analogia genetica fra primati
(compreso l’uomo), non è affatto sorprendente che queste regioni cerebrali siano strettamente analoghe in essi.
Con gli studi sull’uomo, è apparso evidente che il meccanismo di
simulazione riguardava anche le emozioni e le sensazioni tattili provate dagli altri; i neuroni specchio, infatti, si attivano nelle stesse
aree cerebrali di chi vive l’esperienza in prima persona. I neuroni
specchio permettono di spiegare la capacità di relazionarsi agli altri
e consentono di comprendere con facilità le azioni degli altri. Grazie allo studio sperimentale di alcune emozioni primarie si è potuto
rilevare che quando osserviamo negli altri una manifestazione emotiva si attiva il medesimo substrato neuronale; si tratta di un substrato collegato alla percezione, in prima persona, dello stesso tipo
di emozione. I neuroni specchio sarebbero quindi alla base dell’empatia, ovvero della capacità di comprendere e sentire il vissuto
emotivo dell’altro. Gli studi clinici su pazienti affetti da patologie
neurologiche mostrano che una volta perduta la capacità di provare
un’emozione non si è più in grado di riconoscerla quando viene
espressa da altri: questo potrebbe rappresentare una conferma del
ruolo svolto dai neuroni specchio.
La portata euristica ed applicativa delle ricerche sui neuroni specchio, il cui meccanismo di osservazione - imitazione – comprensione
è stato definito simulazione incarnata, ovvero correlato neuronale
della consonanza empatica, ha straordinarie implicazioni. Se il nostro
cervello infatti risuona con quello di un’altra persona, se una sorta di
metacomunicazione intercorre tra loro, allora io e l’altro non siamo
estranei e la mia personalità, e l’identità che ne è il proprium, è davvero moi-monde, non io solipsistico, ma un buberiano io che si realizza
nel tu, io che risuona negli altri, per gli altri. Un essere che è possibi235
lità, già inserita geneticamente, di con-essere, pro-essere, in-essere2. La
consapevolezza di una base neuronale nella relazione con l’altro rappresenta dunque il fondamento dell’esistenza preverbale e prerazionale dell’identità sociale.
7.3 L’empatia come fondamento della conoscenza e dell’esperienza
intersoggettiva
Considerando l’empatia da questo punto di vista, più che naturalizzare la fenomenologia sembra più promettente fenomenologizzare
le neuroscienze, utilizzando le sollecitazioni che provengono dalla riflessione fenomenologica, in particolare dalle analisi husserliane sul
corpo vivo (Leib) e sul ruolo che esso ha nella costituzione della nostra esperienza delle cose del mondo e degli altri. Ciò può costituire
la base per uno studio empirico della dimensione soggettiva e di
quella intersoggettiva compiuto con presupposti nuovi rispetto a
quelli fin qui in gran parte adottati dalle neuroscienze.
Per affrontare il problema del mondo e della sua costituzione come mondo oggettivo e intersoggettivo, partiamo dalla posizione di
Husserl sul rapporto tra corporeità vivente ed intersoggettività. È innegabile che il contatto, l’incontro con l’altro avvenga grazie all’unico dato oggettivabile dell’alterità: il Leib.
Attraverso la presenza di numerosi vissuti, del cui fluire si ha coscienza, si dischiude il significato della relazione intersoggettiva grazie al medium della corporeità vivente. Il Leib, dunque, consente il
coglimento del corpo, della psiche e dello spirito di altri io. Lungi dal
costituire una prigione, il Leib designa l’irripetibile peculiarità di
ogni essere umano, che rivela già nella propria corporeità vivente la
sua unicità, dignità, inviolabilità, libertà. Il legame del corpo fisico a
un soggetto, infatti, non può essere ridotto alla semplice inseparabilità spaziale; si tratta, piuttosto, di un Leib che sente, percepisce ed appercepisce, evitando cadute solipsistiche.
2
PALUMBIERI S., L’uomo, questa meraviglia, Urbaniana, Roma, 1999; id.
L’uomo, questo paradosso, Urbaniana, Roma, 2000.
236
Quando io incontro l’altro, si produce quella che Husserl definisce
Paarung,un accoppiamento e si crea, su tale base, quell’orizzonte comune da cui si dipartono le diverse soggettività, con le loro caratteristiche peculiari. Attraverso l’empatia, mi rendo conto che l’altro sta vivendo una serie di atti motori e percettivi che rimandano alla corporeità (Leib): alcuni atti di tipo reattivo, impulsivo e istintivo che si riferiscono alla sfera mentale o psichica, altri ancora che implicano la sfera
dei valori e comportano prese di posizione volontarie, scelte consapevoli, decisioni libere, e riguardano appunto la motivazione, la libertà, la
responsabilità, rimandando pertanto a una dimensione che con termine unitario Edith Stein chiama spirituale (Geist). Spiritualità personale
significa vigilanza e apertura: non solo io sono, non solo vivo, ma sono
consapevole del mio essere e del mio vivere, e tutto in un unico atto.
La forma originaria del sapere, propria dell’essere e della vita spirituale, non è quella di un sapere a posteriori, riflessivo, in cui la vita
diventa oggetto di sapere, ma è come un sapere originario circa l’altro da sé. Ciò vuol dire essere nelle altre cose, guardare dentro un
mondo che sta di fronte alla persona.
Per quanto riguarda la via individuationis, il nucleo (Kern) o radice della persona umana possiede una certa qualità interiore, diversa
da individuo a individuo, che determina la pienezza e la vitalità dell’agire; la sua ampiezza e la sua profondità ne descrivono il modo di
essere, questa sua peculiare, unica, irripetibile individualità, la quale
conferisce un’impronta unica, originale, a tutto ciò che da tale nucleo
proviene. L’unità reale di “anima” e di “corpo vivente”, secondo la
fenomenologia tedesca, è una “persona”: tutto ciò che è corporeo-vivente (Leibliche) ha una parte interna, interiore, intima, e dunque il
corpo vivente non è semplicemente un corpo che percepisce, ma appartiene a un soggetto, a un io che attraverso di esso sente i suoi stati
e che a sua volta può entrare in profondo contatto con ciò che l’alterego vive e sente.
A proposito del rapporto tra soggettivo e intersoggettivo, giova
qui ricordare la riflessione husserliana nella Quinta delle sue Meditazioni Cartesiane (2002): intrecciati in modo tutto proprio ai corpi,
come oggetti psicofisici, gli altri sono nel mondo; entro il suo vivere
coscienziale, l’io esperisce il mondo insieme agli altri, e il senso di
237
tale esperienza implica che gli altri non siano formazioni sintetiche
private dell’io, ma costituiscano un mondo estraneo all’io, come intersoggettivo, un mondo che c’è per tutti e i cui oggetti sono disponibili a tutti.
Poco oltre, il fenomenologo precisa ulteriormente il nesso di senso che lega l’ego e l’alter-ego asserendo che ciò che mi è specificamente proprio in quanto sono un ego, il mio essere concreto come
monade, comprende ogni intenzionalità e quindi anche quella che è
diretta all’estraneo. In tale intenzionalità, si costituisce il nuovo senso d’essere che oltrepassa il mio ego monadico nella identità che gli
è propria e si costituisce un ego non come io stesso, che però si rispecchia nel mio io proprio, nella mia monade. Il secondo ego non è
semplicemente presente, ma è costituito come alter-ego, ove quest’ego incluso nella espressione alter-ego sono proprio io stesso nel mio
proprio essere. L’altro, per il suo senso costitutivo, rinvia a me stesso; l’altro è rispecchiamento di me stesso. Esperienza resa appunto
possibile dal funzionamento dei neuroni specchio.
7.4 L’empatia secondo E. Stein
La studiosa Maria Donnarumma D’Alessio3, nei testi Vedere dal
cuore (1999) e La danza dell’identità (2008), ponendosi il compito di
esplorare una dimensione fondamentale dell’esperienza colta e strutturata mediante la visione dal cuore, ci offre la possibilità di percorrere la via affettiva della conoscenza, facendoci accostare al tema dell’empatia, intesa in un’accezione prevalentemente fenomenologica,
3
Questa parte del lavoro è un omaggio a Maria Donnarumma D’Alessio, mia
madre, studiosa attenta dell’empatia la quale mi ha trasmesso fin dall’infanzia quanto la curiosità, la ricerca, la lettura, lo studio, siano attività connesse
con una passione ed una motivazione fortemente intrise di un’emozionalità
positiva che le connota, attribuendo loro un senso profondo. Riportiamo qui
una sintesi dei suoi scritti sull’argomento, sperando che quanto di così prezioso ha scritto possa ancora trasmettersi anche oltre il limite del suo essere
terreno.
238
divenuta già dal 1916 oggetto di riflessione e di analisi delle ricerche
di Edith Stein, allieva di E. Husserl.
Il cuore dell’educazione è costituito da elementi quali emozioni e
sentimenti, presenti in tutti i processi interpretativi del mondo. J.
Bruner, evidenziando la necessità per la psicologia del futuro di integrare diversi indirizzi di studio, quali biologico, evolutivo, individuale, culturale, le assegna il campo di studio dell’intersoggettività che
definisce come «il processo per cui si giunge a sapere cosa hanno in
mente gli altri e ci si adatta di conseguenza»4.
Le capacità di riconoscere e capacità di individuare e condividere
emozioni dipendono da aree cerebrali differenti e separate e ciò costituisce un dato prezioso per Bruner, che conferma la sua teoria sulla possibilità di comprendere l’uomo secondo il duplice riferimento,
biologico e culturale. Il processo di costruzione dei significati è, secondo l’autore, squisitamente culturale, in quanto la mente crea cultura e la cultura crea la mente: il cuore della cultura come rete di rappresentazioni comuni è costituito dal fare significato in assenza del
quale, linguaggio, mito ed arte, sono destinati a perire.
In tale ottica, l’intersoggettività quale reciprocità con gli stati intenzionali del partner costituisce l’essenza della negoziazione sociocognitiva a livello umano e culturale e si traduce nella capacità di metarappresentazione della mente altrui, ossia quella di leggere pensieri,
intenzioni ed emozioni degli altri uomini.
Nel genoma dell’uomo è iscritta la possibilità di contatto e di integrazione cognitivo-emotivo-sociale-trascendente; tuttavia, le basi
neurali che supportano la dimensione empatica possono atrofizzarsi
e morire se non attivate da un’educazione all’empatia.
Nella società attuale, caratterizzata da un orizzonte storico di globalizzazione e mondializzazione, per una sorta di autismo sociale «appreso», che sul piano sociologico si connota come perdita dei legami sociali e declino del senso comunitario, l’uomo sembra aver smarrito
quella dimensione empatica che gli consente l’accesso alla conoscenza
4
BRUNER J., La cultura dell’educazione, Feltrinelli, Milano, 1997, p. 176.
239
e alla socialità. Indicatori di tale fenomeno, sono la crisi delle famiglie,
la depressione da isolamento ed emarginazione, la criminalità crescente, le dipendenze, la depoliticizzazione5.
Scuola, formazione ed informazione, risultano, attualmente, permeate da logiche di mercato e dallo strapotere della comunicazione
mass-mediatica veicolante stress, consumismo, labilità di norme e legami, percezione di catastrofi incombenti: è l’effimero dell’effimero,
è il capolinea della transizione dall’empiria all’emporia, dall’oggettività-concretezza alla teleologia del mercato.
Dunque l’empatia (Donnarumma-D’Alessio, 2008), definita da diverse prospettive di studio quale immedesimazione (Freud), fusione
emotiva con persone e cose nell’esperienza estetica (Herder, Novalis,
Lipps), intuizione/percezione affettiva dei valori dei vissuti psichici
(M.Scheler), relazione trascendentale intersoggettiva (E.Husserl), responsività ottimale nell’interazione costruttiva (H. Kohut), esperienza dell’altro come sé, del sé come altro (P. Ricoeur), immersione nel
mondo soggettivo altrui (C.Rogers), tendenza filogenetica quale strategia cablata nella circolarità cerebrale profonda fortemente autostrutturata (C.Trevarthen) va esplorata ed analizzata come fenomeno
biologico, cognitivo, affettivo, sociale e spirituale.
Edith Stein, laureatasi nel 1916 con una tesi sul problema dell’empatia, va oltre il suo maestro Husserl, utilizzando una definizione di
empatia come relazione trascendentale intersoggettiva e mezzo per la
conoscenza del mondo oggettivo chiarisce genesi, struttura e modi di
attuazione di un vissuto di empatia.
Al centro della sua ricerca speculativa, si collocano la conoscenza
dell’esperienza estranea (il vissuto altrui) e l’esigenza di cogliere l’essenza (la percezione di per sé e la e la peculiarità della conoscenza
empatica).
La Stein definisce l’empatia come einfühlung (immedesimazione),
ossia come afferramento della coscienza estranea che, in quanto fon-
5
FORDE M., Desocializzazione, la crisi della postmodernità, Cantagalli, Siena,
2005.
240
damento dell’esperienza intersoggettiva e condizione di conoscenza,
si rivela utile all’afferramento di sé stessi: l’afferramento di un atto
senziente che ci permette di accedere alla dimensione spirituale. Nel
sentirsi si conosce il mondo dei valori: la personalità matura sente i
valori nella loro gerarchia e li realizza nella loro pienezza.
«Nell’empatia io vivo ciascuna azione di un altro come azione che
procede da un valore e questo a sua volta da un sentire (…) un ambito di valori (…),a sua volta, motiva azioni future possibili. Una singola azione e altrettanto una singola espressione corporale – uno sguardo o un sorriso – possono perciò offrirmi la possibilità di gettare uno
sguardo nel nucleo di una persona» (Stein, 1998, p.196).
L’empatia arricchisce il nostro sentire. Infatti, la gioia colta dall’Io
si accende e si alimenta della gioia colta da un Tu e da un Lui. Dall’Io e dal Tu emerge, ad un livello superiore, il Noi nel quale si conservano distinti sia il l’Io che il Tu che il Lui.
La Stein riconosce alla filosofia il merito di essersi posta il quesito
intorno al modo con cui noi abbiamo esperienza della coscienza
estranea, ovvero: quale meccanismo psicologico viene attivato nel
vissuto di empatia? In che modo, durante la sua crescita l’essere
umano sia appropria di tale meccanismo? Nonostante l’intersezione
tra filosofia e psicologia, i compiti di tali discipline, secondo la Stein,
sono differenti.
Il metodo fenomenologico della filosofia, che parte dall’epochizzazione (sospensione, riduzione fenomenologica) e non è subordinato a nessuna scienza, indaga sull’essenza dell’empatia ovunque essa si
dia. Pertanto la psicologia genetica, in quanto studio indagante sulle
cause della realizzazione del processo empatico, appare completamente legata alla ricerca della fenomenologia.
Nell’introduzione al Problema dell’Empatia, la Stein presenta i
caratteri distintivi del metodo fenomenologico che parte da una
messa tra parentesi di opinioni, sapere comune e sapere scientifico, temporaneamente sospesi ma guardati con un atteggiamento di
riflessione, un atto intenzionale fondamentale che permette di intuire il senso, l’essenza di situazioni e azioni sia del mondo esterno
che del mondo interno.
Scrive la Stein: «Scopo della fenomenologia è la chiarificazione
241
e con ciò l’ultima fondazione di ogni conoscenza. Per raggiungere
tale scopo, la fenomenologia esclude dalle sue considerazioni tutto
ciò di cui si può dubitare e che può essere in qualche modo eliminato. In tal modo, tutto il mondo che ci circonda è soggetto a riduzione o a messa fuori circuito, tanto il mondo fisico quanto il mondo psicofisico. Che resterà quando il mondo e lo stesso Soggetto
che lo vive saranno cancellati? Resterà pur sempre un campo infinito aperto alla pura indagine. Pertanto cerchiamo di chiarire cosa
significa il mettere fuori circuito. Io posso mettere in dubbio l’esistenza della cosa che vedo davanti a me in quanto sussiste la possibilità dell’inganno: perciò dovrò mettere fuori circuito il “porre in
essere” e non mi sarà permesso di farne uso. Ciò che invece non
posso mettere fuori circuito è la mia esperienza vissuta della cosa
(il suo afferramento nella percezione o nel ricordo o in qualsiasi altro modo) insieme al suo correlato, ossia il “fenomeno della cosa”nella sua pienezza (che in quanto Oggetto si dà sempre identico
a sé nelle varie sequenze della percezione o del ricordo). Oggetto
che resta inalterato in tutte le sue caratteristiche e può essere preso
in considerazione come Oggetto. (…) Ebbene questo genere di
“fenomeni” costituisce propriamente l’oggetto della fenomenologia. Ciascun fenomeno è assunto, in tal modo, come base esemplare ai fini di una considerazione sull’essenza.(…) Occorre ancora
dimostrare cosa significhi: la mia esperienza vissuta non può essere
messa fuori circuito. Si può dubitare che Io, questo Io empirico al
quale è assegnato un nome, una posizione sociale, e che risulta fornito di particolari qualità, esista veramente. Tutto il mio passato
potrebbe essere un sogno e il suo ricordo un inganno per cui potrebbe essere messo fuori circuito e rimane solo come fenomeno
l’Oggetto della mia considerazione. Ma ‘io’, il Soggetto dell’esperienza vissuta, che considero il mondo e la mia persona come fenomeni, ‘io’ sono nell’esperienza vissuta e soltanto in essa permango,
per cui non è possibile che siano cancellati o messi in dubbio sia
l’Io che la stessa esperienza vissuta» (Stein, 1998, p. 67-68).
Ciò è possibile soltanto iniziando un a conversazione interiore con
un interlocutore privilegiato, la coscienza, organo di significato, che
sveglia il senso dei fenomeni della realtà interna ed esterna.
242
È l’atteggiamento dell’ascolto umile e rispettoso, ma attivo e propositivo, dell’appello, della chiamata che proviene dalle cose, dai fenomeni, dalle datità relative all’esperienza vissuta degli altri esseri
umani, la cui conoscenza possibile è definibile come empatia.
L’empatia è, dunque, il ri-conoscimento della soggettività altrui:
nell’atto empatico si porta a datità una gioia o un dolore estranei.
Comprendendoli.
La Stein esamina, contestandola, la teoria genetica di Theodor
Lipps che spiega l’esperienza del vissuto estraneo con l’imitazione.
Ella infatti distingue il contagio emotivo, che non ha valore di conoscenza, dall’empatia che, in quanto immersione – afferramento della
coscienza estranea, ha una funzione conoscitiva. Coincide in parte
con l’analisi steiniana la teoria di H. Mustenberg, secondo il quale la
nostra esperienza dei soggetti estranei deriva da atti di comprensione
della volontà altrui. È come se il volere estraneo passasse nel mio volere pur restando volere di un altro.
L’io, coscienza pura, ipseità base, si esperisce inizialmente senza
qualità e si differenzia da un’altra ipseità, da un «Tu», che gli viene
data in un modo diverso dall’«Io». Inoltre l’Io, soggetto di un vissuto
attuale, costituisce anche l’unità del flusso di tutti quanti i suoi vissuti: esso è un continuum più che un compositum. Dinanzi a tale unità
di flussi di coscienza stanno altre e qualitativamente diverse ipseità,
quella del Tu e del Lui il cui contenuto, però, dipende dalla struttura
dell’anima, che è sempre anima di un corpo.
L’anima, unità sostanziale che si rende manifesta nei vissuti psichici, forma col corpo l’individuo psicofisico e la sua coscienza. Nell’espressione dei sentimenti si manifestano le qualità psichiche, il sentimento inoltre motiva la volontà, la quale si esprime e si compie nell’azione.
L’empatia, dunque, accende non solo i nostri sentimenti ma completa mediante l’immagine degli altri la propria immagine del mondo: mondo percepito e mondo empatizzato sono per la Stein lo stesso mondo visto simultaneamente in modo diverso. Il brano seguente
rivela e documenta l’attualità della ricerca steiniana: «Imprigionata
nelle barriere della mia individualità, non potrei andare al di là del
“mondo come mi appare”, e in ogni modo si potrebbe pensare che la
243
possibilità della sua esistenza indipendente – che potrebbe essere data ancora come possibilità – resti sempre indimostrata. Non appena,
però, con il sussidio dell’empatia oltrepasso quella barriera e giungo
a una seconda e terza apparizione dello stesso mondo, che è indipendente dalla mia percezione, una tale possibilità viene dimostrata. In
tal modo, l’empatia, come fondamento dell’esperienza intersoggettiva, diviene la condizione di possibilità di una conoscenza del mondo
esterno esistente» (Stein, ib., p. 58).
L’atto empatico, cogliendo vissuti e nessi significativi, apre alla conoscenza della vita psichica dell’altro. Comprendere è, in fondo, a
partire dall’esperienza visibile, vivere all’interno di una totalità di vissuti, intuirne il senso. Si può pertanto affermare che senso, vissuto ed
espressione sono totalità comprensibile.
Ancora una volta, l’empatia dilata la comprensione aprendola anche a moduli espressivi a noi ignoti perché non esperibili. Ma l’empatia è sempre sana o può ingannarci?
L’inganno è possibile se empatizziamo a partire dalle nostre personali qualità, ossia secondo il nostro metro, pertanto gli altri diventeranno incomprensibili o saranno modellati da noi e su noi. Un daltonico,
ad esempio, non percepisce la gamma dei colori né un bimbo possiede
capacità logiche simili alle nostre: ma l’inganno potrà essere eliminato
da un successivo atto empatico. L’empatia altrui nei miei confronti mi
offre, inoltre, una conoscenza più chiara di me stesso: l’autopercezione, infatti, potrebbe anche ingannarmi. A questo proposito citiamo
una bellissima frase di P. Coelho che esprime straordinariamente bene
tale concetto: “Come Darwin fece il giro del pianeta per raccontarci l’origine della specie, così io mi propongo di vagabondare nei prossimi mesi
per svelare, per raccogliere gocce sparse della fontana della conoscenza,
per scoprire pezzi del mio cuore che io ritrovo in altre persone. Perché un
uomo non è altro che l’unione di tutti i suoi incontri”.
L’empatia, dunque, quale fondamento di esperienza, si rivela utile all’afferramento di sé stessi. Ma c’è di più. L’afferramento di un
atto senziente ci introduce nella dimensione spirituale. Come nella
percezione esterna si costituisce la natura fisica nel sentire che si
rende visibile nella espressione degli stati d’animo, così nell’afferramento si costituisce il mondo dei valori.
244
Sentire un valore, scrive la Stein, è la fonte di ogni sforzo conoscitivo, la molla di ogni volontà di conoscenza. Il sentire assiologico è un
valore, come lo è la realizzazione dei valori. C’è, secondo la Stein, correlazione reciproca tra persona e mondo dei valori: la persona ideale
sente i valori nella loro gerarchia e li realizza nella loro pienezza.
Anche secondo Scheler (op.cit.) il vissuto di autentica empatia
non è assiologicamente indifferenziato. Nell’intuizione si manifestano i valori dei vissuti psichici poiché sono dati in modo originario ed
ogni vissuto ha piuttosto in sé una sua specifica differenziazione assiologica data immediatamente ed intuitivamente nel “sentimento”
relativo.
7.5 Risvolti pedagogici
Alla luce di quanto finora esposto se l’educazione vuol essere scoperta, creazione, opzione di valori, deve affinare la percezione dell’occhio emozionale ed empatico, che permette una chiara coscienza
dei valori. Solo così potrà aiutare la persona ad inoltrarsi nella pienezza assiologica dei valori stessi.
L’assunto fondamentale da cui occorre partire è che esiste un
numero infinito di valori non ancora percepiti e colti ai quali una
coscienza matura può adire spezzando la gabbia del vissuto dell’uomo tecnicizzato. Affinché attraverso l’educazione venga esperito il mondo dei valori, il primo requisito è l’esercizio dell’empatia
come condivisione, apertura, contatto emotivo, preliminare indispensabile nel rapporto interpersonale che, quale fondamento della comunità, si esprime nella comunione tra le persone.
Il trait d’union tra filosofia, neuroscienze, psicologia e pedagogia è
il concetto di cura, che considerata nell’accezione heideggeriana, sta
a significare aver a cuore, colere, da cui lo stesso termine cultura deriva. Nell’aver a cuore ogni sapere, in particolare il sapere intorno all’educazione, perde il suo carattere normativo a favore dell’eticità e si
presenta come sapere progettuale e fedeltà creatrice. L’educazione
come umanizzazione dell’uomo, soggetto morale, dialogico, ermeneutico, paradossale unità di senso in cui si realizza una complessità
di significati, mentre nel suo momento teorico è amore per la sapien245
za, nella sua prassi non può fare a meno della sapienza dell’amore
(Donnarumma D’Alessio, 1999). L’empatia lungi dall’essere identificazione e relazione narcisistica, è dunque esperienza dell’altro come
sé, del sé come altro (l’espressione è di Paul Ricoeur, 1993).
Nell’educazione la capacità empatica si concretizza come sostegno
e presenza discreta e rispettosa della persona. Al suo più alto livello,
è dono di sé, cognitivo ed emozionale, intelligente nell’amore, amorevole nell’intelligenza, aperta a quel mistero che è l’Altro. Nel quotidiano divenire e nel tendere insieme alla reciproca autorealizzazione
come persone (Acone, 2005) che, sulla scorta di una costellazione di
valori e significati, siano capaci di proporre, sperimentare e condividere orizzonti di senso.
Guardando insieme a nuove – emozionanti – sfide.
246
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251
252
VII
CAPITOLO
PREVENZIONE E TRATTAMENTO DELLO STRESS
NELLE PROFESSIONI D’AIUTO:
DALLA PSICOBIOLOGIA DELLA RELAZIONE DI CURA
AL SIGNIFICATO ESISTENZIALE DELLA SOFFERENZA
di Chiara D’Alessio
Io sono uomo nella misura in cui faccio essere l’altro più uomo. Essere
significa far essere. Io divento uomo nella misura in cui riconosco l’altro come uomo e lo promuovo come uomo.
Io sono, se faccio dono di me all’altro uomo (Sabino Palumbieri).
1. Concetto di salute
La definizione di salute dell’OMS (1946), che giudica la salute
come “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e
non solo assenza di malattia”, ha sovente ricevuto critiche perché
considerata utopistica e ingannevole per la stessa pratica medica. In
realtà la salute non può essere definita uno stato, ma un processo
dinamico che comporta il raggiungimento di equilibri progressivi.
Essa si può pertanto definire come una condizione di equilibrio dinamico per cui un soggetto, inserito in un determinato contesto
culturale e sociale, ha le capacità di realizzare i propri rapporti e
progetti vitali in modo adeguato.
Il concetto di salute è inoltre oggi legato ad una visione unitaria, socioculturale e di genere, dei dati relativi allo stato di salute
e malattia del singolo individuo. Le dimensioni in essa comprese
fanno riferimento anche alla necessità di stabilire una comunicazione chiara ed umana con il paziente e con i familiari, nonchè la
collaborazione tra le diverse figure professionali nelle attività sa-
253
nitarie di gruppo allo scopo di sviluppare un approccio fortemente integrato al paziente, valutandone criticamente non solo
aspetti clinici ma anche relazionali, educativi, etici e sociali coinvolti nella prevenzione, diagnosi e trattamento della malattia,
nonché nella riabilitazione e nel recupero del più alto grado di
benessere psicofisico possibile.
Ciò è possibile solo quando, nella consapevolezza dei valori propri
ed altrui ed in base alla conoscenza dei principi su cui si fonda l’analisi del comportamento e delle sue principali alterazioni all’interno dei
diversi vissuti soggettivi, si riescono ad individuare indirizzi terapeutici preventivi e riabilitativi. Naturalmente ciò comporta anche un’adeguata esperienza nel campo della relazione medico-paziente e la cura
della qualità delle pratiche comunicative tra pazienti, famiglie e operatori sanitari all’interno dei contesti sociosanitari che si traduca anche in capacità di utilizzare in modo appropriato le metodologie
orientate all’informazione ed educazione sanitaria.
La capacità di integrare in una valutazione globale ed unitaria dello stato complessivo di salute del singolo individuo sintomi, segni ed
alterazioni strutturali e funzionali aggregandoli sotto il profilo preventivo, diagnostico, terapeutico e riabilitativo passa attraverso l’abilità e la sensibilità nell’inserire le problematiche specialistiche in una
visione più ampia dello stato di salute generale di una persona e delle
sue esigenze di benessere e la conoscenza dei concetti fondamentali
delle scienze umane per quanto concerne l’evoluzione storica dei valori della salute, compresi quelli etici.
2. Brevi cenni di psicosomatica
Nonostante i progressi della medicina, si registrano ancora numerosi segnali di malessere per le condizioni psicologiche e la qualità
delle relazioni nelle strutture sanitarie.
I problemi maggiormente riscontrati sono: carenza di comunicazione, ambienti poco accoglienti e disponibili, medicina altamente
tecnologica ma scarsamente empatica nei confronti dell’utente. Gli
operatori sanitari si confrontano quotidianamente sia con le comples254
se e dolorose problematiche del malato che con le difficoltà diagnostiche, terapeutiche e comunicative insite nella pratica medica sperimentando frequentemente impotenza terapeutica, dolore, angoscia e
morte. Il che può dare origine a tensioni, frustrazioni e conflitti alla
base della ben nota sindrome del burnout, spesso anticamera di vere
e proprie malattie psicosomatiche.
La psicosomatica, disciplina ponte tra biologia, medicina e psicologia, che a livello europeo ha avuto esponenti illustri come Robert Dantzer e gli italiani Paolo Pancheri e Massimo Biondi, ha come assunto la nozione che il corpo partecipi di ciò che accade a livello emozionale. Con essa scompare definitivamente la contrapposizione tra psichiatria “mindless” e psichiatria “brainless” che ha
per tanti anni dominato la scena degli studi sul rapporto mente-cervello-corpo. Nelle sue recenti accezioni il termine psicosomatica è
stato sostituito da quello di psiconeuroendocrinommunologia.
Avendo infatti ormai attestato con innegabili evidenze scientifiche (Kop, 2003) che il sistema nervoso ha connessioni con tutti altri
sistemi dell’organismo (respiratorio, cardiovascolare, endocrino, immunitario…), si può affermare che gli eventi di vita drammatici scatenano una tempesta neurochimica che può durare a lungo nel tempo e che il susseguirsi di eventi traumatici porta ad un vero e proprio danno neuronale.
La medicina psicosomatica ha mostrato come i successi terapeutici, i miglioramenti e le remissioni dipendano in misura importante
dalle condizioni psicologiche del paziente, dal grado di accoglienza
dell’ambiente, dalla qualità delle relazioni con gli operatori (basta
consultare i numerosissimi articoli apparsi su queste tematiche negli
ultimi anni nella rivista Psychosomatic Medicine). Più recenti studi
psiconeuroendocrinoimmunologici evidenziano come la corretta comunicazione, la canalizzazione della creatività e delle emozioni positive possono favorire, attraverso complessi meccanismi neurali, il
corretto funzionamento del sistema immunitario, migliorando il tono
generale dell’organismo ed il funzionamento di tutti gli organi, nonchè le possibilità di ripresa nella battaglia contro la malattia. La relazione di cura si concepisce dunque anche in una dimensione biologica: ciò comporta l’attenzione allo stato psicobiologico non solo del
255
paziente anche del curante affinché egli possa svolgere al meglio le
sue funzioni e prevenire l’insorgenza del burnout.
3. Cervello e stress
Il potenziale genetico di un individuo viene espresso all’interno di
esperienze sociali che esercitano effetti diretti sulla modalità con cui
le cellule nervose vengono collegate fra loro: le connessioni umane
portano alla creazione di connessioni neuronali (Siegel, 2001).
Le esperienze traumatiche o fortemente stressanti nel tempo possono avere effetti tossici diretti sul cervello: gli ormoni secreti in risposta allo stress determinano fenomeni di morte neuronale a livello
dei circuiti fondamentali delle aree limbiche e neocorticali responsabili dei processi di regolazione delle emozioni . Il risultato finale sarà
una particolare vulnerabilità a disturbi emotivi: geni ed esperienze
interagiscono per creare condizioni di rischio per lo sviluppo di patologie successive, rischio che alla fine viene espresso a livello di circuiti cerebrali (ib.).
È il canale comunicativo ipotalamo-ipofisi-surrene ad essere coinvolto nella risposta dell’organismo agli agenti stressanti: le principali
sostanze veicolanti messaggi in tale meccanismo sono l’adrenalina ed
il cortisolo. Esiste anche un fenomeno denominato “analgesia da
stress” in base al quale gli oppioidi endogeni (endorfine), che proteggono dalla percezione del dolore, provocano uno stato analgesico in
situazioni di emergenza, il che è evidentemente un meccanismo connesso alla sopravvivenza (Freberg, 2008). Uno stress molto intenso
può altresì provocare un blocco delle funzioni mnemoniche.
Tale effetto è mediato dai processi neuroendocrini con cui l’organismo reagisce normalmente allo stress attivando l’asse ipotalamoipofisario-adrenocorticale che tipicamente prevede una liberazione
immediata e transitoria di noradrenalina ed una risposta più prolungata mediata dagli ormoni glucocorticoidi, rilasciati dalla corteccia
surrenale, che influenzano il metabolismo dei carboidrati (ib.).
I glucocorticoidi hanno un effetto diretto sull’ippocampo che presenta un’alta densità di recettori specifici per questi ormoni. Infatti
256
uno stress molto forte può determinare un blocco transitorio delle
sue funzioni. Uno stress continuato può invece indurre un’alterazione dei normali ritmi quotidiani di secrezione, con livelli ematici di
cortisolo che risultano cronicamente elevati: ciò può portare ad una
inibizione della crescita neuronale ed a processi di tipo degenerativo
a carico dei dendriti (ib.)
Tali fenomeni sono inizialmente reversibili: se però l’esposizione
ad alte concentrazioni di glucocorticoidi persiste nel tempo, possono subentrare fenomeni di morte neuronale: infatti, uno stress ripetuto provoca atrofia dei neuroni dell’ippocampo che possiedono recettori per i glucocorticoidi. L’atrofia è reversibile se l’esposizione è
discontinua ma, se è permanente, provoca deficit a livello cellulare
nel potenziamento mnestico a lungo termine, legato appunto alla
funzionalità dell’ippocampo (ib.). Ad es., nel disturbo post-traumatico da stress il prolungato aumento dei livelli di cortisolo provoca
un restringimento del volume dell’ippocampo (conseguente ad
apoptosi). L’impianto di sferette di cortisolo nel cervello di scimmia
provoca danni all’ippocampo. In conclusione, se i livelli elevati di
cortisolo ematico sono presenti per 5 anni o più, sono presenti deficit di memoria.
Lo stress compromette dunque la memoria esplicita mutando il
funzionamento dell’ippocampo poiché in condizioni di forte stress
aumenta la concentrazione di cortisolo nel circolo ematico. Il cortisolo si diffonde nel cervello e si lega ai recettori dell’ippocampo provocando un disturbo dell’attività ippocampale, che compromette le capacità del sistema mnestico del lobo temporale di formare le memorie esplicite (Freberg, 2008). Quando lo stress permane le cellule ippocampali cominciano a degenerare e alla fine muoiono.
Si è altresì visto che la percezione dello stress da parte dell’amigdala regola la secrezione di adrenalina e glucocorticoidi che attivano il
locus coeruleus (nucleo del tronco cerebrale i cui neuroni producono
adrenalina e noradrenalina), il quale a sua volta invia all’amigdala potenti segnali di attivazione che stimolano l’amigdala ad attivare la produzione di CRH. Il CRH, o ormone di rilascio della corticotropina, fu
scoperto nel 1983 da W.Wale del Salk Institute. Tale scoperta aiutò a
comprendere molte delle componenti biologiche dello stress e le ma257
lattie correlate allo stress. Quando è secreta dall’ipotalamo nel circolo
ematico, il CRH agisce sulla ghiandola pituitaria per mobilizzare i
componenti della risposta dell’organismo allo stress, come il sistema
endocrino ed immunitario. Il CRF inoltre agisce all’interno dello stesso cervello, in aree che sono coinvolte nello stress e nella dipendenza.
Esso porta alla secrezione di più adrenalina e glucocorticoidi, formando un circolo vizioso tra la mente ed il corpo (LeDoux, 2002).
Esiste inoltre un rapporto tra stress oggettivo e parametri immunitari, ad es. tra il livello di stress e la riduzione della capacità rosettante
dei linfociti (Biondi, 1997). In uno studio di Picardi (2007) “Attachment security and immunity in healthy women” pubblicato in Psychosomatic Medicine, maggiori punteggi ottenuti sulla scala dell’attaccamento insicuro sono correlati ad una maggiore linfocitotossicità in
soggetti sani. Infatti, l’attaccamento ha i suoi correlati biologici legati
ai livelli di ossitocina e ai sistemi serotoninergici. La perdita o il lutto
scatenano una tempesta biochimica: il turnover delle monoammine
cerebrali viene modificato dando luogo a fenomeni di apoptosi, produzione di ossido nitrico, fosforilazione proteica. Nell’animale separato forzatamente dalle figure di attaccamento cambiano sensibilità e
numero dei recettori postsinaptici per la serotonina: tale situazione è
simile a quella dei soggetti umani depressi (De Paulo-Horwitz, 2008).
Dunque, la rottura di legami affettivi porta ad un’aumentata vulnerabilità alle malattie e ad un’aumentata morbilità. Le neuroimmagini del
cervello sotto stress evidenziano fenomeni simili.
Si è detto che la presenza di glucocorticoidi può disturbare la formazione della memoria dell’ippocampo e far sì che i neuroni ippocampali si atrofizzino e perdano alcune delle loro numerose ramificazioni determinando difficoltà ad apprendere ed a ricordare. Lo stress
ed i glucocorticoidi possono dunque impedire la formazione e la crescita di nuove cellule nervose (LeDoux, 2002).
In un recentissimo articolo il neuroscienziato italiano Alberto
Oliverio descrive le conseguenze dello stress alle varie età della vita:
“Lo stress fa parte della vita quotidiana se è moderato e di breve durata: ma quando è intenso, duraturo ed agisce su un cervello in via
di sviluppo può lasciare tracce permanenti a partire dalla vita fetale.
Numerose ricerche dimostrano che lo stress non va sottovalutato,
258
anche perché i glucocorticoidi interagiscono con tossine ambientali,
in gran parte additivi alimentari, scatenando disturbi dell’umore e
modificando le tappe della maturazione sessuale. Nella fase prenatale, gli stress materni, ansia e depressione comportano minor peso
del nascituro. I neonati di madri stressate sono più piccoli, e a causa
degli elevati livelli di glucocorticoidi circolanti nel sangue materno
possono avere un ippocampo meno voluminoso e , dunque, qualche
problema cognitivo. Nella prima infanzia il sistema ipotalamo-ipofisi-surrene è labile e sensibile a stress di tipo affettivo, come uno stato depressivo materno (che comporta una riduzione della cure o
lunghi periodi di separazione dalla madre che i piccoli possono percepire come abbandono). Gli effetti sono però reversibili: se ci si
prende carico dei piccoli in un paio di mesi i livelli di cortisolo ritornano normali. Nell’adolescenza, la corteccia prefrontale, da cui dipendono le funzioni esecutive ed il controllo dell’emotività, va incontro ad un’intensa maturazione, accompagnata da un aumento dei
recettori per i glucocrticoidi, che modulano funzioni cognitive ed
emotive. Lo stress può quindi generare forme di psicopatologia come depressione ed attacchi ansiosi. In seguito ad eventi stressanti i
disturbi dell’umore insorgono con una frequenza superiore rispetto
all’adulto. Nell’età adulta è stata raccolta una vasta casistica sui disordini post-traumatici da stress: in genere c’è una correlazione tra
episodi di stress, più specificamente vari tipi di traumi psichici, livelli di glucocorticoidi e forme depressive (…) Nella vecchiaia, i livelli
di glucocrticoidi sono più elevati rispetto ai giovani e agli adulti. In
seguito a stress si verifica un ulteriore aumento del cortisolo che ha
un ruolo negativo sulla funzione neuronale, in particolare sulle cellule della corteccia prefrontale, meno in grado di comunicare tra loro a causa di una riduzione del flusso assonico. Gli stress duraturi
accentuano inoltre il processo di morte neuronale nell’ippocampo e
nella corteccia prefrontale il che si traduce in una ridotta efficienza
cognitiva. In conclusione, il cervello è molto sensibile allo stress ed
alla conseguente alterazione della produzione di glucocorticoidi che
possono reprimere o innescare l’azione di geni attivi nel sistema nervoso” (Oliverio, 2009, p. 19).
Dunque lo stress comporta effetti immunologici, neurochimici,
259
neuroendocrini, comportamentali. Aspetto tutt’altro che trascurabile
è che gli ormoni dello stress sono risultano nocivi sulla corteccia prefrontale (ib.): ciò può determinare la compromissione della capacità
di prendere decisioni, con tutti i rischi che ciò comporta quando coinvolge operatori delle professioni d’aiuto.
4. Aspetti psicobiologici del rapporto paziente-curante. Correlati e
costi dello sforzo mentale ed emotivo
La ricerca psicosomatica ha evidenziato i circuiti neurali centrali
ed i correlati biologici dei processi affettivi e cognitivi (emozioni e
pensieri). Tali circuiti neurotrasmettitoriali psiconeuroendocrini e
neurovegetativi partecipano alla comunicazione paziente-curante.
Sappiamo che i neurotrasmettitori sono messaggeri chimici che mediano la comunicazione tra neuroni adiacenti nello spazio della sinapsi (Freberg, 2008). Sono sintetizzati all’interno del neurone e rilasciati in risposta all’arrivo di un potenziale d’azione; dopo il rilascio
sono disattivati per riassorbimento o mediante l’azione di enzimi. Il
principale gruppo di ammine biogene con funzione di neurotrasmettitori sono la dopamina, l’adrenalina, la serotonina; un sottogruppo è
costituito dalla catecolammine (dopamina, adrenalina o epinefrina e
noradrenalina o norepinefrina). L’acetilcolina è il n. principale nelle
giunzioni neuromuscolari, ed è coinvolta nella divisione parasimpatica del sistema nervoso autonomo (ib.).
I neuroni dopaminergici del cervello proiettano sui gangli della
base, sul sistema limbico e sui lobi frontali della corteccia: sono coinvolti nel controllo motorio, nella ricompensa e nella progettazione del comportamento (ib.). I sistemi noradrenergici usano la noradrenalina come mediatore e sono localizzati nel ponte, nel bulbo e
nell’ipotalamo; le proiezioni di tali neuroni raggiungono tutte le regioni principali del cervello e del midollo spinale: il loro ruolo principale è quello di produrre lo stato di attivazione fisiologica (arousal) e di vigilanza (ib.). I neuroni serotoninergici sono situati nel
tronco encefalico con proiezioni fino al midollo spinale, cervelletto,
sistema limbico e neocorteccia: essi partecipano al controllo dell’u260
more, del sonno, dell’appetito (ib.). I neuroni colinergici sono ampiamente distribuiti nel cervello; un importante sistema di tali neuroni si origina nel prosencefalo, nel tronco ed invia proiezioni al sistema limbico ed alla corteccia che partecipano ai processi di apprendimento e memoria (ib.).
La nostra vita di relazione è mediata dal funzionamento di tali sistemi, a sua volta influenzati dalla qualità di quest’ultima. Il rapporto
curante-paziente rappresenta una particolare tipologia di relazione,
caratterizzato da livelli di coinvolgimento e di responsabilità il cui
impatto biologico è stato studiato con diverse tecniche. Lo studio del
rapporto curante-paziente presenta diversi problemi, legati all’ottenimento di riscontri in un setting “naturale” e dunque all’utilizzo di
metodi non invasivi che consentano serialità , costanza nell’osservazione e bassi costi.
Alcuni esempi di tecniche di rilevazione semplici ed economiche
utilizzate sono: la rilevazione della tensione muscolare tramite elettromiografia; la rilevazione attività elettrodermica (GSR) correlato
dell’attività neurovegetativa; la rilevazione della frequenza cardiaca,
della pressione arteriosa, del polso; l’EEG; la rilevazione dei livelli di
cortisolo ematico (Biondi, 2008). Tali misurazioni danno importanti
informazioni sull’attivazione emozionale e sui correlati dei processi
cognitivi. Ad es. la GSR (galvanic skin response) è correlata con l’attivazione della corteccia del cingolo anteriore, posteriore e della corteccia motoria primaria.
Gli studi condotti mostrano che la comunicazione con il paziente
coinvolge emozioni che hanno circuiti centrali e correlati periferici
somatici. La comunicazione con una persona sofferente suscita stress
e ripetuta attivazione di tali circuiti e può essere seguita da effetti somatici periferici. Ricerche condotte utilizzando rilevazioni elettromiografiche sul curante “in situazione” (Biondi, 2008) hanno messo
in luce gli effetti della tensione emotiva sul sistema muscolare. La
tensione emotiva, trasformatasi in tensione muscolare induce dolore
persistente (cervicale, lombare ecc.).
Sappiamo inoltre che il sistema nervoso vegetativo, che comprende i correlati neurobiologici delle risposte emozionali, è diviso in s.
simpatico (neuroni noradrenergici) e s. parasimpatico (neuroni coli261
nergici). È dunque innegabile che il corpo segua gli effetti emozionali. Ad es.: la soglia per l’extrasistolia cardiaca si modifica sulla base
del livello di stress della persona. Ricerche che prevedevano punizioni ripetute su animali provocavano l’abbassamento della soglia per
provocare extrasistole con uno stimolo elettrico fino alla fibrillazione
ventricolare, che è notoriamente antecedente alla morte (ib.). In questo si può trovare la spiegazione degli infarti a cuore integro, che
possono essere causati anche da dolore psichico non sufficientemente elaborato e quindi persistente, o della cosiddetta morte da angoscia o terrore (ib.).
Ricerche condotte con i suddetti strumenti, in ambito oncologico,
su medici nel momento di comunicazione della diagnosi hanno evidenziato che la risposta emozionale del medico è più alta quando
medico e paziente sono dello stesso sesso ed età (ib.). L’identificazione porta dunque ad una risonanza emotiva maggiore (ib.). Ricerche
sull’attività elettromiografica rilevata contemporaneamente su medico e paziente durante la comunicazione di una diagnosi evidenziano
una consonanza terapeuta paziente nel tipo di tensione muscolare riscontrata, indice di rispecchiamento empatico (ib.) Ulteriori ricerche
hanno messo in evidenza come il medico che ha una conversazione
impegnativa o conflittuale col paziente sperimenta variazioni di frequenza cardiaca e pressione arteriosa (ib.). Se ciò avviene quotidianamente e per molte ore (si pensi al lavoro dell’oncologo o dello psichiatra) i costi correlati a tali sforzi possono essere di notevole entità.
Non a caso, gli psichiatri ed anestesisti appartengono a categorie professionali ad alto rischio suicidarlo.
Il rispecchiamento empatico dunque non è a basso costo ma ha
ingaggi a costo emozionale variabile a seconda dei casi. Ascoltare, rispecchiare, assistere alla sofferenza, interagire e presenziare genuinamente partecipando impegna e costa a livello profondo, centrale e viscerale (ib.).
I correlati neurobiologici dell’intersoggettività sono evidenziabili
nell’architettura funzionale della simulazione incarnata, originariamente scoperta con i neuroni specchio nel dominio delle azioni, una
caratteristica di base del nostro cervello che rende possibili le nostre
ricche e diversificate esperienze intersoggettive.
262
Gli studi di Singer (2004) et alii hanno evidenziato come l’osservare un soggetto che soffre provochi un’attivazione automatica
del lobo dell’insula e della corteccia cingolata anteriore coinvolgendo le aree del cervello come se il dolore non derivi dall’empatia
ma sia un dolore fisico intenso e reale.
Anche quando il soggetto del quale si studia la reazione viene separato dalla persona della cui sofferenza può essere consapevole,
non mediante l’osservazione diretta ma guardando una lancetta che
indica i livelli del dolore (il soggetto immagina il dolore dell’altro)
le aree cerebrali del dolore si attivano ugualmente. Dunque vi è
un’attivazione del sistema limbico e delle aree corticali ad esso connesse, non periferica, indipendente dalla stimolazione sensoriale:
circuiti e centri sensori ed affettivi del dolore nel cervello sono separati. Il cervello sente allora il dolore anche se gli organi sensoriali
non sono attivati. Tentare di ignorare stimoli potenzialmente dolorosi costa ugualmente: anche la rimozione ha dei costi. Quando la
mente cerca di sopprimere una reazione c’è un uguale consumo
neurotrasmettitoriale e possibilità di somatizzazione (legata alla
mancata elaborazione di contenuti inconsci). Tutto ciò dimostra
l’impossibilità di scindere la strettissima interconnessione tra emotività-affettività e razionalità nella vita professionale del curante.
Ciò comporta: costi emotivi – costi in molecole – attivazione recettoriale – fatica nel rimettere in moto i circuiti (Biondi, 2008).
È certo che curare appaga: ma logora, anche. Il cinismo è spesso
una conseguenza della percezione del costo, un meccanismo di difesa
dal burnout. I processi suddetti, infatti, implicano elevati consumi di
serotonina, dopamina, noradrenalina: l’esercizio dell’empatia brucia
energie molecolari del cervello che vanno continuamente rinnovate e la
vita extraprofessionale deve consentire il recupero di tali sostanze (ib.).
Ciò implica un riconoscimento dello specifico stress da lavoro
di medico, dello psicologo, dell’infermiere, dello psichiatra ed in
genere di tutte le professioni di aiuto che implichino costi psichici
e fisici e necessità di riconoscimento, prevenzione e trattamento.
Heilig (2008) ha trovato un legame tra stress, alcolismo e attività
del CRH. I soggetti stressati avrebbero una maggiore tendenza all’assunzione di alcool, allo scopo di ottenere un effetto sedativo, e
263
presentano in concomitanza ipersensibilità agli stimoli inducenti
paura e livelli maggiori di recettori del CRH nell’amigdala.
La ricognizione dei livelli di stress nelle professioni di aiuto rende
indispensabile l’attivazione di corsi sulla comunicazione, sulla promozione del supporto sociale, sul miglioramento del lavoro in team.
5. Prevenzione e trattamento dello stress nelle professioni d’aiuto
Una migliore capacità di comunicazione può avere effetti sia sulla
qualità della cura che sulla riduzione del distress psicobiologico del
curante e del paziente (che comporta una ridotta attivazione del circuito amigdaloideo e dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene).
Elementi protettivi dallo stress all’interno delle istituzioni di cura vengono in questa prospettiva identificati in: abilità comunicative; organizzazione efficiente, leadership efficace, lavoro di squadra
e supporto sociale, conduzione di una vita extraprofessionale sufficientemente equilibrata (Biondi, 2008). Sembra infatti che tali fattori riducano lo stress ed i disturbi ad esso associati. Ad esempio,
il supporto sociale, la cui mancanza è correlata a malattie cardiache (Strike-Steptoe, 2004) previene l’aumento di cortisolo e di
pressione arteriosa indotti da stress psicologico sperimentale.
Dunque, le modalità di comunicazione che utilizziamo influiscono
sui nostri ed altrui assetto neurotrasmettitoriale. Sembra allora che
più che i farmaci sia la possibilità di comunicare il proprio disagio
psichico e reali cambiamenti nell’assetto di vita a modificare in positivo la trasmissione neurotrasmettitoriale (Biondi, 2008).
In quest’ottica il cervello è presentato come sistema non lineare
ma complesso, in continua circolare interazione tra disposizione genetica, livelli dei neurotrasmettitori, clima evolutivo, clima presente
(eventi, situazioni), significati attribuiti alle situazioni, comportamenti osservabili (ib.). Il concetto di una “chimica della mente” indica
che il mondo interno e gli eventi di vita interagiscono l’un l’altro in
modo complesso. La terapia della parola tocca molti circuiti che lavorano in modo più fine rispetto a molti farmaci, inducendo una vera
e propria “ginnastica neurotrasmettitoriale” (ib.). All’interno di que264
sta visione, come potremmo definire i ruoli della psicoterapia e della
psicofarmacologia?
La psicoterapia è il processo di comunicazione e relazione terapeutica inteso in chiave umanisitica. Si è visto come ci siano evidenze
crescenti circa la dimensione biologica dell’interazione-relazione,
della comunicazione ed anche della stessa psicoterapia. I recenti dati
di visualizzazione cerebrale mostrano come interventi psicoterapici
abbiano correlati ben definiti a livello di circuiti e centri cerebrali: la
terminologia per la rappresentazione dei fenomeni in psicologia, psichiatria è stata spesso basata su concetti e parole che contrappongono l’organico e lo psichico, il fisico ed il mentale, la spiegazione neurochimica e quella psicologica (ib.).
Vi è invece una crescente evidenza che rende necessario rivedere
questo orientamento e suggerisce l’esistenza di un comune principio
organizzatore delle diverse terapie farmacologiche e psicoterapiche
ed una matrice finale comune di esse.
Secondo Biondi (2008), la terapia più biologica a livello fine neuronale, a livello di plasticità molecolare e di rimodulazione di circuiti
e reti neurali non è in realtà quella farmacologica ma la psicoterapia.
Ovvero, per dirla con Bandler e Grinder (1985), la magia della parola. Del resto anche Kandel (2007) porta a sostegno di tale ipotesi
numerose ricerche che mostrano come prima e dopo una psicoterapia che ha portato a guarigione si evidenzi, tramite neuroimaging,
l’attivazione di differenti aree cerebrali, a testimonianza dell’esistenza
di un’evidenza, anche biologica, della guarigione.
Una promettente area di ricerca potrebbe essere costituita dallo studio del rapporto tra qualità del risultato, senso di appagamento professionale e loro incidenza sui livelli di stress percepito
del curante.
Ci si chiede, ad esempio: il livello di soddisfazione per il proprio
lavoro può rappresentare uno stimolo positivo per la neuroplasticità,
in base ad un meccanismo contrario a quello del distress, il cui epilogo è il burnout? Ricerche in questa direzione potrebbero fornire preziose indicazioni.
265
6. La relazione d’aiuto con i pazienti e tra i componenti delle
équipe di cura
Le implicazioni di quanto finora discusso sul paziente sono notevoli. Il paziente avverte profondamente l’esistenza nel curante di atteggiamenti e comportamenti legati allo stress. Ciò si aggiunge ai vissuti personali spesso drammatici collegati alla malattia, agli eventuali
interventi chirurgici, alle terapie spesso impegnative e debilitanti ed
alle sofferenze associate. Sembra inoltre che l’importanza delle condizioni psicologiche del paziente nel processo di guarigione sia enorme: i successi terapeutici, i miglioramenti e le remissioni dipendano
in misura importante dalle sue condizioni psicologiche, dal grado di
accoglienza dell’ambiente, dalla qualità delle sue relazioni con gli
operatori.
La malattia infatti disorienta l’identità della persona (Donnarumma-D’Alessio, 2008): irrompe e disorganizza il ritmo di vita, mette in
crisi i rapporti con il proprio corpo e con il mondo in cui la persona
vive, spesso modifica e fa perdere i ruoli professionali e familiari. Essa determina una profonda crisi, sia biologica – per la sofferenze, i
disagi, le limitazioni che comporta – sia esistenziale, per le ripercussioni che ha sullo stile di vita e sulla progettualità dell’individuo. Tale
crisi può dare origine ad ansia, agitazione, collera, comportamenti di
fuga o ostilità che vanno interpretate come strategie (inconsapevoli
ed automatiche) per fronteggiare la situazione.
L’ansia si manifesta attraverso uno stato continuo di tensione ed
agitazione che può degenerare anche nel panico. Essa comporta una
percezione accresciuta degli eventi, accompagnata dall’ espressione
fisiologica del senso di minaccia, connesso alla paura dell’evento malattia, che include sintomi fisiologici (vertigini, sudorazione, tremore,
tachicardia, dolori, difficoltà respiratorie, agitazione, tensione, debolezza); sintomi percettivi (senso di irrealtà, ipervigilanza, stordimento); difficoltà di pensiero (confusione, amnesie, difficoltà di concentrazione, di ragionamento, blocco).
Le determinanti del vissuto ansioso sono modulate dal significato
personale attribuito alle circostanze che l’individuo vive e dal giudizio
e dalla stima delle proprie risorse circa le capacità di fronteggiare tali
266
circostanze. Emerge dunque con forte evidenza la necessità di promuovere una competenza relazionale nel personale assistenziale. Una
risposta efficace è data dall’approccio definito “relazione d’aiuto”.
Essa, più che un esercizio di tecniche, rappresenta uno stile di relazione, un modo di essere caratterizzato da atteggiamenti positivi
stabili: accoglienza, comprensione, ascolto attivo ed autenticità. Attraverso un atteggiamento di ascolto è infatti possibile rilevare tutte
le fantasie, le verità intuite, le paure esagerate o le rassegnazioni, cioè,
l’interpretazione soggettiva dell’esperienza di malattia.
Su queste informazioni è opportuno costruire il proprio comportamento assistenziale. E più utile valutare il grado di consapevolezza,
le idee e le opinioni che il paziente si è costruito sulla sua malattia
piuttosto che interrogarsi sulle verità da comunicare.
Ad esempio, informare il paziente sulle procedure, i tempi necessari, le modalità, gli risparmia ansie inutili e favorisce reazioni positive
ed atteggiamenti collaborativi. È invece decisamente inopportuno riferire al paziente dubbi o incertezze terapeutiche, che potrebbero sortire l’effetto di diminuire la fiducia e l’affidabilità dello staff curante.
L’efficacia e la validità dell’assistenza al malato non può essere misurata soltanto sull’adeguatezza delle prestazioni erogate o in base alla gestione attiva della malattia da parte del paziente o della famiglia
ma sarà il risultato di una relazione interpersonale preziosa, costruttiva e significativa tra malato, sistema familiare ed operatori.
Il lavoro col paziente prevede i seguenti passi:
- Far emergere convinzioni e vissuti che accompagnano l’evoluzione della malattia
- Fornire informazioni realistiche sulla curabilità dei sintomi
- Attraverso il controllo della sintomatologia fisica, modificare l’attitudine verso la malattia
- Orientare le aspettative su obiettivi che puntino alla qualità della
vita
- Incoraggiare il paziente a verbalizzare le sue fantasie e manifestare
liberamente le emozioni
- Prestare attenzione ai termini che il malato usa per descrivere i
sentimenti ed il grado di sopportazione che esprime
- Accettare le modalità espressive del paziente
267
- Costruire atteggiamenti di accettazione nei confronti delle modalità aggressive
- Avviare un confronto positivo quando il paziente è pronto a prendere posizioni più adeguate
- Incoraggiare la presenza ed il conforto da parte dei familiari.
Tale lavoro col paziente va supportato dal lavoro dell’equipe di
cura che prevede:
- Avviare un confronto costante, all’interno dell’equipe, su queste
problematiche
- Rilevare le modalità usate dal malato per graduare l’impatto della
malattia
- Valutare gli atteggiamenti nei confronti della terapia e dei programmi di cura come espressione del disagio di rapportarsi alla
malattia
- Offrire adeguate opportunità per passare gradualmente da un atteggiamento di evitamento nei confronti della coscienza dello stato di malattia ad una graduale e progressiva consapevolezza.
Le stesse équipe di cura, d’altro canto, devono contemporaneamente curare le seguenti dimensioni:
- Prendere coscienza di contenuti interiori propri
- Comunicare in maniera sana ed equilibrata
- Esprimere liberamente le proprie paure e difficoltà
- Riconvertire disagi e conflitti in forma creativa.
Tutto questo allo scopo di:
- Sperimentare modalità alternative di comportamento e strategie
della comunicazione e della creatività come presupposto per un
miglioramento delle relazioni degli operatori sanitari con i colleghi, il paziente, i familiari
- Facilitare l’espressione di sentimenti conflitti ed insicurezze, permettendone la presa di coscienza e l’elaborazione in chiave creativa ed eventualmente umoristica.
I contenuti sui quali focalizzarsi spaziano dalla relazione con la
malattia ed i ruoli del rapporto operatore sanitario-paziente, con particolare riguardo alle difficoltà ed alle problematiche specifiche di
ogni area; i concetti di congruenza, accettazione empatica, autorivelazione e comunicazione in prima persona; l’ascolto; gli aspetti psico268
sociali dell’ambiente sanitario con particolare riguardo alle principali
problematiche e conflittualità esistenti nelle relazioni col paziente e
con i suoi parenti ed accompagnatori; le relazioni con i colleghi nell’ambito del team operativo. Scopo di tale lavoro è la presa di coscienza di difficoltà di rapporto con il paziente e con i colleghi e degli effetti benefici di una corretta comunicazione sulle problematiche
personali e relazionali e sulla gestione dei conflitti interpersonali.
Le metodologie possono essere molteplici e in gran parte basate
sulla possibilità di utilizzare eventualmente strategie creative ed umoristiche beneficiando dei loro effetti fisiologici sull’organismo, sull’assetto psicologico e sulle relazioni. Esse potrebbero includere:
- Lezioni teoriche
- Laboratori di autocomunicazione ed autorivelazione
- Gruppi d’incontro favorenti la corretta comunicazione tra operatori
- Gruppi favorenti l’autoconsapevolezza e la capacità di elaborazione dei propri vissuti e dei propri disagi come operatori sanitari
- Esercizi e giochi di espressività psicocorporea
- Esercizi e giochi per l’acquisizione della fiducia e dell’affiatamento di gruppo
- Laboratori di composizioni creative: lettura umoristica e poesia
- Tecniche di rilassamento (distensione immaginativa e training autogeno)
- Percorsi di educazione alla salute, al senso della cura ed al significato esistenziale della sofferenza (vedi paragrafo seguente).
7. Educazione alla salute, senso della cura e significato esistenziale della sofferenza
…non era il dolore in sé il suo problema,
ma la mancanza di risposte al grido: perché soffrire?
(F. Nietzsche)
L’educazione alla salute è un capitolo fondamentale dell’educazione alla vita perché i due beni, salute e vita, sono profondamente interconnessi: l’equilibrio salute non può prescindere dalle scelte di vi269
ta. Da un punto di vista etico, educare alla salute e alla vita significa
educare al rispetto della dignità della persona umana che è caratterizzata dalle sue capacità, dalle sue abilità, dalle sue fragilità e dalla sua
apertura alla reciprocità e al dono. La salute è la risultante dall’equilibrio organico, relazionale e spirituale riferito alla persona umana
che è sostanza relazionale e unità psicofisica.
L’antropologia personalista, così attenta a sottolineare l’unicità
della persona come entità bio-psico-socio-spirituale, privilegia una
nozione olistica di salute e malattia, in cui concorrono ed interagiscono elementi corporei, psichici e spirituali senza dimenticare le
imprescindibili risonanze relazionali. Come la vita umana non può
essere ridotta alle sole dimensioni biologiche, ma è vita della persona nella sua multidimensionalità, così la salute non può essere ridotta all’una o all’altra delle dimensioni dell’uomo, ma è armonia
ed integrazione di tutte le energie personali, fisiche, psichiche e
spirituali.
L’affermarsi della nozione di qualità della vita mette in luce quanto la cultura postmoderna sia sensibile agli aspetti emotivi e relazionali dell’esistenza, di contro all’impostazione rigidamente intellettualistica o positivistica di epoche precedenti. In questo senso si tratta di
un elemento positivo, soprattutto se si tiene conto che ha spinto la
medicina a superare in molti casi il paradigma strettamente biomedico e a porsi nuovi traguardi, come quello di curare anche nell’impossibilità di guarire, ossia di assicurare una qualità della vita migliore
ad un malato cronico terminale.
Tuttavia, la nozione di qualità della vita ha il suo polo negativo e
mette in discussione il valore della vita stessa. In nome di una pretesa
qualità della vita, si può mettere in dubbio che un’esistenza segnata
da un handicap valga la pena di essere vissuta o negare che una malattia cronica renda ugualmente possibile una vita felice. In tale ottica
il peso psicologico della malattia aumenta perché la si vede sotto l’aspetto dell’inabilità e della perdita. Ne risulta aggravato anche il peso
morale, in quanto essa appare esclusivamente come un limite alla
propria libertà di volere e di potere, un evento sgradevole che è descritto come un fatto ma che resta non compreso nel suo significato.
Si omette di riflettere sulla fragilità che sempre limita l’essere umano
270
e sull’incapacità di dominare totalmente il corso naturale delle cose,
tralasciando la questione antropologica.
Per operare un’inversione di tendenza nel modo di intendere la
salute e la malattia occorre recuperare un maggiore spessore etico:
sia la capacità di interrogarsi sul senso, sul perchè profondo delle
proprie esperienze sia una più profonda consapevolezza del rapporto
che queste hanno con la propria libertà. È indispensabile allora affiancare all’approccio clinico e psicologico alla malattia, anche un approccio antropologico e morale.
Il nostro lavoro ha, per l’appunto, inteso fornire una visione d’insieme delle dimensioni biopsicosociali delle professioni di cura, al cui
interno curante e paziente possano sviluppare, recuperando il proprio bagaglio culturale e personale, un’immagine rinnovata della propria identità-professionalità.
Professionalità intesa come quotidiana esperienza di senso che si
esplica in atteggiamenti caratterizzati da dedizione, cura ed attribuzione di significato a persone ed eventi ad essa connessi. I quali, anche
in situazioni altamente drammatiche, sono sempre spunti di crescita,
a patto d’essere disponibili a coglierli come tali.
Il rabbino Hillel, personaggio vissuto nel II sec. A.C. (cit. in Frankl,
1997) si poneva 3 interrogativi fondamentali: 1) Se non lo faccio io, chi
lo farà?(sottolineando l’unicità e l’irripetibilità della persona); 2) Se
non lo faccio adesso, quando lo farò? (sottolineando l’unicità e l’irripetibilità del momento presente; 3) Se lo faccio solo per me stesso, chi sono
io?(sottolineando che l’io si realizza compiutamente e pienamente soltanto in un “tu”. Concetto straordinariamente espresso anche successivamente nel pensiero di Martin Buber, filosofo ebreo del ’900).
Star bene e star male hanno dunque senso esclusivamente in un
ambito di condivisione autentica: non si vive per essere sani o malati,
ma per riconoscere ed essere riconosciuti. In ultima analisi, per amare ed essere amati. Il dolore e la sofferenza, vissuti nella solidarietà
con gli altri diventano il perno di rotazione dal negativo al positivo.
A questo punto ci poniamo un altro interrogativo cruciale che “informa” tutto ciò che abbiamo finora detto. Chiunque viva in un contesto di cura non può fare a meno di chiedersi: è possibile dare un
senso alla sofferenza?
271
Nell’opera Homo patiens. Un’interpretazione umanistica della sofferenza, Viktor Frankl (1972) parla del significato esistenziale del dolore, con queste mirabili parole, che riportiamo fedelmente:
“Anche l’uomo semplice, l’uomo della strada conosce istintivamente il possibile significato della sofferenza e quindi il valore della
stessa capacità di soffrire: intuisce cioè tale capacità come un valore
(p. 100) Teniamo bene a mente questo: una sofferenza vera, coraggiosa, autentica è una prestazione (p. 100) Coraggio e consolazione
possono essere trasmessi anche da un ammalato agli altri ammalati e
perfino al medico che diventa lo specchio che riflette l’immagine
esemplare e figurativa dell’uomo ammalato che soffre e realizza una
prestazione con la sua rinuncia. Gli altri ammalati, rivolgendo il loro
sguardo verso questo specchio scoprono che niente è impossibile di
ciò che viene chiesto loro. Perciò che riguarda il medico personalmente, nella consapevolezza della possibilità o meglio nella consapevolezza dell’attuabilità di questa possibilità, egli si presenterà al malato ben diversamente, molto più convinto. E quindi avrà sul malato
una diversa efficacia: egli nella vita e nella sofferenza dell’altro scopre
le possibilità di risvegliare la volontà di significato.
Coraggio e consolazione ha ricevuto, coraggio e consolazione ha
da trasmettere… Chi non ha mai vissuto quest’esperienza: che attraverso la consolazione di un altro viene egli stesso consolato? Il dolore
per prima cosa può dunque essere una prestazione (p. 102-103).
La sofferenza però, purchè sia autentica, oltre che una prestazione
è anche una crescita. Prendendo su di me un dolore, accettandolo in
me, io cresco, sperimento un aumento di forza morale: si arriva ad un
specie di ricambio. Infatti l’essenza del ricambio è che la materia
grezza viene rimessa in forza. Lo stesso avviene, sul piano morale,
nella trasformazione di quel materiale grezzo che viene dato dal destino. Il sofferente non può più formare il suo destino dall’esterno;
ma proprio la sofferenza lo pone in grado di dominare il destino dall’interno in modo da trasportarlo dal piano fattivo al piano esistenziale. Io ho una malattia che non posso cambiare e sono posto dinanzi al quesito che cosa fare di tale malattia ed inizio con questo. E allora, mentre trasporto il fatto su un piano più alto pongo me stesso, la
mia propria esistenza, su un gradino superiore (p. 103) (…)
272
La sofferenza è una prestazione e una crescita. Ma essa è anche
una maturazione. Infatti l’uomo che cresce oltre sé stesso, si matura.
La vera e propria prestazione del dolore è dunque nient’altro che un
processo di maturazione (p. 104). L’uomo che soffrendo matura sé
stesso, matura di fronte alla verità. La sofferenza non ha solo dignità
etica ma anche una rilevanza metafisica. La sofferenza rende l’uomo
perspicace ed il mondo trasparente (105).
Ogni nostro tentativo di interpretazione metaclinica del significato del dolore porta alla conclusione che il calcolo dell’uomo sofferente si risolve nella trascendenza; nell’immanenza resta irrisolto (p.
163) (…). E la domanda sul significato del dolore? È lo stesso: chi –
al di qua di ogni credenza in un significato superiore – chiede quale
significato abbia il dolore, trascura che il dolore stesso è una domanda, e che siamo di nuovo noi ad essere interrogati, che l’uomo sofferente, l’Homo Patiens è colui che viene interrogato: non ha egli da interrogare, ma da rispondere, da dar soluzione al problema del dolore: egli ha da superare l’esame – deve rendere il dolore una prestazione (p. 163) (…)
Allora possiamo dire: nel modo come si prende si di sé il dolore
imposto – nel come si soffre sta la ragione del perché della sofferenza. Tutto dipende dalla posizione, dall’atteggiamento verso il dolore
– naturalmente verso un dolore necessario, destinato e proprio per
questo inondabile di significato, e dalla realizzazione dei valori di atteggiamento, resa possibile dal dolore. La risposta che l’uomo sofferente da alla domanda sul perché del dolore attraverso il come egli
lo sopporta è sempre una risposta senza parole; ma, al di là della fede in un sopra-significato, essa è l’unica risposta significativa. Un’ultima parola, non all’uomo sofferente ma all’uomo che avvicina il sofferente e soffre con lui: come il dolore, è significativo il vivere insieme, il soffrire insieme.
Ma anch’esso è significativo e silenzioso: il conforto ha dei limiti –
dove tutte le parole sarebbero ben poca cosa, là ogni parola è di troppo (p. 164)”.
Nemmeno noi aggiungiamo altro.
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Finito di stampare
nel mese di dicembre 2010
da Pensa Editore
280
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