L`occasione ritrovata: Carlo Valgulio interprete del De musica di

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VI Seminario
Le musiche dei Greci: passato e presente
Valorizzazione di un patrimonio culturale
Alma Mater Studiorum - Università di Bologna (sede di Ravenna)
24-25 ottobre 2005
L'occasione ritrovata:
Carlo Valgulio interprete del De musica di Plutarco
(25 ottobre 2005)
Innanzi tutto due precisazioni sul titolo del mio intervento, forse scontate, ma che mi
serve fare per definire l'orizzonte nel quale mi muoverò. La prima: parlo del De musica "di
Plutarco" nonostante l'opinione oggi universalmente condivisa - e certamente del tutto
condivisibile (e che anch'io condivido, per la verità) - che il De musica tramandato
all'interno dei manoscritti planudei dei Moralia non sia autentico. L'opinione ha cominciato
a consolidarsi fin dal 1921, quando Wilamowitz, nella sua Verskunst, parlò del De musica
come di un'opera compilativa, inserita appunto da Massimo Planude nel suo corpus dei
Moralia. I primi dubbi espressi in proposito da Erasmo da Rotterdam negli Adagia
(pubblicati per la prima volta a Venezia nel 1509), dubbi fondati essenzialmente su
considerazioni di carattere stilistico, non ebbero seguito almeno fino al 1572, anno in cui
apparve a Parigi la traduzione francese dei Moralia ad opera di Jacques Amyot, al quale
proprio lo stile del De musica non sembrava affatto di Plutarco. Tra le carte di Vincenzo
Galilei conservate nella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (Ms. Galilei 7, ff. 19r-22v),
sulle quali torneremo fra un attimo, si trova una versione italiana parziale del De musica,
condotta sulla base della traduzione latina di Valgulio: la mano è certamente quella di
Galilei stesso, e non è da escludere che anche la versione sia opera sua. Il titolo appostovi
da Galilei recepisce i dubbi di Erasmo: "Trattato di Musica di Plutarco, il quale non è suo,
per quanto ne dice Erasmo...". Ora, poiché nel suo Dialogo della musca antica et della
moderna, pubblicato a Firenze nel 1581, Galilei ne richiama a più riprese diverse pagine, il
suo lavoro sul De musica (come anche l'acquisizione della notizia sulla falsa attribuzione a
Plutarco) deve essere certamente anteriore a quell'anno. Ma all'epoca nella quale Carlo
Valgulio traduceva in latino la preziosa operetta, poi pubblicata a Brescia, sua città natale,
nel 1507, due anni prima della prima edizione a stampa del testo greco dei Moralia curata
da Demetrio Ducas (Venezia, 1509), nessuno dubitava della sua autenticità. E anzi,
certamente si riteneva che il nome e l'autorevolezza del grande maestro di Cheronea
conferissero tanta più attendibilità alle innumerevoli notizie sulla musica greca antica e
antichissima che vi sono contenute. In questo contesto, dunque, il problema
dell'autenticità è certamente un falso problema: ed ecco perché anch'io lo ignorerò del
tutto.
La seconda precisazione riguarda la mia allusione piuttosto trasparente a due edizioni
italiane del De musica, che hanno entrambe giustamente meritato, da autorevoli recensori,
la qualifica di "occasioni perdute", e ovviamente non è il caso qui di infierire. Ho preso
spunto dal fatto che mentre questi lavori consegnano agli antichisti italiani prodotti
fortemente manchevoli, sia sul fronte strettamente filologico sia su quello esegetico e
storico culturale, l'operazione interpretativa di Valgulio, di là da alcune pur riscontrabili
manchevolezze, ha nel complesso ben altra forza propulsiva nel quadro della cultura
musicale europea. Prima che in tutta Europa Plutarco cominciasse a parlare il francese di
Amyot, il latino di Valgulio dava al greco di Plutarco una voce chiara e convincente,
consegnando di fatto alla riflessione musicale rinascimentale un testo fondamentale. In
esso i teorici e i compositori del Rinascimento cercarono e trovarono (o vollero trovare, il
Angelo Meriani, L'occasione ritrovata: Carlo Valgulio interprete del De musica di Plutarco
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che, naturalmente, da un punto di vista storico non cambia molto le cose) conferme
importanti su diversi fronti della loro speculazione. Penso soprattutto ai problemi del
rapporto parola-suono-emozione, e all'esigenza di una linearità compositiva che i greci
antichi e antichissimi avevano compiutamente realizzato tanti secoli prima. Né mancarono
conferme anche sul piano più strettamente tecnico, come per esempio la possibilità di
dividere il tono in parti uguali. Per noi questo testo di Valgulio è dunque un'occasione
preziosa - e ritrovata - per ripercorrere tappe fondamentali della fortuna moderna e della
produttività culturale di un testo antico molto importante.
Nel percorso lungo e faticoso attraverso il quale il pensiero musicale rinascimentale si
riappropria delle fonti greche - processo che, come è noto, inizia in forte ritardo rispetto
agli altri campi del sapere - questa traduzione latina del De musica di Plutarco, e il suo
Proemio, che Valgulio indirizza all'altrimenti sconosciuto cantante Tito Pirrino, rappresenta
uno dei documenti più importanti dell'umanesimo musicale, e segna, per così dire, un
punto di non ritorno. I due testi furono letti e discussi a fondo, studiati e richiamati da
trattatisti e teorici contemporanei e successivi, e forse addirittura, fra tutti i testi greci letti
dai trattatisti e teorici musicali rinascimentali, furono i più letti e studiati. In particolare, la
traduzione, della cui edizione originale si conoscono oggi pochissimi esemplari (Berlino,
Washington, Napoli, Udine) ebbe una sua fortuna anche editoriale: venne riprodotta
infatti in molte edizioni complessive dei Moralia: penso alla lunga serie delle parigine
(1516, 1526, 1555, 1557, 1566, 1572), alle tre di Basilea (1530, 1542, 1560) a quella veneziana
del 1532. C'è stato poi un lungo periodo di oblio, se si eccettua il grande apprezzamento
della traduzione e del Proemio espresso dal letterato francese Pierre Jean Burette (16651747) nei suoi lavori preparatori alla sua edizione del De musica, apparsa a Parigi nel 1735.
Il merito di aver attirato di nuovo l'attenzione dei musicologi su questi testi spetta a
Claude Palisca, il quale li ha inseriti nel contesto dell'evoluzione del pensiero musicale
rinascimentale; invece, l'interesse dei filologi classici è stato finora quasi del tutto assente,
o per lo più limitato alla semplice menzione bibliografica.
E invece il Proemio di Valgulio e la sua traduzione del De musica di Plutarco dovettero
essere un autentico livre de chevet di Vincenzo Galilei, che di entrambi i testi copiò (e
probabilmente eseguì lui stesso) una versione italiana parziale, procurandosene anche una
diversa, completa, che mostra i segni di una minore dipendenza da quella di Valgulio, e
sembra essere stata condotta da qualcuno che aveva potuto lavorare direttamente sul testo
greco. Questa seconda traduzione, che, insieme con gli altri due testi, è conservata, come
dicevo, tra i Manoscritti Galileiani della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze (Ms
Galilei 7, ff. 23r-59r), reca i segni di un'attenta lettura da parte di Galilei, che la correda di
moltissime sue annotazioni marginali. Interi passi, come ad esempio i numerosi relativi
alla semplicità e alla linearità della musica greca antichissima, o alla nobiltà del genere
enarmonico, confluiscono nel già ricordato Dialogo della musica antica et della moderna
(1581). Un'altra versione italiana del solo Proemio, opera probabilmente di un certo
Mattheo Nardo, che la copia di sua mano, è conservata nel Vaticanus Latinus 5385; sulla
base delle filigrane, è possibile datare la carta del manufatto a un periodo alquanto
successivo al 1540: non è affatto detto che la copia non possa essere anche di molto
posteriore, ma su queste sole basi, e soprattutto non disponendo di dati cronologici precisi
sull'attività del copista, non possiamo dire con certezza neanche che la versione non sia
stata portata a termine prima di quella data, e copiata poi successivamente.
Negli stessi anni di Galilei, anche Giovanni Bardi indirizza a un cantante il suo
manifesto di riforma della musica contemporanea (Discorso mandato a Giulio Caccini detto
romano sopra la musica antica, e 'l cantar bene), e in realtà, la dedica a un musico pratico di
questo scritto teorico non costituisce soltanto un richiamo formale al lavoro di Valgulio:
l'istanza di riforma della pratica musicale contemporanea a immagine e somiglianza
dell'antica musica greca, propugnata da Giovanni Bardi alla fine degli anni Settanta del
Cinquecento era precisamente la stessa che animava il disegno culturale di Carlo Valgulio
fin dalla fine del secolo precedente. E se furono le speculazioni e le sperimentazioni
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musicali della Camerata Fiorentina che attorno a Bardi si riuniva a costituire il primo
nucleo teorico che darà poi vita, nella pratica musicale, a uno dei prodotti culturali più
importanti e vitali della civiltà musicale europea moderna, ossia il dramma per musica,
non va dimenticato che di questo nucleo teorico l'archetipo è rappresentato appunto
dall'opera di interprete di Valgulio. Ancora: per argomentare, nei Sopplimenti musicali
(Venezia 1588), la sua polemica musicale con l'antico allievo Vincenzo Galilei, Gioseffo
Zarlino si serve a più riprese di ampi passi della traduzione e del Proemio di Valgulio, in
una sua nuova e diversa traduzione italiana. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma
non è il caso di farlo qui. Spero intanto di aver mostrato come il lavoro di interprete di
Valgulio dia fondamento e impulso alla profonda riforma musicale della seconda metà del
Cinquecento, e allo stesso tempo venga adoperato come autorità in discussioni e
disquisizioni sorte attorno ai molti problemi teorici sollevati da quelle istanze di profondo
rinnovamento.
Si tratta di un rinnovamento che intende opporsi alla prassi musicale contemporanea,
proponendo gli esempi di semplicità della musica antica. E proprio su questo piano, il De
musica di Plutarco si prestava bene a offrire un vero e proprio paradigma teorico di
riferimento: un suo autentico Leitmotiv è infatti la storia della musica greca, dalle sue
origini mitiche, attraverso l'età arcaica e classica, fino alle "degenerazioni" intervenute a
partire dal tardo V sec. a. C.: ampio spazio è dedicato alle innovazioni che ne segnano e
scandiscono tutto l'arco evolutivo, e investono i diversi aspetti della composizione ritmica
e melodica, dell'esecuzione e della fruizione musicale. Il fenomeno condusse in sostanza a
un profondo cambiamento dei modi di produzione e dei contesti di fruizione della musica.
Persino la grande edilizia pubblica risentì del mutato clima culturale: ricordo la storia
esemplare dell'Odeion, fortemente voluto e realizzato da Pericle in Atene per dare uno
spazio coperto adeguato alle esecuzioni della nuova musica pensata ormai per il grande
pubblico (Mosconi). È importante notare come tutta l'opera sia permeata da una
contrapposizione assiologica tra la semplicità, la linearità, la scarsezza di mezzi
strumentali, tecnici ed espressivi, e però la formidabile efficacia etica ed emozionale della
musica antica da una parte, e, dall'altra, le inaccettabili complicazioni, le odiose astruserie
tecniche, e, conseguentemente, la sterilità etica ed emozionale della musica nuova, la quale
non è più in grado di suscitare altra emozione che lo stupore, e di produrre altro effetto
comportamentale che l'applauso sfrenato e l'acclamazione.
Non si tratta dunque di un trattato che affronta ex professo, con taglio specialistico e
linguaggio tecnico, i fondamenti teorici della disciplina, come sono, per esempio gli
Harmonica di Claudio Tolemeo o gli Elementa harmonica di Aristosseno; e neppure di un
enchiridion, sul tipo, per intenderci, delle opere pubblicate da Carl von Jan nella sua
raccolta di Musici scriptores Graeci. Siamo in presenza, invece, di un libro di storia della
musica antica, la cui prospettiva ideologica è chiaramente conservatrice, e nel quale anche
la pur cospicua digressione teorica sulla mousikh; ejpisthvmh non tratta i fondamenti della
disciplina, ma fornisce un'accurata selezione di temi e aspetti anche tecnici, che, integrata
nella trattazione e storicamente contestualizzata, viene resa funzionale alla valutazione
diremmo etica ed estetica della musica. In rapporto alle sue dimensioni (37 pagine
nell'edizione Teubner) il numero enorme di informazioni sulla cultura musicale greca,
sulla sua storia e sui diversi contesti sociali e culturali della sua fruizione, fanno di
quest'opuscolo un unicum all'interno della letteratura musicografica dei Greci - e forse
della letteratura greca tout court: dovette essere proprio questo suo statuto speciale,
insieme con la ricchezza e autorevolezza delle fonti utilizzate (Platone, Aristotele, Eraclide
Pontico, Aristosseno), a suscitare l'interesse del nostro Carlo Valgulio e il suo lavoro di
interprete.
Nel Proemio egli dice di essere stato mosso a intraprenderlo considerando le deprecabili
condizioni nelle quali versava l'arte musicale contemporanea: riprendendo le frequenti
critiche che la commedia antica aveva rivolto alla decadenza della musica del tardo V
secolo e dei principi del IV, Valgulio parla di una malattia (labes) che ha infettato la musica
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dei suoi tempi. La malattia consiste negli eccessi del contrappunto, nei virtuosismi vocali e
strumentali, tesi a ingannare il pubblico (Valgulio parla appunto di una iocunda fraus). A
questa decadenza, della quale non manca di stigmatizzare, risalendo al Platone della
Repubblica e delle Leggi, le conseguenze anche sul piano etico e politico, Valgulio propone
al suo amico cantante Tito Pirrino, di opporsi, e perseguire, nella sua pratica musicale, la
semplicità e la linearità, perché la nuova musica, secondo l'esempio degli antichi Greci,
possa diventare di nuovo capace di muovere gli animi al bene. In sostanza, sul fronte della
sua funzione conativa, la musica contemporanea risulta inadeguata, perché non suscita
più gli affetti, come invece era in grado di fare la musica dei Greci, sicché la lettura della
traduzione del De musica dovrebbe fornire al musico pratico un esempio normativo. Il
ritorno agli Antichi viene qui proposto quindi come un mezzo di rinnovamento della
pratica musicale contemporanea.
Tutto questo, in termini di pratica musicale, doveva significare l'abbandono del
contrappunto, e l'introduzione dell'omofonia, e doveva implicare un accorto adeguamento
della musica al senso delle parole e alle figure retoriche del testo musicato, per cercare di
cogliere e suscitare nell'ascoltatore le emozioni che esso comunica. L'esemplarità della
musica antica è un topos antico almeno quanto Aristofane: e non a caso il Proemio si apre
appunto con un riferimento alla Comoedia uetus, probabilmente dettato a Valgulio dal
frammento di Ferecrate citato nel De musica. Su questi temi, ai quali darà un'originale e più
organica sistemazione, Valgulio tornerà poi nel suo opuscolo Contra uituperatorem Musicae,
pubblicato, sempre a Brescia, nel 1509; per ora, a intraprendere il suo progetto culturale,
egli dice di sentirsi spinto dal suo grande amore per la musica e per i musicisti: «Nam hoc
me fari coegit amor musicae musicorumque quo incredibili teneor». Furono certo questi
suoi tre lavori (il Proemio, la traduzione e il Contra uituperatorem Musicae) a meritargli la
fama di teorico della musica, fama sancita nel 1767 da J.-J. Rousseau, che nel suo
Dictionnaire de Musique lo annovera in un elenco che, da Zarlino a Tartini e Rameau,
comprende, tra gli altri, Salinas, Galilei, Mei, Doni, Kircher, Mersenne, Wallis, Descartes.
Carlo Valgulio dovette avere una padronanza del greco e del latino davvero eccezionale
per l'epoca, se Marsilio Ficino, a conclusione di una sua lettera al fiorentino Tommaso
Minerbetti, raccomanda a quest'ultimo di mantenere rapporti di familiarità con l'umanista
bresciano, che all'epoca era precettore dei figli: «Persevera etiam in familiaritate Caroli
Valgulii nostri Brixiensis, est enim vir humanitate humanitatisque studiis tam graecis
quam latinis excellens». All'epoca dello scritto ficiniano, databile intorno al 1474, Valgulio
si trovava dunque a Firenze. Della corrispondenza con lo stesso Ficino e con Angelo
Poliziano restano soltanto due lettere, da far risalire al medesimo periodo fiorentino: una
di Ficino a Valgulio, e una di questi a Poliziano. Sappiamo poi di un carteggio con Pietro
Gravina, con Antonio Calderini, con Benedetto Accolti, con Giovanni Cavalcanti. Abbiamo
anche diverse altre testimonianze dell'eccellenza del nostro negli studia humanitatis, ma
non è il caso di esaminarle qui una per una. Rimando per questo al breve profilo apparso
di recente negli «Annali Queriniani» ad opera di Stephen Bowd e J. Donald Cullington
(«Annali Queriniani» 3, 2002), a all'unica monografia che io conosca su di lui, quella di
Andrea Valentini, apparsa a Brescia nel lontanissimo 1903.
Sappiamo poi che fra il 1481 e il 1485 fu segretario del tesoriere papale Falco Sinibaldo e
quindi del Cardinale Cesare Borgia, al quale dedicò poi la sua traduzione del De
contemplatione orbium excelsorum di Cleomede. Questo suo secondo servizio, del quale
ignoriamo la durata, dovette avere inizio certamente dopo il 1493, anno in cui Cesare
Borgia fu creato Cardinale dal padre Rodrigo, asceso al soglio pontificio nel 1492 col nome
di Alessandro VI. A questo periodo romano vanno ascritte almeno alcune delle sue
numerose traduzioni latine dal greco. Nella lettera dedicatoria della sua traduzione del De
contemplatione, lo stesso Valgulio dice infatti che, dopo la morte di Sinibaldo, essendo
ormai libero da altre occupazioni, si era dedicato alla traduzione in latino dei De tuenda
sanitate praecepta e del De virtute morali di Plutarco, opere poi dedicate al Papa Alessandro
VI (dunque dopo l'11 luglio 1492). Il De virtute morali apparve poi a stampa nel 1497 a
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Brescia, in un volume contenente diverse altre sue traduzioni dal greco, certamente
portate a termine in tempi diversi, e ciascuna di esse dedicata a un diverso personaggio. Si
tratta, in particolare, oltre al già ricordato Cleomede; della Oratio ad Rhodienses de Concordia
di Elio Aristide preceduta da una lettera di Pietro Gravina indirizzata a Valgulio; delle
orazioni Ad Nicomedenses e De concordia di Dione Crisostomo dedicate al Cardinale
Francesco Piccolomini; del plutarcheo De virtute morali, dedicato appunto ad Alessandro
VI; dei Praecepta coniugalia dedicati a Giovanni Borgia. Valgulio tradusse in latino anche
Arriano, il De placitis philosophorum, l'orazione De pace di Isocrate, i Praecepta gerendae rei
publicae di Plutarco, il De musica.
Intensa, in negli anni romani fu la frequentazione della Biblioteca Vaticana, dalla quale
sappiamo che prese in prestito diversi manoscritti greci negli anni dal 1481 al 1485, e poi
nel 1498 (notizia che ricavo dal repertorio di Eugène Müntz e Paul Fabre, La bibliothèque du
vatican au quinzieme siècle, Paris 1887). Grazie poi a una nota di prestito registrata da Maria
Bertola nel suo volume del 1942 (I due primi registri di prestito della Biblioteca apostolica
Vaticana, Città del Vaticano 1942, p. 57), possiamo identificare con precisione uno di questi
manoscritti, restituito il 26 settembre 1498: «Carolus Valgulius Brixiensis ... restituit
quaedam de musica et Arithmetica Nicomachi». Si tratta del codice greco oggi siglato
Vaticanus Graecus 186, risalente al XIII sec., che contiene appunto, oltre all'Aritmetica di
Nicomaco di Gerasa, gli Harmonica di Claudio Tolemeo, con il relativo commento di
Porfirio, e il De musica di Plutarco.
Naturalmente, il De musica era presente anche in altri codici vaticani a disposizione di
Valgulio, e da lui tenuti senz'altro presenti per le sue traduzioni di altre opere plutarchee.
Penso, per esempio, al Vaticanus Graecus 139 (XIII sec.), al Vaticanus Graecus 1013 (XIV
sec.), al Vaticanus Reginensis Graecus 80 (XV sec.), tutti contenenti, oltre al De musica, il De
virtute morali e i Praecepta coniugalia, opere appunto tradotte da Valgulio. Non so dire, per
ora, se per il suo lavoro Valgulio abbia tenuto presente più di un manoscritto, scegliendo
di volta in volta la lezione che gli sembrava migliore, così come lascia intendere Pierre Jean
Burette in un contributo del 1733, preparatorio alla sua edizione parigina del 1735. Per
potersi pronunziare in proposito ci sarebbe bisogno di un lavoro di analisi che, per quanto
mi riguarda, è ancora all'inizio. Ho notato però che Benedict Einarson e Philip H. De Lacy,
nello stemma della loro edizione Loeb del 1967, presentano la traduzione di Valgulio come
dipendente, attraverso il Vindobonensis Graecus 176, dal Parisinus Graecus 2451, senza
peraltro fornire alcuna spiegazione in proposito. La cosa mi è parsa strana, e dovrò
controllare se esiste una possibilità che Valgulio potesse materialmente disporre di quei
manoscritti all'epoca in cui si occupava del De musica. Quello che posso dire con certezza è
che, per quanto riguarda il Proemio, Valgulio non poteva non aver letto i testi contenuti nel
Vaticanus Graecus 186. Egli cita infatti una parte del lungo frammento teofrasteo sulla
catarsi musicale, la cui fonte unica è il Commentario di Porfirio agli Harmonica di Tolemeo,
opera che, fra i manoscritti Vaticani contenenti il De musica, e che erano all'epoca a
disposizione di Valgulio, si trova soltanto, appunto, nel Vaticano Greco 186. Peraltro,
sempre nel Proemio, egli fa ampiamente tesoro degli ampi brani di Panezio e di
Aristosseno che Porfirio cita nella sua opera.
Come ho detto, a più riprese, il De musica di Plutarco colloca nel teatro della fine del V e
dei principi del IV secolo la "degenerazione" della musica. È infatti nel teatro che si innesca
il circolo vizioso della domanda e dell'offerta di nuova musica, per cui al grande pubblico
che la chiede i nuovi musici la offrono ottenendo in cambio successo e approvazione. Ma
nel De musica di Plutarco, è forte la convinzione che tra le innovazioni vadano distinte
quelle accettabili, perché introdotte nel rispetto del buon gusto e dei valori tradizionali di
semplicità e di solennità, da quelle che accettabili non sono, perché, appunto, violano quei
parametri di valutazione etica ed estetica. Ora, dopo la lunga gestazione avvenuta
all'interno della Camerata Fiorentina, ad opera di teorici e musicologi che avevano letto il
De musica di Plutarco (ho ricordato Vincenzo Galilei e Giovanni Bardi, ma avrei potuto
parlare di Girolamo Mei) e che erano convinti di poter rinnovare la pratica musicale
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contemporanea tornando alla semplicità di cui parlano le antiche fonti greche, agli inizi
del Seicento nasce un genere musicale del tutto nuovo: il melodramma. Proprio il teatro
diventa allora il terreno di una nuova sperimentazione musicale, di un nuovo rapporto tra
parola e musica, della progressiva conquista di un nuovo, più comprensibile linguaggio
armonico, della meditata definizione degli affetti e dei nuovi modi con i quali riuscire a
esprimerli e a suscitarli musicalmente. All'origine di questo parto felicissimo e
straordinariamente vitale c'è il seme gettato, un secolo prima, da un eccellente conoscitore
della lingua greca, perdutamente innamorato della musica.
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