L`universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un

F. S. E.
M. I. U. R.
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SASSARI
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
DIPARTIMENTO DI TEORIE E RICERCHE DEI SISTEMI CULTURALI
Dottorato Europeo di Ricerca in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia
e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna
Ciclo XIX
Coordinatore: Prof. Aldo Maria Morace
L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis
alla luce di un’analisi semantico-pragmatica
Tutor:
Prof. Paolo Maninchedda
Dottoranda:
Dott.ssa Romina Pala
ANNO ACCADEMICO 2007 - 2008
2
Ai miei nonni
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
3
INDICE
INTRODUZIONE
5
CAPITOLO I
LA NATURA DELLE PAREMÌE: VIAGGIO NELLA STORIA
DEGLI STUDI PAREMIOLOGICI
17
17
I.1.
Il proverbio: le difficoltà di una definizione
17
I.2.
Paremìe a confronto: proverbi ed espressioni idiomatiche
I.2.1. Paremìa: chiarimenti terminologici
I.2.2. Proverbio ed espressione idiomatica
I.2.3. La designazione metaforica come trato distintivo
I.2.4. La verità del proverbio: una proposta etimologica
I.2.5. Paremìe: l’inevitabilità dell’indeterminatezza
30
30
34
40
53
57
CAPITOLO II
LA DIMENSIONE
PROVERBIALI
59
PRAGMATICA
DELLE
FORMULE
II.1. Dalla semantica alla pragmatica del proverbio
II.1.1. E se tra il dire e il fare non ci fosse il mare? La
teoria degli atti linguistici e gli atti linguistici
indiretti
II.1.2. Il principio di cooperazione e l’implicatura
conversazionale
59
59
67
84
II.2. La formula proverbiale: microtesto e atto linguistico
90
CAPITOLO III
ANALISI DELLE PAREMÌE TRATTE DA ZIU PADDORI,
COMMEDIA IN TRE ATTI DI EFISIO VINCENZO MELIS
97
97
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
4
CAPITOLO IV
CONCLUSIONI
149
149
APPENDICE
Vrebu: un hápax e qualche osservazione fonetico-etimologica
154
154
BIBLIOGRAFIA
163
Dizionari
163
Studi descrittivi e teorici
166
Studi paremiologici
173
Studi di linguistica sarda
179
Dizionari e Raccolte di paremìe sarde
181
Opere letterarie
182
Enciclopedie e Opere di consultazione
183
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
5
INTRODUZIONE
Il lavoro che presentiamo è un’analisi di orientamento pragmalinguistico degli elementi paremìaci presenti nella commedia sardocampidanese Ziu Paddori, di Efisio Vincenzo Melis. Non si sono naturalmente trascurati gli aspetti di natura eminentemente semantica rilevati
nelle formule oggetto d’indagine.
La nostra disamina paremiologica nasce nella consapevolezza di
quanto l’àmbito di studi in cui le formule proverbiali si collocano, la
paremìologia, sia ampio e sfaccettato, costituendo un anello di congiunzione tra diverse discipline tra le quali la linguistica (in tutte le sue molteplici declinazioni: sociolinguistica, psicolinguistica, pragmalinguistica,
linguistica testuale, etnolinguistica) occupa, a nostro avviso, un ruolo
centrale, degno d’interesse anche per quanti si occupino di studi prevalentemente filologico-letterari e/o antropologici. Si pensi a titolo esemplificativo all’idea di letteratura di Sergio Atzeni quale manipolazione
della lingua: «Secondo me la letteratura è il paese della lingua. Quello che
si fa in letteratura è manipolare la lingua ai fini della comunicazione»1.
Come ci permette di constatare Luigi Matt, Atzeni rivendica l’importanza
fondamentale che gli strumenti linguistici assolvono nell’officina dello
scrittore, evidenziando il carattere estremamente non naturale dell’espressione letteraria: essa è bensì la risultante di un «attento esercizio
stilistico (il manipolare) e non certo una semplice trasposizione su carta di
G. SULIS, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verità. Intervista a Sergio Atzeni, «La grotta
della vipera», n. 66-67, 1994, pp. 34-41 (p. 39), cit. in L. MATT, “La mescolanza spuria degli
idiomi”: Bellas mariposas di Sergio Atzeni, «Nae», anno VI, n. 20/2007, pp. 43-47, (p. 43).
1
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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una forma comunicativa spontanea»2, per quanto spontanea e verosimigliante possa essere la lingua con cui l’autore dà vita ai personaggi.
La linguistica, ancora una volta, si offre quale utile parametro
d’investigazione per rilevare aspetti eminentemente estetici della lingua.
Permettendoci, a nostra volta, di manipolare idealmente un noto testo di
Valerio Magrelli3, potrebbe dirsi che la letteratura abiti la linguistica come
un tranquillo possidente le sue terre, e che altrettanto la linguistica faccia
con la letteratura.
La ricerca è stata condotta seguendo due direttrici portanti:
• Si è proceduto alla lettura, analisi e approfondimento di testi di carattere generale, suddivisibili più specificatamente in: a) studi teorici indispensabili a implementare le conoscenze relative alla natura logicolinguistica delle paremìe: questi hanno permesso di sondare le problematiche a esse relative sotto una luce prevalentemente semiotica e
semantica, a partire dal testo di A. Taylor, The Proverb, sino alle più recenti acquisizioni psicolinguistiche che concordano con il concetto
della designazione metaforica indagato da L. Agostiniani in Semantica e
Referenza nel proverbio4; b) studi teorici essenziali per acquisire le adeguate competenze per la disamina pragmatica delle formule proverbiali, a partire dagli studi dei filosofi del linguaggio quali, tra gli altri,
Si veda L. MATT, “La mescolanza spuria degli idiomi”: Bellas mariposas di Sergio Atzeni, «Nae», anno VI, n. 20/2007, pp. 43-47, (p. 43).
2
V. MAGRELLI, Poesie (1980-1992) e altre poesie, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1996, p.
24: Io abito il mio cervello/come un tranquillo possidente le sue terre./Per tutto il giorno il
mio lavoro/è nel farle fruttare,/il mio frutto nel farle lavorare./E prima di dormire mi affaccio a guardarle/con il pudore dell’uomo/per la sua immagine./Il mio cervello abita in
me/come un tranquillo possidente le sue terre.
3
L. AGOSTINIANI, Semantica e Referenza nel proverbio, «Archivio glottologico italiano»,
LXIII, 1978, pp. 78-109.
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J. L. Austin, P. Grice e J. R. Searle, sino alla proposta di focalizzazione su una teoria della pertinenza, avanzata da Sperber e Wilson5. Da
queste letture traggono origine i capitoli I e II.
• È stato fatto un censimento delle paremìe nei testi letterari, scritti in
sardo campidanese, la cui lingua riflette le movenze dell’oralità (dimensione privilegiata dagli elementi paremìaci); si è fatto riferimento,
in particolare, ai testi teatrali, senza tuttavia trascurare di prendere in
considerazione anche alcuni racconti caratterizzati dalla presenza importante di discorsi diretti, in quanto anche essi, così come i testi teatrali, potenzialmente rappresentativi di condizioni di lingua vicine a
quelle naturali di testi linguistici di tipo conversazionale. È bene tuttavia evidenziare come, essendo la quantità di paremìe riscontrate nei
testi teatrali di gran lunga superiore a quella rilevata nei testi narrativi,
la nostra attenzione si sia focalizzata principalmente sui primi e in seconda istanza, sulle paremìe presenti nello Ziu Paddori di Melis. In tale
testo, considerato all’unanimità la più famosa delle farse campidanesi,
nonché probabilmente a tutt’oggi quella più rappresentata, si è notato
un interessante uso retorico-stilistico delle paremìe (registrato nella
parte del testo in cui è rappresentata la diatriba linguistica tra il protagonista, il pastore-sardofono Paddori, e l’antagonista, il commerciante-italofono Gervasio): il proverbio, la citazione proverbiale per eccellenza, è usato in tutte le occorrenze quale chiusa finale di sequenze di
espressioni idiomatiche costituenti un crescendo comunicativo che
viaggia dall’implicito (alluso nelle espressioni idiomatiche) all’explicit
SPERBER D., WILSON D., Relevance, Harvard University Press, Cambridge (Mass.),
1995; trad. it. La teoria della pertinenza, Anabasi, Milano, 1993.
5
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della citazione proverbiale. Tale espediente delle isotopie paremìache
non fa che accrescere la forza illocutoria della proverbialità che, in tali
casi, suscitando un effetto comico-umoristico, è sempre usata per
creare un vincolo, un’alleanza tra il protagonista Paddori e l’uditorio
(sulla base della condivisa competenza comunicativa). Risultato di tale
analisi è il III capitolo.
L’indagine si apre con un paragrafo introduttivo intitolato Il proverbio: le difficoltà di una definizione. In tale parte della trattazione si è messa in
evidenza la problematicità insita nella ricerca paremiologica, evidenziata,
già nel 1931, da Archer Taylor, considerato all’unanimità il padre della
paremiologia moderna.
Nell’informare su come tale argomento sia stato trattato dagli albori
degli studi paremiologici6 fino ai nostri giorni, si cerca di dimostrare la
ragione per cui, ancora oggi, non si possano trascurare i presupposti
tayloriani dell’indefinibilità proverbiale. Il paragrafo I.2. (Paremìe a confronto: proverbi ed espressioni idiomatiche) intende gettare luce sulle differenze
esistenti tra le varie unità fraseologiche oggetto d’indagine, operazione
non semplice in cui si è tenuto conto, per quanto possibile, della bibliografia internazionale esistente e, in ultima istanza, dell’intelligenza di un
testo, a nostro avviso insuperato, di Luciano Agostiniani7; naturalmente
per fare ciò è stato assolutamente imprescindibile soppesare con cura la
valenza semantica della terminologia usata dai paremiologi nelle loro
diverse lingue (cfr. I.2.1.), onde evitare ingestibili omonimie (es.: paremia
S’intendano quelli condotti seguendo un rigoroso metodo scientifico di analisi e quindi quelli prodotti dal 1931, data di pubblicazione di The proverb di A. Taylor, in poi.
6
7
Si veda L. AGOSTINIANI, op. cit.
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Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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del castigliano e paremìa dell’italiano non sono sinonimici). In I.2.3. si
evidenzia come le idee di Agostiniani sulla designazione metaforica,
espresse nel 1978, trovino riscontro nelle interessanti teorie psicolinguistiche che dagli anni novanta del secolo scorso hanno visto Richard
Honeck in prima linea; in esse il concetto di designazione metaforica
assurge quale utile parametro classificatore tra le due principali variabili
paremìache in esame, ossia proverbi ed espressioni idiomatiche.
Un approccio di tipo etimologico ha inoltre permesso di rivelare interessanti connessioni tra l’idea ricorrente di verità, che spesso emerge
anche qualora si chieda a un parlante cosa sia il proverbio, e quella di
proverbialità tout court, indagando sul rapporto verbum/vērus (cfr. paragrafo
I.2.4. La verità del proverbio: una proposta etimologica).
Gli strumenti pragmalinguistici usati durante l’analisi sono esposti
nel capitolo II, dal titolo La dimensione pragmatica delle formule proverbiali.
L’anello di raccordo tra le tematiche trattate nel I capitolo e quelle del II
è costituito dal paragrafo di apertura, Dalla semantica alla pragmatica del
proverbio, in cui emergono i punti di vista di alcuni filosofi del linguaggio
che tentano di separare la sfera dei fenomeni semantici da quella dei
fenomeni prettamente pragmatici, entrambi necessari alla «felicità» del
nostro lavoro. Di seguito (nel paragrafo II. 1.1.) è stata esposta la teoria
degli atti linguistici in dimensione diacronica: dai primi cardini di Austin
sino alla sistematizzazione di Searle (ne consegue che dire è sempre agire);
attenzione particolare si è posta all’analisi degli atti linguistici indiretti,
evidenziando come vi sia disaccordo tra gli studiosi nell’individuarli; per
esempio non tutti concordano nel fatto che le espressioni idiomatiche lo
siano (diatriba Searle-Casadei: Casadei discute in particolare se la permaRomina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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nenza o meno del significato letterale nell’atto indiretto sia un utile parametro classificatore dello stesso, come proposto da Searle)8. Si concluderà la trattazione proponendo la teoria della pertinenza di Sperber e
Wilson9 come utile soluzione al problema. In II. 1.2. è affrontato il tema
della cooperazione razionale che regola la comunicazione (principio di
cooperazione di Grice10); esso si basa su quattro massime la cui violazione crea delle implicature conversazionali atte ad assicurare il manifestarsi
dell’intenzione comunicativa del parlante a partire dall’espressione letterale dell’enunciato interagente con il contesto. Infine in II. 2. si passano
in rassegna le opinioni di alcuni studiosi sulla natura pragmatica delle
formule proverbiali; è messa in risalto l’opinione di Corpas Pastor11 sulle
potenzialità illocutorie delle paremìe; la studiosa ritiene che i proverbi
possano essere classificati come direttivi (hanno cioè l’intenzione di indurre il ricevente a fare o non fare qualcosa) e rappresentativi (hanno
l’intenzione di esprimere una valutazione generalmente negativa su uno
stato di cose): a nostro avviso, in ultima analisi, il proverbio è sempre
connotato da una spinta direttiva, indotta, nel caso dei rappresentativi,
dal giudizio negativo che viene avvertito come verdetto comunitario12.
Cfr.: F. CASADEI, Metafore ed espressioni idiomatiche. Uno studio semantico sull’italiano, Bulzoni Editore, Roma, 1996; J.R. SEARLE, Atti linguistici indiretti, in M. Sbisà (a cura di), Gli atti
linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio, Feltrinelli, Milano, 1995, pp. 252-280.
8
9
D. SPERBER, D. WILSON, op. cit.
H.P. GRICE, Logica e Conversazione, in M. Sbisà (a cura di), Gli atti linguistici. Aspetti e
problemi di filosofia del linguaggio, cit., pp. 199-219.
10
11
G. CORPAS PASTOR, Manual de fraseología española, Editorial Gredos, Madrid, 1996.
Cfr. a tale proposito anche quanto affermato in R.D. ABRAHAMS, B.A. BABCOCK, The
literary use of proverbs, «Journal of American Folklore», vol. 90, 1977, pp. 414-429, (p. 415).
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11
Il confronto con la teatralità ci porta a fare alcune considerazioni
preventive. Non possiamo tralasciare di dire che il testo drammaturgico,
generalmente, è scritto per essere messo in scena; si autoalimenta di
oralità e prende vita nella dimensione orale (in cui sono compresenti
emittente e destinatario del messaggio, e il feedback è quindi immediato);
nella sua fase rappresentativa può chiaramente subire lievi modifiche e,
come sostiene l’antropologo G. Angioni (nell’Introduzione a Ziu Paddori)13,
dovrebbe subirne per essere adattato di volta in volta ai differenti contesti spazio-temporali in cui si ri-attualizza. Dal canto nostro, in un’ottica
eminentemente filologica, ci permettiamo di esprimere qualche riserva su
tale idea di natura performativa necessariamente mutabile del testo teatrale.
Si è inoltre tenuto conto delle considerazioni del regista e teorico
del teatro Grotowski, il quale afferma: «Può esistere il teatro senza spettatori? Ce ne vuole almeno uno perché si possa parlare di spettacolo. E
così non ci rimane che l’attore e lo spettatore. Possiamo perciò definire il
teatro come ciò che avviene tra lo spettatore e l’attore. Tutto il resto è
supplementare – forse necessario, ma supplementare»14. D’altro canto,
seppur il testo teatrale non dovesse venire rappresentato esso avrebbe,
come qualsiasi altro testo letterario, la sua ragion d’essere nel momento
in cui entra in gioco il lettore15. Alla luce della presenza di questo spettaCfr. G. ANGIONI, Introduzione a E.V. MELIS, Ziu Paddori, a cura di G. Angioni, Edes,
Sassari, 1977, p. 9.
13
14
Si veda J. GROTOWSKI, Per un teatro povero, Bulzoni, Roma, 1970, p. 41.
Tale concetto sembra riecheggiare a più riprese anche nelle considerazioni di De Marinis: cfr. M. DE MARINIS, Visioni della scena. Teatro e scrittura, Laterza, Roma-Bari, 2004. Si
tenga anche presente quanto espresso da F. BRIOSCHI, C. DI GIROLAMO, Elementi di teoria
letteraria, Principato, Milano, 1984, p. 216, concludendo una disquisizione sul rapporto tra
15
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tore, e per così dire, attraverso i suoi occhi si è valutato sia l’aspetto intenzionale sia l’effetto delle paremìe che E.V. Melis fa enunciare ai suoi
personaggi: è tra queste due entità, personaggio e spettatore (o personaggio e
lettore), che si stringe il patto di cooperazione conversazionale, tenuto ben
saldo dalla condivisione della medesima competenza comunicativa.
Gli atti linguistici spiccatamente paremìaci – che in quanto tali, assurgono a unità minime di significazione – risultanti da tale interazione
conversazionale sono stati analizzati nella loro triplice essenza di atti
locutori, illocutori e perlocutori e dunque sotto una lente non solo semantica ma eminentemente pragmatica: solo dopo un livello d’analisi che
consideri l’atto linguistico in tutti i suoi aspetti può emergere il valore
comunicativo del testo.
A questo punto è bene sottolineare come i concetti di atto linguistico e di testo siano strettamente correlati (e, per una vera ermeneutica del
senso, non si può che considerarli tali), secondo i moduli della linguistica
testuale, disciplina che strettamente interconnessa alla pragmalinguistica,
a partire dagli anni settanta del secolo scorso, postula un’esegesi del testo
imprescindibilmente extra-frasale, al di là di un’ottica strutturalista e
generativo-trasformazionale, che sull’individuazione degli aspetti illocutori e perlocutori dello speech act si fonda. In primis, secondo Conte16, vera
essenza della testualità è la coerenza: si può parlare di testo se, e solo se,
esista una coerenza testuale. Prova ne sia il fatto che anche frasi di per se
teatro e letteratura: «Resta in ogni caso, nella millenaria storia del teatro, una continua tensione, di volta in volta sommariamente mascherata ma mai risolta, tra rappresentazione e parola».
M.E. CONTE, Coerenza testuale, «Lingua e stile», 15, 1980, pp. 135-154,
DORNO, Linguistica testuale. Un’introduzione, Carocci, Roma, 2005, pp. 17 e ss.
16
cit. in C. AN-
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Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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stesse non informative o contraddittorie possono conservare lo status di
testi (es.: Pericle, ateniese, dichiarò: «Tutti gli ateniesi sono bugiardi»).
Dalla coerenza, quale vera quidditas di testualità, alla teoria della pertinenza di Sperber e Wilson, lo scarto concettuale non è poi così ampio: se per
Conte nell’individuare il valore comunicativo del testo, assume la massima importanza il lavoro interpretativo del ricevente rispetto al significato
letterale del testo per cui il lettore/ascoltatore è l’unico in grado di interpolare tutti gli elementi a sua disposizione – sia quelli testuali sia quelli
extra-testuali (inferenziali, dunque: è il caso delle implicature conversazionali) – sino al recupero del vero senso, negli studi pragmatici più recenti di Sperber e Wilson, che dai presupposti inferenziali griceani prendono il via, occupano un ruolo centrale gli aspetti pragmatico-cognitivi
del linguaggio. In sostanza, per i due pragmatisti, se il messaggio
dell’emittente si pone in contraddizione con le aspettative e le convinzioni del ricevente, esso verrà valutato come non attinente al contesto
(quindi incoerente) e sarà, dunque, reinterpretato affinché in quel determinato contesto possa acquisire pertinenza e rilevanza.
Solo tenendo conto di tali presupposti si potrà, per esempio, far
emergere il senso ironico di un micro-atto linguistico (l’enunciato paremìaco che si pone come intesto) con forti ripercussioni sull’ermeneutica
dell’intero macro-testo (la commedia oggetto della nostra analisi paremiologica), che consentirà di gettare luce su aspetti interpretativi di natura socio-linguistica fino a ora rimasti in ombra: questo è quanto emerge
dalle conclusioni del nostro lavoro.
Soffermiamoci ora a considerare lo strumento linguistico con cui
Melis, «manipolando» la lingua, crea il testo. Tenendo conto della suddiRomina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
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visione dialettale e sub-dialettale del sardo proposta da Maurizio Virdis17,
si tratta della varietà di sardo meridionale nota come campidanese centro-occidentale, e più specificatamente della sua micro-varietà trexentese,
cioè della Trexenta, regione storica della Sardegna meridionale confinante a nord con la Marmilla e il Sarcidano, a est con il Gerrei, a sud con il
Parteolla, mentre ad ovest si estende la zona pianeggiante del Campidano
di Sanluri. Tale parlata è dunque quella usata nel paese d’origine
dell’autore, Guamaggiore, ed è sicuramente quella a lui più nota, ergo
quella più facilmente plasmabile ai fini artistici. Vediamo le peculiarità
fonetiche che consentono di distinguere tale varietà da quelle del campidanese generale18:
- trattamento dell’originaria laterale latina intervocalica, che tende al
grado zero, attraverso i foni intermedi ƀ (in prossimità di vocali
aprocheile) e w (in contesto vocalico velare, in particolare a contatto con una -u)19. Facciamo qualche esempio:
MALA > máƀa; MALU > *máwu > máu20;
Si veda M. VIRDIS, Sardisch: Areallinguistik, Aree linguistiche, in Lexikon der Romanistischen Linguistik, herausgegeben von G. Holtus, M. Metzeltin, C. Schmitt, IV, Tübingen, 1988, pp. 906-907.
17
Per la trascrizione fonetica ci si è attenuti rigorosamente a quella del DES (= M.L.
WAGNER, Dizionario Etimologico Sardo, 3 voll., Winter, Heidelberg, 1960-1964). Negli altri casi
si è fatto, generalmente, riferimento alle norme ortografiche proposte da Mario Puddu nel
suo dizionario: M. PUDDU, Ditzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda, Condaghes, Cagliari,
2000 (fanno eccezione le citazioni da autori che non si attengono alle norme di Puddu; ne
sono un esempio quelle da Melis).
18
Cfr. M. CONTINI, Etude de géographie phonétique et de phonétique instrumentale du sarde, vol.
I., Edizioni dell’Orso, Alessandria, 1987, pp. 354-355. Può essere utile ricordare che mentre
per Contini lo stadio fricativo bilabiale rappresenta un rafforzamento del primitivo stadio
semiconsonantico labiovelare, Virdis parla invece dell’esito semiconsonantico come di uno
stadio evolutivo successivo, in cui il processo di spirantizzazione è più accentuato (cfr. M.
VIRDIS, Fonetica del dialetto sardo campidanese, Della Torre, Cagliari, 1978, p. 55).
19
Si tenga presente che Wagner parla di probabile esito costrittivo bilabiale in prossimità di vocali palatali e di probabile esito costrittivo bilabiovelare in contesto vocalico velare;
specifica inoltre che possono occorrere forme che a tale regola fanno eccezione: tali «confu20
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15
- trattamento dell’originaria nasale alveodentale latina intervocalica
che, soprattutto se occorrente in sillaba postonica, dilegua nasalizzando le vocali contigue; per esempio, alla forma káni dell’area
campidanese non nasalizzante qui corrisponde la forma kã́ĩ 21.
Per ciò che concerne il vocalismo, sappiamo che il campidanese è
caratterizzato da una discreta alterazione delle vocali atone (dovuta sia a
fenomeni assimilatori e dissimilatori, nonché all’influsso delle consonanti
contigue) e dalla propensione alla centralizzazione vocalica22.
In tale area l’attitudine a centralizzare i vocoidi è particolarmente
evidente soprattutto nel trattamento di -a finale di parola, dove si registra
il passaggio -a > -ə.
Le formule paremìache oggetto della nostra disamina sono accompagnate da una traduzione strettamente letterale (ma quando necessaria
anche da una traduzione più libera) in italiano e commentate, come già
ricordato, sia dal punto di vista semantico sia da quello pragmatico. Naturalmente, qualora necessarie, si è provveduto a fornire informazioni di
natura meramente fonetica, quando non anche etimologica. Pensiamo, a
esempio, al caso di varianti particolari come nella paremìa (Pàtti’ su) mab’
’e cadupu, (cfr. III capitolo, pp. 117-119) dove compare una forma inattesa rispetto alla prevista maƀiǥađúk(k)u .
sioni» sono giustificate come risultanti dall’estensione analogica di esiti sorti in contesti che
presentavano sia la vocale velare, sia la palatale: cfr. HLS (= M.L. WAGNER, Fonetica storica
del sardo, introduzione, traduzione, appendice di G. Paulis, Trois, Cagliari, 1984), p. 202, §
187.
21
Cfr. M. CONTINI, op. cit., pp. 453-457.
Cfr. G. PAULIS, Introduzione a HLS, p. XXIII e M. VIRDIS, op. cit., p. 30. Si tenga conto che la centralizzazione interessa anche le vocali toniche campidanesi, come è stato evidenziato dagli studi strumentali effettuati da CONTINI (op. cit., pp. 450-453).
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16
Quando i dizionari e i repertori paremiografici non sono stati utili
(o perché non contenevano il macrolemma cercato o perché la spiegazione era poco esaustiva) alla decodifica del senso d’uso, contestuale,
delle paremìe intessute da Melis, ci siamo avvalsi della collaborazione di
diversi informatori23, i quali sono stati invece fonte primaria per
l’interpretazione dei proverbi tout court, considerata la loro natura polisemica o capacità metamorfica nell’acquisizione dei significati.
Infine, dal confronto tra il designatum metaforico di langue, ossia
quello codificato della paremìa (o emerso dai testi o risultato dal dialogo
con gli informatori) e il designatum metaforico di parole che la paremìa
assume nel nostro testo sono nate le osservazioni che tracciano la disamina.
È affiorato così il reale intento comunicativo dei singoli atti linguistico-paremìaci enunciati dai personaggi di Melis, e in seconda analisi si è
palesata un’inattesa forza persuasiva intessuta, quasi ricamata, nell’atto
drammaturgico24.
Elenchiamo qui di seguito gli informatori principali divisi per località: Guamaggiore:
A.M.A., 1937, pensionata (casalinga), III elementare; A.P., 1936, pensionato (bracciante
agricolo), III elementare; O.S., 1920, pensionato (bracciante agricolo), analfabeta; G.A., 1920,
pensionata (bracciante agricola), analfabeta. Guasila: C.F., 1936, pensionato (imprenditore
agricolo), V elementare; M.F., 1968, muratore, licenza media; F.E., 1971, casalinga, licenza
media; A.U., 1932, pensionata (casalinga), V elementare; M.A., 1969, impiegata, laurea.
Barrali: G.P., 1943, imprenditore, V elementare; B.L., 1958, casalinga, V elementare; E.U.,
1936, pensionata (bracciante agricola), analfabeta; V.Z., 1934, pensionata (casalinga), III
elementare; L.F., 1929, pensionato (bracciante agricolo), analfabeta; S.C., 1971, casalinga,
diploma.
23
A tale proposito si vedano sia le osservazioni conclusive (IV capitolo) sia quanto rilevato in Appendice.
24
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
17
CAPITOLO I
LA NATURA DELLE PAREMÌE: VIAGGIO NELLA STORIA
DEGLI STUDI PAREMIOLOGICI
I.1. IL PROVERBIO: LE DIFFICOLTÀ DI UNA DEFINIZIONE
Uno dei più illustri paremiologi viventi, Wolfgang Mieder, professore all’Università del Vermont, e curatore della rivista «Proverbium», sostiene che sia opinione diffusa, e generalmente accettata, ritenere il proverbio la più piccola forma verbale del folklore, e questo autorizzerebbe
alcuni a trarre la conclusione che si tratti anche della più semplice forma
verbale prodotta da una comunità linguistica1. Naturalmente la realtà è
ben diversa. Tutti coloro che nel corso degli anni si sono occupati di
paremiologia2 hanno tentato di dare una propria definizione di proverbio, non giungendo mai a niente di risolutivo. Pare infatti che ancora
oggi sia possibile affermare quanto dichiarava il padre della paremiologia
moderna, Archer Taylor, nel 1931: «An incommunicable quality tells us
this sentence is proverbial and that one is not»3. L’intento dello studioso
Cfr. W. MIEDER, D. HOLMES, Children and proverbs speak the truth. Teaching proverbial wisdom to fourth graders, supplement series of «Proverbium», Yearbook of International Proverb
Scolarship, vol. 7, The University of Vermont, Burlington, Vermont, 2000, p. 83.
1
Si fa riferimento, in modo particolare, ai più importanti studi paremiologici prodotti
dal 1931, anno di pubblicazione di The Proverb di Archer Taylor, considerato all’unanimità il
primo studio condotto secondo un rigoroso metodo scientifico, fino ai nostri giorni.
2
3
A. TAYLOR, The proverb, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, 1931, p. 3.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
18
è stato quello di fare un’analisi sistematica sulle origini e la diffusione del
proverbio, le diverse tipologie e i dettagli dello stile proverbiale.
Nell’impossibilità di dare una definizione, e dichiarando che «the definition of a proverb is too difficult to repay the undertaking», Taylor scrive
un volume di oltre 200 pagine nel tentativo di elaborarne una propria; si
tenga presente che in quegli anni le conoscenze relative alla natura delle
paremìe sono decisamente scarse: «We know little or nothing of the
origin, dissemination, and literary style of proverbs. Books give us curious and often unreliable information on these matters, although rarely
systematically or in such a fashion as to permit or encourage the reader
to look farther». Tuttavia, fin dalla prima pagina, il testo ci invita ad accontentarci di sapere che a proverb is a saying current among the folk4, come ad
ammettere già in partenza la rinuncia a una definizione esaustiva e soddisfacente. Dopo oltre trent’anni, nel 1967, Taylor5 tornerà sull’argomento:
«I am as doubtful today as I was then about the usefulness of a brief
definition. Defining a proverb seems to me to be an altogether different
matter from defining a fox or a rose».
Malgrado il punto di vista dell’illustre paremiologo, si potrebbe dire,
con Wolfgang Mieder6, che esistono oggi più definizioni che proverbi;
chiaramente si tratta di una dichiarazione iperbolica, una provocazione;
tuttavia, se si pensa a quanto è stato scritto al riguardo, non si è nemmeno tanto lontani dal vero.
4
A. TAYLOR, op. cit., p. 3.
Si veda A. TAYLOR, The collection and study of proverbs, in W. Mieder (ed.), Selected writings
on proverbs, Academia Scientiarum Fennica, Helsinki, 1975, p. 84.
5
6
Cfr. W. MIEDER, D. HOLMES, op. cit., pp. 83-84.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
19
Nel 1932, a un anno di distanza dalla data di pubblicazione di The
Proverb, appare The Nature of the Proverb7. L’autrice, Barlett Jere Whiting,
mette a punto una lista di definizioni di proverbio da lei registrate da
Aristotele in poi. Tale lavoro culmina in una definizione personale che
intende rappresentare la summa di quelle catalogate:
A proverb is an expression which, owing its birth to the people, testifies to its origin in form and phrase. It expresses what is apparently a
fundamental truth – that is a truism – in homely language, often
adorned, however, with alliteration and rhyme. It is usually short, but
need not to be; it is usually true, but need not to be. Some proverbs have
both a literal and a figurative meaning, either of which makes perfect
sense; but more often they have but one of the two. A proverb must be
venerable; it must bear the sign of antiquity, and, since such signs may be
counterfeited by a clever literary man, it should be attested in different
places at different times. This last requirement we must often waive in
dealing with very early literature, where the material at our disposal is incomplete8.
Tale definizione, sintesi dell’analisi della studiosa americana, è una
reazione alla dichiarazione tayloriana sull’impossibilità di darne una concisa e soddisfacente. Tant’è che il maestro della paremiologia moderna,
come già accennato, scrive The Proverb concependo l’intero testo come un
tentativo di definizione. Ad ogni modo, la dichiarazione d’indefinibilità
del genere proverbio è divenuta a sua volta proverbiale, dal momento
che ricorre continuamente negli incipit dei testi paremiologici e costituiB.J. WHITING, The Nature of the Proverb, «Harvard Studies and Notes in Philology and
Literature», 14, 1932, pp. 273-307.
7
8
B.J. WHITING, op. cit., p. 302.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
20
sce, per quasi tutti gli addetti ai lavori, un punto di partenza, risultando
come una sorta di sintesi tra la captatio benevolentiae e la excusatio non petita:
nell’ammettere la propria incapacità nel dipanare una matassa che diventa
negli anni sempre più intricata, ci si giustifica ricordando che neppure il
maestro insuperato della paremiologia moderna è stato in grado di farlo,
neanche a fine carriera. Ci si rimette, dunque, nelle mani della tradizione.
Esattamente quello che si fa quando si usa un proverbio.
Cercheremo di capire quanto di vero ancora ci sia nella celebre dichiarazione di Taylor.
Tenendo conto della necessità di prendere in considerazione quello
che Gaetano Berruto definisce il sentimento linguistico dei parlanti nativi9,
diversi paremiologi hanno avuto modo di interrogare i parlanti su cosa
essi intendano per proverbio e i risultati sono stati spesso interessanti;
Wolfgang Mieder, per esempio, è riuscito a raccogliere ben 55 diverse
definizioni ed è giunto alla conclusione che si può assolutamente concordare con Archer Taylor nel dire che la gente sembra avere un’idea
davvero precisa su cosa sia un proverbio. Dall’analisi di tali definizioni, e
basandosi sulla ricorrenza di alcune parole, Mieder ne formula altre due
che riportiamo integralmente:
a) “A proverb is a short generally known sentence of the folk which
contains wisdom, truth, morals and traditional views in a metaphorical,
fixed and memorizable form and which is handed down from generation
to generation”;
Si veda L. CIMARRA, F. PETROSELLI, Proverbi e detti proverbiali della Tuscia Viterbese, Cultura subalterna, Viterbo, 2001, n. 4, p. 113.
9
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
21
b) “A proverb is a short sentence of wisdom”10.
L’illustre paremiologo dell’University of Vermont constata che la
prima definizione ricorda quella di B. J. Whiting, mentre la seconda non
si discosta troppo da quella formulata, con un “invito ad accontentarsi”,
da A. Taylor, ovvero a proverb is a saying current among the folk. Tuttavia, è
opportuno rimarcare che la somiglianza tra a proverb is a short sentence of
wisdom e a proverb is a saying current among the folk è piuttosto relativa dal
momento che manca nella prima quell’acuta consapevolezza dell’importanza della circolazione e della diffusione dell’elemento proverbiale,
presente e centrale, anche icasticamente, nella definizione tayloriana con
la forma aggettivale current.
Anche nel lavoro di Cimarra e Petroselli11, si dedica spazio al punto
di vista dei parlanti: la parte iniziale del corpus di proverbi e motti proverbiali della Tuscia Viterbese è infatti dedicata ai “Proverbi sui proverbi”, dai quali può emergere il concetto di proverbialità dei fruitori del
codice retorico; citiamo a titolo esemplificativo i proverbi dikino vero, oppure l proverbjo nu sbajja mae12. Tale insistenza sul concetto di verità torna
anche nei proverbi sui proverbi anglosassoni raccolti e citati da W.
Mieder: Common proverbs seldom lies, Every proverb is truth, Old proverbs are the
children of truth, ma non solo: All the good sense of the world runs into proverb,
Proverbs are the children of experience, oppure Proverbs are the wisdom of the street;
sì che il paremiologo dell’Università del Vermont conclude: «It appears
that to the mind of proverb users, that is, the general population in all
10
W. MIEDER, D. HOLMES, op. cit., p. 85.
11
L. CIMARRA, F. PETROSELLI, op. cit.
12
Ibid., p. 127.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
22
walks of life, proverbs contain a good dose of common sense, experience, wisdom, and above all truth»13.
Tuttavia, le definizioni innanzi citate possono soddisfare i fruitori
dei proverbi, ma non gli studiosi che, da Taylor in poi, hanno cercato
insistentemente una soluzione al problema dell’indefinibilità. Dare una
risposta esaustiva e quindi risolutiva alla domanda “che cosa è un proverbio?” è impresa assai ardua, come osserva anche Giorgio Raimondo
Cardona in Introduzione all’etnolinguistica: «La tradizione di raccogliere proverbi è antica […], ma quanto a definizioni non si saprebbe cosa indicare,
giacché tutte le definizioni proposte sono insufficienti»14. C’è da dire,
inoltre, che sebbene le definizioni metaproverbiali non soddisfino gli
studiosi, non è detto che non possano, in qualche modo, tornare utili:
l’esistenza stessa dei proverbi sui proverbi evidenzia che la necessità di
fare luce sulla natura misteriosa dell’oggetto del nostro studio è stata
avvertita in primis dagli stessi fruitori. Quelle definizioni dicono qualcosa
sull’intenzione con cui i proverbi vengono usati: indicare una verità,
dettare una norma comportamentale, evidenziare i principi a cui uniformare la propria condotta.
In tanti, si è detto, hanno provato a cercare la chiave della proverbialità, ma probabilmente quello che si è avvicinato di più alla soluzione
del dilemma resta Archer Taylor: il proverbio è indecifrabile e indefinibile perché tale è uno dei suoi tratti distintivi, ovvero la “tradizionalità”15. È
13
Si veda W. MIEDER, D. HOLMES, op. cit., p. 86.
14
Si veda G.R. CARDONA, Introduzione all’etnolinguistica, Il Mulino, Bologna, 1976, p. 193.
Per ciò che concerne il proverbio as a traditional item of folklore, si tenga presente
l’interessante trattazione di N.R. NORRICK, How proverbs mean. Semantic studies in English proverbs, Mouton Publishers, Berlin, New York, Amsterdam, 1985, pp. 28-30.
15
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
23
l’incapacità di misurare e definire tale elemento a rendere indefinibile il
proverbio:
«The term “traditionality” includes both aspects of age and currency
that a statement must have to be considered a proverb. But while we can
describe the structure, style, form, and so on, of proverbs in great detail,
we cannot determine whether a statement has a certain age or currency
among the population by the text itself. It will always take external research work to establish the traditionality of a text, and this means that
even the most precise definition attempt will always be incomplete»16.
Dunque l’appartenenza a una certa tradizione culturale e linguistica
è un tratto distintivo portante della proverbialità, il quale non può mancare in una definizione rigorosa o quanto meno utile di paremìa: il tramandarsi dell’uso della stessa formula proverbiale di generazione in generazione, in una data comunità, è necessario affinché si possa parlare
del suo riconosciuto valore linguistico, e dunque di iscrizione della stessa
a un codice retorico che postuliamo in ogni linguaggio storico17.
Chiaramente tale status di appartenenza a una data tradizione non è
un elemento immediatamente identificabile né misurabile, così come lo
sono altri aspetti formali o semantici che caratterizzano le paremìe. Questo fatto è immediatamente percepibile quando si legge un testo in una
lingua poco nota, con il codice retorico della quale non si ha familiarità.
«If someone were to write a statement on a piece of paper with many
W. MIEDER, D. HOLMES, op. cit., pp. 86-87. Le stesse problematiche sono trattate da
S. L. ARORA, The perception of proverbiality, «Proverbium», 1, 1984, pp. 5 e ss.
16
A tale riguardo si veda anche T. FRANCESCHI, La formula proverbiale, Introduzione a V.
BOGGIONE, L. MASSOBRIO, Dizionario dei Proverbi, UTET, Torino, 2004.
17
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
24
structural and stylistic features common to proverbs, we would not know
whether the statement is in fact a proverb since we are not in a position
to ascertain that it might have a certain age and currency in that foreign
language»18. E così come alcuni tratti distintivi della proverbialità non
sono facilmente quantificabili, quali la brevità, o la fissità, a maggiore
ragione ciò capita per lo status di traditionality.
Alberto Maria Cirese19, che ha affrontato il problema da un punto
di vista strutturale, nel segnalare le qualità generalmente indispensabili
affinché si possa parlare di proverbio (brevità, arguzia, buon senso convenzionalmente definibili come qualità interne al testo, e larga divulgazione, qualità che convenzionalmente definiamo esterna al testo), mette
l’accento sul fatto che certi elementi, certe qualità distintive del proverbio
non siano sempre facilmente e oggettivamente identificabili: «Persino per
la brevità, che pure ha chiari aspetti quantitativi e sembra dunque misurabile, possono nascere dubbi: una espressione come tanto va la gatta al
lardo che ci lascia lo zampino è certo breve rispetto ad un sonetto, ma certo è
abbastanza lunga rispetto a chi rompe paga»20. Non esistono quindi criteri
oggettivi che consentano di riconoscere o negare la stringatezza di un
proverbio.
Tanto meno è possibile affermare che la fissità, se intesa come rigidità del significante, o meglio della sostanza dell’espressione, sia tratto
distintivo della proverbialità21. È pur vero che, generalmente, il prover18
W. MIEDER, D. HOLMES, op. cit., p. 87.
A.M. CIRESE, I proverbi: struttura delle definizioni, «Documenti di lavoro e prepubblicazioni del Centro internazionale di semiotica e linguistica», XII, Urbino, 1972.
19
20
Ibid., p. 14.
21
È necessario, a nostro avviso, tenere ben distinti il piano della langue da quello della
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
25
bio, per essere decodificato22 e, soprattutto, memorizzato, richiede una
citazione che abbia forma fissa o per lo meno poco soggetta ad alterazioni morfo-sintattiche23. Tuttavia, nel 1985 Neal R. Norrick ha segnalato
come spesso, soprattutto per i proverbi più noti, è sufficiente che se ne
citi il nucleo per comunicarne l’intero senso all’interlocutore24. Lo studioso parla esattamente di kernel: «For well known proverbs, mention of
one crucial recognizable phrase serves to call forth the entire proverb.
Let us designate this minimal recognisable unit as the kernel of the
proverb»25.
parole: da un punto di vista strettamente linguistico il proverbio è un segno retorico (T.
Franceschi parla di «segno retorico di massimo spicco») e in quanto tale possiede una valenza
astratta e un’articolazione individuale. La rigidità della forma è da intendersi a livello di langue,
mentre le variazioni, di qualsiasi natura esse siano, devono essere ricondotte a quello di parole,
in quanto articolazioni individuali e momentanee.
Alla fine degli anni novanta, avendo come punto di riferimento i lavori di H.P. GRI(Logic and conversation, in Sintax and semantics – Speech acts, P. Cole & J. Morgan eds., Academic Press, New York-London, 1975, pp. 41-58) e J. SEARLE (Metaphor in Metaphor and
thought, A. Ortony ed., Cambridge University Press, Cambridge, England, 1979, pp. 92-123)
alcuni ricercatori del dipartimento di Psicologia dell’Università di Cincinnati hanno appurato
che, nella comprensione del linguaggio figurato dei proverbi, il significato letterale è quello
che viene individuato per primo e quindi utilizzato per giungere alla comprensione di quello
figurato (multistage assumption). Discorso a parte invece deve essere fatto per gli idiotismi,
strutture fraseologiche non composizionali, la cui comprensione passa attraverso la convenzionalità dell’uso e possono essere decodificati solo se noti, a differenza del proverbio che,
essendo sempre internamente composizionale, è comprensibile e decodificabile anche se non
familiare. Per ciò che attiene invece alla citazione paremiologica essa viene in mente in modo
spontaneo, attraverso quello che Mirko Grimaldi definisce «un processo libero-analogico di
pensiero», tant’è che il parlante non sempre è consapevole di aver enunciato un proverbio. È
tale componente inconscia, insita nel valore paremiologico del detto, a mettere in discussione
l’impiego dei questionari nel condurre indagini di questo tipo. Per approfondire tali temi si
vedano: R.P. HONECK, J. WELGE, J.G. TEMPLE, The symmetry control in tests of the standard
pragmatic model: the case of proverb comprehension, «Metaphor and symbol», 13 (4), Lawrence
Erlbaum Associates, Inc., 1998, pp. 257-273; M. GRIMALDI, Atlante Paremiologico Italiano
(API), questionario e metodi di ricerca sul campo, in AA.VV., Proverbi locuzioni modi di dire nel dominio
linguistico italiano. Atti del I Convegno di Studi dell’Atlante Paremiologico Italiano (API),
Modica, 26-28 ottobre 1995, a cura di Salvatore C. Trovato, il Calamo, Roma, 1999, pp. 33-34.
22
CE
23
Si veda anche W. MIEDER, D. HOLMES, op. cit., p. 90.
Egli menziona tale fenomeno come la prova, a suo avviso, più rilevante per dimostrare che in realtà non è plausibile parlare di «fixedness of form in proverbs».
24
25
N.R. NORRICK, op. cit., pp. 45-46.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
26
Tale fenomeno di allusione paremìaca, in quanto riferimento indiretto e implicito rispetto alla citazione proverbiale, non ricorre solo
nell’oralità ma è spesso usato anche in letteratura. Esiste un indice dei
proverbi nelle opere di Shakespeare, stilato da Morris Palmer Tilley26 nel
1950: vi si possono reperire non solo i testi paremìaci citati integralmente
dal drammaturgo ma anche le allusioni ai proverbi.
Le allusioni paremìache funzionano perché i proverbi hanno per i
parlanti una valenza sociale, filosofica e psicologica di gran lunga più
importante di quella insita negli idiotismi; sono entità linguistiche
“strongly coded” and “overcoded”, come dice Umberto Eco27, per cui è
sufficiente anche un rapido cenno al nucleo paremìaco, ove risiede la
quintessenza del valore paremiologico, per richiamare alla mente l’intera
formula28.
Constatiamo, quindi, che a livello di parole i proverbi non hanno mai
una forma completamente cristallizzata e che è decisamente opportuno
parlare di fissità relativa. Naturalmente c’è anche chi non è totalmente
d’accordo con tale affermazione, o per lo meno la pone in dubbio: «It is
debatable as to whether an abbreviated form of a proverb – for exemple
referring to […] one person as “a new broom” – would be better defined
M. PALMER TILLEY, A dictionary of the proverbs in England in the 16th and 17th centuries,
University of Michigan Press, Ann Arbor, 1950.
26
Cfr. N.R. NORRICK, op. cit., p. 45. Si veda anche U. ECO, Introduction to a semiotics of
iconic signs, «Versus», 2, pp. 1-15.
27
Si ricordi che con valore paremiologico (VP) intendiamo quel quid da cui scaturisce
l’ambiguità, o meglio la polisemia, del motto tradizionale. È il VP che contraddistingue il
detto paremiologico (motto polisemico e allologico in quanto comunica per via analogica un
messaggio convenzionale, decodificabile solo da chi sia partecipe di quella convenzione) dal
detto didascalico, che non intende comunicare altro da sé.
28
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
27
as a proverb or as an idiom»29. Anche T. Franceschi parrebbe dello stesso avviso30.
A nostro parere, è opportuno rimarcare che se non esistesse a livello di langue una fissità proverbiale, l’allusione paremìaca, attuabile attraverso la citazione del kernel, non potrebbe funzionare.
Dopo questo breve excursus sulla duttilità con cui devono considerarsi i tratti distintivi interni alla proverbialità, torniamo a esaminare il
concetto di “tradizionalità” da cui siamo partiti per dimostrare l’indefinibilità del proverbio. Tra l’altro, non nuoce ribadirlo, è proprio l’appartenenza a una tradizione linguistica, che si accompagna alle proprietà formali precedentemente menzionate, l’unico tratto decisivo a caratterizzare
una paremìa: «Probably the most consistently accepted generalization
concerning proverbs, in virtually any language, is that they are “traditional”, and that is their traditionality – the sense of historically-derived
authority or of community-sanctioned wisdom that they convey – that
makes them work»31. Si pensi infatti all’interessante esperimento condotto
da Shirley L. Arora sulla pseudo-proverbialità, reso noto nel numero
inaugurale di «Proverbium»32: una lista di 25 frasi in spagnolo venne
J. CHARTERIS BLACK, Proverbs in communication, «Journal of Multilingual and Multicultural development», vol. 16, 4, 1995, p. 261. Si fa qui riferimento al noto proverbio metaforico anglosassone A new broom sweep clean.
29
30
Si veda T. FRANCESCHI, La formula proverbiale, cit., p. XII, n. 21.
S.L. ARORA, op. cit., pp. 1-38. Si pensi altresì al senso etimologico della parola tradizione, e dell’aggettivo tradizionale, laddove il latino tradĕre sta per consegnare (dare) oltre (trā-).
31
Il numero del volume cui si fa riferimento è naturalmente il primo della nuova edizione curata da W. Mieder a partire dal 1984. Si tenga presente che la rivista «Proverbium»
nasce ufficialmente nel 1965, e fino al 1975 è curata da Matti Kuusi, con l’auspicio di creare
una sede di confronto interdisciplinare sulle problematiche paremiologiche per tutti coloro
che avessero voluto continuare a portare avanti e sviluppare gli studi iniziati negli anni trenta
da Archer Taylor.
32
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
28
proposta a un gruppo di 46 ispanofoni residenti a Los Angeles e provenienti da diversi ambienti socio-culturali. Solo le prime due frasi della
lista erano proverbi, mentre le restanti 23 erano dei falsi costruiti sul
modello di proverbi veri, facenti cioè realmente parte del codice retorico
dello spagnolo. Ebbene l’87% degli intervistati ha riconosciuto il primo
proverbio indicato, tra l’altro molto noto (No es oro todo lo que relumbra),
mentre il secondo (Más vale llegar a tiempo que ser convidado) è stato riconosciuto solo dal 43% degli intervistati; ciò significa che i valori percentuali
intermedi tra quelli citati sono relativi a degli pseudo-proverbi come El
muerto a la tumba y el vivo a la rumba33 il quale è stato recepito come proverbio noto dal 61% degli intervistati). Ciò dimostra che gli elementi
formali, marcatori della struttura proverbiale, siano essi di natura semantica, lessicale, fonica o morfo-sintattica (si pensi alla concisione della
formula, all’uso di figure retoriche, tra le quali spicca sulle altre la metafora – ma si pensi anche all’utilizzo di parallelismi semantici, del paradosso
e dell’ironia – senza trascurare l’utilizzo di espedienti retorici di natura
fonica, quali assonanza, consonanza e rima, e last but not least la presenza
di arcaismi lessicali o morfo-sintattici) non possono da soli garantire la
percezione della proverbialità34.
Appurato che la circolazione nello spazio e nel tempo costituisce la
conditio sine qua non della proverbialità, è bene notare inoltre che non è
certo facile stabilire con precisione quanto spazialmente diffusa e quanto
Tale pseudo-proverbio è costruito sul modello di El muerto al hoyo y el vivo al bollo, corrispondente alla formula inglese The dead to the grave and the living to the bread.
33
Per approfondire tali argomenti si vedano anche gli interessanti paragrafi Figuration in
proverbs e Structural proverb definitions in N.R. NORRICK, op. cit., pp. 48 e ss.; cfr. anche S.L.
ARORA, op. cit., pp. 13 e ss.
34
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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antica debba essere un’espressione per essere definita proverbio, né tanto
meno quante probabilità abbia un proverbio di subire obsolescenza: gli
elementi del codice retorico, così come quelli del codice lessicale di una
lingua, rischiano di cadere in disuso e morire ma allo stesso tempo possono nascerne di nuovi, atti a commentare o a riflettere le abitudini e i
valori della contemporaneità. Malgrado tante incertezze possiamo ammettere senza dubbio che per quanto attiene alla divulgazione, oggi,
grazie soprattutto a internet, è possibile comunicare con chiunque nel
globo nel giro di pochi secondi; tale velocità facilita la diffusione di certe
espressioni, si pensi agli slogan pubblicitari, e se un tempo erano necessari mesi o anni per passare dal lessico famigliare a quello comunitario,
oggi ciò può avvenire in pochi giorni.
Considerata l’indefinitezza che avvolge il concetto di “tradizionalità”, per tacere di quella insita nella rappresentazione mentale di verità,
non possiamo che ammettere di essere fermi davanti allo stesso ostacolo
che Archer Taylor indicò negli anni trenta: è ancora quella incomunicabile
qualità che ci permette di discernere la proverbialità.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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I.2. PAREMÌE A CONFRONTO: PROVERBI ED ESPRESSIONI
IDIOMATICHE
I.2.1. PAREMÌA: CHIARIMENTI TERMINOLOGICI
Prima di procedere con la nostra disamina, è necessario, per ciò che
attiene alla definizione di paremìa35, tenere conto dell’esistenza di una
certa divergenza semantica tra il termine usato in ambito ispanofono e
francofono e quello italiano; tale discrepanza è stata messa in evidenza
anche da Temistocle Franceschi36, il quale fa notare che paremia, per Julia
Sevilla Muñoz, sia l’iperonimo che, oltre ai refranes, contiene anche sentencias e aforismos, ovvero, come si può facilmente notare, elementi fraseologici non necessariamente provvisti di polisemìa e, dunque, di valore paremiologico, conditio sine qua non per poter usare il termine ‘paremìa’ in
italiano37. Si tenga presente che la scuola geoparemiologica italiana attriAl fine di gettare luce sulla natura complessa del materiale oggetto d’indagine, si ricordi, in primis, che il neologismo paremìa è il risultato dell’italianizzazione della forma greca
παροιμία (avente il significato di “proverbio”), su cui sono costruiti termini quali paremiologìa e
paremiografia.
35
36
Si veda T. FRANCESCHI, La formula proverbiale, cit., p. XI, n. 12.
Riportiamo la definizione proposta dalla stessa J. SEVILLA MUÑOZ, leggibile nel contributo Las paremias españolas: clasificación, definición y correspondencia francesa, «Paremia», 2, 1993,
Madrid, pp. 15-20, in cui la studiosa auspica di portare ordine, sbrogliando la maraña conceptual, in àmbito paremiologico. Nella parte introduttiva Sevilla Muñoz premette che alcuni
studiosi usano il termine paremia includendovi refranes o dichos e prosegue poi con una propria
classificazione delle paremìe, dove il refran è descritto come «la paremia más representativa en
español, que sobresale por la estructura bimembre, la idiomaticidad, los elementos mnemotécnicos y, especialmente, el carácter y uso popular e, incluso, festivo y jocoso” (por ejemplo:
mocedad ociosa, vejez achacosa)»; la sentencia, è considerata come sinonimo di máxima e
principio: «son de origen culto y de autor conocido, por lo general la máxima ofrece normas de
conductas con un tono moralizante: El andar tierras y comunicar con diversas gentes hace a
37
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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buisce a tale coniazione l’accezione di «breve e conciso insieme allologico (ossìa,
inteso a comunicare altro da sé) di struttura proverbiale, che in un determinato
idioma è convenzionalmente usato in riferimento allusivo ad altro insieme semantico
(con cui viene analogicamente correlato), per esprimere in modo indiretto,
sintetico, ed efficace un parere, un commento, un consiglio»38; oppure si può descrivere la paremìa come una «breve sequenza sintammatica che rispetto
alla somma39 dei suoi componenti ha assunto un valore semantico convenzionale, correttamente e immediatamente comprensibile solo a chi di
tale convenzione partecipi»40. Più sinteticamente paremìa è la «sequenza
di sintagmi costituente un singolo atto verbale»41. Il termine italiano dunque è anche comprensivo delle espressioni idiomatiche, classificate a
parte dagli studiosi spagnoli, e come vedremo anche da quelli francesi.
La mancanza di uniformità terminologica non si manifesta solo nel
confronto tra studiosi di nazionalità diversa: anche restando in àmbito spalos hombres discretos (Cervantes)»; la studiosa classifica l’aforismo tra “las paremias científicas”: «dentro de las paremias que hemos denominado científicas, incluimos aquellas que son
de origen culto y se emplean en un campo determinado del saber humano, como el aforismo
en Medicina y Jurisprudencia: más vale un mal arreglo, que un buen pleito».
T. FRANCESCHI, L’Atlante Paremiologico Italiano e la Geoparemiologia, in AA.VV., Proverbi
locuzioni modi di dire nel dominio linguistico italiano, cit., p. 10.
38
Si tenga conto che per F. De Saussure, il rapporto tra gli elementi di una sequenza
sintagmatica non deve considerarsi come una somma di addendi ma, più precisamente, come
esito di una moltiplicazione tra fattori. «Di mera somma fra le parti parlano invece molte
formulazioni correnti del principio di composizionalità»; altrettanto accade in questa definizione di Franceschi. Cfr. F. CASADEI, op. cit., p. 34, n. 14. Si tenga ad ogni modo presente che
L. AGOSTINIANI, op. cit., p. 79, tiene a precisare l’ovvietà del fatto che il contenuto di una
frase è decisamente altra cosa da ciò che scaturisce dalla somma dei suoi elementi e rimanda
a E. BENVENISTE (Problemi di linguistica generale, trad. it., Il Saggiatore, Milano, 1971, p. 147)
secondo il quale «Una frase costituisce un tutto, non riducibile alla somma delle sue parti; il
significato di questo tutto scaturisce dall’insieme dei costituenti». E ancora secondo N.
RUWET (Introduction à la grammaire générative, Plon, Paris, 1967, p. 335) l’idea che «la signification d’une phrase se ramène simplement à la somme des significations de ses éléments
terminaux» sarebbe un’idea «très primitive, pré-structuraliste de la signification».
39
40
T. FRANCESCHI, La formula proverbiale, cit., p. XI.
41
Ibid., p. IX.
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gnolo le incompatibilità tra definizioni e classificazioni non passano inosservate: la Muñoz, ad esempio, cita tra le paremìe anche elementi fraseologici di autore noto come la sentencia (denominata indifferentemente anche
máxima e principio), mentre nell’opera della Corpas Pastor è detto chiaramente che, in applicazione della tesi di Arnaud, tra i tratti essenziali delimitanti
l’àmbito paremìaco vi è anche il carattere dell’anonimia, di ascendenza quintilianea42; ricordiamo infatti che nell’Institutio oratoria i proverbi sono «sententiae quae incertum auctorem habent»43. Altri studiosi di area ispanica definiscono paremia quel tipo particolare di combinazione che assomma, nello
stesso tempo, un senso letterale e uno traslato44; tale termine è preferito ad
altri perché è ad un tempo sinonimo di refrán (ovvero la paremia per eccellenza)45 e iperonimo in cui confluiscono tutti i sottotipi proverbiali che
risulterebbe difficile separare gli uni dagli altri utilizzando strumenti formali
condivisibili da tutti nonché linguisticamente attendibili46: «La linguistica ha
42
M.F. QUINTILIANO, Institutio Oratoria, V, 11, 41.
Si veda G. CORPAS PASTOR, op. cit., p. 136. Cfr. anche P. POCCETTI, Aspetti della teoria
e della prassi del proverbio nel mondo classico, in AA.VV., La pratica e la grammatica. Viaggio nella
linguistica del proverbio, a cura di Cristina Vallini, Istituto Universitario Orientale, Dipartimento
di Studi Letterari e Linguistici dell’Occidente, Napoli, 1989, pp. 61-85. Si veda inoltre P.J.L.
ARNAUD, Réflexions sur le proverb, «Cahiers de lexicologie», 59, 1991, pp. 5-27.
43
Si veda per esempio M. GONZALES REY, Estudio de la idiomaticidad el las unidades fraseológicas, in G. WOTJAK (ed.), Estudios de fraseología y fraseografía del español actual, Vervuert/Iberoamericana, Frankfurt am Main/Madrid, 1998, p. 58.
44
45
Cfr. G. CORPAS PASTOR, op. cit., p. 150.
Ibid., pp. 132-169. Per ciò che concerne invece l’ammissione dell’impossibilità di una
definizione esaustiva e rigorosa di proverbio e dunque di un suo raffronto altrettanto ineccepibile con altre formule consimili si vedano G.R. CARDONA, op. cit., p. 166, e soprattutto G.
BERRUTO, Significato e strutture del significante in testi paremiografici, «Parole e metodi», IV, p. 189
(che rimanda a sua volta a A.M. CIRESE, Prime annotazioni per una analisi strutturale dei proverbi
(disp. univ.), Cagliari, 1969, pp. 1-8, 23-29): «Si prescinde qui da ogni questione di principio e
di sostanza sui “proverbi” (PROV), in particolare dalla definizione di PROV, dalla distinzione fra PROV, massima, motto, detto, etc. (che tra l’altro fanno di solito ricorso a criteri non
formali, ed anche non linguistici)».
46
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sempre avuto difficoltà a stabilire i confini delle unità superiori alla
parola»47.
Rodegem, in un contributo del 198448, utilizza il termine in un’accezione che appare più prossima a quella castigliana che a quella italiana:
«Avant de parler du sujet qui nous rassemble, j’amarais vous faire une
proposition, c’est de nous mettre d’accord sur une terminologie commune. Quel vocable convient mieux pour designer l’ensamble des formules consacrées par l’usage, qu’on appelle généralement proverbes? […]
pour éviter les ambiguïtés, je réserverai le terme de parémie aux énoncés
sentencieux pris globalement»49.
Nel saggio citato non emerge alcun riferimento ai modi di dire, sicché pare proprio che egli non li comprenda all’interno dell’arcilessema
parémie. A confermare tale opinione interviene anche l’uso del termine in
questione fatto da Magdalena Lipińska50, laddove si precisa:
«Arnaud et Shapira sont d’accord que le proverb prototypique est un
phrase lexicalisée, autonome du point de vue grammatical et référentiel,
anonyme et exprimant une vérité générale. Mais, p. ex., la métaphoricité
de la phrase proverbiale, bien que citée par Kleiber et Arnaud comme
trait prototypique, n’est pas traitée comme propriété obligatoire par
Schapira. Anscombre ne mentionne pas du tout la métaphoricité comme
attribut inhérent du proverbe prototypique. En revanche, il cite le rythme
47
G.R. CARDONA, op. cit., p. 184.
48
Cfr. F. RODEGEM, La parole proverbiale, «Richesse du proverbe», 2, 1984, pp. 121-135.
49
Ibid., p. 121.
M. LIPIŃSKA, Les prototypes proverbiaux polonais et français dans la description directe, «Bulletin de la société polonaise de linguistique», fasc. LIX, 2003, pp. 97-111, consultabile anche sul
web al sito http://www.mimuw.edu.pl/polszczyzna/PTJ/b/b59_097-111.pdf; si tenga
presente che la studiosa di origine polacca attinge gli elementi utili alla stesura del suo contributo da un corpus di studi d’àmbito prevalentemente francese.
50
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comme le trait le plus important. Selon Schapira, la parémie prototypique
peut mais ne doit pas être obligatoirement marquée par le rythme.
Kleiber et Arnaud passent sous silence cette figure stylistique dans leurs
descriptions des proverbes prototypiques»51.
Si evince dunque che per la studiosa proverbe e parémie sono in rapporto di sinonimia.
In sostanza solo il termine italiano incorpora proverbi ed espressioni idiomatiche, quello spagnolo classifica a parte collocazioni ed espressioni idiomatiche e altrettanto si può dire del francese parémie52.
I.2.2. PROVERBIO ED ESPRESSIONE IDIOMATICA
Abbiamo dunque avuto modo di constatare quanto sia difficile e
impervia la strada del paremiologo; riportiamo l’incipit di Temistocle
Franceschi al suo Il proverbio e l’«API»53:
51
M. LIPIŃSKA, op. cit.
Può essere interessante segnalare che l’anglosassone idioms contiene sia proverbi sia
espressioni idiomatiche. Si veda a tale proposito la classificazione di J. STRÄSSLER, Idioms in
English. A pragmatic analysis, Gunter Narr Verlag, Tübingen, 1982, pp. 15-16. Cfr. anche M.H.
ROBERTS, The Science of idiom: a method of inquiry into the cognitive design of language, «Publications
of the Modern Language Association of America», 59, 1944, pp. 291-306; si veda in particolare la p. 302, in cui lo studioso specifica che a suo avviso l’idiomatico coincide con la totalità
dei mezzi espressivi di cui una lingua dispone, dunque oltre ai proverbi e ai modi di dire cita
anche pronomi, avverbi, preposizioni, giungendo sino alla flessione e alla composizione. Si
tratta naturalmente di una visione dell’idiomatico in senso lato nella quale non regge
l’equazione idiomatico = anomalo giacché in tale prospettiva esso non risulta il lato «deviante e
oscuro», bensì parrebbe il più chiarificatore dello spirito di una lingua. Cfr. F. CASADEI, op.
cit., p. 29.
52
53
T. FRANCESCHI, Il proverbio e l’«API», «Archivio glottologico italiano», LXIII, 1978, p. 110.
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«Se c’è un campo della scienza in cui è lecito parlar di confusione,
questo è il campo della paremiologia o “scienza del proverbio”. Sotto
questo nome di proverbio si comprendono infatti, nell’uso corrente, varî
generi che dal proverbio dovrebbero invece distinguersi, quale l’apoftegma,
o motto memorabile di un personaggio illustre, la massima, enunciato
d’ordine morale formulato da un pensatore, l’adagio, ch’è un consiglio di
comportamento, l’aforismo, precetto fondato su un’esperienza specifica, e
il detto tradizionale, ch’è una nozione piuttosto vaga. Da secoli ormai le distinzioni originarie si son venute perdendo, sicché oggi alcuni termini
son completamente ignorati nell’uso comune, mentre altri, e cioè proverbio
e detto, vengono impiegati in modo assai generico».
Il linguista fiorentino risolve il problema terminologico operando
una distinzione tra detto proverbiale (DP) e detto didascalico (DD) in
base a un criterio logico-linguistico; tratto distintivo del primo è la presenza del valore paremiologico (VP), da cui scaturisce l’ambiguità, o
meglio la polisemia, del motto tradizionale54. Dunque il DP è un motto
polisemico e allologico in quanto comunica per via analogica un messaggio convenzionale, decodificabile solo da chi sia partecipe di quella convenzione (ad esempio, Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino); mentre il DD, pur avendo struttura proverbiale (formula per lo più concisa
che utilizza espedienti retorici quali assonanza, consonanza e rima), è
tautologico, cioè non comunica altro da sé (ad esempio, Rosso di sera, bel
tempo si spera). Altri studiosi hanno proposto definizioni, in base ai differenti tratti distintivi che, di volta in volta, si sono presi in considerazione
come utili parametri classificatori55.
54
Cfr. T. FRANCESCHI, L’Atlante Paremiologico Italiano e la Geoparemiologia, cit., pp. 1-22.
55
Si veda a tale proposito L. CIMARRA, F. PETROSELLI, op. cit., pp. 35-42.
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Le difficoltà in cui s’imbatte chi voglia avere una idea più chiara e
dettagliata delle peculiarità dei diversi elementi fraseologici e dei modi di
dire sono da taluni superate con un atteggiamento che tiene conto del
«sentimento linguistico dei parlanti nativi»56; pensiamo a quanto dicono
Luigi Cimarra e Francesco Petroselli a proposito del punto di vista di
Gaetano Berruto, il quale considera proverbi «i prodotti linguistici appartenenti ad un dato sistema dialettale che gli informatori hanno riferito,
detto, citato oralmente alla richiesta del raccoglitore; vi rientrano pertanto anche i cosiddetti modi di dire»57. Anche Alberto Maria Cirese, in
Prime annotazioni per un’analisi strutturale dei proverbi58, ritiene che considerare come proverbi tutti i testi che sono stati chiamati tali dai loro autori, o
dai loro editori, sia l’unica soluzione per consentire al paremiologo di
portare avanti la propria indagine. Le motivazioni che hanno indotto sia
A. M. Cirese sia G. Berruto a giungere alle suddette conclusioni sono
analoghe a quelle che hanno portato i ricercatori dell’API a non trascurare, durante i rilevamenti sul campo, il detto didascalico rispetto a quello
paremiologico, ritenuto estremamente più interessante dal punto di vista
linguistico, al fine di non correre il rischio di offendere il sentimento
linguistico del parlante, con la conseguenza di farlo ammutolire e chiaramente interrompere così drasticamente l’indagine59.
Tuttavia le considerazioni di A. M. Cirese e di G. Berruto, seppure
interessanti per il loro approccio etnografico e non superculturale, non
56
Ibid., pp. 37 e 113, n. 4.
57
Ibid., p. 37. Cfr. G. BERRUTO, op. cit., pp. 189-190.
58
A. M. CIRESE, op. cit.
Si veda T. FRANCESCHI, L’Atlante Paremiologico Italiano e la Geoparemiologia, cit.,
pp. 1-22.
59
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sono particolarmente utili quando, come nel nostro caso, si tratti di operare un censimento di paremìe sui testi letterari: in queste circostanze,
non dovendosi rapportare al parlante, la priorità dello studioso è indagare
a fondo le caratteristiche del proverbio e quelle del modo di dire, per
essere in grado di fare una cernita più oculata possibile di ciò che deve
far parte del corpus da analizzare e di ciò che deve restarne fuori.
Tenteremo dunque di esporre alcune riflessioni utili a delineare le
specificità linguistiche del proverbio da un lato e quelle dell’espressione
idiomatica dall’altro. Si è avuto modo di constatare che con il termine
francese parémie s’intende l’insieme delle espressioni lessicalizzate e autonome dal punto di vista sintattico e referenziale60: devono dunque considerarsi a parte le espressioni idiomatiche, o polirematiche, le quali godono di autonomia referenziale ma non di quella sintattica.
È noto infatti che il tratto distintivo indiscutibile, in base al quale si
può tracciare una linea di demarcazione netta tra proverbio ed espressione idiomatica è quello della autonomia sintattica e testuale di cui gode il
primo a discapito della seconda61, che per reggersi – non essendo una
frase completa – «necessita di qualcos’altro, foss’anche solo il verbo
avere, essere, o fare, per formare una proposizione», così come ricorda
anche B.M. Quartu62.
Dunque per quel che concerne l’autonomia sintattica il proverbio
non necessita della combinazione grammaticale con altre parti del discor60
M. LIPIŃSKA, op. cit.
61
A tale proposito si veda l’interessante trattazione di G. CORPAS PASTOR, op. cit.,
p. 136.
Cfr. B.M. QUARTU, Introduzione a Dizionario dei modi di dire della lingua italiana, Rizzoli,
Milano, 1993, p. VII.
62
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so; ciò accade invece per le espressioni idiomatiche, a meno che, ovviamente, esse non vengano menzionate metalinguisticamente.
Per quanto attiene all’autonomia testuale, Corpas Pastor ci segnala
che il proverbio può essere visto come un vero e proprio «(Mini-)Texte»,
come fa Fleischer. A tale riguardo Conca, nel considerarlo parte integrante del macroatto linguistico, all’interno del quale può produrre un significato esattamente decodificabile dal ricevente, evidenzia la percepibilità di
tale autonomia: oltre a poterne distinguere facilmente un inizio e una fine
si può altresì parlare di autonomia tonale e gestuale tanto da poter paragonare il proverbio al verso poetico (d’altronde già Berruto ha avuto
modo di individuare nella frase proverbiale il predominio della funzione
poetica della lingua evidenziando come le altre siano ad essa subordinate)63. Analoga puntualizzazione si deve a Greimas:
«Au niveau de la langue parlée, les proverbes et le dictons se découpent nettement de l’ensamble de la chaîne par le changement d’intonation: on a l’impression que le locuteur abandonne volontairement sa
voix et en emprunte une autre pour proférer un segment de la parole qui
ne lui appartient pas en propre, qu’il ne fait que citer»64.
Nel tentativo di catalogare le differenze tra le diverse unità fraseologiche, si può citare uno dei massimi paremiografi della tradizione italiana, G. Giusti, il quale, secondo Pittàno, nell’Introduzione alla Raccolta di
proverbi toscani separa nettamente l’area semantica del proverbio da quella
Si veda G. CORPAS PASTOR, op. cit., pp. 136-137. Cfr. inoltre M. CONCA, Paremiologia,
Biblioteca lingüística catalana, Universitat de València, València, 1987, pp. 27-28 e G. BERRUTO, op. cit., p. 209.
63
Si veda J. GREIMAS, Idiotismes, proverbes, dictons, «Cahiers de lexicologie», vol. 2, 1960,
pp. 41-61 (p. 56).
64
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dell’espressione idiomatica sostenendo che alla base del primo «è sempre
sotteso il principio didattico e morale di norma, avvertimento, consiglio
o massima dettati dall’esperienza, tanto che il proverbio è chiamato anche “sapienza dei popoli”; il modo di dire invece è per lo più un “paragone accorciato” (essere una lumaca = essere lento come una lumaca, conoscere i propri polli = conoscere i propri polli come le massaie…)»65. Per
quanto tale approccio possa apparire semplicistico vale la pena tenerlo in
considerazione.
Altro importante tratto che consentirebbe di distinguere l’àmbito
dei proverbi da quello dei modi di dire è l’indeterminatezza semantica,
ovvero il tratto presenza/assenza di genericità referenziale66: laddove il
proverbio è polisemico, e quindi utilizzabile in diverse situazioni,
l’espressione idiomatica sarebbe monosemica: nella comunità linguistica
avrebbe acquisito significato univoco. In altri termini, mentre il proverbio gode di uno spettro semantico ampio, riferendosi a situazioni che
possono facilmente essere generalizzate (tant’è che lo stesso proverbio
può essere utilizzato in diversi contesti situazionali), le locuzioni idiomatiche avrebbero sempre referente preciso (ad es. Essere al verde non ha
altri significati se non quello di ‘non avere denaro’).
I proverbi godono della stessa estensibilità semantica di cui si alimentano le parole singole delle lingue storico-naturali. Elemento generatore di tale metamorficità del significato è la metafora che consente la
dilatazione esponenziale dei valori noti di ogni espressione. Più precisaG. PITTÀNO, Frase fatta capo ha. Dizionario dei modi di dire, proverbi e locuzioni, Zanichelli,
Bologna, 1992, p. 3.
65
Si veda a tale riguardo G. CORPAS PASTOR, op. cit., p. 134. Cfr. anche M. CONENNA,
Sur un lexique-grammaire comparé de proverbes, «Languages», 90, 1988, pp. 99-116.
66
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mente è la metafora intesa nel senso etimologico di traslatio la sorgente
della potenzialità semantica delle parole nonché dei proverbi67. Tuttavia il
tratto distintivo dell’indeterminatezza semantica (ovvero il tratto presenza/assenza di genericità referenziale) non è così utile al nostro intento,
dal momento che non traccia una linea di demarcazione netta tra proverbi ed espressioni idiomatiche, così come si evince dal concetto di anomalia e designazione metaforica espresso da Agostiniani.
I.2.3. LA DESIGNAZIONE METAFORICA COME TRATTO DISTINTIVO
Proprio ad Agostiniani faremo riferimento per chiarire questi aspetti centrali della significazione delle paremìe: l’anomalia (aspetto attribuito
al proverbio già agli albori degli studi paremiologici, tradizionalmente
definibile come una «discrepanza tra il significato che a tali frasi viene
normalmente attribuito e il significato che si ricaverebbe dagli elementi
costituitivi»)68 non scaturisce dalla relazione tra il significante e il signifi67
Si veda T. DE MAURO, Capire le parole, Laterza, Roma-Bari, 2002, pp. 44 e 46.
Un’espressione può definirsi anomala quando i significati delle singole parole che la
formano sono tra loro incompatibili da un punto di vista semantico, ovvero quando non
sono assecondate le regole dell’analisi componenziale espresse in termini di compatibilità dei
tratti o di restrizioni della selezione; si pensi, ad es., a frasi come quel bambino è scapolo. Tuttavia è importante notare che un’espressione semanticamente anomala può essere comunque
ben formata sintatticamente: da ciò nasce la possibilità del parlante di inventare significati
plausibili per tali espressioni anomale; l’intelligenza umana, diversamente da quella artificiale,
ha la capacità di rielaborare in maniera creativa ciò che non capisce. Non dimentichiamo
inoltre che ogni parlante, qualsiasi sia la sua lingua, ha in sé stesso, nell’uso effettivo che fa
del codice, «il principio e i semi della variazione: ogni parlante […] induce variazioni nel
patrimonio linguistico collettivo sia quando, producendo, forza limiti e le forme anteriori, sia
quando, comprendendo le parole altrui, le intende in modo innovativo, le considera aggluti68
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cato della frase proverbiale, bensì dal rapporto tra la frase proverbiale –
in quanto segno, dotata di un significato e di un significante – e il contenuto di pensiero designato, o concetto. «Più esplicitamente, si dirà che
l’anomalia semantica di una frase proverbiale consiste nel fatto che essa
designa (nella langue, in quanto elemento del discorso ripetuto […]) un
contenuto di pensiero che non è quello previsto dalla sua struttura sintattico-semantica»69. Il linguista chiarisce il suo pensiero mettendo a confronto due proverbi:
a) Chi non ama le bestie non ama neanche i cristiani;
b) La botte dà il vino che ha.
Si nota immediatamente che nel primo c’è regolarità tra la frase
proverbiale e il suo designatum (ovvero trattasi di una tautologia, se non si
considera, evidentemente, l’accezione traslata e tipicamente toscana del
termine cristiano = uomo, riscontrabile, tra l’altro, anche in sardo) mentre
il secondo è dotato di anomalia che si qualifica nella designazione metaforica70. È necessario distinguere tra quattro tipi possibili di designazione:
a) designazione di langue (non metaforica);
b) designazione di parole (non metaforica);
c) designazione metaforica di langue;
d) designazione metaforica di parole.
nate in blocchi, ne ridisegna la struttura morfologica, ne estende il significato a nuovi sensi
inizialmente estranei al produttore»: T. DE MAURO, op. cit., pp. 44-46.
69
L. AGOSTINIANI, op. cit., p. 94.
Come sottolinea l’autore non deve considerarsi un’ovvietà il dire che un proverbio
può avere una designazione metaforica, poiché se può essere scontato affermare che un proverbio contiene una metafora non lo è di certo affermare che «il processo metaforico cui è
interessato il proverbio consiste in una particolarità nel rapporto tra segno (il proverbio) e il
contenuto di pensiero che esso designa». In sostanza, ciò che interessa ad Agostiniani «è
integrare […] la nozione di metafora in un modello coerente della struttura della frase proverbiale». Si veda L. AGOSTINIANI, op. cit., p. 95.
70
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
42
Esemplificando, Agostiniani afferma che la designazione metaforica
di langue pertiene al segno leone (nel senso di ‘persona coraggiosa’): quando si dice Sei un leone in un singolo atto di discorso, designando metaforicamente un uomo, di fatto si attua una designazione metaforica di parole
(d); il termine pur cessando di designare leone in quel frangente situazionale (b), mantiene tuttavia il suo rapporto con il designatum di langue non
metaforico (a).
È dalla compresenza dei due designata, letterale e metaforico, a livello di langue che scaturisce la designazione metaforica. Si può quindi
istituire un rapporto tra la designazione metaforica e la motivazione
semantica e notare come esse siano due variabili direttamente proporzionali, così come motivazione e idiomaticità, intesa come assenza di
composizionalità semantica, parrebbero, d’altro canto, entità inversamente proporzionali. Con questa impostazione pare concordare H. Burger in
un’opera pubblicata per la prima volta nel 1988: secondo lo studioso
tedesco, quanto più una espressione idiomatica sarà motivata tanto più
debole sarà la sua idiomaticità (da intendersi come assenza di composizionalità semantica)71.
Altra sostanziale conclusione cui giunge Agostiniani è che un proverbio non ha che un significato, ossia quello letterale (giacché di esso si
alimenta la designazione metaforica o motivazione).
Non si può non evidenziare a questo punto l’esistenza di un continuum che ingloba non solo le varie tipologie di espressioni idiomatiche ma,
come avremo modo di costatare a breve con l’aiuto di Agostiniani, anche
H. BURGER, Phraseologie. Eine Einführung am Beispiel des Deutschen, Erich Schmidt Verlag, Berlin, 2007, p. 69.
71
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
43
i proverbi; esso può essere tracciato tenendo conto del parametro della
motivazione semantica. Nel continuum idiomatico si possono evidenziare
tre gradi di motivazione e quindi tre tipi di espressioni idiomatiche; vediamole, istituendo anche un rapporto dialettico con la teoria della decomponibilità semantica espressa da Nunberg:
1) Le espressioni motivate, in cui il significato idiomatico è ancora
deducibile dai significati letterali dei singoli lessemi costituenti (si pensi
ad esempio a Non svegliare il can che dorme); sono quegli elementi fraseologici che Nunberg definisce “normalmente decomponibili”72. Più precisamente Nunberg ritiene “normalmente decomponibile” un idiomatismo
«involving only conventions whereby each of its constituents can be used
to refer to the constituents of its referents in certain situations»73.
2) Le espressioni parzialmente motivate, in cui il significato idiomatico è in relazione soltanto con alcuni dei significati letterali dei costituenti (ad esempio Mangiare da cani); siamo di fronte a quegli elementi fraseologici che Nunberg definisce “anormalmente decomponibili”, per la
decodifica dei quali è richiesta una convenzione metaforica (o meglio la
presenza di una metafora cristallizzata o istituzionalizzata): «we can identify the referents of their constituent terms, but it is only in virtue of our
knowledge of conventional metaphors that we know that relation is
invoked to identify»74.
Nunberg definisce “decomponibile” un’espressione idiomatica in cui, posta
l’esistenza di determinate credenze e convenzioni, si scorge una relazione tra il significato
idiomatico e alcuni o tutti i costituenti dell’espressione. Cfr. F. CASADEI, op. cit., p. 63. Per
una trattazione più precisa si veda G. NUNBERG, The pragmatics of reference, Indiana University
Linguistics Club, Bloomington, 1978.
72
73
G. NUNBERG, op. cit., p. 128.
74
Ibid., p. 129.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
44
3) Le espressioni demotivate, in cui il significato idiomatico non è
assolutamente deducibile dalla componibilità tra i singoli lessemi costituenti
(si pensi a Menare il can per l’aia); si tratta di quegli elementi fraseologici
che Nunberg definisce “non decomponibili”, in cui, appunto, non è possibile scorgere nessun rapporto tra componenti e significato idiomatico75.
Dunque non tutte le paremìe godono nella stessa misura di tale motivazione, o designazione metaforica, o forse meglio sarebbe parlare di
«motivabilità» semantica.
Tenteremo ora di focalizzare meglio questo concetto. Agostiniani
sottolinea come il proverbio abbia un unico significato, quello letterale di
cui gli altri non sarebbero che consequenziali. Inoltre nel proverbio è
fortemente evidente la connessione dinamica tra il concetto letterale e
quello metaforico di langue al punto tale che qualora si dovesse perdere
nella diacronia la designazione letterale di partenza si ricorrerebbe a una
sostituzione convenzionalmente accettabile al fine di garantire al proverbio una motivazione semantica. Interessante è l’esempio citato sia da
Dunque quando in R.P. HONECK, J. WELGE, J.G. TEMPLE, op. cit., pp. 257-273, si dice che i proverbi a differenza degli idioms sono sempre composizionali e figurativamente
comprensibili anche se non familiari, s’intende fare una distinzione generica, senza tenere
conto del continuum messo in evidenza da Nunberg, oltre che da Burger; non si può tuttavia
tralasciare di dire che gli studiosi europei occidentali hanno un grosso debito di riconoscenza
intellettuale nei confronti degli studi fraseologici sovietici, con Vinogradov in prima linea,
attivo negli anni cinquanta del secolo scorso. A lui infatti si deve l’elaborazione del concetto
della motivatedness (in accordo con le definizioni saussuriane del 1916) tramite il quale le unità
fraseologiche possono essere così classificabili: 1) completely unmotivated phraseological
collocations (di cui non si citano esempi); 2) completely motivated but in metaphorical reinterpretation unmotivated phraseological units (ad es. To hit the sack, ovvero ‘andare a letto’);
3) completely motivated phraseological combinations, the components of which are only
restrictedly linkable (ad es. To run a risk, ovvero ‘rischiare’). Strässler giustamente osserva: «It
is very difficult to see what motivatedness really means, and for whom certain idioms are
motivated and for whom they are not. A test among native speakers has convinced me that
any idiom is motivated in one sense or another for certain people. Therefore I have not
listed any example for class 1. Instead of motivatedness, we should rather talk of motivatability». Cfr. J. STRÄSSLER, op. cit., p. 22.
75
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Agostiniani sia da Franceschi del noto Tutti i nodi vengono al pettine: la motivazione oggi riconosciuta – in cui i nodi sarebbero quelli dei capelli e il
pettine lo strumento per districarli – è differente da quella originaria, il
cui riferimento è ai nodi della tessitura e dunque al funzionamento del
telaio, strumento oggi tecnicamente obsoleto e distante dalla quotidianità
della maggior parte degli utenti del codice retorico; non si dimentichi che
proprio dalle esperienze quotidiane si attinge, più o meno inconsciamente, sia nella fase di creazione sia in quella di decodifica delle espressioni
proverbiali. Dunque nell’esempio citato si registra «una perdita qualitativa
e quantitativa nella motivazione, ma non certo della motivazione tout
court»76.
In base a quanto finora evidenziato è possibile abbozzare con Agostiniani una classificazione dei proverbi in relazione alle modalità con cui
in essi si produce la designazione metaforica (notando tra l’altro quanto
quest’ultima sia confrontabile con l’idea di figura77 espressa da Franceschi
negli ultimi anni, in base alla quale anch’egli propone un suo continuum di
proverbi mediati da figura, generatrice della ricchezza semantica, parzialmente mediati ed espliciti, o immediati, in cui la polisemia trae invece
origine dalla genericità referenziale)78.
Classe a). Ne fanno parte i proverbi in cui la designazione metaforica interessa l’intera frase. In questo caso si parlerà di proverbi il cui desi76
Cfr. L. AGOSTINIANI, op. cit., p. 101.
Per Franceschi il concetto di figura è totalmente estraneo a quello di figura retorica; il
termine deve invece intendersi come «significato letterale d’una sequenza metaforica (o
“retorica”); e può altresì definirsi come “rapporto dinamico tra due o più immagini”». Si veda
T. FRANCESCHI, L’Atlante Paremiologico Italiano e la Geoparemiologia, cit., p. 5.
77
Si veda T. FRANCESCHI, L’Atlante Paremiologico Italiano e la Geoparemiologia, cit., pp. 122 (p. 12) e T. FRANCESCHI, La formula proverbiale, cit., pp. XIV-XV.
78
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gnatum (concetto) non è correlato alla struttura sintattico-sementica. Es.
La botte dà il vino che ha; Chi semina raccoglie. In tale classe di proverbi è
possibile dunque constatare la presenza di una motivazione totale, derivabile dalla compresenza dei due designata di langue: quello metaforico e
quello letterale.
Classe b). Se invece la designazione metaforica interessasse solo
uno o alcuni elementi costitutivi della frase, non si avrebbe la coesistenza
dei due designata letterale e metaforico, se non relativamente ai suddetti
costituenti. Es. Chi vuole la figlia compri la mamma, in cui il solo verbo comprare assume un senso traslato.
Esistono poi casi difficilmente classificabili che si presterebbero
all’una e all’altra classificazione, come, ad esempio, Chi biasima vuol comprare, in cui si possono postulare più interpretazioni possibili; una letterale: «Chi biasima una merce (o simili) intende comprarla», e in questo caso
la designazione metaforica sarebbe Quando una persona biasima significa che è
interessata all’oggetto biasimato; in tale frangente il proverbio sarebbe un tipo
della classe a); ma potrebbe anche interpretarsi vuol comprare come unico
sintagma avente designazione metaforica (nel senso di è interessato a qualcosa) e in tal caso il tipo slitterebbe nella classe b).
Da tutto ciò si evince che solo i proverbi della prima classe sono caratterizzati dalla anomalia semantica79, comune anche al resto delle espressioni idiomatiche (anche se non a tutte, come vedremo). Ma ora è
necessario fare un passo ulteriore e decisamente importante. Tale anoma-
Si ricordi l’assunto iniziale per cui l’anomalia trae origine dal rapporto tra la frase proverbiale – in quanto segno, dotata di un significato e di un significante – e il contenuto di
pensiero designato, o concetto.
79
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Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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lia interessa tutte le paremìe indistintamente? Parrebbe proprio di no. Si
pensi a frasi del tipo Essere un leone o Essere una civetta. A prima vista parrebbero della stessa natura ma con una serie di prove ci si rende immediatamente conto che così non è. Infatti mentre posso dire tranquillamente frasi quali X è un po’ civetta, o Quanto sei civetta! non altrettanto posso fare se sostituisco il termine civetta con il termine leone: *X è un po’ leone,
o *Quanto sei leone!
Esisterebbero infatti casi in cui nel termine non sono più compresenti l’aspetto metaforico e quello letterale (di langue); è il caso di civetta
utilizzato in modo da non contenere più alcun riferimento all’animale
civetta: si tratterebbe di un caso di mera polisemia, in cui il lessema in
esame avrebbe una duplice accezione, da un lato civetta = uccello rapace
notturno, dall’altro civetta = donna che ama farsi corteggiare, in cui si è perso
però il legame con il senso originario, a differenza di quanto si verifica
per leone. È dunque opportuno distinguere, nel codice lessicale di un
determinato idioma, le metafore vere e proprie, che con Agostiniani
definiamo istituzionalizzate, nelle quali coesistono la designazione metaforica e quella letterale di langue, e altre tipologie che definiamo metafore
morte (che non sono metafore se non nella dimensione diacronica della
lingua), «vale a dire quei termini in cui il meccanismo di designazione
metaforica ha cessato di funzionare e che perciò non presentano altre
peculiarità di comportamento semantico al di fuori della polisemia»80.
A tale punto della trattazione è possibile traslare il ragionamento
dagli elementi del codice lessicale a quelli del codice retorico della lingua:
L. AGOSTINIANI, op. cit., p. 104. Si tenga presente che, ancora una volta, esistono casi
difficilmente classificabili; si pensi ad asino: metafora istituzionalizzata o metafora morta?
80
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Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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così come accade per civetta, in idiomatismi quali Perdere la bussola, Menare
il can per l’aia o Prendere un granchio, il significato è univoco, poiché non c’è
designazione metaforica dei concetti espressi, ovvero ‘perdere il controllo di sé’, ‘tergiversare’, ‘commettere un grosso errore (di interpretazione)’. «Tali concetti costituiscono l’unico contenuto associato alle espressioni in questione: contenuto che si determina linguisticamente nelle
strutture paradigamatiche»81, nel senso che il significato di Perdere la bussola si qualifica linguisticamente in rapporto ai contenuti associati ad altre
espressioni (come arrabbiarsi) o idiomatismi quali Uscire dai gangheri o Non
vederci più.
«Viceversa il concetto perdere la bussola è semanticamente assente e non
può emergere che dalla riflessione metalinguistica: con varie gradazioni di
difficoltà, e varie possibilità di successo, in ragione della maggiore o minore rispondenza della struttura sintattico-semantica dell’idiomatismo alle regole funzionanti della lingua (le probabilità di successo paiono minime, per esempio, con un idiomatismo come di punto in bianco)»82.
Invece la compresenza dei due designata al livello di langue, da cui
scaturisce designazione metaforica, così come capita per leone, pare interessare un’altra tipologia di idiomatismi, quali Chiudere la stalla quando i
buoi sono scappati, Battere il ferro finché è caldo, o Parlare di corda in casa dell’impiccato. In questo tipo di espressioni idiomatiche l’anomalia semantica è
della stessa qualità di quella riscontrata nei proverbi «e come i proverbi, e
in contrapposizione alla univocità di interpretazione di idiomatismi come
81
Ibid., p. 104.
82
Ibid., pp. 104-105.
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Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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Perdere la bussola, mostrano un complesso gioco di interazione tra significato (“letterale”), designatum “letterale” e designatum metaforico»83. Tale
stretta analogia è confermata anche dal fatto che i modi di dire sopra
citati possono essere utilizzati come proverbi, «e alcuni di fatto lo sono, e
ampiamente», seppur con qualche piccolo accorgimento «che li renda
autonomi e commutabili a livello della frase o del testo»: Il ferro va battuto
finché è caldo, È inutile chiudere la stalla quando i buoi sono scappati.
La conclusione di Agostiniani è che si deve distinguere tra due tipologie paremìache:
1. La prima qualificata dalla presenza della designazione metaforica
(detta anche, meno tecnicamente, motivazione o meglio “motivabilità”,
come si è detto), e quindi di anomalia, da cui scaturirebbe l’ambiguità
semantica, o meglio pluralità dei significati. Si pensi al caso di La botte dà
il vino che ha, o Essere un leone. Ecco schematicamente i tratti essenziali
(ovviamente applicabili con segno negativo alla tipologia seguente):
presenza di ambiguità semantica (polisemia);
presenza di anomalia semantica;
maggiore rigidità del significante.
2. La seconda tipologia paremìaca è contraddistinta dall’assenza di
designazione metaforica (si badi bene, in sincronia ma non in diacronia)84, da cui, come accennato, deriverebbero alcune conseguenze:
83
Ibid., p. 105.
A tale riguardo è opportuno segnalare l’interessante passo di Nunberg, evidenziato da
F. CASADEI (op. cit., p. 62), in cui lo studioso dichiara che c’è spesso una motivazione diacronica alla base della relazione tra significato letterale e idiomatico e dunque non si capirebbe
per quale ragione essa non possa rivelarsi ed essere percepita anche in sincronia, conferendo
all’idiomatismo una «post hoc motivation».
84
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Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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presenza di significato univoco;
assenza dell’anomalia semantica;
minore rigidità del significante85.
È quest’ultimo il caso delle metafore morte come Essere una civetta o
Perdere la bussola. Si conviene con Agostiniani, relativamente all’opinione
espressa da Coseriu, quando afferma che solo in casi di espressioni idiomatiche come Perdere la bussola il legame tra l’espressione e i lessemi che la
compongono è di tipo etimologico e va ricercato dunque in diacronia.
Non così per altre tipologie di espressioni idiomatiche e per i proverbi,
qualora siano entrambi caratterizzati da designazione metaforica, per i
quali non c’è altro contenuto semanticamente determinato se non quello
derivante dalla struttura sintattico-semantica.
Tra l’altro alcune teorie psicolinguistiche, quali la Idiom Decomposition
Hypothesis (attribuibile a Gibbs e Nayak)86, e la Multistage model of figurative
language understanding (attribuibile a Honeck e collaboratori)87, che conflui-
Per quanto attiene alla rigidità sintattico-semantica delle espressioni idiomatiche, da
sempre considerata un tratto distintivo tradizionale e unanimemente condiviso dagli studiosi,
è bene evidenziare con Nunberg, Sag e Wasow (per quanto anche l’intuizione logica ci porti
in tale direzione) l’esistenza di una correlazione diretta tra la modificabilità degli idioms e la
loro analizzabilità semantica. Si pensi, per esempio, a Spill the beans (alla lettera rovesciare i fagioli
e in senso idiomatico ‘rivelare un segreto’) e a Kick the bucket (alla lettera dare un calcio al secchio
e in senso idiomatico ‘morire’). Si evince immediatamente un maggior grado di decomponibilità nel primo esempio, e infatti per esso è ammessa, ad esempio, la passivizzazione The beans
were spilled; mentre altrettanto non può accadere per *The bucket was kicked. Cfr. G. NUNBERG,
I. SAG, T. WASOW, Idioms, «Language», 70, 1994, pp. 491-538.
85
R.W. GIBBS e N.P. NAYAK, Psycholinguistic Studies on the Syntactic Behavior of Idioms,
«Cognitive Psychology», 21, 1989, pp. 100-138.
86
R.P. HONECK, J.G. TEMPLE, op. cit., pp. 85-112. Degli stessi autori si veda anche
Proverbs and the complete mind, «Metaphor and Symbolic Activity», 11, 3, 1996, pp. 217-232.
Senza tralasciare R.P. HONECK, J. WELGE, J.G. TEMPLE, The symmetry control in tests of the
standard pragmatic model: the case of proverb comprehension, «Metaphor and symbol», 13, 4, Lawrence Erlbaum Associates, Inc., 1998, pp. 257-273.
87
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
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rà nella Extended Conceptual Base Theory (breviter ECBT)88 sembrerebbero
accreditare tale visione dell’idiomatico, in base alla quale il significato del
proverbio, seppure sconosciuto, si colga comunque dalla sua struttura
sintattico-semantica, e altrettanto è possibile sostenere per quello degli
idiomatismi ugualmente dotati di designazione metaforica; mentre le altre
espressioni idiomatiche, se non note, sono generalmente indecifrabili, dal
momento che la loro comprensione passa attraverso la convenzionalità
dell’uso89.
Per capire il meccanismo di comprensione delle espressioni idiomatiche occorre preliminarmente distinguere nel continuum due estremi che
possiamo definire esemplari e cioè da un lato gli idiomatismi il cui significato figurato non è analizzabile e/o trasparente in base al significato
L’ECBT deriva dal primigenio multistage model of figurative language comprehension, e
condivide con quello l’idea che la comprensione del significato figurato «results from serial
processes during which the literal meaning of a proverb is transformed to help construct a
nonliteral interpretation», come osservano Temple e Honeck in un loro contributo del 1999.
Cfr. A. CIESLICKA, Comprehension and interpretation of proverbs in L2. (Linguistics), The Free
Library (January, 1), 2002, http://www.thefreelibrary.com/Comprehension and interpretation of proverbs in L2. (Linguistics).-a095571789.
88
Schematizzando drasticamente possiamo dire che in àmbito psicolinguistico esistono
tre principali teorie che tentano di gettare luce sul funzionamento delle espressioni idiomatiche. Secondo l’ipotesi lessicale (D. SWINNEY, A. CUTLER, The access and processing of idiomatic
expressions, «Journal of Verbal Learning and Verbal Behavior», 18, 1979, pp. 523-534) i modi
di dire sono stoccati nel lessico insieme agli altri elementi del codice lessicale, e recuperati da
esso come se fossero lunghe parole morfologicamente complesse. Secondo l’ipotesi configurazionale (C. CACCIARI, P. TABOSSI, The comprehension of idioms, «Journal of Memory and Language», 27, 1988, pp. 668-683) il significato delle espressioni idiomatiche è associato nel
lessico a delle particolari configurazioni di parole e viene recuperato quando l’analisi linguistica ordinaria, basata sull’interpretazione letterale, porta all’identificazione della stringa come
una configurazione nota. Secondo la Idiom Decomposition Hypothesis (R.W. GIBBS, N.P. NAYAK, Psycholinguistic Studies on the Syntactic Behavior of Idioms, «Cognitive Psychology», 21, 1989,
pp. 100-138) gli idiomatismi sono riconosciuti in maniera diversa a seconda che siano decomponibili o non decomponibili. I primi, in cui il significato dei costituenti contribuisce alla
formazione del significato figurato complessivo, sono rappresentati e recuperati composizionalmente; mentre gli idiomatismi non decomponibili, in cui non è possibile trovare una
relazione tra i singoli lessemi costituenti e il significato idiomatico complessivo, sono rappresentati e recuperati come delle unità lessicali.
89
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letterale dell’espressione (ad es. Di punto in bianco, cioè ‘improvvisamente’,
o Kick the bucket, ‘morire’, alla lettera dare un calcio al secchio); dall’altro sono
collocate le espressioni idiomatiche come Mettere i puntini sulle i, ossia
‘precisare con la massima chiarezza i termini di una questione’ e anche
‘essere eccessivamente pignoli nel farlo’, o Spill the beans, ovvero ‘rivelare
un segreto’ (letteralmente rovesciare i fagioli). Negli ultimi due esempi si
nota immediatamente una certa analizzabilità semantica dei costituenti e
una qualche trasparenza del significato idiomatico rispetto a quello letterale, visto che quest’ultimo suggerisce o implica l’altro (con una differenza: mentre nel primo esempio in italiano l’aspetto letterale dell’espressione suggerisce una volontà di precisione, in quello inglese esso implica
che è stato fatto qualcosa che non si doveva fare)90. Ovviamente, il contesto e la familiarità giocano un ruolo molto importante nella decodifica
delle espressioni idiomatiche, e dunque assume importanza rilevante la
variabile del noto/non noto segnalata nell’ipotesi configurazionale. A
questo punto apparirà sicuramente più chiaro e inequivocabile quanto
dichiarato da Honeck e coll. a proposito delle differenze tra la modalità
di decodifica dei proverbi e quella degli idiomatismi91.
90
Cfr. anche R.W. GIBBS, N.P. NAYAK, op. cit.
91
Cfr. R.P. HONECK, J. WELGE, J.G. TEMPLE, op. cit. e n. 22 di questo capitolo (p. 25).
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I.2.4. LA VERITÀ DEL PROVERBIO: UNA PROPOSTA ETIMOLOGICA
Secondo altri studiosi92 si può osservare ancora un tratto che separa
i proverbi dalle espressioni idiomatiche; sebbene il significato idiomatico
di entrambi possa mantenere un legame più o meno forte con quello
composizionale dell’espressione, a variare sarebbe la natura di tale idiomaticità: nelle espressioni idiomatiche il senso figurato non si baserebbe
sulla condizione di verità espressa dall’enunciato93; mentre i proverbi
introducono nel discorso una verità già nota, di validità generale e permanente – atemporale, dunque – la cui funzione è di argomentare e
comprovare al fine di convincere l’interlocutore. Tale verità risaputa
rappresenta la pietra angolare sulla quale si fonda la forza argomentativa
e persuasiva del proverbio. Invece l’espressione idiomatica, pur avendo
lo stesso aspetto illocutivo, baserebbe la sua capacità persuasiva sulla
distorsione della verità. Dunque, per quanto riguarda l’aspetto pragmatico delle unità fraseologiche in esame, i proverbi pretendono di convincere l’interlocutore tramite la verità inesauribile basata sull’esperienza, sfruttando il loro sigillo di antichità e la loro capacità di mantenere efficacia
comunicativa nello spazio e nel tempo. Le espressioni idiomatiche,
d’altro canto, aspirerebbero a convincere l’interlocutore cercando di
92
Si veda ad esempio M. GONZALES REY, op. cit., pp. 57-73.
Più precisamente, possiamo distinguere con la studiosa spagnola due tipi di espressioni idiomatiche: quelle di tipo 1 (derivanti da combinazioni libere arcaiche ormai cadute in
disuso o, se ancora vive, provenienti da altri campi lessicali) sono carenti di veridicità temporale o spaziale e giustificano la propria idiomaticità in funzione della devianza d’uso, mentre
quelle di tipo 2, che non hanno corrispondenze omografe, sono caratterizzate da idiomaticità
generata da una distorsione della realtà, dovuta in primis all’assenza totale di composizionalità
(sia interna sia con il contesto) e quindi alla creazione di enunciati letteralmente sorprendenti
per non dire assurdi.
93
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Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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impressionarlo, rompendo gli schemi e destabilizzando le sue aspettative,
con immagini di forte impatto iconico, svianti dalla realtà e che nulla
avrebbero a che fare con la verità empirica su cui invece il proverbio si
fonda94.
Varrebbe ora la pena di effettuare una breve indagine etimologica
sul termine proverbio e dunque su verbum, nel tentativo di verificare se in
qualche modo esso contenga intrinsecamente il concetto di vero e quindi
di verità.
Temistocle Franceschi95 ritiene che l’etimo cui si debba ricondurre
la parola italiana proverbio sia verbum, nel senso di espressione verbale orale:
«E come adverbium “forma applicata a [modificarne] un’altra” si può
riportare a verbum ad verbum, così possiamo ricondurre proverbium a verbum
pro verbo: costrutto che interpreteremo come “atto verbale che sta a rappresentarne un altro”, ovvero “modo di dire [qualcos’altro]”». Lo studioso precisa che «il nostro vocabolo si qualifica come una sequenza di
sintagmi costituente un singolo atto verbale. Definizione questa che può
corrispondere a modo di dire, idiotismo, espressione idiomatica, ma
anche, nel caso più complesso, al significato che oggi si suole riconoscere
al termine in oggetto: quello di frase finita con valore di sentenza. Un
senso generico del vocabolo si riscontra in effetti fin dalle origini, e tuttora usiamo dire che “è passata in proverbio” – o “è divenuta proverbiale” – la pazienza di Giobbe, in riferimento alla locuzione aver più pazienza
di Giobbe». Analogamente possiamo citare con Franceschi Ci vorrebbe la
Lo stesso concetto è espresso in T. FRANCESCHI, L’Atlante Paremiologico Italiano e la
Geoparemiologia, cit., p. 11: «Proprio su tale intuizione di una “verità universale” noi vediamo
riposare in primissimo luogo la potenza retorica del proverbio».
94
95
T. FRANCESCHI, La formula proverbiale, cit., p. IX.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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memoria di Pico della Mirandola o anche È cosa lapalissiana che, essendo
entrate nell’uso tradizionale, prescindono dalla conoscenza che il parlante
possa avere della Bibbia o di personaggi storici come Pico o monsieur de
la Palisse.
Sebbene altre interpretazioni etimologiche non coincidano con
quella proposta da Franceschi, proverbio è sicuramente connesso in qualche modo a verbum.
Nella letteratura paremiologica esaminata sembra ricorrere un altro
nesso costante, rintracciabile in modo particolare nell’interpretazione
popolare della parola proverbio96, ma non solo: non sono pochi i paremiologi che hanno privilegiato nelle proprie definizioni l’aspetto normativo nonché quello mitico che quindi vede nella frase proverbiale un
barlume di verità ancestrale97. In sostanza emerge una connessione tra il
significato di verbum e quello di vērus che farebbe supporre l’esistenza di
un’unica parola progenitrice depositaria del concetto di parola intrisa di
verità (cioè vera nel senso di degna di fede), così come accade nel greco
λόγος, in cui il senso di parola, di concetto e di verità si trasfondono
l’uno nell’altro98.
96
Rimandiamo per ulteriori precisazioni al primo paragrafo di questo capitolo.
Tra i tanti si pensi a P.J.L. ARNAUD (op. cit., pp. 5-27) che cita tra le peculiarità distintive del proverbio la capacità di esprimere il valore di verità generale; analogo concetto è
ravvisabile in M. GONZALES REY, op. cit., pp. 57-73. Si tenga anche presente l’interessante
definizione di proverbio di M. Durante, citata da G.R. CARDONA e fino ad allora inedita (op.
cit., p. 166): «Il proverbio è una sequenza grammaticalmente autonoma che si caratterizzi
rispetto al discorso colloquiale per il ritmo fonico (ritmo, allitterazione, etc.) ed eventualmente semantico (antitesi, parallelismo, gradazione) ed esprima un contenuto assunto come verità
paradigmatica, cioè tale da adattarsi non soltanto alla situazione in atto, ma altresì a qualunque
situazione dello stesso genere» (corsivo mio). Per ciò che concerne l’aspetto mitico del
proverbio, si rinvia al fondamentale contributo di A.J. GREIMAS, op. cit.
97
Si ricordi che la capienza semantica di Logos include il senso di parola, ossia ciò che
esprime il pensiero (lat. oratio), ma è anche il pensiero stesso (lat. ratio). Inoltre, tra i tanti (si
98
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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Viene da domandarsi se, oltre alla presunta radice etimologica in
comune, rinvenibile nell’indeuropeo
*u̯er-dho-,
radice di parola, e
*u̯ēro-s
riconducibile a vero, verbum e vērus non condividano anche lo stesso significato di base99.
A. Ernout e A. Meillet100, trattando la voce vērus nel loro Dizionario
Etimologico, forniscono informazioni sulla rintracciabilità di tale parola,
per esempio, nell’irlandese fír, oppure nello slavo věra (“croyance”) o nel
pehlvi vāvar (“authentique, qui mérite foi”)101 e concludono con un rinvio: «voir de plus l’article verbum», istituendo un legame stretto tra vērus /
verbum che non viene ulteriormente precisato e resta dunque in sospeso.
Ad ogni modo, seguendo tale indicazione ed esaminando la voce verbum,
si evince che in alcune parole di diverse lingue indeuropee è visibile
pensi al significato di discorso e quello di promessa, ma anche di detto, proverbio, massima e
ancora quello di rivelazione, oracolo, responso) assume – e traduce – il significato
dell’ebraico ‘parola rivelata’, ‘messaggio di Gesù’, ‘parola della verità’, analogamente al latino
Verbum. Sebbene quest’ultima sia un’evoluzione semantica relativamente tarda (infatti è in età
cristiana che si ebbe l’identificazione del concetto di verità con quello di divinità: si pensi in
primis al Vangelo di Giovanni), è evidente che già in partenza la parola contenesse i presupposti semantici che hanno consentito l’espansione in tale senso dell’accezione: basti pensare
al significato di rivelazione, a quello di oracolo e di responso. D’altro canto anche in latino emerge
la sacralità della parola verbum, già prima che si possa parlare di Verbum, se si pensa all’umbro
verfale (‘tempio’; cfr. VARRONE, De Lingua Latina, 7,8: «In terris dictum templum locus augurii
aut auspicii causa quibusdam conceptis verbis finitus»), di uguale radice. Si vedano anche:
H.G. LIDDEL e R. SCOTT, Dizionario illustrato greco-italiano, a cura di Q. Cataudella, M. Manfredi, F. Di Benedetto, Casa Editrice Le Monnier, Firenze, 1975, p. 783; F. MONTANARI,
Vocabolario della lingua greca, II edizione, Loescher, Torino, 2004, pp. 1269-1270. Naturalmente
si tenga presente che anche il latino verbum racchiude oltre al significato di parola, quello di
proverbio e sentenza: «verum vetus est verbum quod memoratur: ubi amici ibidem opes»
(PLAUTO, Truculentus, 885).
Per le radici indoeuropee si fa riferimento a J. POKORNY, Indogermanisches etymologisches
Worterbuch, Franche, Bern-Munchen, 1959, vol. I, pp. 1162-1163 e 1176. Cfr. anche V. PISANI, Glottologia Indeuropea, Rosenberg & Sellier, Torino, 1961, pp. 466 e 477.
99
A. ARNOUT, A. MEILLET, Dictionnaire Étymologique de la Langue Latine. Histoire des mots,
Librairie C. Klincksiek, Paris, 1932, pp. 1052-1053 (alla voce vērus) e p. 1046 (alla voce verbum).
100
101
Soprattutto dalla voce vāvar emerge il senso di vero come fededegno.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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l’intersecarsi dei due significati di parola e verità: si pensi all’avestico urvāta
(prescrizione), allo slavo antico rota (giuramento), e soprattutto al sanscrito vratam (voto = promessa solenne). A questo punto non si può non
pensare all’espressione idiomatica dell’italiano Prendere in parola (o anche
Dare la propria parola e Dare la parola d’onore, a seconda del ruolo svolto
nell’atto comunicativo) nel senso di attribuire valore d’impegno o di
promessa a quanto qualcuno afferma; d’altro canto, con l’atto commissivo del promettere, il parlante s’impegna sul fatto che un certo stato di
cose si realizzerà nel futuro, dando garanzia che quanto dice è vero e
perciò degno di fede.
Dopo questo necessario excursus etimologico è possibile sostenere
che il sigillo della verità è inscritto nel DNA della proverbialità.
I.2.5. PAREMÌE: L’INEVITABILITÀ DELL’INDETERMINATEZZA
Tuttavia, malgrado i diversi tentativi di creare divisioni nette tra le
due entità fraseologiche in esame, resta comunque un margine di indecifrabilità e concomitanza tra le due sfere di significato, giacché esse possono anche intersecarsi. È noto che tante locuzioni hanno avuto origine
da proverbi e/o viceversa conosciamo proverbi scaturiti da locuzioni,
sebbene ciò accada in misura minore102. Si pensi, a titolo di esempio, al
Cfr. G. CORPAS PASTOR, op. cit., p. 134, e T. FRANCESCHI, Introduzione a Dizionario dei
Proverbi, cit., p. XII, n. 21.
102
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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proverbio Chi troppo vuole nulla stringe: esso può essere definito proverbio
se si tiene conto della sua autonomia sintattica, nonché della sua natura
didattico-normativa, basata sulla verità esperienziale; tuttavia può definirsi anche modo di dire (e così è catalogato, ad esempio, da Pittàno), e
quindi come paragone accorciato, se si considera la sua origine dalla
favola Il cane e la carne103 nella quale, come si ricorderà, Fedro narra la
storia di un cane che attraversa a nuoto un fiume tenendo stretto in bocca un pezzo di carne e, nel vedere la sua immagine riflessa nell’acqua,
crede di avere davanti a sé un suo simile con un bel boccone tra le fauci:
nel tentativo di afferrarlo perde, per avidità, ciò che aveva tra i denti.
Un invito alla misura forse non inutile a chi, in àmbito paremiologico, cerchi definizioni troppo stringenti.
103
FEDRO, Favole, I, 4, cit. in G. PITTÀNO, op. cit., p. 67.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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CAPITOLO II
LA DIMENSIONE PRAGMATICA DELLE FORMULE PROVERBIALI
II.1. DALLA SEMANTICA ALLA PRAGMATICA DEL PROVERBIO
Nel primo capitolo ci siamo occupati di chiarire quanto meglio possibile la natura logico-linguistica delle paremìe, analizzando le problematiche ad esse relative sotto una luce prevalentemente semiotica, e più specificatamente semantica (si pensi, ad esempio, al discorso relativo alla designazione metaforica del proverbio in quanto segno, suggerito dalla riflessione di Agostiniani in Semantica e referenza nel proverbio)1. Non sono tuttavia
mancati sporadici riferimenti ad altre prospettive di analisi; in modo particolare abbiamo puntato l’attenzione sull’aspetto pragmatico delle paremìe
quando esso è parso un utile parametro per distinguere l’ambito di applicazione del proverbio da quello delle espressioni idiomatiche.
Ora, fatte le necessarie premesse, è lecito dare alla nostra disamina
un’impostazione eminentemente pragmatica, giacché solo una tale prospettiva può garantire un risultato soddisfacente e rigoroso all’analisi
linguistica delle formule proverbiali oggetto d’esame.
Come è noto la sola competenza linguistica (che determina ciò che è
detto da un enunciato in senso semantico) non è sufficiente per decodifi1
L. AGOSTINIANI, op. cit.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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care esattamente un testo connotato dalla presenza di linguaggio figurato,
entro il quale si enuclea anche quello paremìaco; per comprendere tale
tipologia testuale, come insegna Dell Hymes, è necessaria una competenza comunicativa, ovvero quella «abilità propria degli utenti di una lingua
di usarla in modo efficace e appropriato nei diversi contesti e per le esigenze comunicative di vario tipo»2. Solo in base a tale competenza si può
determinare ciò che il parlante intende comunicare con un enunciato: di
questa si occupa la pragmatica, strumento di analisi col quale affronteremo e affineremo la nostra analisi testuale3.
Sarà quindi sufficiente un’inquadratura generale della disciplina sulla
quale baseremo il nostro metodo d’indagine; nei paragrafi successivi,
focalizzeremo l’attenzione sulla teoria degli atti linguistici e la ricorrenza nel
linguaggio di atti linguistici indiretti nonché sul principio di cooperazione e il
meccanismo dell’implicatura conversazionale elaborati da Paul Grice.
Il termine pragmatica4 nonché una prima definizione della disciplina apparvero nel 1938 nel saggio di Charles Morris, dal titolo Foundations
Si veda C. ANDORNO, Che cos’è la pragmatica linguistica, Carocci, Roma, 2005, pp. 7 e ss.
Cfr. anche C. BIANCHI, Pragmatica del linguaggio, Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 52.
2
Per quanto riguarda il concetto di intenzionalità comunicativa è bene tenere in considerazione le osservazioni di E. CRESTI esposte in Le unità di informazione e la teoria degli atti linguistici, in AA.VV., La linguistica pragmatica. Atti del XXIV Congresso della Società di linguistica italiana,
Milano 4-6 settembre 1990, a cura di Giovanni Gobber, Bulzoni, Roma, 1992, pp. 501-529.
Cresti, basandosi su alcuni studi psicoanalitici che fanno per lo più riferimento alla teoria
della psiche di Massimo Fagioli, ritiene che venga meno la tradizionale distinzione tra
l’aspetto di presenza/assenza di lucida consapevolezza che differenzia l’atto illocutivo da
quello perlocutivo. La studiosa, infatti, mette in evidenza l’aspetto pulsionale della comunicazione e quindi degli atti linguistici, traendo le conseguenze di incontrollabilità razionale
dell’atto illocutorio.
3
Nell’etimologia di tale parola è riconoscibile la radice greca prâgma (azione, fatto); si
pensi altresì al greco pragmatikós, che significa “relativo ai fatti”, nonché al termine italiano, di
derivazione greca, prassi.
4
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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of the Theory of Signs5. Schematizzando brevemente, ecco la tripartizione
morrisiana della semiotica:
a) sintassi, ovvero studio delle relazioni tra i segni;
b) semantica, vale a dire studio delle relazioni fra i segni e gli elementi della realtà cui essi rimandano;
c) pragmatica, cioè studio delle relazioni fra i segni e gli utenti del
codice.
Come segnalato da Cecilia Andorno, dello stesso tenore è la coeva
definizione del filosofo del linguaggio Robert Carnap (1938), per il quale
«la pragmatica è lo studio della lingua in riferimento ai suoi utenti e, in
questo, si contrappone alla semantica, che studia invece la lingua astraendo dal riferimento agli utenti, e alla sintassi, che studia la lingua astraendo sia dal riferimento agli utenti sia dal riferimento alla realtà cui essa
rimanda»6. Tali definizioni evidentemente «si prestano a una concezione
ampia della pragmatica, che potrebbe spingersi ad includere (almeno) la
psicolinguistica e la sociolinguistica, ovvero lo studio della lingua in relazione ai parlanti in quanto soggetti sociali e psicologici»7. Per una definizione di pragmatica quale scienza dell’uso linguistico si può tenere conto
di quella proposta da Katz e Fedor nel 1963, di impostazione formale
generativa, secondo cui la pragmatica dovrebbe essere «lo studio
dell’esecuzione linguistica, cioè di tutto ciò che nella comunicazione è
contingente e non codificato nella lingua, in contrapposizione alla seC.W. MORRIS, Foundations of the theory of signs, in O. Neurath, R. Carnap, C. W. Morris
(eds.), International Encyclopedia of Unifies Science, University of Chicago Press, Chicago, pp. 77138, cit. in C. ANDORNO, Che cosa è la pragmatica linguistica, cit., pp. 9 e ss.
5
6
Si veda C. ANDORNO, ibid., p. 9.
7
Ibid., p. 10.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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mantica e alla sintassi, che si occupano invece delle proprietà sistematiche della lingua in quanto codice. In questa prospettiva, la pragmatica
non può assurgere a vera scienza linguistica, la quale si occupa esclusivamente dei fatti sistematici relativi alla competenza dei parlanti»8. Andorno procede nella sua disquisizione sulla definizione di pragmatica
citando la reazione di Dell Hymes a tale visione limitata della competenza linguistica dei parlanti (intesa come competenza del codice avulsa dalle
sue funzioni comunicative): la replica di Hymes si materializza nella coniazione del già citato concetto di competenza comunicativa. A sua volta
Stephen Levinson, nel primo, e a tutt’oggi usato, manuale di pragmatica,
pubblicato nel 1983, propone ed esamina diverse definizioni ritenendo,
in ultima analisi, che la più efficace, sebbene non esente da problemi, sia
la seguente (così la riporta la studiosa italiana): «La pragmatica è lo studio
delle relazioni tra la lingua e il contesto che sono fondamentali per spiegare la comprensione della lingua stessa da parte degli utenti»9.
Ad ogni modo, alla domanda cosa è la pragmatica il parere degli studiosi non è univoco. Carla Bazzanella tenta di rispondere semplificando
drasticamente il problema: dopo aver premesso che essa sia «un settore
che ha conosciuto un rapido sviluppo nel XX secolo, ma tuttora di difficile definizione», si limita a precisare che «in realtà, più che di una teoria
pragmatica (se, con Davis 1987, consideriamo scopo di una teoria il dare
una spiegazione di ciò che preteoricamente appaiono [sic] come insieme
di fatti correlati tra di loro in modo unitario) a tutt’oggi è meglio parlare
di una prospettiva pragmatica, relativamente ad ogni livello e aspetto
8
Ibid.
9
Ibid.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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della lingua»10. Anche J.R. Searle, F. Kiefer e M. Bierwisch sottolineano
che «pragmatica è una di quelle parole come sociale e cognitivo che danno
l’impressione che si stia parlando di qualcosa di molto specifico quando
in realtà spesso non hanno un significato preciso»11. Come arginare tale
problema? Crediamo che in tale caso per soddisfare i nostri intenti sarà
comunque sufficiente riscontrare che esistono diversi modi di concepire
la pragmatica, ciascuno dei quali cattura solo alcuni dei fenomeni del logos
tipicamente studiati dai pragmatisti. Come sostenuto recentemente anche
dall’etnolinguista Alessandro Duranti, la moltiplicazione, a partire dal XX
secolo, delle discipline afferenti al linguaggio da un lato ha implementato
il «sapere collettivo (oltre che la nostra curiosità) su tutto ciò che ha a che
fare col parlare, lo scrivere, il decodificare, il tradurre, il pensare in parole
e così via», dall’altro ha però prodotto un pericoloso offuscamento delle
nostre capacità di cogliere in maniera sintetica e sistematica gli aspetti
fondamentali dell’interazione comunicativa quotidiana. La domanda
portante su cui per Duranti deve essere incanalata la ricerca pragmatica è
dunque: «Che vuol dire che esiste una forza nel parlare?»12. Di questo è
bene tenere conto.
Per quanto concerne un approccio più specificatamente linguistico,
se restassimo sul vago, ci potremmo accontentare di sapere che la pragmatica è lo studio dell’uso del linguaggio, della lingua in azione e quindi
della lingua in contesto; ma come è evidente si tratta di una definizione
Cfr. C. BAZZANELLA, Linguistica e pragmatica del linguaggio. Un’introduzione, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008, p. 102.
10
11
Ibid., p. 102, n. 3.
12
Si veda A. DURANTI, Etnopragmatica. La forza nel parlare, Carocci, Roma, 2007, pp. 11-22.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
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che palesa una parziale sovrapposizione con quella della semantica. Ciò
appare più evidente laddove si concentri l’attenzione sugli effetti che il
contesto extralinguistico può avere sul significato di un enunciato13.
Alcuni studiosi hanno tentato di separare la sfera d’influenza della
semantica da quella della pragmatica basandosi su parametri contestuali.
Secondo Claudia Bianchi si possono infatti distinguere due facies nella
nozione di contesto: una semantica e una pragmatica, in base alle quali è
possibile parlare di usi pre-semantici, semantici e post-semantici del contesto14. Più precisamente, specifica Bianchi, il contesto semantico «fissa
l’identità di parlante e interlocutori, il tempo e il luogo del proferimento, e
così via: è la nozione che entra in gioco negli usi semantici del contesto»,
mentre il contesto pragmatico è costituito dall’insieme di credenze, desideri, intenzioni, scopi degli interlocutori: si tratta appunto della nozione di
contesto che viene mobilitata negli usi pre e post-semantici del contesto15.
Tale distinzione fonda e giustifica quella precedentemente citata tra competenza linguistica e comunicativa. La filosofa del linguaggio sottolinea
come nella semantica tradizionale ogni enunciato ben formato esprima
una e una sola proposizione, mentre nei casi pre e post-semantici è come
se si avessero “troppi significati”. Riportiamo qualche esempio: tra gli usi
pre-semantici del contesto si può citare il caso di Bea ha una vecchia credenza;
A tale riguardo si può tenere conto che recentemente i filosofi del linguaggio stanno dedicando ampio spazio a ricerche che vedono in primo piano il concetto di contesto; cfr., ad esempio,
il contributo di P. Bouquet e F. Delogu e quello di C. Penco, consultabili on line rispettivamente ai
seguenti siti: http://lgxserve.ciseca.uniba.it/lei/biblioteca/lr/public/bouquet_delogu-1.0.pdf e
http://www.dif.unige.it/epi/hp/penco/pub/anatra.pdf.
13
Si veda C. BIANCHI, op. cit., pp. 50 e ss.; cfr. anche J. PERRY, Indexicals and demonstratives, in B. Hale and C. Wright (eds.), A companion to the philosophy of language, Blackwell,
Oxford, 1997, pp. 586-612.
14
15
Cfr. C. BIANCHI, op. cit., p. 52.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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in cui notiamo la presenza di un termine semanticamente ambiguo quale
“credenza” che potrebbe rimandare sia a mobile (antico) sia a convinzione
(antiquata). In tale caso si parla di usi pre-semantici di contesto poiché la
disambiguazione è pre-semantica, cioè «entra in azione prima che la teoria
semantica vera e propria assegni significati» ai vari lessemi di Bea ha una
vecchia credenza «e prima che entrino in gioco le regole di composizione»16.
Per ciò che attiene agli usi post-semantici del linguaggio citiamo il caso di
Bea è una balena, in cui la disambiguazione può oscillare tra il senso di Bea è
un cetaceo o Bea è in sovrappeso. In questo caso si parlerà di uso contestuale
post-semantico poiché il parlante si avvale delle aspettative, delle credenze,
delle intenzioni (e dunque delle convenzioni) condivise con i suoi interlocutori «per comunicare qualcosa di più del (o di diverso dal) senso letterale
delle espressioni che utilizza»17; il recupero di tale livello di senso richiede
l’esecuzione di certi tipi di inferenza18. Considerando che quello sopra
citato è un tipico uso di linguaggio figurato, apparirà chiaro che in tali casi
è il contesto pragmatico a consentire di individuare quale proposizione il
parlante esprima in quella particolare situazione comunicativa. Con Bianchi si può quindi sintetizzare che la pragmatica si situa “prima” e “dopo”
la teoria semantica, segnandone il limite superiore e inferiore. Un altro
punto di vista che vale la pena segnalare è quello del filosofo del linguaggio François Récanati; egli parla di “letteralismo” e “contestualismo” per
distinguere le due direzioni di studi linguistici: da un lato quelli prettamente semantici e dall’altro quelli pragmatici. Ecco quanto dichiara in un arti16
Ibid., pp. 50-51.
17
Ibid., p. 51.
18
Per approfondire tali aspetti si veda il paragrafo II.1.2.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
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66
colo sull’inserto domenicale de “Il Sole 24 Ore” del 3 novembre del 2002
a proposito della distinzione tra semantica e pragmatica: «Secondo la posizione dominante, che chiamerò “letteralismo”, possiamo attribuire un
contenuto agli enunciati in modo del tutto indipendente dalle intenzioni
del parlante che li proferisce. Un enunciato possiede un contenuto definito in virtù delle sole regole del linguaggio. Il letteralismo si contrappone a
un’altra visione che ricorda quella dei filosofi del linguaggio ordinario di
mezzo secolo fa. Questa, che chiamerò “contestualismo”, ritiene che sono
innanzitutto gli atti linguistici i portatori di contenuto semantico: un enunciato esprime un determinato contenuto solo nel contesto di un atto linguistico. Il dibattito sull’interfaccia semantica/pragmatica si svolge attorno
a questi due poli, dispiegando tutta una varietà di posizioni intermedie»19.
Quanto finora esposto ci permette di constatare – guidati sia dalla
tradizione morrisiana, che assegna alle semiosi una triplice elaborazione,
sia da quella oxoniense e post-oxoniense (giungendo fino al contestualismo di Récanati) – che la pragmatica sia quell’ambito della semiotica che
studia l’uso della lingua in contesto, di cui l’atto linguistico costituisce
l’unità minima di significazione. Infatti è dalla teoria degli atti linguistici,
e soprattutto dalla constatazione dell’esistenza di una forza illocutoria e
una perlocutoria dell’azione comunicativa, che si può partire per studiare
il linguaggio riconoscendo l’importanza dell’intenzionalità del parlante.
Studi recenti evidenziano la duplice natura di tale intenzionalità20:
L’articolo di F. RÉCANATI in versione integrale è disponibile su
http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/021103f.htm; si tenga presente dello stesso autore
anche Literal meaning, Cambridge University Press, Cambridge, 2004.
19
D’altro canto, già SEARLE (1975; trad. it.: J.R. SEARLE, Atti linguistici indiretti, cit., p.
253), seppur non così esplicitamente come fa C. BIANCHI (op. cit., pp. 68-71), esprime l’idea
20
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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1) l’intenzione del parlante p di produrre sul proprio interlocutore, o
destinatario, la credenza x proferendo un dato enunciato;
2) l’intenzione di p che il proprio interlocutore riconosca che
quell’enunciato è stato proferito con l’intenzione precedente.
Tenendo conto di tale binomio intenzionale, è giustificabile «il fatto
che ciascun parlante possa usare in modo deviante un’espressione» (si
pensi ad esempio agli usi ironici del linguaggio) «sempre che il suo uso e la
sua intenzione comunicativa vengano riconosciute dall’interlocutore: il
significato del parlante è prioritario rispetto al significato dell’espressione»21 e si fonda sulla convenzione vigente in una data comunità linguistica.
II.1.1. E SE TRA IL DIRE E IL FARE NON CI FOSSE IL MARE? LA
TEORIA DEGLI ATTI LINGUISTICI E GLI ATTI LINGUISTICI
INDIRETTI
La teoria degli atti linguistici nasce dall’esigenza di superare i numerosi limiti posti dall’analisi vero-condizionale del significato22, giacché
non tutte le frasi del linguaggio naturale possono essere analizzate con un
approccio vero-funzionale (si pensi alle frasi in cui compare un riferidella doppia intenzionalità del parlante: solo così, infatti, si può spiegare il funzionamento di
certi atti linguistici indiretti.
21
Per tale problematica rimandiamo a C. BIANCHI, ibid.
Come ricorda Andorno «la filosofia del linguaggio ha basato per lungo tempo le proprie ricerche sul significato delle proposizioni sul concetto di verità/falsità: il significato di
una proposizione, in questa prospettiva, viene descritto come l’insieme delle condizioni alle
quali essa è vera». Si veda C. ANDORNO, Linguistica testuale. Un’introduzione, cit., p. 105.
22
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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mento deittico nonché a quelle frasi con le quali si richiedono informazioni, o si ordina l’esecuzione di un atto o ancora quelle con cui ci si
impegna a fare qualcosa). Tale teoria si propone di spiegare ciò che si fa
con le parole, quali azioni si compiono nel parlare, considerato che le
parole possono agire talvolta più delle stesse azioni, come ricorda anche
un celebre aforisma di Oscar Wilde: «La prima tragedia della vita sono le
azioni, la seconda sono le parole. E forse le parole sono peggio. Le parole sono spietate». Cerchiamo di capire come si agisce e interagisce col
mondo usando la parola.
John Langshaw Austin (1911-1960) è il filosofo del linguaggio che
per primo ha gettato le basi della teoria dell’azione comunicativa, dandole
la formulazione originaria e rilievo sistematico, nel celebre saggio How to do
things with words (contenente le lezioni tenute a Harvard nel 1955 e pubblicate postume nel 1962); Austin intende screditare la concezione tradizionale (positivista) del funzionamento linguistico secondo la quale l’aspetto
su cui si fonda il significato enunciativo siano le condizioni di verità. Lo fa
in primis mettendo in evidenza le diverse funzionalità della lingua, in sintonia con la problematica plurifunzionale che iniziava a diffondersi sia nel
panorama linguistico sia in quello sociologico, approntando una netta
divisione tra i cosiddetti atti performativi e quelli constativi (successivamente ritrattata, o meglio riformulata, dallo stesso Austin); si devono invece a John R. Searle in particolare (allievo sia di Austin sia di Grice)23, a
Per esempio a J.R. SEARLE (A taxonomy of Illucutionary Acts, in K. Gunderson (a cura
di), Minnesota Studies in the Philosophy of Science, vol. VII, Language, Mind, and Knowledge, University of Minnesota Press, Minneapolis, 1975, pp. 344-369; trad. it. Per una tassonomia degli atti
illocutori, in AA.VV., Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio, cit., pp. 168-198)
si deve la distinzione tra regole normative (o regolanti) e regole costitutive: le prime regolano
forme di comportamento preesistenti o esistenti indipendentemente; a titolo esemplificativo
23
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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H. Paul Grice, Peter F. Strawson e Ted Cohen, tra gli altri, importanti
contributi successivi24.
Austin ha evidenziato in primo luogo tre livelli di distinzione
nell’atto linguistico:
• atto locutorio (il quale, a sua volta, può distinguersi in tre atti: atto
fonetico, ovvero l’emissione di certi fonemi; atto fàtico, ossia il pronunciare frasi e atto retico consistente nel produrre unità linguistiche
dotate di significato);
• atto illocutorio, ciò che si fa nel parlare (asserire, consigliare, domandare, promettere, etc.);
• atto perlocutorio, cioè gli effetti che si inducono nell’ascoltatore con
un’emissione linguistica (convincere, ingannare, persuadere, trattenere, sorprendere, etc.).
Generalmente quando si parla di atti linguistici si fa riferimento alla
dimensione illocutoria dell’atto e quindi al concetto di forza illocutoria25.
si pensi all’azione di mangiare il pollo con le mani; se viene violata una regola normativa il
comportamento sussiste comunque, giacché, nel caso del pollo, seppur la regola di buona
etichetta è violata, si mangia comunque il pollo; le seconde creano o costituiscono l’attività
stessa, istituendo nuove forme di comportamento, dunque in assenza della regola, o in caso
di una sua osservanza non completa, l’attività non sussiste (per es.: «Se non si osservano le
regole della lingua […], il comportamento linguistico non sussiste»). Si veda C. BAZZANELLA, op. cit., p. 161.
24
Cfr. AA.VV., Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio, cit.
La maggior parte dei contributi post-austiniani alla teoria mettono a fuoco la dimensione illocutoria dell’atto; una luminosa eccezione è il saggio di Ted Cohen (cfr. T. COHEN,
Illocuzioni e perlocuzioni, in AA.VV., Gli atti linguistici. Aspetti e problemi di filosofia del linguaggio, cit.,
pp. 126-142). Gli interessi dello studioso si sono concentrati soprattutto sulle dinamiche che
intercorrono tra dimensione illocutiva e perlocutiva dell’atto linguistico, giungendo a dichiarare che vi sono modi differenti in cui tali forze interagiscono. Ne diamo, seppur concisamente, una classificazione.
• Perlocuzioni dirette associate: qualora, per esempio, si verifichi la perlocuzione (P) di
ottenere l’ascolto dell’interlocutore dicendo la locuzione (L) «Per piacere, sta’ a sentire» e
nel dire la qual cosa si chiede intenzionalmente di fare attenzione (I).
25
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
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Esso è la risultante di una lunga riflessione che nasce già nel mondo
classico, a partire da Aristotele e dai filosofi antichi26, passa attraverso il
concetto di forza assertoria del filosofo della matematica Gottlob Frege27
(1848-1925) per consolidarsi nella nozione austiniana di performativo.
Ma, più specificatamente, cosa intendeva dimostrare Austin quando nel
1946 (nel saggio Other minds28), e poi più compiutamente nel 196229, distinse tra atto constativo e performativo? Il filosofo aveva notato che
alcuni enunciati dichiarativi non sono usati per sostenere la verità o la
•
•
Perlocuzione obliqua non associata: qualora P sia prodotta da L in maniera non
direttamente associata a I; per esempio, dice Cohen: «Potrei ottenere la stessa P […]
semplicemente dicendo il tuo nome».
Perlocuzione diretta ma non associata: P deriva obliquamente come nel caso precedente, ma in modo diverso. Ecco l’esempio di Cohen: «Poniamo che P sia il mio stupirti
o sorprenderti. Potrei farlo col semplice pronunciare un nome (tu sai che per vent’anni
non ho mai voluto sentire quel nome in casa mia)». Ma si potrebbe produrre P tessendo
le lodi di quella ragazza non nominabile, mentre in genere ci si riferisce a lei con odio e
disprezzo. In quest’ultimo caso lo stupire P non è associato con il lodare (L); Cohen sostiene che la «perlocuzione è separabile dall’illocuzione in ogni singolo caso; quindi non
possiamo dire qual è la perlocuzione se conosciamo soltanto la illocuzione». Da ciò ne
consegue che «la grammatica di I deve tenere esplicitamente conto di P; e ciò significa
che ogni qual volta si voglia trattare adeguatamente dell’uso del linguaggio bisogna fare i
conti con certe realtà palesemente non-grammaticali come il soggetto che crede qualcosa, i contenuti della credenza, la sua ragionevolezza, le aspettative verosimili».
Gli stoici, ad esempio, individuano lektà autotelè, che secondo Bazzanella si potrebbero
far corrispondere a «tipologie di forza illocutiva indipendenti dalla loro espressione concreta». Si potrebbe anche citare la tradizione filosofica induista, e più precisamente hathayogica,
laddove il concetto di linguaggio intenzionale (sandhyâ bhâsâ, o meglio sandhâya bhâsâ) è strettamente correlato a quello di linguaggio segreto, l’unico che permette di rivelare la Verità
(L’Assoluto). Per ulteriori approfondimenti rimandiamo a C. BAZZANELLA, op. cit., p. 148 e a
M. ELIADE, Yoga: Immortality and freedom, Pantheon books, New York, 1958, p. 3.
26
Con forza assertoria è da intendersi il riconoscimento della verità del pensiero espresso dall’enunciato distinta dal senso, il pensiero espresso da questo enunciato. A tale distinzione si collega quella tra il concetto di proposizione e quello di asserzione, di cui Frege è
propulsore: due enunciati possono esprimere la stessa proposizione pur avendo una forza
diversa; esiste infatti una forza assertiva e una interrogativa. Con l’asserzione comunico agli
altri che giudico vero ciò che dico. Altrettanto non avviene con un enunciato interrogativo.
27
J.L. AUSTIN, Other minds, in Philosophical papers (eds. J.O. Urmson, G.J. Warnock),
Oxford University Press, Oxford, 1961 (I ed. 1946).
28
Sebbene How to do things with words sia uscito postumo nel 1962, il contenuto del saggio fu scritto tra il 1951 e il 1955.
29
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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falsità di qualcosa: essi non sono usati per dire qualcosa ma per fare qualcosa, dunque non possono essere giudicati in base alla dicotomia vero/falso, e soprattutto il loro proferimento è in grado di modificare il
mondo, interagendo con esso. Austin li battezza col nome di performativi
(to perform = eseguire) e li oppone agli enunciati constatativi (o constativi), i
quali invece asseriscono, constatano, appunto, uno stato di cose. Si pensi
a titolo esemplificativo ai seguenti casi: «Vi dichiaro marito e moglie»,
«Scommetto 200 euro che il Cagliari quest’anno vincerà lo scudetto», «Sei
licenziato!», «Battezzo questa nave ‘Aurelia’».
I performativi, a differenza dei constatativi, possono essere felici o
infelici, ovvero riusciti o meno in relazione a determinate condizioni che
dovrebbero essere rispettate. Tali condizioni di felicità o di buona riuscita
possono essere, con Bianchi, così schematizzate30:
a.1) Deve esistere una procedura convenzionale che abbia un effetto convenzionale; per esempio «Sì, lo voglio» ha l’effetto convenzionale di unire in matrimonio due persone «solo se e in quanto esiste
l’istituzione del matrimonio».
a.2) Le circostanze e le persone devono essere appropriate secondo quanto specificato dalla procedura; per esempio l’enunciato «Sì, lo
voglio» proferito dalla vostra futura sposa in abito bianco, in presenza di
testimoni ma davanti a un barista non scaturirebbe l’effetto desiderato.
b) La procedura deve essere eseguita in modo corretto e completo;
per esempio se la vostra futura sposa rispondesse al celebrante il matri-
30
C. BIANCHI, op. cit., pp. 59-61.
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monio con «Ok, se proprio insisti» in luogo del canonico «Sì, lo voglio»,
l’atto non avrebbe compimento felice.
c) Infine (spesso) l’infelicità di un performativo può essere provocata da abusi nella procedura, o infrazioni o insincerità: in tali casi l’atto
non si dirà nullo ma “vuoto”, viziato. Ciò comporta che i partecipanti
all’atto devono avere i pensieri, i sentimenti e le intenzioni richieste dalla
procedura e se è specificato un comportamento conseguente, esso deve
verificarsi; per esempio se proferisco «Mi congratulo con te» ma sono
invece logorato dall’invidia, oppure se prometto senza avere nessuna
intenzione di mantenere la mia promessa, la procedura convenzionale
sarà viziata o vuota.
Mentre la violazione delle prime condizioni dà luogo a diversi tipi di
fallimento (come visto, le violazioni di a e b danno luogo a intoppi, e le
azioni non hanno alcun esito) le violazioni delle condizioni c sono invece
abusi: l’azione è comunque eseguita ma in modo inappropriato o insincero31.
Ma si noterà facilmente che l’originaria distinzione tra performativi
e constativi, possibile in base a considerazioni di felicità/infelicità dei
primi e di verità/falsità dei secondi, è illusoria: considerazioni di felicità/infelicità possono riguardare anche i constativi (es.: un constativo
come «Il gatto è sul letto» può dirsi infelice in base alle stesse regole viste
per i performativi, per cui se nel nostro caso – considerando a.1, in cui
l’atto è nullo se la procedura non esiste – fallisce la presupposizione di
esistenza, ovvero se non c’è il gatto o non c’è il letto, l’asserzione sarà
31
Si veda C. BIANCHI, op. cit., pp. 59-61.
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nulla e senza effetto: sarà infelice) mentre quelle di verità/falsità possono
influenzare anche i performativi (es.: di un verdetto si può dire che è
equo o iniquo, di un consiglio che è buono o cattivo, delle lodi che sono
giuste o sbagliate, e più in generale possiamo sostenere con Bianchi che
«“vero” e “falso” non sono proprietà di enunciati, o relazioni fra enunciati e stati del mondo, ma indicano una generica dimensione di valutazione»)32.
Prosegue Bianchi «La distinzione fra constativi e performativi si rivela allora inadeguata: gli enunciati del linguaggio naturale sono tutti, a
pari titolo, strumenti che i parlanti utilizzano per fare delle cose. Si rende
pertanto necessaria non tanto una classificazione degli enunciati performativi, ma una teoria generale dei modi in cui è possibile usare il linguaggio, degli atti che è possibile compiere con un enunciato, una teoria generale di quella che Austin chiama la forza illocutoria»33.
Il secondo Austin percepisce che la dimensione performativa non si
limita a qualificare specifiche classi di enunciati ma è un tratto distintivo
del linguaggio, come già emerso nel concetto di forza illocutoria di Frege,
il quale ha in sé origini remote34, interconnesse al concetto di parola
come attualizzazione dell’intenzione comunicativa, secondo il principio
espresso anche nel celebre Rem tene verba sequantur (le parole scaturiscono
dalla piena comprensione della realtà/verità/argomento).
Prendendo atto di una dimensione eminentemente performativa del
linguaggio, si parlerà più precisamente di performativi espliciti (come
32
Ibid., pp. 62-63.
33
Ibid., p. 64.
34
Cfr., in questo capitolo, p. 70, n. 26.
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«Battezzo…», «Scommetto…», «Vi dichiaro…») e di performativi impliciti, di cui, come vedremo, fanno parte molti altri tipi di enunciato.
La nuova consapevolezza di Austin è che una distinzione tra performativo e constativo non è più pertinente: «Ogni atto linguistico, inteso come le parole che proferiamo per realizzare una intenzione comunicativa, presenta gradi diversi di performatività e constatività, ed in tutti
gli enunciati possiamo trovare la dimensione felicità/infelicità, la dimensione verità/falsità, una forza illocutoria, un significato (senso e riferimento) locutorio»35.
Appurato che la nozione e il nome di atto linguistico si devono inizialmente ad Austin, si deve invece dare atto a Searle36 della sistematizzazione della teoria37. Il filosofo americano afferma che nel parlare si eseguono fondamentalmente cinque tipi di azione utilizzando altrettanti tipi
di enunciato (o atti linguistici). Nell’approntare tale tassonomia Searle
tiene conto, oltre che della iniziale classificazione austiniana (di cui lo
stesso Austin, per primo, era insoddisfatto)38, di tre parametri essenziali,
ossia lo scopo illocutorio (o tentativo di indurre un ascoltatore a fare qualcosa), il vettore d’adattamento (il quale può assumere due direzioni: ad esempio, nel caso delle asserzioni si attua un processo di adattamento delle
parole al mondo mentre nel caso delle promesse, viceversa, si adatta il
35
Si veda C. BAZZANELLA, op. cit., pp. 154-155.
36
J.R. SEARLE, Expression and meaning, Cambridge University Press, Cambridge, 1979.
Come fa notare C. BIANCHI (op. cit., p. 65) sono stati diversi i tentativi di classificazione delle forze illocutorie; senza dubbio alcuno la più felice è quella proposta da Searle nel
1979, la quale prende tra i parametri di analisi la direzione di adattamento tra linguaggio e
mondo.
37
Cfr. Lezione XII in J.L. AUSTIN, Come fare cose con le parole. Le «William James Lectures» tenute alla Harvard University nel 1955, a cura di C. Penco e M. Sbisà, Marietti, Genova, 1987, pp.
108-120.
38
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mondo alle parole) e lo stato psicologico espresso (il parlante infatti eseguendo
un atto illocutorio con un contenuto proposizionale esprime uno stato
psicologico verso tale contenuto):
1. rappresentativi. Essi impegnano il parlante nei confronti della
verità della proposizione espressa. La direzione d’adattamento va dalle
parole al mondo. Lo stato psicologico espresso è la credenza. Per individuarlo Bazzanella propone di chiedersi se l’enunciato possa dirsi vero o
falso (esempi: asserire, classificare, concludere, descrivere, etc.). In estrema sintesi, con gli atti rappresentativi si rappresentano dei fatti;
2. direttivi. Fanno parte di questa classe tutti i tentativi, seppur di
grado diverso, del parlante di indurre l’interlocutore a fare (o non fare)
qualcosa (es. comandare, consigliare, domandare, invitare, supplicare). Il
tentativo può essere blando o energico per cui, ad esempio, si potrà ordinare o suggerire di fare qualcosa. La direzione d’adattamento va dal
mondo alle parole. Per ciò che attiene al contenuto proposizionale si
tratta sempre del compimento di una azione futura da parte del destinatario. Lo stato psicologico espresso è volere (o desiderare), per cui si
desidera che il destinatario faccia qualcosa. Anche «Sfido, provoco, lancio una sfida» rientrano dunque in tale categoria. In estrema sintesi, con
gli atti direttivi si esprime la volontà che l’interlocutore faccia qualcosa;
3. commissivi. Essi impegnano il parlante ad assumere una certa
condotta nel futuro (es. minacciare, offrire, promettere). La direzione
d’adattamento è quindi dal mondo alle parole, mentre il contenuto proposizionale è che il parlante compia qualche azione futura, come «Giuro
di vendicarmi». Lo stato psicologico espresso è dunque l’intenzione. In
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estrema sintesi, con i commissivi si dichiara la propria intenzione di voler
fare qualcosa;
4. espressivi. Con essi si esprime uno stato d’animo (es. ringraziare,
congratularsi, scusarsi, etc.). La verità della proposizione espressa è data
per scontata: se mi scuso di un qualcosa sto ammettendo di essere in
colpa. La condizione essenziale per la buona riuscita dell’atto è la sincerità: la condizione psicologica sarà necessariamente gioiosa nel caso in cui
mi congratuli mentre sarà di dolore nel fare le condoglianze;
5. dichiarativi. Si tratta di quei casi citati inizialmente da Austin
come performativi. Essi provocano cambiamenti immediati in uno stato
di cose istituzionale, a patto, ovviamente, che la loro esecuzione possa
dirsi felice (battezzare, dichiarare guerra, licenziare, scomunicare). In tale
caso si produrrà un’esatta corrispondenza tra contenuto proposizionale e
realtà. Le dichiarazioni sono i casi più eclatanti in cui dire è fare a scapito
del noto proverbio Tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. In tale caso non è
concessa una distinzione tra forza illocutoria e contenuto proposizionale.
La direzione di adattamento è duplice: dal mondo alle parole e dalle
parole al mondo, giacché le dichiarazioni tentano di far combaciare linguaggio e realtà. Inoltre, esse tendono a far affidamento su complesse
istituzioni extralinguistiche, basate su un sistema di regole costitutive (un
atto dichiarativo quale «Lei è licenziato» avrà buon esito solo se, per
esempio, a proferirlo sarà il capo del destinatario/ascoltatore).
Possiamo quindi notare come le dichiarazioni corrispondano a performativi espliciti, mentre le altre categorie di atti rientrino nella classe di
quelli impliciti. A questa tassonomia faremo riferimento nel corso della
nostra analisi testuale (cfr. capitolo III).
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Resta tuttavia da sistemare un importante tassello nella discussione.
Cosa si intende per atti linguistici indiretti? Searle propone tale definizione per quei «casi in cui un atto illocutorio viene eseguito indirettamente
attraverso l’esecuzione di un altro»39: la forza illocutoria è espressa in
modo implicito. A titolo esemplificativo si pensi a «Il gatto è sul letto», in
cui il proferimento è incidentalmente inteso come asserzione ma, in base
al contesto di proferimento (nonché alle informazioni condivise tra emittente e ricevente), potrebbe trattarsi fondamentalmente di una richiesta
(«Fallo scendere!»), o di un avvertimento, se l’interlocutore avesse paura
dei gatti, o ancora di un invito a coccolare il micio, nell’ipotesi contraria.
«Vi sono pure dei casi in cui il parlante può pronunciare una frase e voler
dire ciò che dice, e intendere inoltre un’altra illocuzione con un diverso
contenuto proposizionale». Si pensi al caso di «Puoi prendere il sale?»
dove in realtà l’intenzione comunicativa del parlante non è quella di indagare sulle capacità dell’interlocutore di saper compiere o meno una
data azione, bensì quella di fare una richiesta, giacché la cortesia40 implica
necessariamente che si mitighi la forza illocutoria di certi ordini presentandoli come delle domande41. Quindi, in tale caso, pur trattandosi di una
domanda, l’atto è da intendersi come una richiesta, laddove si muovono
due forze illocutorie, che creano il già citato binomio intenzionale: «il
parlante intende produrre nell’ascoltatore la consapevolezza che gli è
39
J.R. SEARLE, Atti linguistici indiretti, cit., p. 253.
«Con cortesia si intende quell’insieme di strategie che mirano appunto a stabilire, conservare o alterare relazioni fra interlocutori […]». Si veda C. BAZZANELLA, op. cit., p. 181,
n. 27.
40
Qui il discorso è relativo agli usi in modalità deontica o dinamica del verbo ‘potere’:
cfr. C. ANDORNO, Linguistica testuale. Un’introduzione, cit., pp. 119-120.
41
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stata fatta una richiesta, e intende produrre questa consapevolezza facendo riconoscere all’ascoltatore la sua intenzione di produrla»42.
La tesi di Searle43, come sottolinea anche Casadei, solleva alcune
questioni, poiché egli è dell’idea che «in metafora, ironia ed espressioni
idiomatiche lo speaker’s utterance meaning è diverso dal sentence meaning cosicché nel proferimento della frase è espresso solo il primo e per comprenderlo si deve passare per una tappa di falsificazione del secondo
(cioè per tre fasi: costruzione del significato letterale, sua falsificazione,
costruzione di un significato non letterale adeguato al contesto); invece
negli atti indiretti lo speaker meaning è aggiunto al sentence meaning senza
annullarlo o contraddirlo, cosicché la frase è proferita anche nel significato letterale che perciò resta parte dello speaker meaning pur non esaurendolo»44.
Risulta tuttavia difficile condividere tale ripartizione netta tra atti
indiretti e diretti proposta dal filosofo americano45.
A questo punto si noterà come non solo i proverbi, ma anche le espressioni idiomatiche, a differenza di quanto proposto da Searle, rientrino, a pieno titolo, in tale serie di atti linguistici connotati da indirectness
perché pure in questi casi la frase può essere proferita anche nel significato letterale che perciò resta parte dello speaker meaning pur non esauren-
42
J. R. SEARLE, Atti linguistici indiretti, cit., p. 253.
43
Ibid.
Evidentemente Searle fa riferimento a metafore ed espressioni idiomatiche dotate di
designazione metaforica, le uniche che consentirebbero un processo di decodifica a tre stadi,
come abbiamo avuto modo di constare nel primo capitolo (cfr. paragrafo I.2.3.). Si veda F.
CASADEI, op. cit., pp. 55 e ss.
44
Anche C. ANDORNO ritiene che una netta cesura tra atti linguistici diretti e indiretti
non sia facile da stabilire: cfr. Linguistica testuale. Un’introduzione, cit., pp. 118-119.
45
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dolo. Qualche esempio: nel citare Un bel gioco dura poco non sto facendo
una constatazione ma sto invitando qualcuno a smettere di fare qualcosa,
sto enunciando un direttivo46; idem dicasi per la sua variante, priva di
designazione metaforica, Lo scherzo è bello quando dura poco, con il quale,
usando la stessa tipologia di atto indiretto, si desidera interrompere uno
scherzo eccessivamente protratto nel tempo. È possibile osservare che
negli esempi citati lo speaker meaning (significato del parlante) sia aggiunto
al sentence meaning (significato dell’enunciato come sua idoneità a esser
usato per comunicare messaggi di un certo tipo), senza annullarlo o contraddirlo47. In accordo con Casadei, possiamo sostenere altrettanto per
ciò che attiene alle espressioni idiomatiche, giacché «molti usi di e. i. si
basano proprio su riprese dell’uso letterale analoghe a quelle possibili per
atti indiretti, che smentiscono l’assenza di relazioni tra significato letterale
e idiomatico postulate da Searle»48. Si pensi in tale caso anche
all’espressione idiomatica del campidanese Non si cumprendi(ri) su babbu cun
su fillu ovvero letteralmente ‘non capirsi tra padre e figlio’ (nota anche in
area logudorese come No si cumprendher su babbu cun su fizu, dove si usa
per descrivere una ‘situazione di disordine’ e ‘grande confusione’)49, usata
per constatare una situazione di incomunicabilità tra parlanti, in cui il
significato primario, letterale, della paremìa è conservato.
46
Bazzanella, tra gli altri, è dello stesso avviso: cfr. C. BAZZANELLA, op. cit., p. 163.
47
Dello stesso parere è G. CORPAS PASTOR, op. cit., p. 228.
Si veda F. CASADEI, op. cit., p. 58. Di diverso parere è J. STRÄSSLER, op. cit., p. 131,
poiché afferma che non vi sia alcuna relazione tra locuzioni idiomatiche e atti indiretti.
48
Si veda M. PUDDU, Ditzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda (= DitzLcs), p. 283, alla
voce bàbbu; cfr. pure quanto detto a tale proposito nel III capitolo (pp. 136-137).
49
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80
Per ciò che concerne invece l’ironia, il discorso parrebbe differente:
spiegabile tramite una molteplicità di definizioni, come fa notare anche
Marina Mizzau (probabilmente la più grande studiosa italiana di questo
argomento), essa è essenzialmente la capacità di dire mentendo e ridendo
simultaneamente: un’arte che i sardi praticano nella quotidianità. «Il concetto di ironia ha fatto il suo ingresso nel mondo con Socrate»: questa è
la teoria di Kierkegaard, citata da Harald Weinrich, linguista e filologo,
professore emerito dell’Università di Monaco che si è occupato di analizzare dal punto di vista prettamente linguistico il concetto filosofico di
verità e del suo contrario, ovvero la bugia. Lo stesso Weinrich spiega che
sono due monosillabi, sì/no (in verità ne basterebbe uno solo, quello
affermativo), a separare la veridicità di un’asserzione dal suo opposto50.
Tale aspetto del problema, sondabile tra la semantica e la filosofia
del linguaggio, meriterebbe di essere trattato con maggiore acume e attenzione; attualmente non possiamo fare altro, ripromettendoci di approfondire tali interessanti aspetti del dire ironico in un altro frangente, che
accontentarci di un rapido cenno e tenere presente che le antifrasi apparentemente così “facili” e naïf disseminate nella commedia qui presa in
esame stanno in realtà sospese sul sottilissimo, vertiginoso confine ontologico che separa verità e bugia51.
Si veda H. WEINRICH, La lingua bugiarda. Possono le parole nascondere i pensieri?, Il Mulino,
Bologna, 2007, pp. 65 e ss.
50
In realtà le antifrasi ironiche sono una componente peculiare di moltissimi testi della
letteratura prodotta in Sardegna, si pensi a Il giorno del Giudizio di Sebastiano Satta, e ricorrono
in quantità in tutte le commedie visionate: si tratta di un atteggiamento comunicativo che
connota intensamente e in primis l’oralità isolana. Cfr. a tale riguardo C. LAVINIO, Narrare
un’isola. Lingua e stile di scrittori sardi, Bulzoni Editore, Roma, 1991, pp. 115-119.
51
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
81
«Con ironia si intende il contrario di quel che si dice con le parole»,
sostiene Wolfgang Kaiser, e ciò corrisponderebbe molto bene, secondo
Weinrich, alla definizione linguistica di bugia: «Una frase detta nasconde
una frase non detta, che differisce dalla prima per il morfema assertivo».
François Paulhan definisce invece l’ironia come «forma del mentire». Mentre Proudhon parrebbe ancor più nel giusto, sostiene Weinrich,
quando «in un’invocazione innodica alla dea ironia, la chiama maîtresse de
vérité»: Verità e bugia non si contrapporrebbero dunque nell’ironia, parrebbero bensì convivere in pacifico, o amoroso, stato di giustapposizione
(a titolo esemplificativo si pensi al famoso aforisma di Oscar Wilde:
«Dicendo la verità si è più che certi che, presto o tardi, si verrà scoperti»).
Naturalmente come sottolinea Mizzau, «il ribaltamento di senso
non è condizione sufficiente dell’ironia, per caratterizzare la quale è almeno altrettanto necessario l’aspetto pragmatico»52. È la funzione illocutiva a differenziare l’ironia da altre figure retoriche, ovvero quella di
«“burlarsi di”, “deridere”, “prendere in giro”, avere per bersaglio qualcuno o qualcosa». Tra le due componenti dell’ironia, l’aspetto semantico,
ergo antifrastico, e quello pragmatico, dunque burlesco, o di raillerie,
come ancora osserva Mizzau, il secondo è certamente il più influente e
dominante: «Se possono essere sentite come ironiche alcune prese in giro
non antifrastiche, non v’è dubbio che non tutte le antifrasi sono ironiche». Più precisamente, aggiunge la studiosa, l’antifrasi sarebbe solo un
mezzo per raggiungere i fini deprezzativi dell’ironia, la quale si definisce
pragmaticamente come “un biasimo che assume le forme della lode”. A
52 M.
MIZZAU, L’ironia. La contraddizione consentita, Feltrinelli, Milano, 1984, p. 18.
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Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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questo punto è spontaneo chiedersi se sia sempre questo l’orientamento
dell’inversione antifrastica. E cioè si finge sempre di lodare ciò che invece s’intende biasimare? O può verificarsi anche l’ipotesi contraria? Ovvero che si finga di biasimare ciò che invece si vuole lodare? Generalmente
in lingua italiana il funzionamento normale e codificato dell’inversione
ironica procede da un polo (iper)positivo a uno negativo (tipo A), e cioè
mentre funziona dire “Bella giornata!” quando fuori diluvia, altrettanto
non può dirsi del contrario, ovvero esclamare “Tempaccio!” se splende il
sole; esistono però alcune eccezioni a tale regola, che prevedono una
decodifica dal basso verso l’alto, per es. “Bello questo straccetto!”, facendo riferimento ad abito o gioiello sontuoso (tipo B)53. Quel che sembra interessante evidenziare è che anche il funzionamento dell’ironia
rintracciabile nei testi sardo-campidanesi visionati sia spesso di tipo A,
piuttosto che di tipo B (secondo lo schema visto per la lingua italiana).
Se ragionassimo in base ai parametri searliani, sarebbe possibile sostenere che quando nella comunicazione ironica il significato intenzionale del parlante si aggiunga al significato letterale dell’espressione, abbiamo
a che fare con un atto linguistico indiretto; al contrario, se l’uno si opponesse all’altro, annullandolo, dovremmo ammettere con Searle che gli atti
linguistici indiretti sono altra cosa rispetto agli usi ironici del linguaggio.
Ma anche in tale caso parrebbe che fare perno sull’infrangibilità del
senso letterale dell’atto indiretto non porti a delle conclusioni razionali,
giacché è da ritenere che l’ironia, di concerto con Grice e soprattutto con
Sperber e Wilson, sia sempre il risultato di un modello inferenziale (a
53
Tali esempi sono tratti da M. MIZZAU, op. cit., p. 19.
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prescindere dal fatto che esista o meno una contraddizione del senso
letterale: cfr. paragrafo successivo). Naturalmente, non nuoce ribadire
che affinché le intenzioni del parlante siano comprese, giocano un ruolo
essenziale tanto il contesto quanto le conoscenze condivise: «negli atti
linguistici indiretti il parlante comunica all’ascoltatore più di quel che egli
effettivamente non dica, in quanto fa assegnamento sul bagaglio di cognizioni, sia linguistiche sia non linguistiche, da entrambi condiviso e
insieme, genericamente, sulle facoltà di ragionare e di trarre inferenze di
cui dispone l’ascoltatore. Per essere più specifico, l’apparato necessario
alla spiegazione della parte indiretta degli atti linguistici indiretti include
una teoria degli atti linguistici, certi principi generali della conversazione
cooperativa (discussi da Grice, [1975], (1978)), il bagaglio di cognizioni
riguardanti i fatti condiviso da parlante e ascoltatore, insieme a una certa
capacità dell’ascoltatore di trarre inferenze»54.
Resta ora da comprendere come dalla dimensione letterale di un
enunciato (che essa venga contraddetta o meno) si possa carpire la sua
forza illocutoria, indiretta. Con tale proposito faremo, quindi, riferimento
alla teoria della conversazione di Paul Grice e ai suoi sviluppi.
54
J.R. SEARLE, Atti linguistici indiretti, cit., p. 254.
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II.1.2. IL PRINCIPIO DI COOPERAZIONE E L’IMPLICATURA CONVERSAZIONALE
Nell’ambito della disquisizione sulla comunicazione indiretta, la
proposta di Grice è rilevante perché, per la prima volta, il tema
dell’implicito, della cosiddetta eccedenza comunicativa55, è affrontato in
maniera sistematica. Alla base della teoria griceana si colloca il concetto
di implicatura conversazionale56: essa è la chiave per intraprendere il
percorso che dalla dimensione letterale dell’enunciato conduce a quella
illocutoria, ossia l’intenzione comunicativa del parlante. La cornice entro
cui la teoria implicazionale è inscritta è quella del cosiddetto principio di
cooperazione: «Conforma il tuo contributo conversazionale a quanto è
richiesto, nel momento in cui avviene, dall’intento comune accettato o
dalla direzione dello scambio verbale in cui sei impegnato»57.
Naturalmente l’uso dell’imperativo non garantisce che il parlante
debba necessariamente obbedire al principio, ma pone comunque delle
«regole interiorizzate per l’interazione, intesa come impresa razionale di
cooperazione»58.
Come ricorda Bazzanella, che a sua volta cita Galatolo, dal principio
di cooperazione si può anche “uscire” volontariamente; è ciò che capita
55
Cfr. C. BAZZANELLA, op. cit., p. 171, n. 7.
L’implicatura conversazionale è un tipo di inferenza che ha un’origine esterna
all’organizzazione semantico-sintattica della lingua. Si tratta quindi di una nozione eminentemente pragmatica.
56
H.P. GRICE, Studies in the ways of words, Cambridge University Press, Cambridge,
1989/1993, p. 60, cit. in C. BAZZANELLA, op. cit., p. 171.
57
58
C. BAZZANELLA, op. cit., p. 172.
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quando in un’aula di tribunale si applica la «modalità di evitamento della
risposta: il non ricordo»59.
Se invece il principio è rispettato, come avviene normalmente in
una conversazione razionale e cooperativa, si possono tuttavia violare le
seguenti massime in cui il principio si articola:
a) massima della Quantità:
a.1 Dài un contributo che soddisfi la richiesta di informazione in modo adeguato agli scopi del discorso;
a.2 Non fornire un contributo più informativo di quanto è
richiesto;
b) massima della Qualità, ovvero tenta di fornire un contributo vero;
in particolare:
b.1 non dire cose che credi essere false;
b.2 non dire cose per le quali non hai prove adeguate;
c) massima della Relazione: sii pertinente;
d) massima del Modo: sii perspicuo, e in particolare:
d.1 evita le oscurità di espressione;
d.2 evita le ambiguità;
d.3 sii breve;
d.4 sii ordinato nell’esposizione.
59
Ibid.
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L’idea di Grice non è banalmente prescrittiva, come potrebbe sembrare a prima vista. Il filosofo intende dimostrare come nella conversazione alcune espressioni che apparentemente violano le massime, in
realtà soddisfino a un livello più profondo il principio di cooperazione,
in virtù delle implicature conversazionali che possono essere tratte dai
proferimenti. Tali implicature sono inferenze che si compiono proprio
per mantenere viva la cooperazione: ciò che diciamo viene interpretato,
tramite le implicature, come conforme alle massime. In base a tale processo inferenziale è possibile estrarre il significato inteso dal parlante, o
significato occasionale. Si pensi al seguente esempio citato da Levinson:
A. Dov’è Carlo?
B. C’è una VW gialla davanti alla casa di Anna
B, che di primo acchito sembrerebbe essere incoerente (violando la
massima della relazione), dà invece un’indicazione che è una valida risposta alla domanda di A; evidentemente egli non è in grado di rispondere
con maggior precisione alla domanda per cui una parafrasi plausibile
della sua risposta sarebbe: «non so dove si trovi Carlo, ma vedo la sua
auto davanti alla casa di Anna, ed è quindi probabile che Carlo si trovi
nella casa di Anna».
Il concetto di implicatura conversazionale, come sottolineato da
Levinson, «in primo luogo si pone come esempio paradigmatico della
natura e del potere delle spiegazioni pragmatiche dei fenomeni linguistici;
in secondo luogo, fornisce una spiegazione esplicita su come sia possibile
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intendere (in senso generale) più di quanto si dice effettivamente»60. Si
noterà infatti che la distanza tra ciò che è detto letteralmente e ciò che si
lascia intendere (ciò che effettivamente è comunicato) è tale che «una
teoria semantica standard non sembra adeguata a spiegare il modo in cui
comunichiamo usando la lingua»; un esempio di quanto appena detto è
dato anche dalle implicature convenzionali (non solo da quelle conversazionali, quindi): si pensi all’uso asimmetrico di e in cui la congiunzione
assume il valore di e poi, implicante una successione temporale necessaria,
che impedisce lo scambio tra le due clausole: «Salì sulla scala barcollante
e cadde» ma ??«Cadde e salì sulla scala barcollante»61.
Da ciò si evince che «il trattamento semantico standard è di due tipi: o si ritiene che la parola e abbia due significati distinti e sia ambigua
(facendo proliferare i significati anche per le parole più semplici), o si
dice che i significati delle parole sono generalmente vaghi ed influenzati
dai contesti in cui si collocano. Con la nozione di implicatura possiamo
mantenere semplici, stabili e unitari i significati delle espressioni usati
nella lingua naturale e rifarci alla pragmatica per significati occasionali,
legati al contesto»62.
Anche se non sempre aderiamo alle massime, tutte le volte che è
possibile i nostri enunciati saranno interpretati come conformi a esse;
con Bazzanella notiamo che la mancata soddisfazione della massima può
manifestarsi in vari modi:
S.C. LEVINSON, Pragmatics, Cambridge University Press, Cambridge, 1983/1985, cit.
in C. BAZZANELLA, op. cit., p. 174.
60
Si noti che mentre l’anomalia grammaticale (o una forma ricostruita) si segnala con *,
quella pragmatica è segnalata da ? o ??.
61
62
C. BAZZANELLA, op. cit., p. 174.
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• violandola senza mostrarlo, con l’intenzione di ingannare;
• uscendo dal raggio d’azione della massima e in generale da quello del
principio di cooperazione (es.: se dico «Non posso dire di più»);
• se ci si trova di fronte a un conflitto non riuscendo a soddisfare la
massima (ad es. quella della quantità) senza violarne un’altra (quella
della qualità);
• burlandosi della massima, esibendone la mancata soddisfazione. In
tale caso la massima in questione viene sfruttata e ci troviamo in presenza di un’implicatura conversazionale, quindi intenzionale ed esterna al contenuto semantico dell’enunciato. «L’implicatura è infatti derivata in riferimento a ciò che non è stato detto e mette in moto un
insieme di operazioni mentali proprio per recuperare, integrandole nel
processo interpretativo, le informazioni che il parlante intende far conoscere. Quel che conta è l’intento comunicativo, vale a dire ciò che il
parlante tenta di trasmettere in un particolare luogo e tempo nel corso
dell’interazione». I vuoti del non detto sono colmati dagli ascoltatori
facendo riferimento al cotesto linguistico, al contesto fisico nei suoi
vari elementi, alle loro aspettative e conoscenze, diverse in ogni cultura giacché acquisite in precedenti interazioni comunicative63.
Ambito della comunicazione in cui la violazione delle massime è
ampiamente sfruttata è quello dell’uso retorico del linguaggio, laddove il
ricorso a determinate figure, quali metafora, metonimia, sineddoche,
litote, iperbole, senza trascurare gli usi ironici della lingua (entro cui
63
Si veda C. BAZZANELLA, op. cit., pp. 175-176. Cfr. anche C. BIANCHI, op. cit., pp.78-82.
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l’antifrasi si colloca64), è dominante. Tale violazione sembra interessare,
fondamentalmente, la massima della qualità. Ne consegue che anche il
repertorio paremìaco, afferente al codice retorico del linguaggio65, sia
direttamente implicato in tale discorso. Si pensi a quanto dichiarato a tale
riguardo da Grice:
«Esempi come Sei un fulmine! sono dei tipi[ci] casi di falsità categoriale
[…]. L’ipotesi più probabile è che il parlante stia attribuendo all’ascoltatore
una qualche caratteristica o più caratteristiche rispetto alle quali quest’ultimo assomiglia (in modo più o meno fantasioso) all’oggetto menzionato.
È possibile combinare metafora e ironia imponendo all’ascoltatore due
livelli di interpretazione. Dico Sei un fulmine! intendendo che l’ascoltatore
raggiunga prima il livello metaforico e poi quello ironico Sei lentissimo»66.
Resta da evidenziare, negli studi pragmatici più recenti, il ruolo della
teoria della pertinenza di Sperber e Wilson, che dai presupposti inferenziali griceani deriva: essa si propone di concentrare l’attenzione sulla
massima della relazione, o pertinenza, di Grice («Sii pertinente»). Tale
teoria, in cui occupano un ruolo centrale gli aspetti cognitivi del linguagL’espressione antifrastica può essere considerata una forma più aggressiva, scoperta e
ingenua di ironia.
64
Non si dimentichi che il proverbio dal punto di vista strettamente linguistico, in
quanto elemento costituente della struttura di ogni idioma, è considerabile con Franceschi «il
segno retorico di massimo spicco», il cui significante è una locuzione che all’interno di una
comunità linguistica assume «un valore semantico convenzionale, immediatamente e correttamente
comprensibile solo a chi di tal convenzione partecipi: perché tale valore diverge più o meno fortemente da quello risultante dalla somma dei significati dei singoli componenti». Con segno retorico
s’intende far riferimento a quel particolare tipo di segno linguistico atto a persuadere mediante l’allusione, generata dall’uso di figure. Considerando i segni retorici come elementi afferenti
al codice retorico formato da macrolemmi, cui opponiamo il codice lessicale formato da lemmi, possiamo trarre l’equazione lemma: macrolemma = segno linguistico: segno retorico.
65
Si veda C. BAZZANELLA, op. cit., p. 176. Cfr. anche H.P. GRICE, Logica e Conversazione,
cit., p. 213.
66
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gio, consente di ovviare al problema relativo alla decodifica del senso
letterale dell’espressione, puntando invece l’attenzione sui suoi effetti
contestuali. In sostanza, se il messaggio del parlante (emittente) si pone
in contraddizione con ciò che l’ascoltatore conosce, e di cui è convinto,
esso sarà valutato come non pertinente e sarà, dunque, reinterpretato
affinché possa acquisire pertinenza, e rilevanza, in quel determinato contesto: avere «un effetto contestuale in un contesto» è la conditio sine qua
non per la sua pertinenza67. «In questo modo, cognitivamente molto più
plausibile, non si devono sdoppiare le procedure messe in atto per
l’interpretazione di enunciati letterali e non letterali», poiché, come avremo modo di constatare, tanto un messaggio ironico che conserva inalterato il senso letterale quanto uno in cui il senso letterale è contraddetto
possono, entrambi, non essere pertinenti con il contesto.
Con la consapevolezza dell’imprescindibilità di un’analisi anche
pragmatica analizzeremo, nel capitolo successivo, il corpus paremìaco
intessuto nella commedia di E.V. Melis.
II.2. LA FORMULA PROVERBIALE: MICROTESTO E ATTO
LINGUISTICO
Si è avuto modo di constatare nel primo capitolo (cfr. paragrafo
I.2.2.) che il proverbio può essere definito senza ombra di dubbio un
microtesto, laddove invece l’espressione idiomatica non gode di altrettan67
D. SPERBER, D. WILSON, op. cit., pp. 183-186, cit. in C. BAZZANELLA, op. cit., p. 188.
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ta autosufficienza e ha necessariamente bisogno di essere completata, per
formare una proposizione di senso compiuto, dai verbi essere, avere o
fare.
Gloria Corpas Pastor nel rilevare l’autonomia di significato conchiusa nella formula proverbiale, ne ha messo in evidenza anche la sua
forza illocutoria, non esitando a dire che anche l’espressione idiomatica,
all’interno di un enunciato, può considerarsi a pieno titolo un «acto de
habla»68, parte integrante del macroatto linguistico, e dunque analogicamente definibile come microatto linguistico. Dello stesso parere è anche
Jürg Strässler69.
La formula proverbiale, così come qualsiasi testo, in base ai principi
costitutivi della testualità (individuati da Beaugrande e Dressler70), è connotata anche da intenzionalità che, si badi bene, non è da intendersi in
chiave psicologica: l’intenzione espressa dalla forza illocutoria è un concetto mentale istintivo e non analizzato71.
È ora interessante approfondire il discorso relativo alla spinta illocutoria delle formule proverbiali. Come sostenuto da Strässler:
Lo stesso concetto è sostenuto, seppur in modo implicito, da C. CACCIARI et al., Aspettative semantiche ed espressioni idiomatiche: aspetti psicolinguistici ed evidenze elettrofisiologiche, in
Neuropsicologia della comunicazione, a cura di Michela Balconi, Springer Verlag Italia, 2008, p.
142: «Le espressioni idiomatiche si differenziano, poi, dai proverbi, in quanto questi ultimi
sono atti linguistici compiuti, indefiniti temporalmente, segnalati da un pattern grammaticale
specifico, da marche retoriche, fonetiche o da una struttura sintattica binaria (tema/commento); inoltre i proverbi sono spesso usati a commento di una situazione specifica
condivisa dai parlanti».
68
69
J. STRÄSSLER, op. cit.
70
Cfr. C. ANDORNO, Linguistica testuale. Un’introduzione, cit., p. 17.
A tale riguardo si ricordi anche quanto detto a proposito della pulsionalità che lo avvolge (cfr., in questo capitolo, n. 3, p. 60).
71
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«The illucutionary act of producing an utterance containing an idiom
is an assessment of the social structure of the partecipants of a conversation. The perlocutionary act is the act of invoking certain consequences
by performing an illocutionary act. Applied to idioms these consequences are the result of implying a social hierarchy and the invoked reaction of the coparticipants»72.
Tale osservazione, che potrebbe sembrare ovvia è invece degna di
attenzione perché mette in evidenza la stretta relazione vigente tra comunità linguistica e percezione della propria lingua quale strumento di
auto-controllo sociale.
Corpas Pastor a tale riguardo cita Koller, secondo il quale le locuzioni idiomatiche possono presentare tre aspetti: uno descrittivo (a), che
attiene allo stato di cose espresse, ovvero le situazioni o le azioni descritte, uno valutazionale (b), inerente alla valutazione positiva o negativa delle
situazioni o azioni descritte, e uno didascalico (c), che palesa la condotta da
tenere a seconda dei diversi casi, poiché se l’aspetto valutazionale sarà di
segno negativo, quel comportamento non si dovrebbe ripetere. Si pensi,
a titolo esemplificativo, al modismo italiano Fare orecchio da mercante in cui
(a) mostra una persona che finge di non udire qualcosa, esattamente
come facevano i mercanti i quali, con la scusa della confusione del mercato, sentivano solo ciò che faceva loro comodo; (b) palesa quanto sia
poco cortese tale tipo di comportamento e infine (c) lascia intendere alla
persona che riceve tale atto che è opportuno cambiare atteggiamento.
In sostanza è l’aspetto didascalico a determinare la forza illocutoria
degli enunciati in cui si inseriscono le espressioni idiomatiche, giacché
72
J. STRÄSSLER, op. cit., p. 128.
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alcune di esse, così come i proverbi, sono depositarie di norme comportamentali comunitarie alle quali è bene attenersi se si desidera continuare
a fare felicemente parte di quella struttura sociale.
Possiamo dunque osservare con Corpas Pastor e Koller che dal
momento che la maggior parte delle espressioni idiomatiche sono caratterizzate dalla presenza di un aspetto didascalico che mira al controllo del
comportamento altrui, si potrà dedurre il loro effetto perlocutorio: «formulan de manera fàcil situaciones de interacción complejas, estableciendo así patrones de conducta que facilitan la comunicación»73.
Per quanto attiene all’aspetto pragmatico dei proverbi tout court si
pensi non solo al fatto che la loro decodifica ideale avviene in contesto,
laddove le differenti sfere d’occorrenza ne possono mettere in luce la
natura polisemica, ma ricordiamo anche con David Cram74 che partendo
dall’originaria dicotomia austiniana tra constativi e performativi, i proverbi possono solo apparentemente considerarsi delle mere asserzioni (e
dunque dei rappresentativi, secondo la tassonomia searliana), poiché,
seppur essi constatino uno stato di cose, fanno d’altro canto perno su
un’autorità superindividuale e sono dunque in realtà citazioni molto
speciali: è come se prima di un proverbio ci sia sempre sottinteso «I tell
you (they tell us)», che equivale a dire «bada bene, ti conviene dare retta a
ciò che ti dico, perché non sono il solo a pensarla così». Le conseguenze
saranno quelle di indurre il ricevente del messaggio gnomico ad attenersi
73
Si veda G. CORPAS PASTOR, op. cit., p. 227.
D. CRAM, The linguistic status of the proverb, «Cahiers de Lexicologie», 43, 2, pp. 53-71
(pp. 62 e ss.).
74
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alla norma comunitaria codificata, pena la sanzione sociale, sempre che
tra emittente e ricevente vi sia la condivisione dello stesso codice.
Il carattere citazionale e allusivo del proverbio, comprovato
dall’idea di kernel, è alla base dei già menzionati studi di Norrick (cfr. I
capitolo, paragrafo I.1., pp. 25-27). Hamm, in un testo del 1989, evidenzia invece il carattere di distanziamento implicato nell’atto del citare75.
Questa è la ragione per cui Brown e Levinson76 parlano di uso della proverbialità quale strategia pragmatica in quei casi in cui è necessario «salvare la faccia», ovvero la propria immagine pubblica. Essi ritengono che le
azioni altrui possano «minacciare la faccia» (Face Threatening Acts): per
difendersi è tuttavia possibile attuare delle strategie di cortesia che raccomandano, a esempio, di restare nel vago, di essere comunque indiretti,
ricorrendo appunto all’uso di atti linguistici indiretti, nonché di fare riferimento a un serbatoio comune di conoscenze, mitigando anche così
l’eventuale disaccordo77.
Osserviamo, infine, con Corpas Pastor78 che generalmente il proverbio può veicolare due tipologie illocutive:
• quella del direttivo (che appare generalmente nella forma del rappresentativo), quando tramite la citazione proverbiale si vuole indurre
l’ascoltatore a compiere una determinata azione. Queste citazioni soA. HAMM, Remarques sur le fonctionnement de la négation dans les proverbes: l’exemple de
l’anglais, in G. Gréciano (ed.), EUROPHRAS 88. Praséologie contrastive. Actes du Colloque International Klingenthal-Strasbourg. 12-16 mai 1988, «Collection Recherches Germaniques 2», Université des Sciences Humaines. Département d’Études Allemandes, Strasbourg, 1989, pp. 177193; cit. in G. CORPAS PASTOR, op. cit., p. 228.
75
P. BROWN, S. LEVINSON, Politeness. Some universals in language usage, Cambridge University Press, Cambridge, 1987.
76
77
Ibid., p. 226.
78
Si veda G. CORPAS PASTOR, op. cit., pp. 228 e ss.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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no utili per ottenere che l’ascoltatore faccia qualcosa o agisca in un
certo modo. Si pensi al detto Chi fa per sé fa per tre, se enunciato dalla
persona cui abbiamo appena chiesto un aiuto;
• quella del rappresentativo, se nel citare il proverbio il parlante semplicemente esprime un commento su una certa situazione, dandone allo
stesso tempo un parere negativo e dunque interferendo nella sfera
d’azione dell’interlocutore, producendo quindi determinati effetti perlocutori, così come visto per le espressioni idiomatiche. Si pensi al caso di Tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino, detto per ammonire
un ragazzino che rubacchia, facendogli intendere che prima o poi sarà
scoperto. L’effetto perlocutorio potrà essere raggiunto a partire
dall’intenzione di convincere, persuadere e istruire l’ascoltatore.
Naturalmente non è detto che alla citazione paremiologica consegua sempre un effetto perlocutorio, o l’effetto perlocutorio associato alla
illocuzione scatenante (es. I = ammonire → P = intimorire; ma può
anche accadere: I = ammonire → P = far ridere)79.
A nostro parere si può ritenere, in ultima analisi, che la forza illocutoria (intenzionalità) della proverbialità abbia in sé, di fatto, sempre una
spinta direttiva: le intenzioni di annunciare, informare, sostenere, che
connotano la classe dei rappresentativi (o assertivi)80, qualora esprimano
una valutazione negativa su uno stato di cose, possono produrre la per-
«Le conseguenze perlocutorie dei nostri atti illocutori sono del tutto non convenzionali, e dipendono dalle specifiche circostanze in cui l’atto viene compiuto»: C. BIANCHI, op.
cit., p. 65.
79
La forza persuasiva dei rappresentativi paremiaci si fonda sul fatto che la credenza in
essi espressa è considerata dalla comunità linguistica che ne usufruisce una verità assolutamente condivisibile perché fondata sulla tradizione.
80
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Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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locuzione di migliorare e correggere il comportamento del ricevente,
inducendolo a modificare, consequenzialmente, le proprie azioni.
Prova ne sia anche il fatto che gli stessi direttivi si celano, generalmente, sotto l’aspetto superficiale dei rappresentativi81.
Cfr. quanto dice a tale riguardo C. ANDORNO C., Linguistica testuale. Un’introduzione,
cit., pp. 117-118.
81
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97
CAPITOLO III
ANALISI DELLE PAREMÌE TRATTE DA ZIU PADDORI,
COMMEDIA IN TRE ATTI DI EFISIO VINCENZO MELIS
La prima scena della commedia si apre con l’esilarante dialogo ricco
di giochi linguistici e relativi fraintendimenti tra i due personaggi principali: Gervasio e Ziu Paddori, che si incontrano nella sala d’attesa della
stazione ferroviaria di Suelli, piccolo centro della Trexenta. Nello specifico, Gervasio è un ricco commerciante torinese, decisamente snob, che
rappresenta la cultura nazionale italiana, il mondo degli affari, il terziario
nascente, mentre Paddori è il rappresentante del mondo rustico che
ancora nel primo Novecento persisteva in Sardegna. I fraintendimenti
sono quelli derivanti dalle parziali similarità foniche tra alcune parole
italiane e quelle sarde, cui come è noto non necessariamente corrisponde
affinità semantica (ma per Paddori la cosa non è così ovvia: da ciò il
fraintendimento, il cui effetto perlocutorio è quello di provocare il riso);
può altresì capitare che Paddori, avendo scarsa competenza comunicativa
e linguistica dell’italiano, prenda fischi per fiaschi (o meglio, come vedremo,
àllu po cibúdha)1, arrivando a confondere “finestra” con “minestra” e suscitando così l’ilarità del pubblico.
Si tenga conto del fatto che il fraintendimento è il più delle volte
una deriva enogastronomica: l’idea fissa, il pensiero ricorrente di Paddori,
Tale espressione idiomatica ricorre anche nel testo in esame (E.V. MELIS, Ziu Paddori,
a cura di G. Angioni, Edes, Sassari, 1977) a p. 20. Se ne può vedere la spiegazione in questo
capitolo, pp. 135 e ss.
1
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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è sempre il bisogno primario di cibo. Nella povertà estrema in cui, ancora nei primi decenni del secolo scorso, versava gran parte dell’Italia, e
soprattutto il sud e le isole, tanta era la paura della fame, o forse sarebbe
più corretto dire, tanta era la fame, che spesso lo sbadiglio veniva accolto
con espressioni quali Speràusu ka siat sónnu, cioè speriamo che questo
sbadiglio significhi avere sonno e non fame.
Proprio sulla scia del fraintendimento finestra/minestra s’incontra
la prima paremìa di questa commedia. Gervasio così risponde a una
richiesta d’informazioni di Paddori su dove si facciano i biglietti per il
treno: «Ecco lì, in quella specie di finestra». Paddori capisce male: «Minestra? […] Minestra! m’appu pappau un mussiedd’e pani immo immoi;
pottu su ’iddiu che una pezz’atresi!».
Pottu su ’iddiu che una pezz’atresi2 (p. 13)
Ho l’ombelico come una moneta da mezzo soldo3
Naturalmente la resa grafica di tale espressione è errata; più precisamente non è esatta
la divisione della catena fonica, visto che si dovrebbe rendere con pezz’ ’a tresi (= camp.
generale pezza de tresi), dove la a, occupante la posizione centrale del sintagma, è l’esito di
centralizzazione vocalica del vocoide anteriore medio (e) della preposizione de che in contesto vocalico, ergo sonoro, tende a perdere la consonante occlusiva dentale sonora, la quale
prima spirantizza e può ridursi al grado zero. Contemporaneamente però, per la velocità
dell’elocuzione, anche la vocale finale di pezz(a) tende al dileguo. Si vedano a tale riguardo:
M.L. WAGNER, Historische Lautlehre des Sardischen (= HLS), Niemeyer, Halle (Saale), 1941;
trad. it., Fonetica storica del sardo, Trois, Cagliari, 1984, p. 73, § 51 (si consideri, inoltre, che la
tipologia sintattica sostantivo + (d)e + sostantivo è spesso soggetta a peculiari trattamenti fonetici
da cui possono anche sorgere forme lessicali indipendenti basate su l’errata divisione dei
costituenti; per approfondire tali aspetti si vedano le pp. 89-90, § 67 e pp. 355-356, § 394); M.
CONTINI, op. cit., vol. I., pp. 448 e ss. Si noti come nel testo venga segnalata la nasalità,
peculiarità fonetica tipica delle microvarietà centro-occidentali del campidanese, mettendo in
corsivo la consonante occlusiva nasale alveodentale.
2
Per quanto concerne l’unità di misura della moneta citata, si può consultare V.R.
PORRU, Nou Dizionariu universali sardu-italianu, vol. III, a cura di Marinella Lörinczi, Ilisso,
Nuoro, 2002, alla voce pezza, pp. 52-53. Cfr. pure M. PUDDU, op. cit., alla voce pècia, p. 1288.
3
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Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
99
Nel Ditzionàriu de sa limba e de sa cultura sarda di M. Puddu (d’ora in
poi DitzLcs)4, alla voce bídhigu, ovvero il biddiu del nostro testo, è riportato, nella sezione dedicata ai modi di dire, Portai su bídhiu che una petza de
tresi ovvero Essere mascadu meda, a imbíligu fora de cantu es prena sa bentre
(trad.: essere talmente sazi, avere la pancia talmente piena che l’ombelico sembra
quasi fuoriuscire).
L’etimo della variante sardo-logudorese imbíliǥu (nonché della forma imbíliku dei dialetti centrali) è riconducibile, secondo M.L. Wagner, al
latino volgare IMBILĪCUS per UMBILICUS, con spostamento di accento per influsso del suffisso -iku, normalmente postonico in sardo. Ma per
il campidanese generale bíḍḍi ̯u si deve postulare l’etimo *IMBILLICUS,
la cui laterale geminata (che ritorna in tutta l’Italia meridionale) consente
di spiegare l’occlusiva cacuminale sonora geminata della forma campidanese5.
Naturalmente è importante rimarcare l’aspetto ironico e antifrastico
che interessa tale espressione idiomatica campidanese, nonché molti altri
elementi relativi alla cultura tradizionale sarda in generale e campidanese
in particolare, di cui questo lavoro specificatamente si occupa: Paddori in
realtà è tutt’altro che sazio, dal momento che ha mangiato solo un pezzetto di pane. La pancia descritta come iperbolicamente piena è, in realtà,
desolatamente vuota.
4
Si veda M. PUDDU, ibid., alla voce bídhigu, p. 332.
Cfr. M.L. WAGNER, Dizionario Etimologico Sardo (= DES), cit., vol. I, p. 614, alla voce
imbíliku. Per l’etimo della variante campidanese secondo Wagner si potrebbe pensare a un
eventuale influsso di VILLUS: cfr. Appendice a DES, vol. II, p. 609, alla voce imbíliku. Allo
stesso modo si spiegherebbero gli esiti del gallurese biḍḍíku e del corso biḍḍíku, biḍḍígu,
nonché l’italiano centrale bellíco.
5
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L’uso antifrastico di questa paremìa esemplifica quanto esposto nel
capitolo precedente (paragrafo II.1.2.) a proposito delle dinamiche conversazionali griceane, e ci consente anche di affrontare la questione degli
attanti dell’ironia. La domanda che ci poniamo è: chi o cosa è oggetto
della derisione? Ovvero, chi è la vittima del processo ironico?
Sempre facendo riferimento a Marina Mizzau possiamo notare che «nella
concezione tradizionale tre sono gli attanti della sequenza verbale ironica»:
1. il parlante, ovvero l’ironista;
2. il ricevente o destinatario, cioè l’interprete designato;
3. la vittima, o il bersaglio.
Si tratta ovviamente di ruoli teorici e non sempre è necessario che si
attuino in persone diverse. Nel nostro caso, tuttavia, sembra ricorrere
una tripartizione esatta dei ruoli citati in tre personae distinte. Parrebbe
infatti che il protagonista della commedia, Paddori, sia l’ironista, che lo
spettatore sia il ricevente designato dell’ironia, e che la vittima sia Gervasio, personaggio decisamente fuori contesto di per sé, con il suo italiano
magniloquente, inamidato, i modi affettati e chiaramente snob, su cui la
rete dell’ironia si stringe, intrappolandolo ed escludendolo via via dal
gioco comunicativo (comico e ironico)6 con il pubblico. Paddori, utilizzando un modo di dire che Gervasio non è in grado di decodificare e
comprendere ma di cui l’uditorio coglie ogni sfumatura ironica, istituisce
un’alleanza fra sé e gli spettatori, una conventio ad escludendum ai danni
dell’antagonista basata sulla competenza comunicativa7.
6
Cfr. M. MIZZAU, op. cit., pp. 95 e ss.
Su tali dinamiche si vedano le interessanti osservazioni sulla comunità linguistica espresse da G.R. CARDONA, op. cit., pp. 63-64.
7
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È come se si assistesse a un ribaltamento carnevalesco delle regole
sociali: ancora una volta la classe subalterna si burla di quella dominante.
Ed è subito farsa.
D’altro canto la commedia sarda-campidanese non può non avere
forti legami, potremmo anche dire ancestrali, con la cultura (tanto orale
quanto scritta) sedimentatasi nei secoli nell’isola: in questa matrice, in
questo patrimonio essa affonda le proprie radici. La contesa linguistica
fra Paddori e Gervasio ha, a nostro avviso, un antecedente in Alabanças
de San George obispo Suelense Calaritano di Giovanni Francesco Carmona8,
autore tra l’altro della prima sacra rappresentazione che, in forma compiuta, si incontra in Sardegna: La Passión de Christo nuestro Señor. Si ritrovano infatti in tale autore i tratti tipici ed essenziali della commedia sarda
ed è facile istituire un legame forte e quasi simbiotico, attraverso il tempo, tra certi personaggi di Carmona e alcuni di Melis; attraverso questi
ultimi si ri-attualizzano nel gioco della interdiscorsività, e nel contempo si
ritualizzano, dinamiche socio-culturali evidentemente atemporali: il personaggio di Paddori, pastore del Novecento, e quello del Pastor carmoniano del Seicento, incarnano forse la stessa realtà socio-antropologica.
Come suggerisce lo storico del teatro Sergio Bullegas, in Alabanças de San
George di Carmona si può leggere un contrasto farsesco «agito da due
S. BULLEGAS, La scena violata: contrasto di lingue in un componimento seicentesco di Juan Francisco Carmona, in AA.VV., Le lingue del popolo. Contatto linguistico nella letteratura popolare del Mediterraneo occidentale, a cura di J. Armangué i Herrero, Grafica del Parteolla, Dolianova, 2003, p. 46,
definisce Alabanças de San George obispo Suelense Calaritano un dramma misto. Lo storico del
teatro dichiara di averlo ritrovato nello stesso manoscritto contenente anche La Passión de
Christo nuestro Señor, pubblicata da F. ALZIATOR nel 1948 in Studi Sardi (a. VIII, fasc. I-III,
Sassari, 1948, pp. 153-170). Fino al 2003 Alabanças de San George obispo Suelense Calaritano era
ancora inedito nella sua interezza ma in procinto di essere pubblicato dal Bullegas; il manoscritto (S.P.6.2.31) è conservato presso la Biblioteca Universitaria di Cagliari.
8
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personaggi, un pastore e un cittadino, esponenti di due diversi mondi
culturali, attori di altrettanti contesti sociali ed economici. La presenza
del pastore in scena dà origine allo scontro principale, condotto sul contrappunto dei linguaggi diversi dei due personaggi: il sardo campidanese
per il pastore e il castigliano per il cittadino. Nascono così gags e qui-proquo che non sono fine a se stessi ma mettono in risalto gli squilibri e le
carenze di un mondo agro-pastorale, emarginato e abbandonato dal
potere politico»9. Mutatis mutandis è possibile riferire queste poche righe
critiche anche allo Ziu Paddori di Melis. La somiglianza, però, non si spinge oltre. Come nota Paolo Maninchedda, è vero che in Alabanças de San
George «la diglossia tra il castigliano e il sardo […] non marca solo un
confine sociale, tra istruiti e ricchi e incolti e poveri, ma anche geografico, tra la città e la periferia»; tuttavia, occorre tener presente che nel testo
seicentesco «si ha anche la riproposizione del topos del mondo rurale
ignorante e credulone, esposto alla facile e compassionevole ironia del
mondo della città e della sua cultura»10: ideologia, questa, difficilmente
ascrivibile al testo del Melis (è interessante ricordare, con Angioni11, che il
drammaturgo impersonò Paddori nella prima rappresentazione scenica
della commedia, al Politeama Regina Margherita di Cagliari il primo giugno 1919, e probabilmente non solo in quella occasione). Il suo Paddori
è in sintonia col pubblico ben più di quanto non lo sia il cittadino Gerva-
Cfr. S. BULLEGAS, Storia del teatro in Sardegna. Identità tradizione lingua progettualità, Edizioni Della Torre, Cagliari, 1998, pp. 21-22.
9
P. MANINCHEDDA, Nazionalismo, cosmopolitismo e provincialismo nella tradizione letteraria
della Sardegna (setc. XV-XVIII), «Revista de Filologìa Románica», 2000, 17, pp. 171-196 (pp.
180-181).
10
11
Si veda G. ANGIONI, Introduzione, cit., p. 5.
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sio: a cementare il legame è proprio la condivisione di un patrimonio
comune di conoscenze al quale Paddori può semplicemente alludere, un
sapere che può essere evocato senza essere nominato. La battuta del
pastore sul proprio ombelico viene compresa immediatamente dallo
spettatore perché, come sostiene anche Cristina Lavinio in un suo lavoro
del 199112, l’ironia è consustanziale al parlare dei sardi.
Si è già notato quanto sia importante tenere conto degli aspetti
pragmatici del linguaggio, pena l’incorrere nella stessa tipologia di errore
in cui cadde perfino M.L. Wagner quando, ricorda Lavinio13, riportò nel
DES l’espressione tènniri áṡ i ̯u de traducendola con “avere voglia di”, e
rendendo casi quali teníađ áṡ i ̯u ǥuḍḍu de izzerriai o tenint asiu studiendi con,
rispettivamente, “aveva voglia [quello] di gridare”14, e “hanno voglia di
studiare”, mentre chiaramente tali espressioni vanno interpretate in senso
antifrastico e cioè, suggerisce la studiosa, come “aveva un bel gridare” (=
gridava invano) e “hanno un bel studiare” (= studiano inutilmente). Per
esprimere il concetto di voglia, desiderio, appetito, in sardo si usa normalmente l’imprestito sp.-cat. gána. Si tenga presente che la stessa formula espressiva sopra citata si ritrova anche nel logudorese àere aju che Giuseppe Ruju così spiega: «Esprime un desiderio quasi irraggiungibile ed
equivale a ‘stancarsi di attendere’. In italiano abbiamo campa cavallo che
l’erba cresce»15.
12
C. LAVINIO, op. cit.
13
Ibid., p. 117, n. 8.
14
Cfr. DES, I, p. 135, alla voce áṡ i ̯u.
Si veda G. RUJU, Le parole del sardo. Grande glossario dei modi di dire logudoresi, Edizioni
Della Torre, Cagliari, 2001, p. 416. Può essere interessante segnalare che in italiano
l’esclamazione campa cavallo (che l’erba cresce)! abbia il senso ironico che abbiamo sottolineato.
15
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In base al principio di cooperazione di Paul Grice si può sostenere
che con l’antifrasi si produce una palese violazione della massima della
qualità (ossia, non dire ciò che credi essere falso) da cui scaturisce
un’implicatura. Viene trasmessa quindi l’implicatura che l’enunciato debba essere interpretato non in senso letterale bensì in senso ironico, ovvero come il suo esatto contrario. La sostituzione per antifrasi è un processo ben noto in linguistica ed etnolinguistica in particolare, si pensi a titolo
di esempio a quanto dice G.R. Cardona a tale riguardo: «L’antifrasi (gr.
antíphrasis «espressione del contrario») consiste nel sostituire il referente
tabuizzato con il suo opposto semantico, di necessità positivo». Come
già notato per altri aspetti del linguaggio, se tale procedimento è valido
per gli elementi del codice lessicale a maggior ragione può essere funzionale per gli elementi del codice retorico. Se certe cose, per tutta una serie
di motivazioni, non si possono dire o affrontare in maniera diretta si
diranno implicitamente: si useranno allora i cosiddetti atti linguistici indiretti. Se la fame non può essere nominata si userà, a esempio, l’ironia
antifrastica quale stratagemma comunicativo. Così fa Melis, tramite il
personaggio di Paddori. L’effetto è umoristico: si ricordi la definizione di
ironia di Marina Mizzau quale capacità di dire mentendo e ridendo simultaneamente; l’idea di umorismo, per la studiosa, è già insita in quella di
ironia.
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Su fammin’ e’ zi’ Andriòu, chi ’nc’ ia’ pappau sa moba e su
bestiòu (p. 14)
La fame di ziu Andriòu, che aveva mangiato la mola e il mulo
A Guamaggiore, luogo d’origine dell’autore, tale detto veniva utilizzato, soprattutto in tempi di estrema povertà, dalle madri che cercavano di placare le lamentele dei figli affamati, dicendo loro di tenere presente quanto fosse tremenda la fame di Ziu Andriou, la cui voracità non
gli aveva impedito di cibarsi persino della pietra vulcanica della mola, la
più dura che potesse esistere. Si trattava dunque di una formula incoraggiante affinché i bambini si rendessero conto di quanto la loro fame
fosse, in realtà, un appetito sopportabile e potessero attendere con maggiore pazienza il momento del pasto.
L’aspetto illocutorio di tale paragone proverbiale ricorda decisamente quello di un’altra espressione incoraggiante, molto diffusa in campidanese16, quale aspètta ǥwáḍḍu (m)míu víntsa ǥi vái s’róžu (trad.: aspetta,
cavallo mio, fino (a) che matura l’orzo). Tale espressione proverbiale sembrerebbe corrispondere all’esclamazione Campa cavallo! (che l’erba cresce), di cui
Giusti (Proverbi Toscani, 281) dà anche la variante Aspetta cavallo che l’erba
cresce. Il significato di tale motto italiano, così simile, sotto l’aspetto del
significante, a quello da noi menzionato, tanto da sembrarne una fedele
traduzione, ne è invece l’esatto contrario. In Pittàno si legge che
Si veda anche L. CHERCHI, Raccolta popolare di 1720 dicius in lingua sarda meridionale tradotti e spiegati in italiano, vol. I, s.i.t. [ma Litotipografia TEA], Cagliari, 1990, p. 27. Raccolte
popolari di questo tipo, che non hanno e non pretendono di avere alcun rigore scientifico,
sono tuttavia utili da un punto di vista documentale, poiché, per esempio, consentono di
stabilire la diffusione sul territorio di una paremìa.
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l’esclamazione italiana «si usa per invitare qualcuno a non illudersi quando le probabilità di realizzazione di speranze o desideri sono minime o
nulle»17. In base alle nostre acquisizioni emerge che il proverbio sardo
non presenta il senso ironico caratterizzante quello italiano; è, viceversa,
un invito alla pazienza, esattamente come il proverbio udito a Guasila
(ma anche a Barrali) fámmi víntsaṡ a (k)kòi nu è (f)fámmi mmáu (trad. lett.:
fame fino a cuocere non è fame cattiva).
Citando il paragone proverbiale Su fammin’ e’ zi’ Andriòu, chi ’nc’ ia’
pappau sa moba e su bestiòu, Paddori mette in relazione, per similitudine, il
destino del commerciante torinese Gervasio, che sbadiglia annoiato mentre aspetta il treno che non vuole arrivare, con quello di Andriòu che, per
scampare alla fame atavica, si nutrì degli unici mezzi che potevano garantirgli il sostentamento. La prima espressione paremìaca citata dal protagonista, in relazione al proprio ventre vuoto, ha l’intenzione di negare, o
comunque ironizzare e rendere lieve, il proprio stato di fame: «Io sono
sazio, lo sono talmente tanto d’avere addirittura l’ombelico che fuoriesce,
tanto la pancia è gonfia» (in realtà ha mangiato solo un tozzo di pane); a
questo livello di discorso la fame non è menzionata espressamente, ma è
evidentemente a essa che si fa allusione; qui, invece, dall’allusione si passa alla citazione vera e propria: «Su sannori na’ ga teni fammini; dabbàda
chi obìa minestra. Su fammin’ e’ zi’ Andriòu, chi ’nc’ ia’ pappau sa moba
e su bestiòu». (trad.: Il signore dice di aver fame; ecco perché voleva la minestra. La
fame di ziu Andriòu, che aveva mangiato la mola e il mulo).
17
Cfr. G. PITTÀNO, op. cit., p. 52.
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Quindi Paddori, per poterlo esternare e dunque nominare, trasferisce il proprio bisogno sull’altro personaggio, interpretandone una serie di
sbadigli di noia come un segno di fame.
Da una fase di mera allusione al tópos della fame, tabuizzata nella
prima paremìa (Pottu su ’iddiu che una pezz’atresi), si passa alla fase di citazione del tabù, seppur tramite il filtro del paragone proverbiale che vede
come protagonista la figura quasi mitizzata, proverbializzata sarebbe la
parola esatta, di Ziu Andriòu. In questa sequenza, dall’implicito
all’esplicito, è osservabile un crescendo d’intensità non solo comica, ma
anche comunicativa: è un climax, fenomeno retorico-stilistico ben noto
ai greci e pervenuto alla latinità anche con i termini di gradatio (ovvero
“gradino”), conexio (“collegamento”) e catena (“concatenazione”). Le paremìe, durante la diatriba fra Paddori e Gervasio, tendono a susseguirsi
secondo affinità tematiche, innervando le isotopie presenti in questa
parte del primo atto: come vedremo, l’effetto di gradazione si inerpicherà
e si irradierà lungo una catena sintagmatica di classemi che, ripetendosi,
garantiscono omogeneità al testo. Le paremìe, come colonne di una
solida architettura, sorreggono la coesione da cui scaturisce la coerenza di
questa parte della commedia. Potremmo anche dire che la coerenza testuale è garantita dal ricorrere di isotopie paremìache18.
Paddori pensa dunque che il cittadino Gervasio abbia fame quanto
e forse più di lui, visto che sbadiglia a più non posso; e allora ritiene
Analoghe sono le osservazioni sull’uso letterario delle formule paremìache espresse
da E.A. SCHEGLOFF, H. SACKS, Opening up Closings, «Semiotica», VIII, 4, 1973, pp. 209-327;
in particolare si vedano pp. 306 e ss. L’informazione è tratta da G. CORPAS PASTOR, op. cit.,
p. 230: «El uso de las paremias y otros tipos de fórmulas constituye una de las técnicas (la
técnica “aforística”) para indicar la finalización del tema (“topic bounding”) que tiene lugar
previamente a la secuencia de cierre de una conversación».
18
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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anche di aver finalmente capito perché Gervasio parlasse di minestra,
mentre in realtà parlava di «finestra» ed era il pastore a intendere «minestra» (e la reiterazione del fraintendimento è un altro elemento di connessione tra le due situazioni di citazione paremìaca). La gag comica parrebbe
dunque basarsi anche sulla conoscenza condivisa tra il protagonista e il
pubblico del detto Speràusu ka siat sónnu (cioè speriamo che [questo sbadiglio]
significhi avere sonno e non fame, usato appunto quando tanta era la paura
della fame, o forse sarebbe più corretto dire, tanta era la fame, che spesso
lo sbadiglio veniva accolto con tale ironica espressione, probabilmente
usata non solo in Sardegna): dall’uso invertito di tale enunciato bene
augurante, attuando una violazione della regola implicita, sgorga infatti
l’ilarità.
Paddori afferma con la citazione paremìaca che la fame di Gervasio
è come quella del proverbiale Andriòu: così facendo prende, nella contesa per la conquista del consenso del pubblico, il sopravvento sull’antagonista, ridicolizzandolo nell’accostarlo a un personaggio dal destino
notoriamente stupido e buffo. Subito dopo l’enunciazione del proverbio,
Gervasio legge su un quotidiano la notizia di una presunta crisi economica della banca presso cui ha depositato i suoi risparmi e si trova, lui benestante, a fare i conti con gli spettri della miseria e della fame: sembrerebbe dunque di trovarsi dinnanzi all’uso medievale del proverbio pronostico, che dopo essere stato enunciato sortisce effetti diretti sulla trama19. In
A titolo esemplificativo, si pensi all’uso della formula proverbiale che in questo senso
fa Boccaccio in Decameron II, 9. G. CHIECCHI, in Sentenze e proverbi nel Decameron, «Studi sul
Boccaccio», IX, (1975-76), pp. 134-147), sostiene che il proverbio può, così come la sentenza, estendere la sua funzione normativa alla trama, fino a coincidere con la stessa ampiezza,
nel caso di Boccaccio, della novella: il proverbio Lo ingannatore dimane a pie’ de lo ’ngannato,
introdotto dalla narratrice Filomena, apre e chiude la novella con funzione di anticipazione e
19
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
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tale caso la bancarotta che avrebbe potuto ridurre Gervasio nelle medesime condizioni di Andriòu si rivelerà tuttavia frutto dell’ennesimo malinteso: l’italofono alfabetizzato ha letto male, le sue sostanze sono salve,
ma la sua reputazione davanti al pubblico ha subito un altro piccolo
smacco.
A questo punto, prendendo in considerazione la dimensione illocutiva e quella perlocutiva dei due enunciati fin qui esaminati, è necessario
domandarsi con quali intenzioni siano stati emessi e quali effetti abbiano
prodotto sul destinatario. L’intenzione di Paddori parrebbe quella di
creare un rapporto privilegiato tra sé e il pubblico, di instaurare un legame di complicità più stretto con esso, attingendo agli elementi linguistico-retorici della tradizione comune e alle conoscenze condivise: la citazione proverbiale non solo sottolinea l’appartenenza a una stessa cultura/comunità, ma evidenzia la condivisione della stessa competenza comunicativa, oltre che linguistica. Consequenzialmente, l’effetto perlocutorio è di accrescere la distanza tra Gervasio e un uditorio evidentemente
in situazione diglottica20: tale distanza è dovuta al fatto che il piemontese
usa un italiano forbito e artificioso e non mostra un atteggiamento di
empatia verso la comunità presso cui è ospite. Stando così le cose, alla
ricapitolazione della trama, e spiega la storia di Ambruogiuolo come indispensabile dimostrazione della validità di esso.
Nel 1911, in Sardegna, risultava alfabetizzato solo il 42% della popolazione; dieci anni
dopo, il dato superava il 50%. Secondo i calcoli esposti da Tullio De Mauro nella sua Storia
linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari, 2002, p. 95, all’epoca in cui Melis scrive la sua commedia «si
può insomma affermare che […] valeva ancora per la Sardegna – nonostante gli oltre quattrocento anni trascorsi – ciò che i Gesuiti constatavano nel 1561: “La lingua ordinaria di Sardegna
è il sardo”». L’osservazione è tratta da G. LUPINU, Alcune valutazioni sulla lingua, in AA.VV., Le
lingue dei sardi. Una ricerca sociolinguistica, a cura di A. Oppo, Cagliari, 2007; il contributo è consultabile anche sul web: http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_4_20070510134456.pdf,
pp. 95-110.
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citazione paremìaca che richiama alla mente la figura di Andriòu, lo spettatore non può che ridere sia dei fraintendimenti continui del protagonista Paddori sia, ancor di più, della situazione ridicolizzante in cui questi
riesce a calare Gervasio, grazie alla forza persuasiva della citazione proverbiale.
Si può dunque affermare che l’atto in esame sia in ultima analisi un
direttivo, giacché con esso si manifesta la volontà dell’emittente di burlarsi del proprio antagonista assicurandosi la simpatia del pubblico. Secondo Carla Bazzanella21, nell’uso umoristico del linguaggio due sono gli
strumenti eminentemente coinvolti e sono tra loro collegati: l’implicito e
il frame. Il primo (definibile come tutta quella serie di significati potenziali
che di volta in volta possono scaturire da un’enunciazione, o da qualsivoglia altra azione comunicativa non verbale: le dinamiche contestuali
extra-linguistiche in cui essa s’inserirà saranno in grado di risemantizzarla, mettendo in luce il significato del parlante, il cosiddetto speaker’s
meaning, detto anche “senso implicito”, appunto, o “senso comunicato”)22 è fondamentale per la buona riuscita dell’effetto comico, dal momento che crea attese e inferenze nel ricevente in base a un frame (ovvero
una struttura, un’intelaiatura della narrazione, un universo di discorso)
che verrà ribaltato:
«Una sequenza umoristica vera e propria, secondo Fry, comporta un
frame ludico ma, differentemente dal gioco […] esige un climax, la cosid-
21 C.
BAZZANELLA, op. cit., pp. 232-235.
Cfr.: C. BIANCHI, op. cit., p. 51; M. MIZZAU, Storie come vere. Strategie comunicative in testi
narrativi, Feltrinelli, Milano, 1998, pp. 145-152; A. BERRENDONNER, Éléments de pragmatique
linguistique, Les Éditions de Minuit, Paris, 1981, pp. 12-13.
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detta punch line, quel piccolo shock cognitivo che chiude la parabola ridefinendo la relazione figura-sfondo»23.
Ad aver fame è Paddori. A passare da affamato, però, al culmine
dell’interazione verbale, è Gervasio. Tale rovesciamento della situazione,
inerente nello specifico al tópos della fame, coefficiente fino a quel momento implicito giacché in bilico tra detto e non detto della prima paremìa (l’espressione idiomatica Pottu su ’iddiu che una pezz’atresi) è dunque
alla base dell’ilarità che sfocia alla citazione della seconda (ovvero il paragone proverbiale Su fammin’ e’ zi’ Andriòu, chi ’nc’ ia’ pappau sa moba e su
bestiòu): solo grazie a quest’ultima il ribaltamento può attuarsi.
Si noti tra l’altro, per quanto attiene la dimensione meramente locutoria dell’atto, la fono-isotopia nella rima Andriòu/bestiòu (“somaro”),
la quale non solo assicura al proverbio coesione sul piano della sostanza
dell’espressione ma, a livello della sostanza del contenuto, rafforza l’icasticità dell’immagine designata, suggellando ulteriormente il rapporto di
analogia tra i due referenti, tramite il parallelismo fonico-semantico; non
tralasciamo di ricordare, inoltre, che la rima è anche garante dell’aspetto
mnemonico soggiacente alla citazione proverbiale, giacché proprio essa
ne assicura la sopravvivenza, favorendone la conservazione nella memoria dei fruitori.
La paremìa successiva, sempre pronunciata da Paddori, è riferita
ancora una volta a Gervasio. Quest’ultimo è in preda al panico, credendo
di avere appena scoperto che la banca presso cui ha depositato i propri
R. DE BIASI, I ‘frames’ dell’umorismo, in G. BATESON et al., L’umorismo nella comunicazione
umana, a cura di P.A. Rovatti e D. Zoletto, Cortina, Milano, 2006, pp. 97-98, cit. in C. BAZZANELLA, op. cit., p. 233.
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risparmi è fallita. Paddori commenta, a modo suo, tale stato di agitazione;
vero destinatario della battuta è ancora il pubblico: «Nasciu! Sua’ che una
pìbara!».
Sua’ che una pìbara (p. 14)
Soffia come una vipera
Tale espressione idiomatica è catalogata anche nel DitzLcs, alla voce
píbara, p. 1312, nella sezione dedicata ai modi di dire, dove si legge: Sulai
che píbera = Furriàresi male arrennegados, a boghes. Ovvero rivolgersi irosamente
(a qualcuno), con grida. Si usa per esprimere lo stato di irrequietezza e alterazione in cui qualcuno si può trovare. Può risultare interessante tenere
conto dell’esistenza in sardo logudorese di una maledizione, ovvero,
come precisa Mario Vargiu, di un modo di (male)dire: Ancu ti sulet sa
pibera, ovvero possa soffiarti la vipera, dove il soffio è quello inquietante che,
in certi rettili, precede l’attacco.
Probabilmente con píbera si intende la natrice maura o viperina (Natrix maura)24 che non è esattamente una vipera, inesistente nell’isola; Puddu traduce con ‘vìpera, bìscia viperina, còlubro sardo’. Si tenga presente
che in sardo campidanese esiste anche la voce calóru – con tutte le sue
varianti sub-dialettali – per designare la biscia e il serpente25. Invece,
secondo Wagner, con il termine píp(p)era (< VIPĔRA) e relative varianti,
Cfr. G. DODERO, Piccola Enciclopedia della Sardegna, AM&D Edizioni, Cagliari, 2003, p.
270 (alla voce Natrice) e p. 339 (alla voce Pibera).
24
25
Cfr. DES, I vol. alla voce kolòvra, pp. 365-366.
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si fa riferimento a «due specie di serpenti acquatici (Tropidonotus natrix e
Periops hippocrepis)»26.
Da un punto di vista prettamente fonetico, si noterà che la III persona singolare dell’indicativo del verbo sulài, che apre la paremìa in esame, compare nel nostro testo con la tipica facies fonetica trexentese (e di
tutto il campidanese centro occidentale), con evidente dileguo della laterale intervocalica. Mentre nella voce pìbara, rispetto a pìbera dell’espressione idiomatica catalogata da Puddu, si noterà (forma registrata anche
da Porru27 e considerata rispetto a pìbara come forma non “plebea”)
l’inclinazione all’indistinzione timbrica di a ed e in atonìa, tipica della
varietà di campidanese parlata nella zona d’origine dell’autore; il fenomeno è altresì noto come centralizzazione vocalica.
Ancora una volta è un paragone proverbiale a mettere in ridicolo
Gervasio, che in stato di agitazione sembrerebbe minaccioso come una
biscia, e a innescare l’equivoco, stavolta non verbale, con Paddori che
interpreta come segnale di ira e ipotetica aggressione nei suoi confronti
quella che è semplicemente una manifestazione di panico.
Tale paremìa è il primo elemento di una serie di espressioni idiomatiche aventi come topic la stravaganza, la follia in senso lato, su machímini,
o comunque la perdita dell’equilibrio psico-fisico. Sembrerebbe che ancora una volta si faccia allusione, tramite l’uso delle espressioni idiomatiche, a un qualcosa di implicito, condiviso fra pubblico e Paddori, che
possiamo menzionare come un giudizio sulla particolare stravaganza di
Gervasio: dal punto di vista di Paddori, chi non riesce a farsi capire e/o
26
Cfr. DES, II, p. 273, alla voce píp(p)era.
27
Si veda V.R. PORRU, op. cit., III vol., p. 53, alle voci Pìbara e Pìbera.
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non capisce ciò che gli viene detto è sicuramente almeno un po’ strano se
non proprio matto; davanti alla scena di disperazione, sempre più accentuata, dovuta alla notizia del fallimento della banca, notizia di cui Paddori
non è a conoscenza, è facile per il pastore trarre quella conclusione.
Nella storia del teatro, la figura del matto ha spesso valenze comiche:
si pensi ad esempio alla figura del fool shakespeariano o a quella del giullare
medievale, indagata da Dario Fo in gran parte della sua produzione
drammaturgica. Il legame fra comicità e follia non è limitato al mondo
chiuso della finzione scenica (il quale, ovviamente, trae linfa dal quotidiano): il proverbio logudorese, registrato anche da Spano, Inue non bi hat
maccos non rient sabios28, ovvero dove non ci sono matti non ridono i savi, è generalmente usato come arma di difesa da chi è accusato di essere pazzo.
Un’accusa che Gervasio si vedrà rivolgere spesso da Paddori, il quale, a questo punto della contesa, sceglierà proprio quest’arma per mantenere l’antagonista sotto l’attacco ridicolizzante della propria vis comica. Per
quanto inconsapevole di essere a sua volta oggetto dell’ilarità dello spettatore per via dei propri fraintendimenti, il pastore saprà produrre e tener
viva la propria offensiva dialettica col sapiente e reiterato uso degli elementi del codice retorico legati fra loro dallo stesso topic, quasi fosse un
filo conduttore che lo guiderà, di mossa in mossa, fino allo scacco matto
dell’ultima battuta della scena IV (p. 19), in cui l’assolo del protagonista
gode di una speciale chiusa proverbiale: «Ei Ei! maccu maccu ma non s’è
boccìu! Gei no fàddi’ su dicciu sardu: Femmina arrebuggia, bècciu corriazzu, e genti prettoccada, coment’a i kustu, no’ cicca’ mai motti! E gei
Cfr. G. SPANO, Proverbi Sardi trasportati in lingua italiana e confrontati con quelli degli antichi
popoli, a cura di G. Angioni, Ilisso, Cagliari, 2003, p. 207, alla voce Maccu.
28
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nau kh’è bèrusu…» (trad. lett.: Sì, sì! matto matto ma non si è ucciso! Non
sbaglia proprio il proverbio sardo: Donna strafottente, vecchio coriaceo, e gente toccata
non cerca(no) mai morte). Questo è il culmine di un impressionante fuoco di
fila di battute, nelle quali spiccano le paremìe che passeremo in esame di
seguito, incentrate sul tema della presunta stravaganza/follia di Gervasio:
«Patti’ su navrosu, su sannori»; «’Oidi’ a ddu pottai a su spidabi!»; «indi
fròma’ Deu’ de mobadia’ màbasa!»; «ddu trobu a us’ ’e mardi!» e così via.
Il crescendo comunicativo viaggia ancora una volta dall’implicito
delle espressioni idiomatiche all’explicit della citazione proverbiale, preceduta dalla parola fino a quel momento abilmente taciuta (forse per mere
esigenze comiche), ovvero maccu. Solo dopo la catena di modi proverbiali
che alla follia alludono e rinviano, abilmente sfruttati dal Melis quali utili
strumenti preparatori, la parola taciuta può essere rivelata. In una sorta di
amplificazione preventiva, le allusioni costruiscono una cassa armonica
che garantirà alla parola sottintesa, una volta pronunciata, il massimo
grado di risonanza. Per di più col sigillo di verità della saggezza della
tradizione popolare29.
Vediamo ora, in dettaglio, come prosegue la serie concatenata di
espressioni idiomatiche cui si è fatto cenno.
Paddori, dopo aver osservato Gervasio camminare nervosamente e
darsi dei pugni, esclama: «Oiammomia! Patti’ su navrosu, su sannori!…
Atturu che navrosu: è toccau de su mattedd’ e Sant’Amadu!» (trad. lett.:
La parola può finalmente risuonare a p. 16, dove è ripetuta addirittura tre volte, giacché Paddori, nel sentire Gervasio piangere disperatamente e chiamare «Gilda! Gilda! Gilda!»,
gli farà eco con «maccu, maccu! maccu!». Essa riappare ancora a p. 19 (ripetuta per due volte
consecutive) immediatamente preceduta dal proverbio-sigillo.
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Ohi mamma mia! Soffre il nervoso, il signore!…Altro che nervoso: è toccato dal
martello di Sant’Amato!).
È toccau de su mattedd’ e Sant’Amadu (p. 14)
È toccato dal martello di Sant’Amato
Secondo una tradizione popolare, Sant’Amadu è stato martirizzato
con un martello; attualmente le sue reliquie sono custodite nell’omonima
chiesa di Gesico, piccolo centro della Trexenta. Probabilmente alle modalità del suo martirio è da ricondurre l’origine della locuzione proverbiale.
Essa è utilizzata quando si vuol fare riferimento alla stranezza di
qualcuno, alla sua personalità stravagante che si riflette nel modo di pensare e di agire; viene altresì usata quando qualcuno è preso da un raptus.
Anche in italiano si dice è toccato alludendo a persona un po’ matta,
stramba. Lo stesso uso si ritrova in sardo: pertocadu (de pertocare, -ai; mescamente nâdu de zente, chi no est tantu zusta de conca, chi faghet carchi machine: Puddu, p. 1304; trad.: soprattutto detto delle persone che non ci stanno molto con la
testa, che compiono qualche sciocchezza), tocadu (nello specifico si consideri la
locuzione tocadu a conca = fertu, mesu macu, pagu sanu de cherbedhos: Puddu, p.
1632; (trad. lett.: toccato, mezzo matto, poco sano di cervello); Wagner30 registra
il verbo tokkare come un italianismo; si potrebbe quindi ipotizzare che
tutte le accezioni in cui il termine ricorre in italiano, incluso il senso figurato della stravaganza, siano riusate come imprestiti in sardo.
30
Si veda DES, vol. II, p. 493, alla voce tokkare, -ai.
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Altro italianismo usato per descrivere la stravaganza, la stranezza, la
mancanza di assennatezza, particolarmente nel dire, è astrolicàre, strolicai.
Si tenga presente, in modo particolare, il deverbale strólicu del campidanese, che Puddu riporta con il significato di ‘strano’, ‘stravagante’31. Tra i
sinonimi di astrolicàre, strolicai di derivazione latina non possiamo omettere
il log. illoriare, illeriare e il camp. sciolloriài, che significano più specificamente ‘dire sciocchezze, scemenze’, ovvero ‘uscire dal seminato’ e quindi, in senso etimologico, non essere più tenuti dalle corregge («quasi
*EX-LORIARE»: DES, II, p. 39).
(Pàtti’ su) mab’ ’e cadupu (p. 15)
(Soffre del) male di caduco (epilessia)
Tale modo di dire, riferito da Paddori a Gervasio, è da mettersi in
relazione con quella serie di enunciati incentrati sulla presunta stravaganza/follia del commerciante torinese, di cui si è detto a p. 115. Il termine
mab’ ’e cadupu (= mal caduco, ovvero l’epilessia) è dunque da intendersi
nell’accezione ampia di ‘malattia mentale’32; come a dire: «È fuori di
sé/testa». E più precisamente soffre del male del caduco.
Cfr. M. PUDDU, op. cit., p. 1574. Si tenga conto anche della variante con a- etimologica iniziale astrólicu riportata da Puddu, p. 251, così spiegata: «chie nachi cumprendhet ite naran sos
astros; chi o chie narat perrerias, issolórios».
31
Si tenga presente l’alone di superstizione che ha sempre avvolto la malattia epilettica:
ancora alla fine del secolo XIX importanti esponenti della cultura neuropsichiatria (si pensi a
B.A. Morel, Traité des maladies mentales, Masson, Paris, 1860) parlano di ‘temperamento epilettico’; in quest’ottica il malato di epilessia incarna l’immagine del degenerato psichico. Non
guasta, a tale riguardo, citare un noto proverbio logudorese: Homine baulosu, fertu a machine
(Uomo bavoso, mezzo pazzo): cfr. G. SPANO, op. cit., p. 170, alla voce Homine.
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Può essere utile, a questo punto, un breve excursus foneticoetimologico.
Questo modo di dire viene citato in una nota di Fonetica Storica del
Sardo di Wagner (d’ora in avanti HLS), p. 340, n. 238, dove è tradotto
con ‘mal caduco’. Invece in DES, II, p. 58, è catalogato non come locuzione bensì quale parola unica; trattasi evidentemente di un composto, in
cui si è verificato sincretismo tra la componente nominale e quella aggettivale della locuzione italiana, fonte del prestito: dal sintagma dell’italiano
‘mal(e) caduco’ si ha in logudorese malekađúku, mentre per il campidanese Wagner registra la voce maliǥađúk(k)u.
Ci si chiede allora se nel nostro testo, nonché nell’edizione citata da
Wagner in HLS, l’errata divisione della catena fonica sia attuata in maniera consapevole o meno, visto che in luogo dell’atteso maƀiǥađúk(k)u (oppure maƀiǥađúǥu/maƀiǥađúƀu poiché, se riteniamo con Wagner che la
<p> del nostro testo sia esito di ordinari scambi tra consonanti lenite,
propri delle parlate rustiche, non possiamo che postulare un’antecedente
consonante fricativa velare, o bilabiale, sonora)33 rileviamo un sintagma
formato da tre elementi distinti: mab(i) + (d)e + cadupu. Rispetto alla locuzione italiana ‘male caduco’ si noterà – oltre al passaggio, atteso nella
varietà trexentese, della laterale intervocalica a spirante bilabiale sonora,
nonché quello della consonante occlusiva velare sorda dell’ultima sillaba
a consonante occlusiva bilabiale sorda, fenomeno ascrivibile, come accennato a scambi non infrequenti in sardo tra le occlusive sorde, basati
su forme intervocaliche – l’inserzione della preposizione de, presumibil-
33
Si veda HLS, pp. 340-341, § 378.
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mente analogica su altre locuzioni del sardo basate sul tipo sostantivo +
(d)e + sostantivo e in particolare su quelle atte a definire patologie (si pensi,
a titolo esemplificativo, a su mali de is perdas, in italiano ‘calcolòsi’, su mali
de arrigus, ‘mal di reni o nevralgia’, su mali de figau, ‘mal di fegato’, su mali de
sa mardi, ‘isterismo’).
Così si spiega perché l’aggettivo originario della locuzione italiana è
trattato in tale contesto quasi fosse un sostantivo: come se si dicesse
‘male di caduco’ per ‘male caduco’. Possiamo ipotizzare che tale manipolazione linguistica del termine abbia l’intento di enfatizzare la natura
patologicamente instabile di Gervasio: Paddori, dandogli del caduco, non
fa altro che attribuirgli caratteri di instabilità e vulnerabilità.
Fùrriant i’ grillus (p. 15)
Tornano indietro (girano) i grilli
I grilli cui Paddori fa riferimento sono quelli metaforici che rinviano
alla locuzione Potài grillus in conca (espressamente citata più avanti nel
testo in esame da Antioga, moglie di Paddori, e riferita al marito)34, molto
probabilmente un italianismo se si considera l’esistenza dell’espressione
idiomatica dell’italiano Avere grilli per la testa ovvero «avere idee stravaganti, bizzarre o pretenziose, come se si avesse nella testa una schiera di grilli
che con il loro frinire e saltellare incessante impedisse di pensare in maniera logica o sensata»35. Stesso significato ha la locuzione anche in campidanese, giacché essa è riferibile a chi ha strane idee in testa, a chi può
34
Cfr. E.V. MELIS, Ziu Paddori, cit., p. 53.
35
Si veda B.M. QUARTU, op. cit., p. 241, alla voce grillo.
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essere soggetto a pulsioni irrazionali. Nella sezione dedicata ai modi di
dire del DitzLcs essa non compare; è catalogata solo Parrer unu grillu, avente il significato di ‘essere di umore (molto) allegro’; tuttavia, nella
parte del dizionario riservata alla citazione dei passi letterari, si legge «no ti
pongas grillus in conca: su maistu torrat a manorba! (Loni)»36 (trad.: non metterti
strane idee in testa, non farti illusioni: il capo mastro può retrocedere a manovale). Lo
stesso Wagner nel DES specifica che in sardo la parola ‘grillo’ viene usata
anche metaforicamente col senso di ‘capriccio’ e da qui probabilmente
deriva ingrillài del campidanese (= allettare, carezzare, vezzeggiare), da
cui, a sua volta, il deverbale ingríllu (= moina, carezza)37.
L’espressione «khi mi fùrriant i’ grillus» è proferita da Paddori, il
quale, parlando tra sé e sé, afferma che, se dovesse perdere la ragione, la
lucidità, saprebbe lui come far tornare in sé Gervasio; la frase, in realtà, è
rivolta al pubblico della commedia, e con essa Paddori emette a suo
modo un giudizio sul comportamento irrazionale e stravagante, in quanto per lui incomprensibile, del suo antagonista. In realtà il pubblico conosce la ragione della disperazione del torinese, ovvero il suo presunto
fallimento, così come, poco prima, sapeva che sbadigliava per noia e non
per fame. Non è improbabile, in realtà, che Paddori stia tentando di
trasferire su Gervasio quel senso di inadeguatezza e stramberia che lo
investe (chi parla, non dimentichiamolo, è un pastore che per la prima
volta si trova in una stazione ferroviaria); attacca, insomma, per non
essere attaccato e dice: «ma khi mi fùrriant i’ grillus, su sannori si pinnicada a tundu» (trad.: ma se mi lascio andare [pure io] alle mie stranezze, [vi faccio
36
Si veda M. PUDDU, op. cit., p. 777, alla voce grígliu.
37
Cfr. DES, I, pp. 590-591, alla voce gríllu.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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vedere] come si rimette in sesto il signore). Ecco che l’allusione paremìaca ora
spiegata introduce una nuova espressione idiomatica:
Si pinnicada a tundu (p. 15)
Si piega (protegge) a tondo
Ovviamente la traduzione letterale non consente la comprensione
di tale elemento fraseologico: poiché la motivabilità di questo e altri detti
non si manifesta più in maniera diretta e univoca (la designazione metaforica non è recuperabile in sincronia), ovviamente il significato non può
essere scorto nella componibilità dei singoli lessemi costituenti. Solo la
convenzionalità dell’uso è, in tale caso, unico vettore di comprensione
dell’idiomatismo. Esso è registrato nel DitzLcs, alla voce túndhu (p. 1682),
nella sezione dedicata ai modi di dire, dove si legge: «pinnigaisí a tundu =
sbodhiaisí, pònneresi a fagher carchi cosa, a triballare», ovvero darsi da fare in
fretta, mettersi a fare qualche cosa, a lavorare. Si può confrontare quanto finora
esposto anche con il breve passo letterario – citato per esemplificare
come il lemma sia stato usato dagli autori sardi – tratto sempre dal dizionario di Puddu, alla voce pinnicài: «est tempus chi is sannoricus pinnighint
a tundu!»38 (trad.: è tempo che i signorini, i figli dei padroni, si diano da fare!).
Nella formula sintagmatica pinnighint a tundu ritroviamo talis qualis, mancanza del riflessivo a parte, la paremìa in esame.
Wagner in DES, II, p. 270 lascia emergere l’eventualità che il verbo
pinnik(k)are, -ai (piegare, radunare) derivi dal sostantivo pínna, nel senso di
38
M. PUDDU, op. cit., p. 1328.
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‘riparo’39. Non si può quindi escludere che la nostra locuzione proverbiale possa anche avere il senso di ‘mettersi a riparo’ e scherzosamente anche ‘involarsi, scappare’. Altrettanto indurrebbe a pensare l’uso che ne fa
lo stesso Melis, in Su Bandidori, che l’illustre etimologo riporta in DES,
alla voce pínna: «Eh, pinnicau nc’è’ = se n’è fuggito, ha preso il volo».
Questo è anche il significato con cui in Trexenta, per esempio a
Barrali, la paremìa è nota, ovvero col senso di ‘organizzarsi per proteggersi’ e anche ‘indietreggiare’. A Guasila l’espressione si usa per definire
lo stato di paura che precede la ritirata.
È che quaddu chi non bàbiat abruda (p. 15)
È come cavallo che non sopporta barbazzale (catenella del freno che passa per la
barbozza del cavallo40)
Si tratta di un paragone proverbiale o di una similitudine (di cui non
si hanno altre tracce letterarie)41 probabilmente generata dalla creatività
linguistica dell’autore facendo perno su alcuni aspetti formali, quali la
mancanza degli articoli determinativi a precedere i sostantivi quaddu e
abrúda nonché il metro (in questo caso l’endecasillabo), frequenti nelle
Pensiamo anche al sostantivo, d’uso diffuso a tutt’oggi nell’italiano regionale di Sardegna, pinnèt(t)a, con uguale significato: Cfr. DES, II, p. 269, alla voce pínna. Si veda pure M.
PUDDU, op. cit., p. 1327, alla voce pinnèta.
39
40
Spiegazione tratta da DES, I, p. 177, alla voce bárƀa.
A giudicare da quanto riporta PUDDU, op. cit., p. 32, alla voce abrúda, non si tratterebbe di un modo di dire, normalmente segnalato con l’abbreviazione c.s.n. (comenti si nàrada =
come si dice) bensì di una formula pseudo-paremìaca frutto della creatività linguistica
dell’autore. Resta però il fatto che possa trattarsi di una formula retorica di cui si sia persa
traccia: gli informatori, anche a Guamaggiore, hanno dichiarato di non averla mai sentita
prima.
41
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paremìe: il modello è quello di paragoni proverbiali come, a esempio,
Esser un’ispina sut’a ludu, usato per definire un traditore (subdolo come la
spina nascosta sotto il fango42).
Ci troviamo di fronte a un elemento del climax che, dalle allusioni
alla follia di Gervasio, conduce alla formulazione esplicita della demenza
dell’antagonista, suffragata dalla citazione proverbiale. Mentre Gervasio è
in preda alla disperazione, tanto che grida, si dimena e digrigna i denti,
Paddori lo paragona al cavallo che mal sopporta il morso e rifiuta di
essere tenuto a bada dalle redini.
Con tale similitudine sembrerebbe si faccia allusione anche al cavallo protagonista di un noto proverbio sardo, ovvero A cuadhu curridori funi
crutza, diffuso in tutta la Sardegna seppur ricorrente in diverse varianti,
come per esempio quelle riportate da Puddu A cuadhu papadori funi crutza!
e A cadhu curridore bríglia cultza, senza tralasciare quella registrata da Spano,
molto simile alla precedente e anch’essa di area logudorese, A caddu corridore, sa briglia forte. Tale formula paremìaca è usata specialmente per qualificare le persone poco riflessive, che si lasciano trasportare dall’istinto e
non conoscono freni inibitori, coloro che conducono una vita sregolata e
devono essere tenuti in qualche modo a bada, a freno. La nostra ipotesi è
supportata dal fatto che, immediatamente dopo la citazione della similitudine, Paddori dirà di avere con sé, in tasca, una funixedda (piccola fune)
e di voler legare Gervasio a us’ ’e mardi (come si usa fare con la scrofa). Si
pensi anche al modo proverbiale Dare fune curtza a unu, cioè dare paga fide,
fidàresi pagu de unu, (trad.: dare poca fiducia, fidarsi poco di qualcuno, ergo tenerlo
Si tratta di un’espressione idiomatica diffusa in area campidanese; la forma riportata è
tratta da DitzLcs: p. 1083, alla voce lódu.
42
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a bada) e ancora a Bogai sa funi a unu ovvero dàreli fune longa, lassàrelu andhare o fagher totu comente chèrede43 (trad. lett.: dargli fune lunga, lasciarlo andare o
lasciargli fare tutto a suo piacimento). Ora, se si tiene presente la locuzione
dell’italiano, avente lo stesso significato della precedente, Mettere il morso a
qualcuno, nel senso di ‘tenerlo a freno’44, ci si rende immediatamente conto di quanto poca sia la distanza tra le due metafore oggetto della nostra
disamina, quella espressamente pronunciata da Paddori e quella del cavallo tenuto con la fune corta, alla quale egli pare voler alludere.
Nell’isotopia del tema della follia e nel gioco allusivo dei fraintendimenti (alludere, in fondo, è ludĕre)45, innestati sul formulario proverbiale
della comunità cui il testo è destinato, pare rientrare anche l’enunciato
ddu trobu46 a us’ ’e mardi (trad.: lo lego, lo impastoio, come si fa con la scrofa).
Paddori potrebbe alludere alla tecnica usata dagli allevatori sardi per
legare gli animali in modo da evitarne l’allontanamento; in particolare lo
si faceva con cavalli e maiali, qualora non si possedesse una stalla in cui
ricoverarli, ovviamente privilegio di pochi; alle bestie, soprattutto se poco
mansuete e difficili da gestire, venivano legate le zampe anteriori con
delle pastoie, denominate in sardo log. trobeas, camp. trebèas47. Tali funi
potevano provocare nei maiali una patologia, nota in log. col nome di
43
Cfr. M. PUDDU, op. cit., p. 732, alla voce fúne.
Cfr. A. GABRIELLI, Il grande italiano. Vocabolario della lingua italiana 2008, Ulrico Hoepli
Editore, Milano, 2007, p. 1591.
44
Non dimentichiamo il valore semantico profondo di ‘allusione’, dal latino tardo allusiōne(m), esito del participio passato (adlūsus) di adludĕre (= ad + ludĕre) ossia ‘giocare, scherzare’, ma anche ‘lambire’ e ‘toccare leggermente’.
45
46
Cfr. M. PUDDU, op. cit., p. 1659, alla voce trebíri (trobíri).
Per ulteriori informazioni sull’etimo (lat. interpedire) si veda anche M.L. WAGNER, La
lingua sarda. Storia, spirito e forma, a cura di G. Paulis, Nuoro, Ilisso, 1997, p. 117.
47
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trobeale e camp. generale trobiali, che si manifesta con gonfiore alle articolazioni degli arti48. Posto che l’immagine della contenzione rimanda ancora una volta al tópos della follia (per Paddori, Gervasio è maccu de accappiai49), resta da domandarsi perché, fra tutti gli animali, il pastore di Melis
citi proprio la scrofa e non, per esempio, il verro50 o meglio ancora il
cavallo, del quale parlava fino a un attimo prima. Si possono formulare
due ipotesi:
a) Paddori interpreta il singhiozzare e il digrignare i denti da parte di
Gervasio come segni di aggressività e minaccia nei suoi confronti e
conclude che sarebbe opportuno impastoiarlo come si fa (o si faceva)
con le scrofe particolarmente aggressive51;
b) un’altra interpretazione, meno immediata ma suffragata dal precedente riferimento alla presunta epilessia di Gervasio (su mabi de cadupu), è
che Paddori alluda qui a un’altra malattia: l’isterismo, designato in
sardo con la locuzione su mabi de sa mardi52, ossia zenia de nervosu, (‘male
di madre, male dell’utero, isterismo’; si pensi anche alla locuzione
Cfr. M.L. WAGNER, La vita rustica della Sardegna riflessa nella lingua, a cura di G. Paulis,
Nuoro, Ilisso, 1996, p. 259.
48
49
Cfr. V. PORRU, op. cit., vol. II, p. 278.
Si tenga conto dell’esistenza del modo di dire Tènniri calincunu in dòmu che prócu a pèi segàu (trad. lett.: tenere qualcuno in casa come il porco con la zampa rotta), detto generalmente a proposito di figli incapaci di destreggiarsi, di mantenersi autonomamente, e che quindi si tengono
in casa, come si faceva con il maiale da ingrassare. A tale proposito si segnala l’esistenza di un
proverbio logudorese che potrebbe essere una risposta efficace alla locuzione citata: Chi hat
unu porcu lu faghet rassu, chie hat unu fizu lu faghet maccu! (Cfr. E. ESPA, Proverbi e detti sardi dei
parlanti la lingua sarda-logudorese, vol. I, Gallizzi, Sassari, 1981, p. 71).
50
L’aggressività della scrofa si manifesta in particolare quando la si deve macellare (tradizionalmente lo si faceva quando era incinta di due mesi, sia perché la qualità della carne
sarebbe stata migliore sia perché si potevano consumare anche i feti, considerati una vera
prelibatezza gastronomica), oppure quando ha appena figliato, per istinto di protezione verso
i cuccioli.
51
52
Cfr. M. PUDDU, op. cit., p. 1101, alla voce màdre.
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dell’italiano carattere uterino = carattere bizzarro, strano). Il gioco linguistico sarebbe in tale caso basato sull’omonimia delle voci márdi
‘scrofa’ e márdi ‘madre’, ‘utero’53, che hanno, tuttavia, etimi differenti54. Se la locuzione mabi (= mali) de sa mardi, ‘isterismo’, poteva anche
essere fraintesa, come ‘male della scrofa’ e non ‘male della madre’ o
‘male dell’utero’, l’azione di trobíri a usu de mardi, ‘legare come si usa fare con la scrofa’, può essere considerata a pieno titolo un’ulteriore allusione, con intento comico-umoristico, al nervosismo di Gervasio,
sofferente (oltre che di epilessia) di isterismo o meglio del ‘male della
scrofa’.
Mancu un pòddixi de sabi in conca pòttada (p. 19)
Neppure un pollice (pochino) di sale in testa ha
Parrebbe trattarsi di un italianismo; considerata l’affinità sia nel significato sia nel significante con la locuzione idiomatica italiana Avere poco
sale in zucca, potremmo parlare di “calco sintattico”55.
Si segnala altresì l’uso figurato della parola pòddixi, letteralmente
‘pollice’ ma avente, in tale caso, il senso metonimico di ‘modestissima
Tale omonimia è anche la causa di una credenza superstiziosa riportata da WAGNER,
che, a sua volta, cita Marcialis (Pregiudizi, p. 9), in DES, II, p. 89, secondo cui si credeva che
l’utero fosse un’animale.
53
L’etimo di márdi (utero) è MATER, quello di márdi (scrofa) è MATRIX: cfr. DES, II,
p. 89, alla voce mátre. Lo stesso WAGNER, però (in La vita rustica della Sardegna riflessa nella
lingua, cit., p. 256), attribuisce erroneamente a mardi ‘scrofa’ l’etimo matrem (che lo è invece
solo di márdi ‘madre, utero’).
54
Come chiarisce C. MARAZZINI, (in Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, a
cura di G.L. Beccaria, Einaudi, Torino, 1996, p. 121) «il “calco sintattico”, rientrante nella
categoria del “calco traduzione”, risulta da più parole che danno vita a una locuzione di
significato stabile (così i francesismi amare alla follia, colpo di fulmine, colpo di stato)».
55
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quantità’, riferito evidentemente alla dose di sale che può essere presa tra
pollice e indice, il cosiddetto ‘pizzico di sale’.
Tale espressione idiomatica designa persone sciocche, poco intelligenti; si usa per dire che qualcuno manca di raziocinio, di buon senso56.
E questo è anche il valore con cui Paddori la usa, a proposito
dell’antagonista Gervasio, parlando da solo ma in realtà, come più volte
visto, dialogando apertamente con il pubblico57. Dopo essersi assicurato
che l’italofono non si sia suicidato, Paddori «con risa convulse e prolungate tenta di pronunciare qualche parola»:
«Chi dd’ois’ agattai su kumpangiu! Mancu in Villacrar’ ’e Kasteddu!
Poborittu! Mancu un pòddixi de sabi in conca pòttada! A i kustu, iscedau,
non di dd’anti ’ettau! […] Ei, ei! Maccu maccu, ma no s’è boccìu! Gei no
fàddi’ su dicciu sardu: – Femmina arrebuggia, becciu corriazzu, e genti
prettoccada, coment’a i kustu, no’ cicca’ mai motti! E gei nau kh’è bèrusu…»
(trad. lett.: Se lo vuoi trovare il compagno! Neanche a Villa Clara di Cagliari! 58 Poveretto! Neppure un pizzico di sale in testa ha! A questo, poverino, non gliene
Cfr. M. PUDDU, op. cit., p. 1444, alla voce sàbi, in particolare si veda la sezione dedicata ai passi letterari. Si veda anche B.M. Quartu, op. cit., p. 460, alla voce sale.
56
La stessa locuzione, seppur priva del verbo, sarà ripetuta da Paddori, sempre riferita a
Gervasio, a p. 20: «È tottu arrellichinu, ma sabi in conca…» (trad. lett.: È tutto ben vestito, ma
sale in testa…). Si tenga presente la doppia accezione di arrellichinu che oltre a qualificare la
persona elegantemente vestita (probabilmente dall’iberismo relíki ̯a, DES II, p. 347, avente
significato di ‘reliquia’ e quindi per traslato ‘cosa preziosa, gioiello’; si pensi anche alla voce
relichiàris, DitzLcs, p. 1415, ovvero ‘ori e gioielli’) ha d’altro canto il significato di buffóne (non
si esclude in tale caso l’influsso dell’italiano ‘arlecchino’ = ‘persona poco seria, mutevole,
sconclusionata’ e anche ‘buffone’. Cfr. A. GABRIELLI, op. cit., p. 189, alla voce arlecchino). Cfr.
DitzLcs, p. 194, alla voce arlichínu.
57
Villa Clara a Cagliari era un noto centro specializzato nella cura della malattia mentale, un vero e proprio manicomio che sorgeva all’interno dell’attuale Parco di Monte Claro:
continuano le allusioni alla presunta malattia mentale di Gervasio.
58
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hanno messo! Sì, sì! Matto, matto, ma intanto non si è ucciso! Non sbaglia il proverbio sardo: Donna strafottente, vecchio coriaceo, e gente toccata, come questo, non cerca
mai morte! E io dico che è vero…).
Come accennato e come si può ora constatare direttamente sul testo, la lunga serie di allusioni scherzose, con intento comico-umoristico,
effettuate tramite il ricorso a espressioni idiomatiche sia in praesentia che
in absentia, sfocia nella citazione paremìaca per eccellenza, il proverbio,
che chiude e suggella questa serie proverbiale sulla stranezza, sul machímini. Vediamo più nel dettaglio tale chiusa finale:
Femmina arrebuggia, bècciu corriazzu, e genti prettoccada
[…] no’ cicca’ mai motti (p. 19)
Donna strafottente (sfacciata), vecchio coriaceo (tenace), e gente toccata non cerca(no)59 mai morte
Seppure a prima vista la paremìa in esame possa apparire come un
detto didascalico, ossìa privo di polisemia, in realtà si tratta di un detto
proverbiale: il rema no’ cicca’ mai motti (‘non cercano mai morte’ o in alternativa ‘non li cerca mai morte’) può interpretarsi anche con ‘non si arrendono mai’, sebbene Paddori lo usi invece in senso tautologico, ovvero, usando la terminologia di Franceschi, in modo tale da non comunicare null’altro oltre il senso letterale60: per lui a questo punto importa proprio, fuor di metafora, sottolineare che Gervasio non si sia ucciso.
L’elisione della forma verbale dovuta alla velocità elocuzionale non consente di stabilire esattamente se si tratti di una III persona singolare (ciccat; soggetto: motti) o plurale (ciccant;
soggetto: femmina arrebuggia, bècciu corriazzu, e genti prettoccada).
59
60
Cfr. T. FRANCESCHI, L’Atlante Paremiologico Italiano e la Geoparemiologia, cit., pp. 1-22.
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Da un punto di vista meramente etimologico si segnala in tale proverbio la presenza dell’imprestito dal catalano arrebuggia (= cat. rebuig,
‘acció de rebutjar’, ant. rebujar, ossia ‘no acceptar’; in castigliano ‘rehusamiento’,
‘desechamiento’)61; invece corriazzu, catalogato da Wagner62 tra i derivati di
kóri ̯u,
è tradotto con ‘coriaceo’ (si noti che la voce campidanese non è
riportata; ma è presente la variante nuorese kori ̯áϑϑu). Tali termini sono
rinvenibili anche nel DitzLcs di Puddu, rispettivamente alla voce arrabugíu
(p. 196) avente il significato di ‘sfacciato’ e ‘strafottente’, e alla voce corriàtu, corriàtzu (p. 539), traducibile in italiano con ‘coriaceo, flessibile’.
Come accennato, Paddori usa l’espressione proverbiale per dare del
toccato e dunque, finalmente senza alcun diaframma allusivo, del matto
al suo antagonista, giudicato più grave degli ospiti del manicomio di Villa
Clara. Per il pastore, sulla scorta del proverbio sardo, assunto come verità
assoluta, la prova matematica che Gervasio ha la “testa bacata” è il fatto
che non sia morto, che non abbia portato a compimento il suicidio minacciato.
In ultima analisi, l’espediente retorico-stilistico del crescendo assolve altresì la funzione pragmatica di conferire massima enfasi persuasiva
alla citazione paremìaca finale, posta a chiosa della IV scena del I atto.
Cfr. DES, I, p. 119, alla voce arrebúǧǧu. Si veda anche l’inventario lessicografico ed
etimologico di A. M.A ALCOVER, F. DE B. MOLL, Diccionari Català-Valencià-Balear, tom. IX
(redactat per F. De B. Moll amb la col˙laboració de M. Sanchis Guarner), s.i.t., Palma, 1959,
p. 208, alla voce rebuig.
61
62
Cfr. DES, I, p. 382, alla voce kóri ̯u.
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Cun màccusu non brullu (p. 20)
Con matti non scherzo
Si incontra questa espressione nella scena V: pronunciata da Paddori, è riferita a Gervasio, il quale insiste, per necessità, a voler comunicare
con il pastore, malgrado abbia consapevolezza di possedere un codice
incomprensibile al proprio interlocutore; parrebbe un’allusione (il gioco,
in questo caso a dispetto del noto proverbio italiano, non dura poco) al
detto, diffuso in tutta l’isola, noto ai sardo-campidanesi nella veste Cun
maccus e cun santus non brullisti (trad.: con matti e con santi non scherzare)63.
Puddu lo cita tra i passi letterari: «cun macus e cun santus non fait a brullai»64
(trad. lett.: con matti e con santi non si può scherzare). Esso è registrato anche
nella raccolta di Spano: Nen cum Santos nen cum maccos non servit bugliare
(dallo stesso autore tradotto con Né coi Santi né coi pazzi non bisogna burlare)65. Esso inoltre è catalogato in diverse raccolte locali (popolari e familiari) di espressioni proverbiali che, pur non avendo la pretesa del rigore
Si noti come l’imperativo negativo si formi in sardo anteponendo la particella negativa alla forma del congiuntivo presente (log. e camp.: no brulles/brullis), laddove in latino
esso è reso con il perfetto del congiuntivo preceduto da ne (nihil, nemo, numquam). In italiano
prevarrà la forma con non + infinito (II persona singolare) e non + imperativo presente (II
persona plurale). Tuttavia le forme di imperativo proibitivo in campidanese (pensiamo a
quelle della I e III coniugazione) hanno spesso una desinenza in -isti che non riflette quella
del congiuntivo presente: si confrontino, a titolo esemplificativo, alcuni passi di A. GARAU,
tratti da Is campanas de Santu Sadurru (S’Àlvure, Oristano, 1981): non mi cuminzist’ a …; no’ mi
dda tiristi…oppure non mi ddu neristi! (‘non dirmelo!’ = esclamazione tipica di meraviglia, così
come in italiano). È ipotizzabile che possa trattarsi di un influsso della desinenza della II
persona singolare dell’antico perfetto indicativo (-isti). Cfr., a tale riguardo, M.L. WAGNER,
Flessione nominale e verbale del sardo antico e moderno (= Fless.), «L’Italia Dialettale», XIV, 1938, pp.
93-170; XV, 1939, pp. 1-29, p. 83, § 114, in cui lo studioso afferma che le desinenze di II
persona pl. -astis (I con.), -estis, -istis (II e III con.) dell’imperfetto campidanese sono senza
dubbio resti dell’antico perfetto.
63
64
M. PUDDU, op. cit., p. 369, alla voce brullài.
65
Cfr. G. SPANO, op. cit., p. 205, alla voce Maccu.
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scientifico, si mostrano utili strumenti per attestare la diffusione di tali
oggetti linguistici nel territorio isolano. Per esempio, Paolo Pillonca66 lo
cita tra i suoi dicios logudoresi: «Cun macos e cun santos / no si devet brullare»;
ma lo ritroviamo anche in una raccolta di detti cagliaritani, di Bruno
Mureddu67, Cun santus e cun maccus non scherzis, in cui è evidente l’italianizzazione (ulteriore?) della forma verbale: in luogo di brullàre e brullà(r)i,
imprestiti dall’italiano burlare o dallo spagnolo burlar68, compare, infatti,
l’italianismo scherza(r)i.
In quali situazioni veniva usato tale detto? Esso ricalca in parte il designatum del proverbio italiano Scherza con i fanti e lascia stare i santi usato
come monito qualora si tenda a scherzare o prendersi eccessive libertà
con chiunque. Pittàno spiega: «Significa che si può scherzare con le cose
profane ma non con quelle sacre, ed anche di prendere confidenza con le
persone alla buona ma non con quelle superiori. Occorre qui ricordare
che fante ha anche il significato di addetto al servizio, servitore, persona
dipendente, l’ammonimento ha quindi un duplice significato, uno positivo (quello di non mescolare il sacro con il profano, di avere rispetto per
la religione e le cose del culto) l’altro negativo, poiché può essere un
incitamento al servilismo, all’ipocrisia, alla viltà, poiché invita a non criticare i potenti e coloro che possono vendicarsi»69. In sardo il detto è usato
non solo per sconsigliare di fare burle, possibili evidentemente solo
P. PILLONCA, Narat su diciu. Proverbi del popolo sardo, Edizioni Della Torre, Cagliari,
1995, pp. 99-100.
66
B. MUREDDU, A mustazzu stampaxinu, femina biddanoesa. Raccolta familiare di detti cagliaritani riordianata e curata da Patrizia Mureddu e fratelli, Scuola Sarda Editrice, Cagliari, 2003, pp.
79-80.
67
68
Cfr. DES, I, 243. Si consideri che anche il catalano burlar ha stesso significato.
69
G. PITTÀNO, op. cit., p. 257.
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quando si è stabilito un rapporto basato sulla confidenza e la familiarità,
a persone con le quali è consigliabile tenere un atteggiamento più sobrio
ma anche quale invito all’adeguato rispetto della religione.
Nel nostro caso pare che Paddori adoperi il significato di brullài più
che nell’accezione di ‘burlare, scherzare’ (fatto consequenziale, come
accenanto, al prendere confidenza con qualcuno) in quella di ‘dare/prendere confidenza’ e ‘non volere avere niente a che spartire’. Tuttavia il
verbo brullài non ha in sé questa valenza semantica; per lo meno essa non
è mai stata registrata. Parrebbe questa la prova evidente del fatto che
Paddori alluda esattamente al proverbio Cun maccus e cun santus non brullisti, in cui il senso di ‘scherzare’ implica quello di ‘dare/prendere confidenza’: premesso che un’interpretazione solo semantica dell’espressione
di Paddori Cun màccusu non brullu (con i matti non scherzo) non è pertinente
poiché nessuno nel contesto comunicativo in analisi sta scherzando, si
può ritenere che, in virtù della violazione della massima griceana della
relazione70, vi sia un riferimento a qualcosa di non esplicitato dal parlante
ma comunque condiviso con l’interlocutore-pubblico: è con esso (e non
con Gervasio, lo ricordiamo) che vige il principio di cooperazione.
Poni’ quaddu ’n facci (p. 20)
Mette cavallo in faccia
Tale paremìa è catalogata da Puddu alla voce cabàdhu (p. 390): «Ponni
cuadhu in faci a unu = passai a innantis, èssi mellus» (trad. lett.: mettere cavallo in
70
219.
Cfr. C. BAZZANELLA, op. cit., p. 173; H.P. GRICE, Logica e conversazione, cit., pp. 199-
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
133
faccia a uno = passare davanti, essere migliori). Da un punto di vista prettamente etimologico si segnala che il sardo campidanese faci è esito del
latino FACIES71; Wagner segnala che la variante logudorese fáke è stata
quasi totalmente soppiantata nel sardo moderno dalla voce castigliana
cara e da quella italiana ‘faccia’.
Paddori, che già all’inizio della commedia (atto I, p. 14) crede di intravedere nel figlio Arrafiebi (che sta per rientrare in Sardegna dal servizio militare) un degno antagonista di Gervasio nella disputa linguistica tra
“italofoni” (veri o presunti), sostiene qui che sicuramente il ragazzo sarà
in grado di tenere testa al piemontese, e addirittura di superarlo, cioè [de]
ddi poni’ quaddu ’n facci (trad. lett.: di mettergli cavallo in faccia). Paddori intende esaltare la nuova competenza linguistica acquisita da Arrafiebi durante
il periodo della leva: è convinto che grazie a essa, il giovane sarà in grado
di prevalere sull’italofono torinese. Naturalmente, come vedremo, così
non sarà, dal momento che il codice usato dal giovane risulterà essere
una storpiatura sia del sardo sia dell’italiano: Arrafiebi incarna, insomma,
lo sfacelo di due culture. Il pubblico, ascoltando gli strafalcioni dell’erede
di Paddori, potrà ridere (ed è a ben vedere un riso amaro) non tanto per i
fraintendimenti – come quelli che hanno caratterizzato la contesa tra il
pastore e Gervasio – ma soprattutto per la sua abilità nel deformare
entrambi i codici che tenta di usare, l’italiano e il sardo, non essendo in
grado di gestirne neppure uno; in questo sta la sua vis comica, anticipata
qui dall’espressione idiomatica proferita dal padre, il quale, ovviamente,
crea con essa delle aspettative ribaltabili.
71
Cfr. DES, I, p. 496, alla voce fáke.
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134
Una passada de anguidda ingòllis (p. 20)
Una passata di anguilla prendi
Paddori continua a minacciare Gervasio. E le minacce si fanno pesanti, fino a diventare intimidazioni che non disdegnano la violenza fisica.
L’espressione si dovrebbe tradurre letteralmente con una passata di
anguilla [ti] prendi; in italiano corretto: ti prendi una batosta. La locuzione
non è usata solo nell’area linguistica campidanese ma anche in quella
logudorese; Puddu, che la registra nel DitzLcs, spiega «leare ambidhas»
(log.) e «pigai e donai anguidhas» (camp.) come, rispettivamente, «collire
banzu» e «pigai o donai surra»72; in italiano diremmo ‘ricevere o dare frustate/cinghiate’.
M.L. Wagner ritiene che l’origine di tale espressione risieda nella
locuzione castigliana anguila de cabo = ‘staffile per i galeotti’73.
72
M. PUDDU, op. cit., p. 127.
Si veda M.L. WAGNER, DES, I, p. 77, alla voce ambíḍḍa. L’etimo cui tale elemento
lessicale deve ricondursi è ANGUILLA; nella trafila evolutiva si segnala uno dei fenomeni
fonetici che notoriamente distingue le due principali macrovarietà dell’isola (campidanese e
logudorese), ossia il passaggio dell’originaria labiovelare (sonora) alla consonante occlusiva
bilabiale (sonora) del logudorese, diversamente da quanto si registra per il campidanese, ove
la restituzione della labiovelare (angwíḍḍa) è da ricondursi a influsso toscanizzante, assorbito
durante la dominazione pisana, che sin dal secolo XI (più precisamente dopo il 1016, anno
della disfatta di Mugâhîd) ha interessato le vicende del giudicato di Cagliari; si tenga tuttavia
presente l’esistenza di alcuni termini rustici che, non avendo corrispondenti nella lingua di
superstrato, hanno subìto la stessa evoluzione vista per il logudorese. Citiamo a titolo esemplificativo il caso di silíbba (it. carruba) < SILIQUA(M). Cfr. M.L. WAGNER, HLS, cit., p. 227,
§ 218.
73
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135
Ddi nau allu e m’arrespundi cibudda (p. 20)
Gli dico aglio e mi risponde cipolla
Tale espressione (riscontrata anche in Bellu schésc’ ’e dottori! di Emanuele Pili: «Non mi ’olint ’onai nudda. Unu mi narad allu e s’aturu xibudda», trad. lett.: Non vogliono darmi nulla. Uno mi dice aglio e l’altro cipolla, ovvero ‘uno mi dice una cosa e l’altro me ne dice un’altra’)74 è usata generalmente quando si vuole commentare una situazione di incomprensione
reciproca tra due parlanti («No’ si cumprendeus a pari», non ci capiamo l’un
l’altro, dirà Paddori poco prima di enunciare il modo di dire in analisi),
voluta o meno: A dice x (= allu) ma l’interlocutore B capisce y (= cibudda)
e non potrà essere pertinente nella risposta. L’incomunicabilità e i relativi
fraintendimenti tra il pastore sardofono e il commerciante italofono
(dunque “straniero”, istrànzu/stràngiu, per la comunità linguistica sardo
parlante) sono gli stessi che non solo caratterizzano la comicità della
commedia sarda fin dalle sue origini seicentesche, come già constatato,
ma sono consustanziali all’umorismo tout court fin dagli albori della commedia, come ricorda anche G.R. Cardona75: «Attribuire tratti stranieri
(cioè non propri alla comunità) ad un personaggio significa immediatamente caratterizzarlo in senso comico: questo è l’espediente usato nel
teatro di tutti i tempi, e si pensi al megarese degli Acarnesi di Aristofane,
al cartaginese del Poenulus di Plauto, al turco del Bourgeois gentilhomme di
Molière, ai capitani spagnoli della Commedia dell’arte, al moro di Guinea
74
p. 91.
75
E. PILI, Bellu schèsc’ ’e dottori!, Edizioni della Fondazione Il Nuraghe, Cagliari, s.d.,
G.R. CARDONA, op. cit., p. 64.
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del teatro portoghese […]. Anzi la caricatura [come avremo modo di
constatare anche nel caso di Ziu Paddori] è molto più feroce verso coloro
che parlano sostanzialmente la stessa lingua che non verso coloro che
sono del tutto stranieri, perché nel primo caso si è in grado di cogliere le
differenze e c’è una vera violazione delle norme della comunità76. Per gli
Ateniesi il megarese con la sua pronuncia “larga”77 era certo molto più
ridicolo del Persiano che pronunciava parole del tutto incomprensibili».
In italiano si registra un analogo modo di dire: Prendere fischi per fiaschi con la variante Prendere lucciole per lanterne (ma anche Capire un corno per
un fischio)78.
Esiste in campidanese un modismo apparentemente sinonimico rispetto a quello in esame: la locuzione Non si cumprendi(ri) su babbu cun su
fillu ovvero letteralmente non capirsi tra padre e figlio, nota anche in area
logudorese (attestata da Puddu79: «No si cumprendher su babbu cun su fizu»,
ossia esser totu betadu appare, cufusione manna ‘situazione di disordine’ e
‘grande confusione’), è usata anch’essa per constatare una situazione di
incomunicabilità tra parlanti ma, a differenza di quanto accade per Nâi
allu e arrespúndi(ri) cibudha, (esattamente come quando si discorre in famiglia, o altrove, e la sovrapposizione delle voci compromette la comunicazione) alla base dell’incomunicabilità non vi sarebbe la mancata comprensione dell’intenzione del parlante, bensì un rumore che disturba il
Cfr. quanto detto a proposito di Arrafiebi, il figlio di Paddori, nel commento alla paremìa Poni’ quaddu ’n facci, a pp. 132 e ss.
76
Sull’aspetto comico-umoristico della pronuncia “larga”, si pensi all’effetto che poteva
suscitare la parlata trexentese, con forte propensione alla centralizzazione vocalica, nel pubblico cagliaritano.
77
78
Si veda G. PITTÀNO, op. cit., pp. 234-235.
79
M. PUDDU, op. cit., p. 283, alla voce bàbbu.
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137
canale80. Sembrerebbe dunque esserci differenza di significato tra
l’espressione di area logudorese e quella usata in campidanese. È possibile che proprio la diffusione di questa commedia del Melis in area campidanese (è ormai quasi un secolo che viene rappresentata e che influenza il
sardo meridionale) abbia contribuito a preservare intatto il significato
primario, letterale, della paremìa (che stando a quanto dice Puddu, sarebbe venuto meno in area logudorese)? Il senso profondo di quest’opera è
per molti da leggersi nell’incomunicabilità tra padre e figlio, laddove il
padre-pastore parla il sardo e il figlio-militare usa un italiano stentato: da
ciò deriva l’incomprensione 81.
Tra le varianti della locuzione in esame citiamo Pigai allu po cibudha
ma anche Cumprèndi(ri) allu po cibudha (occorrenti tra i modi di dire registrati da Puddu rispettivamente a p. 1316, alla voce picàre, e a p. 469, alla
voce chepúdha) con stesso significato di ‘confondere una cosa con
un’altra’.
Si pensi anche all’uso dell’espressione No cumprèndi(ri) mancu una cibudha, avente il significato di ‘non capire nulla’, da mettere in relazione
con Cumprèndi(ri) allu po cibudha, di cui è una estensione: chi capisce x
(allu) in luogo di y (cibudha), in realtà non capisce nulla (= y).
80
Cfr. anche L. CHERCHI, op. cit., pp. 234-235.
Questa è anche l’interpretazione di F. MASALA: cfr. La commedia sarda ha perso il suo autore, articolo comparso su «Il Messaggero Sardo» nel numero di luglio del 1988, p. 32. Esso è
consultabile anche su internet: www.regione.sardegna.it/messaggero/1988_luglio_32.pdf
81
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(Ma) sabi in conca (p. 20)
(Ma) sale in testa
Si tratta, come già accennato in nota 57, p. 127, di una paremìa già
utilizzata da Paddori in riferimento a Gervasio. Per la spiegazione, quindi, rinviamo il lettore alle pagine precedenti, e ci limitiamo qui a osservare come essa sia ora ripresa allusivamente: «È tottu arrellichinu, ma sabi
in conca…» (trad. lett.: È tutto ben vestito, ma sale in testa…). Tale iterazione
del kernel paremìaco produce un particolare effetto eco, giacché esso
porta con sé, quasi avesse la forza attrattiva di un magnete, anche gli altri
significati cui era legato nel contesto precedente, che, come si ricorderà,
erano inerenti al climax della follia, culminante nella chiusa proverbiale
Femmina arrebuggia, becciu corriazzu, e genti prettoccada [coment’a i kustu] no’
cicca’ mai motti.
La cosa non meraviglia più di tanto se si pensa al meccanismo
d’azione del proverbio tout court: viaggiando nel tempo e immergendosi
nei differenti contesti esso si arricchisce di volta in volta, di uso in uso,
senza mai perdere il significato originario, ossia quello letterale, il quale,
dal canto suo, risuona in itinere di nuove connotazioni: è il nucleo paremìaco, o kernel, a veicolare la forza comunicativa dell’atto linguistico, a
lasciare emergere l’intenzione del parlante.
Si può tenere conto, a tale proposito, che questa in esame è la seconda allusione paremìaca posta alla fine della sequenza isotopica inerente la follia, giacché segue la già ricordata Cun màccusu non brullu, analizzata
a pp. 130 e ss.
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È a murrungiusu che un attu pappendu prumoni82 (p. 20)
È a (produce) brontolii come un gatto mentre mangia polmone
In italiano corretto si direbbe brontola come un gatto che mangia del polmone.
Trattasi di un elemento fraseologico giocato su un’immagine chiara
e incisiva; la sua forza persuasiva è basata su un’icasticità che oltrepassa
l’aspetto meramente visivo, tant’è che sembra ricordarci qualcosa che
abbiamo non solo già visto ma anche udito. La figura soggiacente, seppur non deviante dalla realtà, non è di certo accessibile a tutti (c’è da
chiedersi se fosse possibile, in un periodo storico in cui la disponibilità di
cibo non era abbondante, vedere dei gatti nutrirsi di una frattaglia che,
per quanto potesse essere considerata – in alcuni contesti – uno scarto,
era pur sempre un boccone prelibato); eppure risulta vivida e quotidiana,
ha l’effetto di un déjà vu o meglio di un déjà entendu in virtù dell’effetto
sinestesico di quel murrúngiu (= brontolio) sulla cui origine onomatopeica,
come ricordato da Wagner, molti linguisti concordano. Sarebbe quindi
opportuno soffermarsi sull’etimo di tale termine. In DES, II, p. 141, lo
troviamo tra i derivati di múrru, ovvero muso (del cane), grugno (del
porco) e applicato scherzosamente anche al ‘ceffo’ dell’uomo; in campidanese è usato spesso per ‘labbro’. Si tratta presumibilmente di un deSi noti la forma del gerundio del verbo papài, la quale conserva la desinenza in -u, più
arcaica rispetto a quella in -i della variante parteollese citata più avanti. A tale proposito
Wagner evidenzia che le forme più conservative sono quelle in -o e in -u, riscontrabili rispettivamente nella Barbagia meridionale e nel campidanese rustico. La forma in -e (tipica in
logudorese e nuorese, cui corrisponde la forma in -i del cagliaritano e del campidanese rustico, laddove si alterna con -u) è ascrivibile alla fusione della forma verbale con un inde pleonastico la cui uscita si è estesa analogicamente alle altre forme del gerundio (cfr. M.L. WAGNER,
Fless., cit., pp. 148-149).
82
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verbale: murrúnǧu parrebbe infatti coniato a partire dal campidanese murrunǧai
(log.: murrundzare/murrúndzu), denominale di múrru. Si è fatto cenno
all’ipotetica origine onomatopeica di múrru sottolineata da Wagner (DES,
II, p. 140, alla voce múrru). Si pensi pure al latino murmŭr (= mormorio,
brontolio, etc.), forma onomatopeica della serie m…r bene attestata nelle
aree indiana, greca, armena, baltica83.
Il catalano morro (= labbro) ha molto probabilmente influito sul
camp. múrru, di uguale significato: nel resto dell’isola domina invece,
come visto, il senso di ‘muso, grugno, ceffo’.
Tale paragone proverbiale è registrato da Ignazio Zuddas in una
raccolta di detti locali del Parteolla (regione storica della Sardegna meridionale, confinante a nord con la Trexenta) dal titolo Su soli ’essit po totus:
Est murrungia murrungia, parit unu gattu papendi prumoni. L’autore così traduce: «È un brontola brontola, sembra un gatto mentre mangia polmone». Secondo
Zuddas si tratta di una «espressione usata nei riguardi di persone brontolone, poco pazienti e intolleranti»84.
Esattamente con tale intento la usa Paddori, secondo cui Gervasio
non farebbe che lamentarsi e brontolare senza alcuna ragione apparente.
Così come il proverbiale gatto che, nel mangiare il polmone, la cui consistenza oppone delle resistenze alla masticazione, emette dei suoni che
possono sembrare dei lamenti infastiditi, dei mugolii a metà tra il piacere
e il dolore.
Si veda G. DEVOTO, Dizionario Etimologico. Avviamento alla etimologia italiana, Le Monnier, Firenze, 1968, p. 277, alla voce mùrmure.
83
I. ZUDDAS, Su soli ’essit po totus. Dicius e modus de nai patiollesus, Grafica del Parteolla,
Dolianova (Cagliari), 2007, p. 44.
84
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141
La finalità pragmatica della paremìa usata da Paddori è sempre quella di tenere viva l’alleanza cooperativa tra sé e il pubblico.
(Gei ddu spoddias s’italianu) comenti chi ’oghi pabassa (p. 22
e p. 23)
(Già lo sbrogli l’italiano) come se togliessi l’uvetta (uva passa)
Per capire appieno tale espressione idiomatica è utile considerare il
cotesto esatto in cui è inserita. Ecco il dialogo tra Paddori e suo figlio
Arrafiebi (a volte chiamato anche Fiebeddu, con diminutivo-vezzeggiativo) che, appena rientrato dal servizio di leva, ha occasione di sfoggiare
il nuovo codice linguistico acquisito nella Penisola:
Arrafiebi: «Ah parde mio, di ainturo le vostre brazze mi sento arricuncordare tutto il cuoro. Parde! Parde! Parde!»85
Paddori: «Ah, fillu miu, gei ddu spoddias s’italianu, comenti chi ’oghi
pabassa!».
Tale idomatismo si usa in genere per definire chi parla correttamente e si spiega bene, con disinvoltura, proprio come se stesse facendo
qualcosa di semplice e quotidiano: staccare dal raspo degli acini d’uva
ormai passiti, che non oppongono più alcuna resistenza. Lo stesso PadTrad. plausibile: Oh Padre, tra le vostre braccia, il cuore è in festa. Padre, Padre, Padre!
Si noti come la mescolanza tra le due varietà linguistiche sia resa in maniera tale che
non è più possibile stabilire di quale dei due codici si tratti. Qualche esempio: l’it. ‘padre’
subisce la metatesi, tipica della lingua materna del parlante, con scambio di posizione tra la
vibrante e l’occlusiva dentale sonora, divenendo parde, parola inesistente tanto in sardo
quanto in italiano; si crea una nuova dimensione linguistica, una terza lingua che non appartiene a nessuna comunità (quella che Angioni, nell’Introduzione, cit., p. 8, definisce «italiano
porcellino»); oppure nel caso di cuoro, in luogo del sardo còri, dove a partire dalla voce it.
‘cuore’, si inserisce una -o finale analogica in base al rapporto -u: -o = sardo: italiano.
85
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dori lo usa con tale sfumatura di senso. A tale riguardo è bene evidenziare il significato del verbo spoddiai; Puddu riporta nel DitzLcs tale voce
nella forma spodhài (e rende graficamente quella da noi trovata in Melis
con spodhiài)86: «istesiare s’una de un’àtera duas cosas apitzigadas apare» (trad.:
separare l’una dall’altra due cose unite tra loro). Trattasi di un derivato di póḍḍini
(‘crusca’ in sardo campidanese, ma la variante logudorese-nuorese
póḍḍine87
ha il significato di ‘fior di farina’, così come il latino pollis,-ĭnis
che ne è l’etimo)88, e presumibilmente tale denominale, presente solo in
area campidanese, potrà spiegarsi come *EX-POLLINARE89, separare la
crusca dalla farina (o la farina dalla crusca), cogliere il miglior fiore: riecheggia
dunque il noto motto degli accademici della Crusca.
Questa sfumatura di senso accentua la comicità del dialogo: Paddori
loda la presunta abilità comunicativa di Arrafiebi nel gestire il codice
ufficiale, l’italiano; questo appare declinato in uno strano misturo col
sardo in cui le due lingue compresenti sono in realtà snaturate: Fiebeddu
parla una terza lingua, che di certo non può chiamarsi italiano regionale;
incomprensibile agli italofoni, è oggetto di scherno da parte dei sardofoni.
Tale paremìa è ripetuta anche a p. 23: «Alla, fuedda de Galibardu e
de Grisettu, cumenti chi ’oghi pabassa!» (trad. lett.: Caspita, parla di Garibaldi e di Grisettu [Crusoe] come se staccasse l’uvetta).
86
Cfr. M. PUDDU, op. cit., p. 1555, alla voce spodhài.
87
In logudorese tale parola designa anche il pane che da quella farina si produce.
88
Cfr. DES, II, pp. 290-291, alla voce póḍḍine.
Seppur con cautela, non è implausibile ritenere *EX-POLLINARE alla base di spodhiài, così come fa Wagner nel caso di sciolloriài postulando un *EX-LORIARE (si veda DES,
II, p. 39).
89
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È, chiaramente, a questo punto che le aspettative create con la paremìa precedentemente analizzata, Poni’ quaddu ’n facci (cfr. pp. 132-133),
vengono ribaltate: inizia qui la messa in ridicolo di Arrafiebi, più forte,
come accennato, rispetto a quella subita da Paddori o da Gervasio: il
giovane miles incarna lo sfacelo di due saperi: la violazione di due norme
linguistiche, come evidenziato anche dalla pseudo-paremìa da lui citata:
«Ma ha ragione i porvebio: Uomo che va, donna chi resta, lassa la testa,
come andarà?»90 difficilmente traducibile se non con uomo che va, donna che
resta, lascia la testa, come andrà?
Con questo che sembra un proverbio ma non lo è perché non appartiene al patrimonio condiviso di alcuna comunità, Arrafiebi tenta di
riassumere, a modo suo, la propria situazione di uomo innamorato e
abbandonato da una fidanzata, che – come si scoprirà – lo ha tradito:
lassa la testa è presumibilmente da riferirsi alla condizione di chi, quando
parte, lascia con l’amata non solo il cuore (cioè, in senso metaforico, i
sentimenti) ma anche la testa, ovvero i ‘pensieri’ e, con evidente allusione
alle eventuali ‘corna’, il proprio onore91.
Su chi no iscidi è peu’ de su ki non bidi (p. 38)
Colui che non sa è peggio di colui che non vede
Si tratta di un proverbio molto diffuso in tutta l’area campidanese.
Esso è catalogato sia da Cherchi92 sia da Zuddas93, che ne riporta la va90
Cfr. E.V. MELIS, op. cit., p. 37.
91
Per il legame metaforico testa/onore si pensi all’idiomatismo andare a testa alta.
92
Si veda L. CHERCHI, op. cit., p. 84.
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riante parteollese (Chini no iscit est parenti de su zrupu), nonché da Puddu94
nella forma A chini no iscidi est parenti o cumpàngiu de chini no bidi.
Tale formula istituisce una relazione tra la cecità fisica e quella intellettuale, come a dire «chi non conosce è peggiore di chi non vede»: ma a
differenza del non vedente, l’ignorante deve assumere le proprie responsabilità (e in ciò sta il suo essere peggiore). Colui che non sa, generalmente, esprime con leggerezza sentenze e giudizi, mentre chi ha piena consapevolezza di ciò che gli accade intorno può agire con la massima prudenza ed esaminare le situazioni sotto diverse prospettive. Con questa valenza la paremìa è usata a Guasila a Guamaggiore e anche a Barrali.
Paddori usa tale proverbio dopo una delle mirabolanti esibizioni linguistiche del figlio, apparentemente per esprimere il rammarico per non
saper parlare l’italiano con la stessa abilità con cui lo fa il figlio. A ben
vedere, tuttavia, si tratta di un’allusione ironica a beneficio del pubblico,
secondo lo schema comunicativo già osservato nel testo: il vero destinatario è l’uditorio, che ha avuto modo di constatare quanto gli enunciati in
un italiano improbabile di Arrafiebi siano i più risibili all’interno della
rappresentazione ed è perciò in grado di cogliere la violazione della
massima griceana della qualità (e tanto più, quella post-griceana della
pertinenza). Melis, tramite la figura di Paddori, non fa qui un uso
dell’ironia in cui si palesa contraddizione tra espressione letterale e intenzione comunicativa, come visto, a esempio, all’inizio della nostra disamina nel caso di Pottu su ’iddiu che una pezz’atresi (cfr. pp. 98 e ss.). Stavolta
l’inferenza ironica non si coglie nella frase in sé: la proposizione non è
93
I. ZUDDAS, op. cit., p. 30.
94
M. PUDDU, op. cit., p. 952, alla voce ischíre (ischíri).
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145
palesemente, iperbolicamente, falsa; ciò che Paddori dice si pone in contraddizione evidente rispetto a ciò che l’uditorio sa e conosce e di cui è
ormai persuaso: non è Paddori a non sapere, bensì Arrafiebi, e non sarebbe pertinente ritenere il contrario. L’ironia non è in tale frangente
confinata alla singola frase ma si pone come la risultante di una lunga
interazione comunicativa tra Paddori e il suo uditorio. A prova di ciò
intervengono anche le strampalate citazioni proverbiali del giovane, come la già menzionata Uomo che va, donna chi resta…, nonché Cavallu friattu
la sedda gli pizzia, visibile e quanto mai risibile riformulazione del noto
Quaddu friau sa sedda si dimmidi enunciato dal padre.
Quaddu friau sa sedda si dimmidi (p. 38)
Cavallo sfregato la sella si teme
Tale proverbio, registrato anche da Puddu95, è generalmente usato
in Trexenta (ma non solo) per definire chi, avendo subito un’esperienza
traumatica, fa di tutto per evitare che si ripeta, ma anche chi si sente in
colpa per aver fatto qualcosa di poco corretto e, dunque, teme il confronto col danneggiato e interpreta come rimproveri e critiche al suo
operato anche le osservazioni più innocue. Si tratta di una metafora rustica: come il cavallo col dorso arrossato e sfregato dopo una cavalcata
ha paura alla sola vista della sella, così una persona che ha sofferto teme
il confronto con le proprie colpe o i propri errori. In italiano si direbbe
Ha la coda di paglia.
95
Cfr. M. PUDDU, op. cit., p. 390, alla voce cabàdhu.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
146
Nel nostro caso Paddori riferisce tale proverbio a Gervasio, che a
parer suo si allontana, scappa intimorito, alla vista di Fiebeddu: Paddori è
sempre convinto che Gervasio tema un certamen linguistico “alla pari”
con suo figlio. L’intento pragmatico non cambia: ridicolizzare il commerciante; l’effetto perlocutorio nemmeno: ancora una volta le vanterie
sulle abilità linguistiche del figlio suonano irrimediabilmente ridicole alle
orecchie di un uditorio ormai persuaso della loro inconsistenza.
(Ita nara’ su vrebu96 sardu:) Mellu’ fillu miu mau, in mes’ ’e bonus, che fillu miu bonu in mes’ ’e màusu (p. 47)
(Cosa dice il proverbio sardo:) Meglio mio figlio cattivo in mezzo ai buoni che
mio figlio buono tra i cattivi
Si tratta di un proverbio usato generalmente per dire che tra i due
mali si sceglie sempre il minore. Esso è catalogato anche da Cherchi con
tale significato97.
Paddori lo usa in tale caso come atto linguistico indiretto per aprire
gli occhi ad Arrafiebi sulla disonestà della fidanzata, Peppedda, ritenuta
una poco di buono e della quale si chiacchiera molto in paese. Dando
come presupposto che Paddori ritenga il figlio un buono, quindi un
ingenuo, egli dice letteralmente che è bene che non stia tra i cattivi, cioè
tra i furbi che tramano alle sue spalle. Ancora una volta, dietro una mera
credenza, rappresentazione dei fatti, tipica del rappresentativo/assertivo,
96
Per un’attenta disamina fonetico-etimologica di vrebu si veda l’Appendice.
97
Cfr. L. CHERCHI, op. cit., p. 208.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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si cela la spinta persuasiva del direttivo: Paddori vuole di fatto indurre il
figlio a interrompere la relazione con una giovane indegna del suo amore.
E di fatto, come accennato, si scoprirà che Peppedda, trasferitasi in città,
ha una relazione amorosa con il figlio del sindaco del paese. Fortunatamente, sottolinea il pastore, Peppedda e Arrafiebi non si sono ancora
sposati. In caso di nozze, il tradimento sarebbe stato irrimediabile e lo
smacco ben maggiore: Sa kosa fatta è pru’ fott’ e su ferru!
Sa kosa fatta è pru’ fott’ e su ferru (p. 56)
La cosa fatta è più forte del ferro
Gli informatori dei tre centri indagati spiegato tale formula proverbiale dicendo che le azioni, le cose fatte, non possono essere disfatte:
sono irreversibili. In tale caso il proverbio ha un valore consolatorio;
Paddori, nel citarlo, intende rasserenare Arrafiebi e indurlo a tranquillizzarsi rendendosi conto che la realtà poteva essere ben peggiore.
Ma può interpretarsi anche come un segno metateatrale: la rappresentazione, l’azione scenica volge ormai alla fine e ciò che il lettore, o lo
spettatore ha inteso (nella doppia accezione di ‘udito’ e ‘compreso’), è un
messaggio con forti conseguenze perlocutorie: Melis, affidando le sue
parole a Paddori, puntualizza che dire-agire scenicamente (sa kosa fatta) crea
ripercussioni forti sulla realtà (è pru’ fott’ e su ferru).
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
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Bisongiad a fai attu e basciu (p. 57)
Bisogna a fare alto e basso
Con tale paremìa (tipico esempio di proverbio derivante da locuzione idiomatica tramite giustapposizione del verbo bisongiad (a)98, come
accade, per esempio, nel caso della formula italiana Chiudere la stalla quando i buoi sono scappati, qualora le si anteponga il sintagma è inutile) generalmente si vuole raccomandare che prima di prendere delle decisioni, o di
fare delle valutazioni di verità/falsità su qualcuno o qualcosa, sarebbe
opportuno sentire tutte le campane.
Si tratta di un enunciato che Paddori rivolge al figlio – ma anche,
ovviamente, all’uditorio – stimolandolo a meditare sulla questione del
tradimento di Peppedda, evidenziando quanto sia difficile discernere la
verità tra le multiformi dicerie: è un invito a giudicare con la dovuta cautela le opinioni altrui per ponderare con estrema razionalità e prudenza
tutti i fatti prima di esprimere opinioni personali, credenze e quindi agire.
Cala la tela: a questa formula proverbiale il drammaturgo affida la
responsabilità del commiato.
Si tratta con ogni evidenza di un italianismo. Il significato di tale forma verbale è ‘bisognare, aver bisogno’; «in connessione con un verbo si usa la costruzione biṡònǧa(đa) a».
Tale costrutto, segnala WAGNER, vige anche in gallurese, in còrso e occorre in napoletano
(es.: bisogna a procedere con il calaté): si veda DES, I, pp. 210-211.
98
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CAPITOLO IV
CONCLUSIONI
Alla luce delle osservazioni di natura semantica, e soprattutto di
quelle di natura pragmatica, messe in evidenza nel terzo capitolo – rese
possibili dalla cornice d’impostazione teorica delineata nel primo capitolo
e nel secondo – è ora possibile fare alcune considerazioni.
Prima di procedere nella nostra riflessione sono tuttavia necessarie
alcune premesse. Come noto, il testo analizzato nasce in una data antecedente al 1919, anno della sua prima rappresentazione scenica.
Melis non fa altro che seguire, seppur con modalità originalissime,
la via aperta da Emanuele Pili nel 1904, con la messa in scena, al Politeama Regina Margherita di Cagliari, della prima farsa in varietà campidanese, tra l’altro ambientata nella città stessa: Bellu schesc’ ’e dottori! Per trovare un antecedente, come accennato nel capitolo terzo (pp. 101-102), si
deve andare molto indietro nel tempo, fino a Carmona.
Il periodo è particolare per la storia del Paese: sono ormai passati
pressoché cinquant’anni dalla riunione del primo Parlamento italiano,
avvenuta il 18 febbraio 1861 a Torino (quasi un anno dopo il nuovo
Stato assumerà formalmente il nome di Regno d’Italia), e da allora
l’italiano verrà considerato ufficialmente lingua della nazione. Diventa
dunque più marcata anche la frattura socio-linguistica nel paese: la realtà
italiana era molto diversa rispetto a quella che poteva caratterizzare un
Paese unitario (pensiamo alla Francia o alla Gran Bretagna), e le disuguaRomina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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glianze potevano notarsi da molti punti di vista: quelle socio-economiche
in primis che dividevano in due la penisola, da cui derivavano consequenzialmente quelle culturali. La situazione delle due isole maggiori era,
come noto, analoga a quella delle regioni del Mezzogiorno d’Italia. «La
situazione linguistica può essere considerata la più chiara manifestazione
di questi elementi di arretratezza e di frattura. A differenza di altre nazioni europee, dove da tempo si era andato formando un ampio circuito
della comunicazione nella lingua nazionale, la stragrande maggioranza
della popolazione in Italia non conosceva altro idioma che il dialetto
locale. L’uso pieno dell’italiano si trovava, infatti, ristretto ai soli ceti colti
nelle situazioni pubbliche e solenni»1. Seppure questa considerazione sia
fatta a proposito della situazione pre-unitaria, le cose non variarono di
molto anche dopo il 1861, e per diversi anni2.
La Grande Guerra (1915-1918) sarà il primo momento di confronto
tra le diversità linguistiche della Penisola, in cui l’italiano costituirà obtorto
collo l’unica ancora di salvezza, pena l’incomunicabilità assoluta. Ma già
prima dello scoppio del conflitto gli intellettuali italiani s’impegnarono
nella ricerca di possibili soluzioni al problema delle forti differenze socioculturali del Paese. In tale contesto il contributo di Graziadio Isaia Ascoli, glottologo di grande spessore, fu rilevante. Intervenendo nella «questione della lingua» nel 1872, con un Proemio alla nuova rivista da lui fondata «Archivio glottologico italiano», propose una linea d’azione nel
Si veda M. D’AGOSTINO, Sociolinguistica dell’Italia contemporanea, Il Mulino, Bologna,
2007, p. 24.
1
Come è noto, il fronte della prima guerra mondiale può considerarsi per molti contadini analfabeti italiani il primo banco di prova su cui misurarsi con la lingua ufficiale. Altrettanto può dirsi per quelli sardi, di cui nella commedia di Melis Arrafiebi, figlio del protagonista Paddori, costituisce un exemplum.
2
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
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tentativo di arginare il problema dell’analfabetismo e quello delle forti
differenze che frammentavano il Paese. Con quali strumenti si poteva
intervenire?
Per l’insigne linguista, come ricorda D’Agostino, sarebbe stato necessario più che utilizzare il modello toscano, ampliare il numero degli
«operai della cultura», colmando il vuoto esistente tra i grandi intellettuali
e il resto della popolazione3.
È presumibile che Efisio Vincenzo Melis, seppur con qualche anno
di ritardo, risponda alla chiamata ascoliana, seguendo le orme di Pili.
D’altronde quale altro modo sarebbe stato più persuasivo se non quello
di mostrare, in una rappresentazione teatrale che usasse la lingua meglio
nota ai destinatari, le conseguenze ridicolizzanti della incompetenza comunicativa? Solo così si poteva rendere consapevoli i sardi non ancora
perfettamente alfabetizzati dell’importanza del possedere pieno dominio
del nuovo codice, senza perdere però quello originario.
Melis con Ziu Paddori pone in situazioni fortemente ridicolizzanti
tutti e tre i personaggi principali (Paddori, ovvero il pastore sardofono,
Gervasio, il commerciante-italofono e Arrafiebi, difficilmente definibile
se non come il miles semi-colto), come emerso dalla nostra disamina
testuale di orientamento pragmatico, mostrando e dimostrando all’uditorio che un’unica competenza comunicativa non è in grado di salvare
dal pericolo del pubblico ludibrio che potenzialmente la nuova realtà
linguisitca post-unitaria implica. Dunque la via del bilinguismo, quanto
meno diglottico, pare la conditio sine qua non per non rischiare la derisione,
3
Cfr. M. D’AGOSTINO, op. cit., p. 27.
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l’emarginazione sociale, e soprattutto l’incomunicabilità tra le generazioni. Anche quest’ultimo aspetto è infatti motivo di amara ilarità nello
svolgimento delle azioni linguistiche analizzate: Paddori e Arrafiebi,
padre e figlio, non si capiscono più.
Lo stesso Paddori, che a tratti parrebbe un alter ego di Melis, dopo
aver sentito il figlio esibirsi in una delle sue esemplari performance del
misturo, ironicamente osserva: Su ki no iscidi è peu’ de su ki non bidi! (trad.
lett.: Colui che non sa è peggio di colui che non vede!)
Se a prima vista tale citazione paremìaca potrebbe sembrare rivolta
da Paddori a se stesso (e se così fosse sarebbe un unicum nel testo), come
espressione di rammarico per non saper parlare l’italiano con la stessa
abilità con cui lo fa il figlio, è a ben vedere un’allusione ironica rivolta al
pubblico, secondo uno schema comunicativo ricorrente in tutto il testo:
è l’uditorio – e in seconda battuta il lettore del testo non agito – che ha
avuto modo di constatare quanto gli enunciati in italiano regionale (o in
sardo italianizzato?) di Arrafiebi siano risibili (e lo sono molto di più dei
fraintendimenti di Paddori nei confronti di Gervasio), il vero destinatario
dell’ironia, l’unico in grado di cogliere la violazione della massima griceana della qualità. Ancora una volta, è possibile constatare come Melis
dissemini i suoi indizi isotopici nelle paremìe, sfruttandone la spinta
eminentemente direttiva.
In ultima analisi, tenendo conto degli elementi messi in evidenza, si
potrà considerare il macro atto linguistico oggetto della nostra analisi un
vero e proprio direttivo indiretto (celato sotto la veste di una rappresentazione teatrale leggera e divertente) che da micro direttivi è generato e
puntellato: la sua intenzione illocutoria è quella dell’invito garbato ma
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Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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insistente alla riflessione metalinguistica sul bilinguismo, seppur diglottico, e sul pericolo opprimente dell’incomunicabilità intergenerazionale.
Melis sottolinea così con la sua vis comica non solo la necessità di apprendere il nuovo codice italiano ma anche l’importanza di preservare anche
quello materno, consapevole, quanto Ferguson, che un uso inappropriato del codice, qualunque esso sia, è «sintomo di incompetenza pragmatica e diventa facilmente oggetto di scherno»4.
Cfr. C. FERGUSON, Diglossia, «Word», 15, 1959, pp. 325-340, cit. da M. D’AGOSTINO,
op. cit., p. 77.
4
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APPENDICE
Vrebu: un hápax e qualche osservazione fonetico-etimologica
Tra i diversi segni disseminati da Melis nel testo di Ziu Paddori si riscontra la presenza di una parola che ha il significato di ‘proverbio’ e che
non può lasciare indifferenti, soprattutto dopo aver delineato le evidenti
connessioni che tengono uniti a doppio filo il concetto di parola (verbum)
e quello di vero/verità (vērus), segnalate nel I capitolo: in luogo del più
noto e diffuso díčču, imprestito dallo spagnolo dicho (‘sentencia, chiste’,
ovvero sentenza/massima, battuta/barzelletta)1, leggiamo infatti (su)
vrebu2. Si ricorderà che pure in latino verbum poteva assumere, tra i tanti,
anche il significato di ‘proverbio’ e di ‘massima’; così lo usavano, a esempio, Plauto e Terenzio3.
Chiaramente la grafia utilizzata da Melis, (su) vrebu, non consente di
stabilire, con assoluta certezza, quale sia l’articolazione precisa con cui
tale parola debba pronunciarsi4. Tuttavia, essendo a conoscenza delle
1
Si veda M.L. WAGNER, DES, I, p. 466, alla voce díčču.
E.V. MELIS, op. cit., p. 47: Ita nara’ su vrebu sardu: Mellu’ fillu miu mau, in mes’ ’e bonus, che
fillu miu bonu in mes’ ’e màusu.
2
Cfr. PLAUTO, Truculentus, 885 e TERENZIO, Adèlphoe, 803. Si veda pure P. POCCETTI,
op. cit., pp. 61 e ss.
3
Si tenga presente che le norme grafiche usate da Melis sono atte a rendere quanto più
fedelmente possibile la pronuncia della varietà dialettale usata. Si noti, ad esempio, l’uso del
grafema <n> in corsivo indicante il dileguo della occlusiva nasale alveodentale e conseguente
nasalizzazione delle vocali attigue. Tuttavia, non possiamo neppure escludere che <n> sia
un’inserzione posteriore alla scrittura della commedia, ascrivibile alla volontà dell’editore. In
quest’ultimo caso, a maggior ragione, si noterà l’inclinazione di Melis all’uso di una grafia
quanto più vicina possibile al parlato.
4
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peculiarità fonetiche della varietà linguistica usata nel testo, è più che
plausibile postulare, sia in posizione iniziale sia in corpo di parola, la
presenza di un contoide fricativo bilabiale sonoro, tenuto anche presente
del contesto intervocalico in sandhi (non ostacolato dalla vibrante metatetica)5: IPSUM VERBUM> su ƀréƀu.
Non si spiega quindi perché il termine compaia con una fricativa
labiodentale sonora in posizione iniziale nel nostro testo. È possibile che
Melis lo abbia utilizzato per rendere la pronuncia di una fricativa bilabiale
sonora molto prossima a quella della labiodentale con stesso grado di
articolazione? Si giustificherebbe così una grafia apparentemente culta,
giacché riflette quella dell’etimo latino verbum, di uguale significato.
E considerando che la grafia con v- rispecchi esattamente la facies
fonetica di tale forma saremmo di fronte a un imprestito? Non ci saremmo, infatti, attesi di trovare in posizione iniziale di parola il contoide
fricativo labiodentale sonoro, che generalmente betacizza e tende al dileguo in tutto il dominio sardo, fatta eccezione per la regione centroorientale6. Tenendo per buona l’ipotesi imprestito, per quanto attiene alla
provenienza, si potrebbe certamente parlare di un’origine iberica: al momento sappiamo che le uniche lingue romanze in cui il termine ha mantenuto il significato di ‘proverbio’, oltre al sardo campidanese, ovviamente, sono l’antico portoghese (ove ricorre vervo) e l’antico castigliano (che
Per una trattazione esaustiva del fenomeno della metatesi in tale varietà di campidanese, rimandiamo a M. CONTINI, op. cit., pp. 400 e ss., e M. LÖRINCZI, Appunti sulla struttura
sillabica di una parlata sarda campidanese (Guasila), «Revue Roumaine de Linguistique» XVI, 5,
Bucarest, 1971, pp. 423-430.
5
6
Cfr. M. CONTINI, op. cit., p. 220 e HLS, pp. 165-166, § 151-152.
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annovera vierbo); secondo Carlo Tagliavini, l’originario senso di parola
sembrerebbe permanere oggi solo nel basco berba7.
Mario Puddu nel DitzLcs cataloga il nostro vocabolo8, ma è ovvio
che la forma, tra l’altro al plurale, con fono fricativo labiodentale sonoro
iniziale sia da considerarsi quella delle aree più conservative del sardo,
dove non si verifica il betacismo: verbos. Si badi bene che, qualora il termine ricorra al plurale non deve essere interpretato come ‘proverbio’
(ovvero, precisa Puddu, «unu narri chi est sa sabidoria de sa genti» = brebu)
bensì come formula magico-rituale (is brebus in camp. e sos berbos in log.).
Si noti, inoltre, che è prevista anche un’accezione di ‘parola’, così come
in latino e così come documentano le fonti sardo-medievali (si tenga
presente però che l’unico esempio d’uso in tale accezione è una citazione
letteraria non meglio specificata: no li at essidu brebu = non ha proferito
verbo). Puddu, più precisamente, segnala che al plurale il termine è da
intendersi come fuedhus (= parole), ma che soprattutto si deve pensare
alle parole che si usano «po fai mexina, bruscerias, genia de pregadorias meraculosas» (trad. lett.: per fare medicina, stregonerie, specie di preghiere miracolose). Quindi l’autore del DitzLcs sostiene che esista a tutt’oggi un senso di ‘parola’,
seppure non sia quello predominante, mentre Wagner non ha mai registrato tale accezione del lemma, per ciò che attiene alla lingua viva; a
nostro parere, si potrebbe anche ritenere che nel brano letterario citato
(no li at essidu brebu) vi sia l’influsso dell’italiano: si pensi a espressioni
quali ‘proferire verbo’, ‘non intendere verbo’, ‘non aggiungere verbo’9,
7
Cfr. C. TAGLIAVINI, Le origini delle lingue neolatine, Pàtron, Bologna, 1982, p. 278, n. 25.
8
Si veda M. PUDDU, op. cit., p. 316, alla voce bélvos.
9
Cfr. A. GABRIELLI, op. cit., p. 2879, alla voce verbo.
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nelle quali si conserva l’accezione latina di parola). È inoltre da evidenziare che nella sezione del DitzLcs dedicata ai passi letterari non è fatta
menzione alcuna del passo di Ziu Paddori quale esempio del lemma esaminato.
A questo punto è lecito chiedersi perché Puddu non riporti la forma usata da Melis (su) vrebu = proverbio. Si può dubitare che questo
ipotetico imprestito con il fono fricativo labiodentale sonoro iniziale
esista in campidanese? O è più opportuno postulare che quel <v-> iniziale sia una norma grafica preferita da Melis, per qualche ragione, a
quella con <b-> (l’unica citata da Puddu per il campidanese10)?
Anche Wagner si è interessato all’argomento, affrontandolo a proposito del fondo latino del lessico sardo in La lingua sarda11 e in seguito, e
più diffusamente, in DES12, dove leggiamo non solo che in logudorese
antico il termine aveva il significato originario di ‘parola’: torrare berbu =
‘rispondere’, alla lettera ‘restituire la parola’ (nel condaghe di San Pietro
di Silki si legge torraindelu berbu e anche nelle Carte Volgari si trova torrai
berbu), ma anche che nel sardo moderno le cose cambiano; la voce, il cui
etimo è VERBUM, è ancora usata ma con significato differente, quello di
‘proverbio’. A tale proposito l’etimologo cita il passo di Melis oggetto del
nostro studio e specifica che lo stesso significato il termine lo aveva già
in latino arcaico, e cita quindi Plauto e Terenzio. Ricorda inoltre che il
senso di ‘proverbio’ è comune anche alle lingue iberoromanze, menzioSi noti che in campidanese il termine brebu (al singolare) sembra ricorrere unicamente
col senso di proverbio; tale accezione del termine parrebbe mancare sia in logudorese sia in
nuorese.
10
11
Cfr. M.L. WAGNER, La lingua sarda. Storia, spirito e forma, cit., pp. 103-104.
12
DES, I, p. 195, alla voce berbu.
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nando in particolare il portoghese antico vervo. Il grande studioso precisa
inoltre che il log. bèrƀos e il camp. brèƀus esprimono il significato di «parole misteriose, scongiuri o formole per attirare la fortuna, per allontanare i fulmini, per trovare le cose smarrite, per fugare i diavoli, i dolori etc.
(Scano, Saggio, p. 154)». E ancora, a proposito di parole misteriose, Wagner, citando José Luis Lourenço Loução, segnala che i tagliapietre del
Minho, regione situata a nord-ovest del Portogallo, impiegano
l’espressione falar em berbo(s) col senso di ‘parlare in gergo’ (quindi parlare
in modo oscuro e ambiguo) e nota come tale accezione del temine sia
vicina a quella del sardo.
Da quanto visionato in DES e in DitzLcs parrebbe emergere che
soltanto in sardo campidanese permanga il senso di ‘proverbio’, mentre
nel resto dell’isola il termine berbu ricorrerebbe per lo più al plurale con
l’accezione di formula magico-rituale. Basti per ora il rapido cenno alla
questione, giacché questi interessanti aspetti della ricerca necessiterebbero di uno studio che, anche in una dimensione spaziale, andrebbe al di là
delle nostre attuali intenzioni.
Pur non riportando il passo di Melis, Puddu esemplifica l’accezione
di ‘proverbio’ presente nel lemma da lui catalogato registrando un passo
molto simile a quello riferito da Paddori: «su brebu sardu nat de aici»13. Stando
dunque alle informazioni ricavabili dai due dizionari citati, una variante
con fono fricativo labiodentale sonoro iniziale (vrebu) parrebbe non esistere in campidanese e quindi al momento prendiamo per buona l’ipotesi che
essa sia una mera variante grafica per brebu (e non un prestito). Se volessiPaddori dice: «Ita nara’ su vrebu sardu: Mellu’ fillu miu mau, in mes’ ’e bonus, che fillu miu bonu in mes’ ’e màusu». Si veda E.V. MELIS, Ziu Paddori, cit., p. 47.
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mo spiegare la ragione per cui Melis ricorra a tale grafia, sarebbe verosimile pensare che egli renda con il grafema <v> il fono [ƀ] in posizione iniziale di parola, intervocalico in sandhi, optando per una soluzione (non di tipo
etimologico, seppure essa coincida con quella etimologica) che rappresenti
in maniera fedele, quanto più possibile, la qualità dell’articolazione della
spirante bilabiale sonora seguita da vibrante14. Se avesse infatti voluto fare
un’allusione ai propri illustri predecessori (Plauto e Terenzio) non avrebbe
esitato a usare la forma priva di metatesi, ovvero verbu.
Tuttavia, se il senso di ‘proverbio’ sopravvive solo in campidanese,
l’eventualità che vrebu possa essere un imprestito di ascendenza iberica (in
portoghese antico e spagnolo antico il termine possedeva questa accezione)15 non sarebbe da scartare. Stando così le cose, infatti, anche il
fono fricativo labiodentale sonoro avrebbe una sua ragione d’essere
(ricordiamo il portoghese antico vervo e il castigliano antico vierbo). Parrebbe però molto strano che nessuno abbia mai registrato la presenza di
tale presunto imprestito. Solo un’approfondita verifica sul campo, atta a
indagare la pronuncia viva dei parlanti, potrebbe dare qualche utile indicazione per fugare i nostri dubbi.
Si noti che, a p. 17, Melis scrive pròvidi a si ponni brent’a terra, dove invece il grafema utilizzato per rendere il fono continuo bilabiale sonoro, situato nel medesimo contesto rispetto a quello iniziale di vrebu, è <b>.
14
Non dimentichiamo che nel lungo periodo di dominazione spagnola che ha interessato la Sardegna, anche il Portogallo fece parte integrante dell’impero, e più precisamente ciò
accadde dal 1580 fino al 1640 (cfr. J.H. ELLIOTT, La Spagna Imperiale 1469-1716, Il Mulino,
Bologna, 1982). Oltre a ciò, i contatti tra Spagna e Portogallo non furono infrequenti e le
relazioni tra sardi e portoghesi poterono passare anche per altre vie, come quelle aperte dalla
Chiesa cattolica: per esempio, RAIMONDO TURTAS (in Pregare in sardo. Scritti su Chiesa e lingua
in Sardegna, a cura di G. Lupinu, Cuec, Cagliari, 2006, p. 43) cita il caso di un gesuita portoghese, giunto nell’isola nel 1559, ovvero più di vent’anni prima dell’annessione politica cui si
accennava sopra, che a proposito della situazione linguistica isolana nel 1562 commentava:
«In Sardegna si parla sardo come in Italia si parla italiano».
15
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
160
Allo stato attuale delle nostre conoscenze, sappiamo che brebus, al
plurale, è usato ancora oggi a Guamaggiore (paese della Trexenta che,
come si ricorderà, diede i natali a Melis) non solo per le formule magiche
degli atti di guarigione ma anche per le parole che si usano per riprendere
i figli qualora compiano qualche marachella. Possiamo ritenere, in base
alle informazioni ricevute, che i bbrèƀus siano dunque le parole idonee a
far capire ai bambini i propri errori, in modo che non li commettano più
in futuro (si potrebbe tradurre il termine in italiano con ‘ammonimenti’ e
‘precetti’); qualora si voglia dire che un genitore ha fatto capire la lezione
al figlio, si commenterà: ḍḍ’ á n(n)áu i bbrèƀus (trad. lett.: gli ha detto le parole
giuste). È evidente che in questa accezione del termine, in cui emerge
l’intento di ammaestrare con parole persusive, potrebbe innestarsi anche
quello di proverbio. Non si può tuttavia escludere che la locuzione possa
avere una sfaccettatura ironica (come a dire ‘gli ha letto la vita’, ‘gli ha
fatto la ramanzina’; si pensi anche alla locuzione, registrata da Francesco
Alziator, nai is alleluias, ovvero ‘dire gli alleluia’, nel senso di ‘cantarle
chiare’16). Così, ad esempio, è usata a Guasila dove quando si vede qualcuno eccessivamente spaventato per qualcosa di poco conto si dirà: tòkkađa a ḍḍi vái líǧǧi i (b)brèƀus
oppure faiđíḍḍi líǧǧi i (b)brèƀus (trad. lett.: è
necessario che gli si facciano leggere le preghiere/formule; fagli leggere le preghiere/formule), facendo allusione alle preghiere dell’estrema unzione, i Salmi
penitenziali, o alle formule per togliere lo spavento17.
16
F. ALZIATOR, La città del sole, La Zattera, Cagliari, 1963, p. 240.
Si pensi anche all’ironia nella locuzione paret iscuttu/a a libru (trad. lett.: sembra colpito/a
dal libro), usata a Galtellì, per una persona dalla faccia scura, di malumore, come se gli avessero “letto il libro del Vangelo”, da intendersi però con un senso particolare: come se avesse
‘ricevuto una maledizione, un sortilegio’. Diffusa nella zona è infatti a tutt’oggi la credenza
che i sacerdoti in grado di annullare una maledizione siano altrettanto capaci di lanciarla. Cfr.
17
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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Dal punto di vista fonetico-articolatorio, al momento possiamo affermare di avere udito a Guasila anche la pronuncia i vrèƀus18, (ma al
singolare sempre su ƀréƀu) in luogo dell’atteso i bbrèƀus o is brèƀus19. Considerata la maggiore frequenza dell’uso del termine al plurale non è improbabile che a partire da tale pronuncia in fonia sintattica si sia formato
il singolare analogico su vréƀu, utilizzato da Melis per denotare il proverbio.
Un’ipotesi alternativa è quella di un influsso iberizzante sulla voce
di matrice latina; si pensi ai casi, rilevati da Wagner20, iz vèntus o i vvèntus,
in luogo degli attesi iz bèntus o i bbèntus: per l’etimologo sono da considerarsi piuttosto come esiti italianizzanti che non la continuazione di
pure il modo di dire catalogato da Puddu in DitzLcs (p. 316, alla voce bélvos) iscuder a berbos =
fai bruscerias (fare incantesimi/stregonerie). Si pensi anche a quanto scrive G. RUIU (op. cit., p.
251) a proposito del rapporto tra religione ufficiale e superstizione popolare: quando una
persona si sentiva particolarmente sfortunata e pensava di essere perseguitata dalla malasorte
si poteva recare anche dal sacerdote «a si fagher passare sos libberos» ovvero «a farsi leggere i
Vangeli».
Non si può escludere che il fono fricativo labiodentale sonoro sia esito di assimilazione progressiva della dentale finale dell’articolo determinativo plurale, is, che prima del dileguo
abbia influenzato l’articolazione della continua seguente. Fenomeno per certi aspetti analogo
si verifica, per esempio, nel passaggio -s f- > š, tipico della parlata in esame (es.: is fèstas > i
šèstas), in cui la continua labiodentale sorda prima del dileguo subirebbe una fase di progressivo indebolimento, fino alla laringalizzazione, e quindi verrebbe assimilata al fono precedente: si veda M. CONTINI, op. cit., pp. 493 e ss. Inoltre teniamo conto che in area campidanese,
come ricorda anche F. ALZIATOR (op. cit., p. 325), e non solo (come si può desumere dalla
sinonimia tra i sintagmi, certamente non campidanesi, iscuder a libru e iscuder a berbos = ‘lanciare maledizioni’: cfr. nota precedente), occorre una certa affinità semantica tra brèbus e vangélus
(nella credenza popolare le formule magico-rituali se proferite da certe persone hanno/avevano la stessa funzione apotropaica delle parole del Vangelo usate dai sacerdoti; si
pensi anche alla ricorrenza di sintagmi quali fài nâi is vangélus e fài nâi is brèbus). Tale rapporto
di contiguità e a tratti di sinonimia (quest’ultimo rilevato anche a Guasila: alla domanda «cosa
sono is brebus?» la risposta immediata è stata: iṡ evanǧéli̯ us, iṡ evanǧéƀis) tra i termini vangélus e
brèbus può avere agevolato l’influsso fonetico del primo sul secondo, da cui vrèbus per brèbus.
18
Cfr. HLS, § 332, pp. 302-303; per il trattamento del nesso -zb- si veda anche G. Paulis, Appendice a HLS, § 330, p. 570. Per le conseguenze articolatorie sulle occlusive in seguito
alla metatesi della vibrante si veda pure M. CONTINI, op. cit., p. 401, n. 38.
19
20
Si veda HLS, § 155, p. 167.
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
Tesi di dottorato in Antropologia, Storia Medioevale, Filologia e Letterature del Mediterraneo Occidentale in Relazione alla Sardegna (Ciclo XIX), Università degli studi di Sassari.
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un’antica v. Se nel nostro caso dovessimo optare per un’analoga spiegazione, si potrebbe parlare di influsso di ascendenza iberoromanza (come
già segnalato a proposito dell’eventualità dell’imprestito): la parola berbu,
del fondo latino del lessico sardo, così come segnalato da Wagner soprattutto in DES21, subirebbe, in una fase successiva22, l’influsso fonetico del
superstrato iberoromanzo (pensiamo ancora all’antico portoghese vervo o
all’antico spagnolo vierbo)23. Anche così si potrebbe spiegare il fono fricativo labio-dentale sonoro usato da Melis.
Comunque stiano le cose, è evidente che il drammaturgo, nell’usare
vrebu, parola appartenente al fondo latino del lessico sardo nonché ereditata da illustri predecessori quali Plauto e Terenzio, è ben consapevole
della forza eminentemente magico-persuasiva della parola tramandata, e
della parola proverbiale in primis.
21
DES, I, p. 195, alla voce berbu.
Non possiamo che stabilire una cronologia relativa, considerando in primis che nel
1326 ebbe inizio la dominazione spagnola nell’isola. Ricordiamo inoltre con WAGNER (cfr.
La lingua sarda. Storia, spirito e forma, cit., pp. 184 e ss.) che la lingua ufficiale dei conquistatori
fu dal 1137 al 1479 il catalano; solo dopo subentrerà il castigliano che dunque può avere
influenzato le parlate sardo-meridionali solo dopo l’ultimo quarto del XV sec. Tuttavia, a
giudicare dal radicamento del catalano, usato in Sardegna per usi amministrativi fino all’inizio
del XVIII sec., è plausibile pensare a un influsso tardivo. Più difficile invece risulta datare
una eventuale influenza del portoghese: cfr. n. 15, a p. 159.
22
Il termine corrente usato dai catalani per designare il proverbio è proverbi, continuatore presumibilmente del tecnicismo lat. PROVERBIU(M), attestato per la prima volta in età
ciceroniana; mentre il più arcaico VERBU(M), come già ricordato, usato da Plauto e Terenzio, ha dato origine a vervo, vierbo e brebu. In catalano esiste anche la voce refrany, d’uso dotto
(corrispondente allo sp. refrán, e port. rifão). Proverbi è attestato dal 1302, anno di pubblicazione del Llibre de Mil Proverbis di Ramon Llull. Stando così le cose, risulta difficile pensare che
sia stata la voce catalana a esercitare la sua influenza fonetica su quella sardo-campidanese.
Per tale ragione essa non è stata menzionata tra le voci ibero-romanze potenzialmente influenti sul sardo berbu. Si veda J. COROMINES, Diccionari etimològic i complementari de la llengua
catalana, vol. IX, Curial Edicions Catalanes, Barcelona, 1995, pp. 147-150, alla voce verb; cfr.
in particolare p. 149, laddove si esamina il derivato proverbi.
23
Romina Pala, L’universo paremìaco di Ziu Paddori di E.V. Melis alla luce di un’analisi semantico-pragmatica,
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