Democrazia formale e dinamiche di esclusione sociale in India: un

Democrazia formale e dinamiche di esclusione sociale in India: un’analisi critica
alla luce dello studio di caso sulla privatizzazione de facto del lago Chilika (Orissa)
Matilde Adduci
Dipartimento di Culture, Politica e Società, Università di Torino
[Bozza: per cortesia non citare]
Abstract. La presente analisi intende contribuire alla riflessione sulla complessa
relazione fra democrazia e presenza - nonché riproduzione - di fratture e
diseguaglianze sociali, muovendo dalla realtà indiana. Più specificamente,
l’analisi intende contribuire a interrogare la relazione fra democrazia formale,
processi di marginalizzazione socio-economica e il dispiegarsi di conflittualità
sociale e politica, attingendo a uno specifico studio di caso incentrato sulla
privatizzazione de facto delle acque del lago Chilika in India. Situato in Orissa –
uno fra gli stati indiani storicamente caratterizzati da elevati livelli di povertà e
diffusa diseguaglianza sociale – il lago Chilika è stato, sin dai primi anno Novanta,
teatro di un conflitto su pratiche di acquacoltura intensiva, culminate in un
processo di privatizzazione illegale delle acque lacustri silentemente avallato dalle
autorità statali locali. La presente analisi intende dar conto del dispiegarsi di tale
conflittualità con particolare attenzione all’ultimo decennio (2005-2015), avendo
cura di gettar luce sulla relazione fra il processo di privatizzazione de facto in corso
nel lago Chilika e i) le dinamiche di riproduzione sociale delle componenti
politicamente ed economicamente dominanti all’interno dello stato dell’Orissa; ii)
le traiettorie di marginalizzazione delle comunità di pescatori tradizionali insediate
in prossimità del lago. Ciò richiederà un’attenta analisi dell’economia politica
delle pratiche di acquacoltura intensiva e della loro trasformazione, che sarà
accompagnata dalla ricostruzione delle dinamiche di pauperizzazione delle
comunità di pescatori tradizionali e frammentazione della loro vita lavorativa.
Muovendo dalla comprensione di tali processi, si interrogheranno infine le
traiettorie di mobilitazione politica delle comunità di pescatori tradizionali,
proponendo una riflessione costruttiva sulle recenti difficoltà incontrate dal
movimento sociale da loro animato. Infine, si proporranno alcune riflessioni circa il
modo in cui le dinamiche emerse dallo studio di caso analizzato concorrono a
gettar luce sulle tensioni fra democrazia formale e meccanismi di (ri)produzione
della marginalità sociale.
L’analisi proposta è incentrata su un periodo di ricerca sul campo di quattro mesi
svolto nel 2014-2015, che è seguito a un primo periodo di sei mesi di ricerca sul
campo svolto nel 2004 e una rivisitazione nel 2007.
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1. Il contesto: alcune riflessioni sul ‘paradosso’ della democrazia indiana nell’età delle
riforme neoliberiste e sull’agire politico dei subalterni
La presente analisi intende contribuire alla riflessione sulla complessa relazione fra democrazia e
presenza – nonché riproduzione – di fratture e diseguaglianze sociali nella realtà indiana, con
particolare attenzione all’età delle riforme di stampo neoliberista. Più specificamente, l’analisi
vuole contribuire a interrogare la relazione fra democrazia formale, processi di marginalizzazione
socio-economica e il dispiegarsi di conflittualità sociale e politica nell’era delle riforme, attingendo
a uno specifico studio di caso incentrato sulla privatizzazione de facto delle acque del lago Chilika,
situato in uno stato dell’Unione, l’Odisha, storicamente affetto da livelli di povertà allarmanti e
travagliato da gravi squilibri socio-economici.
Prima di addentrarci nel vivo dello studio di caso, appare importante riflettere su alcuni tratti
essenziali del più ampio contesto nazionale in cui esso si colloca e, nel far questo, ripercorre i nodi
principali intorno a quali si è acceso il dibattito circa le implicazioni della svolta neoliberista –
definitivamente compiuta dal paese nel 1991 – sulla ‘qualità’ della democrazia indiana (Kohli
2006). Ciò richiede, in primo luogo, di richiamare seppur brevemente i termini essenziali della
transizione verso il neoliberismo. A tal proposito diviene qui importante ricordare che, con la svolta
compiuta nel 1991, l’India si lasciava definitivamente alle spalle il paradigma ‘sviluppista’ adottato
all’indomani dell’indipendenza (1947). Tale paradigma era stato progressivamente realizzato,
certamente non senza contraddizioni, sotto la guida del Congresso nazionale indiano – partito
protagonista della lotta anticoloniale, che annoverava fra i suoi leader di punta Jawaharlal Nehru,
futuro primo ministro (1947-1964) e convinto fautore delle politiche di pianificazione economica.
In sintesi, l’approccio ‘sviluppista’ riconosceva l’importanza dello Stato nel governo dell’economia
e, in specie, nella realizzazione di una progettualità politica volta a coniugare un sostanziale
sostegno alla crescita economica con una tensione verso la redistribuzione delle risorse, al fine ad
alleviare povertà e diseguaglianza. In altri termini, ciò a cui si era di fronte, all’indomani
dell’indipendenza, era un importante esperimento di ‘economia mista’, che, all’interno di un
sistema democratico multipartitico, riconosceva al contempo il ruolo di leadership del settore
privato e la necessità di un consistente intervento statale nei processi economici (Chandrasekhar e
Ghosh, 2004). In specie dopo la morte di Jawaharal Nehru, tale esperimento aveva conosciuto
importanti processi di rivisitazione, che avevano implicato, inter alia, il progressivo venir meno
della sua tensione verso la giustizia sociale. Non è possibile in questa sede ripercorrere la
progressiva rivisitazione del paradigma sviluppista, né le contraddizioni che lo caratterizzavano e
che, nel corso dei decenni, si erano mostrate ineludibili. Se queste erano parse evidenti in specie
negli anni Ottanta, il definitivo abbandono delle politiche ‘sviluppiste’ sarebbe stato sancito solo a
inizio anni Novanta, quando, in occasione del manifestarsi di una importante crisi finanziaria,
l’esecutivo indiano, formato dal Congresso e guidato da Narasimha Rao, diede avvio – non senza
un aspro dibattito nel paese animato da coloro che ritenevano possibile affrontare la crisi
percorrendo strade alternative – a un processo di riforma dell’economia apertamente ispirato alla
progettualità politica neoliberista. Ciò che appare qui importante richiamare è che la nuova
progettualità si distingueva per il netto richiamo alla necessità di un deciso ridimensionamento
dell’intervento regolatore dello Stato in materia di politiche pubbliche, che si sarebbe espresso con
l’avvio di politiche di privatizzazione, deregolamentazione delle attività economiche e del mercato
del lavoro, taglio alla spesa pubblica finalizzata a investimenti, sussidi e alle politiche sociali. È qui
importante sottolineare che, come per altri contesti in via di sviluppo, a fianco delle privatizzazioni
2
de iure (si pensi, a titolo d’esempio, alle politiche di privatizzazione delle imprese statali) si sarebbe
assistito anche a importanti processi di privatizzazione de facto, in specie per quanto attiene
all’ambito delle risorse naturali1.
Ora, i termini della riflessione circa le implicazioni del processo di riforma di stampo neoliberista
sulla democrazia indiana si snodano sia intorno alla natura delle componenti sociali che hanno
fortemente sostenuto l’avvio e il consolidamento di tale processo – o, in altre parole, all’economia
politica delle riforme – sia intorno alle implicazioni socio-economiche della nuova progettualità
politica, in specie sugli strati subalterni (e numericamente maggioritari) della società indiana.
Vi è ormai ampio consenso sul fatto che la svolta paradigmatica attuata nel 1991 sia stata
fortemente voluta da una base sociale ristretta, sebbene politicamente ed economicamente
estremamente influente. Più specificamente, tale base sociale era formata da componenti del
capitalismo agrario e industriale interessate alle opportunità di accesso a nuovi mercati e di
collaborazione con il capitale estero – quand’anche come partner minori – che il processo di riforma
prometteva di aprire, nonché, e ciò vale in specie per i grandi gruppi industriali, al progressivo
scioglimento dei vincoli in materia di produzione presenti sul mercato interno; una parte dell’alta
burocrazia, ormai capace di vantare solidi rapporti con le istituzioni finanziarie internazionali, che
ne sosteneva senza riserve le prescrizioni politiche in materia di apertura al processo di
globalizzazione; categorie emergenti di agenti privati coinvolti in attività di intermediazione
commerciale e finanziaria; nonché una classe media irrobustitasi in seguito alle politiche di
espansione della spesa pubblica attuate negli anni Ottanta, che aspirava ad ampliare le proprie
opportunità di consumo, accedendo ai beni disponibili sul mercato internazionale (Chandrasekhar e
Ghosh, 2004; Jenkins 1999; Corbridge e Harriss, 2000; Frankel, 2005; Kohli, 2006; Mooji, 2005).
A fronte di tale realtà, studiosi quali Corbdridge e Harriss (2000) hanno letto l’avvio delle riforme
neoliberiste come parte integrante di quella che essi definiscono la ‘rivolta delle elite’, caratterizzata
da una decisa affermazione, nel paese, delle istanze economiche e politiche delle classi alte e
medio-alte – essenzialmente coincidenti con le componenti sociali situate al vertice della gerarchia
castale. Ed è in riferimento a tale scenario che studiosi quali Kohli hanno avviato una riflessione su
quelle che definiscono le “conseguenze poco rassicuranti [del processo di riforma] sulla qualità
della democrazia indiana”, là dove una scelta politica relativa al governo dell’economia di portata
paradigmatica è stata di fatto effettuata da una componente elitaria della società (Kohli, 2006, p.
1368). L’attenzione alle principali implicazioni delle riforme sugli strati più vulnerabili della
popolazione ha poi concorso ad ampliare l’orizzonte di tale riflessione. In particolare, diversi autori,
(fra cui lo stesso Kohli (2006), nonché, fra gli altri, Cordridge e Harriss (2000), Chandhoke e
Priyadarshi (2009), Chandrasekhar e Ghosh (2004), Harriss (2009), Hasan (2014))2 hanno
sottolineato lo iato crescente fra gli elevati livelli di crescita economica aggregata conseguiti nei
decenni successivi alle riforme e l’effettiva possibilità di tanta parte della popolazione di beneficiare
di tale crescita. Ciò in uno scenario che, ripercorso in termini essenziali, è apparso vieppiù
caratterizzato, con l’incedere delle riforme, da una radicale messa in discussione – anche dal punto
di vista concettuale – della necessità di attuare politiche ‘pro-poor’ (Kohli, 2006; Kannan, 2014); da
1
La distinzione concettuale fra privatizzazioni de iure e de facto si deve a Bernstein (2001), che ha per primo indicato
l’importanza di riconoscere i processi di privatizzazione de facto e analizzarne le dinamiche politiche e sociali.
2
Alcune importanti considerazioni in questo senso sono espresse anche da Vanaik (2014), in un recente saggio sulla
vittoria elettorale del BJP del 2014. Appare altresì importante richiamare l’analisi di Jaffrelot (2016) sulla
polarizzazione sociale promossa dall’accelerazione delle politiche pubbliche di stampo neoliberista sotto la guida del
BJP, con specifica attenzione alle dinamiche dello stato del Gujarat.
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una costante espansione del fenomeno, la cui entità era già estremamente preoccupante in età
sviluppista, del lavoro informale (vale a dire privo di tutela nelle condizioni di impiego, nelle
condizioni di lavoro e privo di accesso ai sistemi di sicurezza sociale), là dove la correlazione fra
condizioni di impiego informale e povertà relativa è stata ormai indicata da studi dall’importanza
ineludibile (Breman, 2013); da una parabola di crescita rivelatasi incapace di generare sufficienti
opportunità lavorative per la popolazione espulsa dalle campagne, e relegata dunque per tanta parte
in ‘impieghi rifugio’ nel settore terziario, in condizioni decisamente lungi dal rispondere ai più
basilari criteri di ‘impiego dignitoso’ (ciò ha animato, in anni recenti, il dibattito sulla ‘jobless
growth’) (Ghosh 2014; Kannan, 2014); dall’incremento dei conflitti sulle risorse naturali – in specie
terra e acqua (Levien, 2013) seguito all’intensificarsi dei processi di privatizzazione, de iure o de
facto, che spesso hanno costituito una minaccia per attività occupazionali di sussistenza (quali la
coltivazione o la pesca tradizionale) svolte dalle fasce più povere della popolazione, o che si sono
tradotte in fenomeni di dislocazione di fasce di popolazione svantaggiate, spesso esposte a
crescenti condizioni di vulnerabilità (si pensi, qui, al fenomeno della dislocazione delle popolazioni
tribali in seguito alle attività di estrazione mineraria3). A fronte di tutto questo, studiosi quali
Chandhoke e Priyadarshi (2009), individuano un elemento di incompletezza nella democrazia
indiana, che pur riconoscono essere la più popolosa democrazia al mondo. In questo senso essi
riprendono, riaffermandone l’importanza, la concezione di democrazia articolata pubblicamente da
Jawaharlal Nehru, animata da un irrinunciabile riconoscimento della necessità di estendere le
promesse della democrazia formale alla sfera sociale, economica e culturale. Tale progettualità
democratica, intimamente legata all’attuazione di politiche attive di lotta alla povertà e alla
diseguaglianza sociale, avrebbe conferito ulteriore radicamento e profondità tanto alla democrazia,
quanto alla cultura democratica del paese. Il riferimento, qui, è, in altre parole, all’idea che un
ampliamento della cultura democratica possa realizzarsi solo ‘là dove i cittadini portino la
progettualità democratica oltre le frontiere della democrazia politica e all’interno della sfera
domestica, dell’ambito sociale, dei luoghi delle pratiche culturali e dei luoghi di lavoro’
(Chandhoke e Priyadarshi, 2009, p. X). Muovendo dal sottolineare il progressivo allontanamento
da tale concezione della democrazia, e con particolare attenzione all’India in età neoliberista
nonché, ancor più specificamente, ai rinnovati e plurali processi di diseguaglianza sociale che vi si
dispiegano, gli studiosi giungono a individuare un elemento di ‘paradosso’ nella democrazia
indiana, là dove sembra affermarsi una ‘notevole capacità di tollerare il malessere economico e la
discriminazione sulla base di caratteristiche ascrittive, quali la casta e la religione’ (Chandhoke e
Priyadarshi, 2009, p. VIII). Un ulteriore, importante contributo a questa riflessione proviene, a
nostro parere, dalla recente analisi proposta da Sinha (2016) che, muovendo da una prospettiva
gramsciana, individua una cesura nella recente storia politica e sociale indiana, indicando il
momento storico in cui, nell’ambito del progetto egemonico delle classi dominanti indiane
sull’intero tessuto sociale, l’elemento della coercizione ha sostituito quello del consenso. Più
specificamente, abbracciando una prospettiva storica di ampio respiro, Sinha argomenta che, a
partire dal periodo in cui la lotta anticoloniale aveva raggiunto dimensioni di massa, ovvero gli anni
Trenta del Novecento, sin all’avvio e primo consolidamento della progettualità sviluppista, la
borghesia indiana abbia esercitato la propria egemonia sulla società, processo indicato dalla
progressiva – seppur ineguale – incorporazione dei governati nelle strutture di governo. Tuttavia, a
3
Per un’analisi di questo fenomeno con specifico riferimento all’Odisha si rimanda a Adduci (in corso di
pubblicazione).
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fronte della crisi del modello sviluppista emersa dalla metà degli anni Settanta, l’autore individua
nell’imposizione dell’emergenza nazionale, proclamata nel 1975 dall’allora primo ministro Indira
Gandhi, un importante momento di cesura a partire dal quale si può affermare che l’elemento della
coercizione sia prevalso sul consenso quale componente al cuore dell’esercizio dell’egemonia. Tale
momento storico vedeva in effetti l’emergere di ‘nuove’ componenti della borghesia che si
lasciavano alle spalle i valori nehruviani, privilegiando la tensione verso una rapida crescita
economica e rigettando per tanta parte la necessità di consistenti misure atte a mitigarne i costi
sociali e ambientali – e che avrebbero costituito la già richiamata base sociale a sostegno delle
riforme. È qui interessante notare come Sundar (2005) e Lerche (2007) sottolineino, nell’ambito di
analisi incentrate sul lavoro, che l’imposizione dell’emergenza sia altresì coincisa con l’avvio di
politiche tese a disciplinare il mondo del lavoro e a conseguire massimi livelli di flessibilità dello
stesso, che si sarebbero poi consolidate, a partire dai primi anni Novanta, con l’avvio e l’incedere
del processo di riforma in senso neoliberista.
Se il dibattito qui richiamato in alcuni dei suoi termini essenziali circa i nodi critici della
democrazia indiana in età neoliberista costituisce il più ampio contesto all’interno del quale
collocare lo studio di caso sulla privatizzazione de facto del lago Chilika, riteniamo altresì
importante richiamare sin da ora che, come notato da Saad-Filho e Johnston (2005), i diversi
processi di integrazione nell’ordine neoliberista, fra cui quelli di privatizzazione delle risorse
naturali, sono ‘sia espressione, sia arena di conflitti sociali’. Ciò può essere detto anche per il caso
del lago Chilika, la cui privatizzazione de facto ha dato luogo a una mobilitazione politica delle
comunità di pescatori tradizionali, di cui si interrogheranno le più recenti dinamiche. Ciò permetterà
altresì di confrontarsi con l’importante concettualizzazione, introdotta da Chatterjee (2008, 2009) di
‘società politica’, che lo studioso distingue dalla ‘società civile’. Ricordiamo qui brevemente che
l’autore traccia tale distinzione a partire da una precedente riflessione, avviata nell’ambito della
prima fase del progetto intellettuale dei Subaltern Studies, circa le dinamiche dell’arena politica
nazionalista. Tale riflessione suggeriva l’esistenza di una frattura, nella sfera del politico, fra un
ambito organizzato delle élite e un ambito non organizzato dei subalterni, il cui diverso agire
politico si sovrapponeva e intersecava. In linea di continuità con tale riflessione, e guardando
all’India contemporanea, Chatterjee ha recentemente formulato la nozione di ‘società politica’ –
attraverso la quale lo studioso individua e riconosce la specificità dell’agire politico dei subalterni –
in contrapposizione a quella di ‘società civile’, là dove quest’ultima, secondo l’autore, include una
piccola parte di cittadini culturalmente equipaggiati, che si pone in relazione allo Stato e al governo
attraverso la struttura giuridico-costituzionale – e il linguaggio – dei diritti. Al contrario, la società
politica, essenzialmente composta dalla maggioranza delle popolazione rurale e dalla popolazione
povera urbana – che spesso si muove oltre gli ambiti della legalità nella propria lotta per il vivere
quotidiano (si pensi, per esempio, alla vita negli slum sviluppatisi abusivamente) – si relazionerebbe
con lo Stato attraverso negoziazioni instabili, temporanee, finalizzate all’ottenimento di specifici
benefici, talvolta utilizzando la violenza per attrarre l’attenzione su specifici problemi, piuttosto che
attingere al linguaggio dei diritti e chiedere il rispetto di questi da parte dello Stato stesso. In sintesi,
secondo Chatterjee, nell’attuale sfera dell’agire politico in India si assiste a ‘un compromesso in
costante ridefinizione tra i valori normativi della modernità e l’asserzione morale delle richieste
popolari’ (Chatterjee, 2009, p. 41). In dialogo critico con Chatterjee, Sinha (2015) ha mostrato in
un’articolata argomentazione come si possa al contrario affermare che le fasce povere della
popolazione – e coloro che agiscono politicamente in solidarietà con esse – possano esperire la
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negazione dell’applicazione della legge in difesa i propri diritti, in uno scenario politico in cui fasce
subalterne della popolazione mostrano di articolare le proprie istanze attraverso il linguaggio dei
diritti politici e sociali e utilizzano dunque il linguaggio della legge per avanzare le proprie richieste
politiche, di portata trasformativa, allo Stato. Lo studio di caso sul lago Chilika permetterà altresì di
avanzare alcune riflessioni sull’agire politico delle fasce subalterne della popolazione,
problematizzando l’impianto concettuale proposto in questo senso da Chatterjee.
2. Una premessa necessaria: le linee essenziali del processo di privatizzazione del lago
Chilika tra i primi anni Novanta e il 2005
Situato sulla fascia costiera dell’Odisha – stato dell’Unione dotato di ricche riserve di naturali
(forestali, minerarie e idriche) e storicamente caratterizzato da squilibri sociali diffusi e allarmanti
livelli di povertà materiale (NCAER, 2004; M. Panda, 2004; Kanungo, 2004; P. Mishra 2004;
Padhi, 2000; R. K. Panda 2009; B. Mishra 2010; Mohanty 2014) – il lago Chilika è stato, sin dai
primi anni Novanta, teatro di un processo di natura conflittuale intorno a pratiche acquacoltura
intensiva, culminato con la privatizzazione de facto delle sue acque. Tale processo è stato al cuore
di una prima ricerca condotta nel 2005 (Adduci, 2009). Il presente paper si propone di analizzare le
dinamiche di mutamento e/o continuità che hanno caratterizzato il decennio successivo (20052015), al fine di comprendere con maggiore pienezza le implicazioni sociali e politiche di un
processo di privatizzazione de facto che si estende ormai da oltre un ventennio. Tuttavia, prima di
addentrarci al cuore delle più recenti trasformazioni, appare utile ripercorrere brevemente i
principali elementi emersi nella prima fase della ricerca.
Diviene allora importante ricordare che in età sviluppista lo sfruttamento delle acque del lago
Chilika era riservato alla comunità di pescatori tradizionali4 – storicamente afflitta da gravi livelli di
povertà e composta in larghissima maggioranza da schedule castes (o dalit, ex intoccabili) – che
vive sulle sue coste, raggruppata in 137 villaggi. Tramite un sistema cooperativo ramificato, infatti,
ciascun villaggio aveva il diritto di richiedere una licenza rinnovabile per l’esercizio della pesca
tradizionale in acque costiere, in genere adiacenti al villaggio stesso – mentre la parte più profonda
della laguna, anch’essa riservata alla pesca tradizionale, costituiva invece una risorsa riservata alla
comunità nel suo insieme. All’inizio degli anni Novanta, parallelamente all’avvio del processo di
riforma di stampo neoliberista su scala nazionale, il governo dell’Odisha – in termini generali
all’avanguardia, rispetto ad altri stati dell’Unione, nel recepire le nuove direttive in materia di
politica economica e, più specificamente, in materia di privatizzazione delle risorse naturali –
decise di promuovere l’attività di acquacoltura intensiva di gamberi nel lago Chilika. Dopo aver
approvato una legge (1991) che permetteva la concessione di licenze per l’affitto e lo sfruttamento
delle acque del lago a compagnie private, il governo dell’Odisha lanciò un progetto di joint-venture
con una delle principali multinazionali indiane, il gruppo Tata, con lo scopo di avviare su parte della
laguna (600 ettari sulla costa del lago nel distretto di Puri) un’attività intensiva di coltivazione di
gamberi destinati all’esportazione. Tuttavia, tale progetto di privatizzazione de iure di parte delle
acque del lago non vide mai la luce. Esso incontrò infatti una forte opposizione fra il 1991 e il 1992
da parte di un’ampia e composita alleanza all’interno del tessuto sociale dell’Odisha, di cui appare
4
Il termine ‘pescatori tradizionali’ designa coloro che svolgono attività di pesca con reti o imbarcazioni non
meccanizzate.
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utile ripercorrere i termini essenziali. Come emerso nel corso della prima fase di ricerca,
l’opposizione al progetto che coinvolgeva il gruppo Tata era infatti animata, seppur attraverso
modalità diverse, da una pluralità di attori, portatori di istanze che si sarebbero rivelate distanti fra
loro. I pescatori tradizionali, organizzati sindacalmente, esprimevano contrarietà non solo al
progetto in embrione, ma a qualsiasi forma di acquacoltura intensiva nel lago, poiché si sentivano
profondamente minacciati dalla possibilità di perdita occupazionale che ciò avrebbe potuto
provocare – in uno scenario statale e nazionale che non riservava opportunità di occupazione
alternativa dignitosa, il grave timore era infatti quello di scivolare in condizioni di vita ancor più
precarie delle attuali. I pescatori tradizionali, inoltre, esprimevano preoccupazioni legate alla
salvaguardia ecologica del lago Chililka. A fianco dei pescatori tradizionali, si era avuta anche la
mobilitazione di un collettivo studentesco e di un’organizzazione non governativa che ne sosteneva
senza riserve le istanze. Tuttavia, il sostegno nella mobilitazione contro i Tata veniva anche da
componenti sociali diverse. Da un lato, è infatti emerso che le compagnie di esportazione locale di
pesce hanno contribuito finanziariamente a sostenere il movimento. Dall’altro lato, tale contributo è
stato convogliato– non senza aspre discussioni circa l’opportunità di accettarlo e conseguenti
divisioni – attraverso esponenti della burocrazia statale che avevano cominciato ad appoggiare
pubblicamente e ad animare il movimento contro il progetto di joint-venture con il gruppo Tata,
sostenendo che il ritiro di tale specifico progetto costituiva la priorità assoluta, anche rispetto alle
più ampie istanze di opposizione a qualsiasi forma di coltivazione intensiva nella laguna. Abbiamo
suggerito, nella precedente analisi, che tali esponenti della burocrazia locale potessero essere
ritenuti intellettuali organici dello strato sociale dominante in Odisha. Appare altresì importante
richiamare brevemente che la riflessione circa la natura di quest’ultimo – composto essenzialmente
da alti esponenti della burocrazia statale e da esponenti di rilievo dei partiti politici storicamente
succedutisi alla guida dello stato – ha portato a indicarne il carattere neo-rentier. Come sopra
ricordato, l’Odisha è uno stato ricco di risorse naturali, storicamente caratterizzato da scarsi livelli
di industrializzazione e bassi livelli di produttività in qualsiasi settore, ad eccezione di quello
minerario. Muovendo da un importante studio di Mohanty (1990), nelle precedenti analisi (Adduci,
2009; Adduci 2012) si è più specificamente suggerito che lo strato sociale localmente dominante sin
dall’indipendenza si sia mostrato capace di acquisire il controllo sulle materie prime di cui l’Odisha
è ricca, attraverso il controllo dell’apparato statale. Da tale posizione di esercizio di controllo sulle
risorse naturali, da un lato lo strato sociale dominante si è rivelato capace di rispondere alle
esigenze di accesso alle materie prime a basso costo espresse dal mercato indiano e
successivamente, con l’avvio del processo di liberalizzazione, dal mercato internazionale; dall’altro
lato, tollerando l’esistenza attività estrattive illegali in cambio di flussi illeciti di denaro, tale strato
sociale è stato in grado di garantirsi l’accesso a un costante flusso di rendita, e di riprodurre così il
proprio potere. Tornando dunque allo specifico del lago Chilika, appare chiaro che gli interessi
espressi da esportatori ed esponenti dell’alta burocrazia locale potevano di fatto divergere da quelli
delle popolazioni dedite alla pesca tradizionale; l’acquacoltura intensiva di gamberi da esportazione
era infatti un’attività che, una volta allontanato il gruppo Tata, gli esportatori locali avrebbero
potuto controllare con profitto, guadagnandosi il silenzio-assenso dello strato dominante a livello
statale.
Se tale profonda divergenza di interessi sarebbe divenuta drammaticamente evidente in un secondo
momento, occorre qui ricordare che nel 1993, in seguito alle pressioni del movimento nel suo
insieme l’Alta Corte dell’Odisha avviò un’inchiesta, che si concluse con la proibizione di qualsiasi
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attività di coltivazione intensiva di crostacei nella laguna. Il gruppo Tata si ritirò dal progetto di
joint-venture, che venne ritirato. Tuttavia, ciò non segnò la fine delle attività di coltivazione
intensive di gamberi nel lago. Al contrario, ciò segnò l’inizio di una crescente attività di
coltivazione intensiva illegale, attraverso la privatizzazione de facto di crescenti parti del lago
Chilika, le cui acque vennero vieppiù circondate da enclosures fatte di canne di bambù e reti da
pesca sottili, al cui interno venivano praticate le coltivazioni. Tale sistema di coltivazione era
essenzialmente controllato da esportatori locali, e tollerato dalla classe dominante dello stato, in
cambio di corresponsione di flussi illeciti di denaro – che abbiamo concettualizzato come flussi di
rendita di cui essi potevano illegalmente appropriarsi grazie alla posizione di controllo delle risorse
naturali dello stato. D’altra parte, tale sistema di enclosures, in continua espansione, costituiva un
serio impedimento alle attività di pesca tradizionali, poiché creava una barriera che si frapponeva al
passaggio delle barche all’interno del lago. Ciò ha segnato l’inizio di una seconda fase del conflitto,
che, con toni acuti, sin dal 1993 ha cominciato a dispiegarsi all’interno del tessuto sociale
dell’Odisha, in cui la precedente alleanza sociale era dunque ormai del tutto dissolta. Volgeremo
meglio l’attenzione all’economia politica delle coltivazioni illegali nel prossimo paragrafo, dove,
attingendo alla più recente attività di lavoro sul campo, tracceremo le principali trasformazioni,
nonché linee di continuità, che si sono dispiegate da metà anni Novanta sino ad oggi, con attenzione
alle loro implicazioni socio-economiche. Qui, vorremmo ancora sottolineare che, nel periodo
intercorso fra il 1993 e il 2005, la mobilitazione politica dei pescatori tradizionali, attraverso la loro
organizzazione sindacale, era orientata al conseguire il rispetto della legalità, attraverso la richiesta,
rivolta allo stato dell’Odisha, di intervenire per far cessare le coltivazioni illegali. A tale istanza, si
affiancava una progettualità politica imperniata sulla salvaguardia ecologica del lago e su una
rivitalizzazione del sistema cooperativo finalizzata all’affermazione di condizioni di lavoro
dignitose e, in termini più generali, al superamento delle diffuse condizioni di povertà. Tale
progettualità muoveva da una radicale mesa in discussione di qualsiasi progetto di privatizzazione
delle risorse lacustri, affermando la necessità di politiche pubbliche capaci di coniugare sviluppo,
salvaguardia dell’ambiente ed equità sociale. Nella seconda metà degli anni Novanta, le
mobilitazioni dei pescatori tradizionali hanno incontrato una risposta repressiva da parte dello stato
dell’Odisha che non si era conosciuta nella prima fase del movimento, mentre le loro istanze, a
partire da quella riguardante il rispetto della legalità, venivano apertamente ignorate. Se sino a metà
anni Duemila il movimento animato dai pescatori appariva dotato da una importante capacità di
mobilitazione e di progettualità, in anni recenti esso sembra invece mostrare notevoli difficoltà. Ciò
costituirà materia di una riflessione che muoverà dall’economia politica delle pratiche di
acquacoltura illegale e dalle sue implicazioni sociali sulle comunità di pescatori tradizionali.
3. Il protrarsi del processo di privatizzazione de facto delle acque del lago Chilika (20052015): quali elementi di riflessione sul ‘paradosso’ della democrazia indiana in età
neoliberista e sull’agire politico dei subalterni?5
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La ricostruzione delle più recenti dinamiche dispiegatesi intorno all’attività di acquacoltura nel lago Chilika è frutto di
un periodo di ricerca sul campo di quattro mesi compiuto fra il 2014 e il 2015, nel corso del quale si sono svolte
interviste in profondità a leader del sindacato di pescatori tradizionali, burocrati locali, esportatori di pesce, giornalisti,
accademici, attivisti dei diritti umani, esponenti di organizzazioni non governative, leader di partiti politici, un usuraio,
mediatori informali dei processi di compravendita dei terreni ad uso non agricolo, nonché focus groups con uomini e
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Nel corso del più recente lavoro sul campo, è apparso immediatamente chiaro che durante gli ultimi
dieci anni l’acquacoltura illegale è stata continuamente e ininterrottamente praticata, nonostante la
continua domanda di rispetto della legalità avanzata dal sindacato dei pescatori. Ciò ha fatto sì che
lo spettro del displacement lavorativo divenisse una drammatica realtà per tanta parte della
comunità di pescatori tradizionali, data la grave difficoltà ad accedere alle acque del lago dovuta al
fiorire delle enclosures. Vedremo meglio le implicazioni di tutto ciò sulla vita e sulla capacità di
mobilitazione politica delle comunità di pescatori. Sin da ora, tuttavia, vorremmo sottolineare che il
nesso tra gli esportatori locali e lo strato sociale dominante (neo-rentier) ha continuato a mostrarsi
solido, mentre si sono verificate alcune trasformazioni nell’utilizzo del flusso di ‘rendita’ da parte
dello strato sociale dominante. Se infatti in passato il principale utilizzo era legato ad attività (legali
e illegali) a sostegno di carriere politiche finalizzate a ottenere posizioni di rilievo all’interno dello
stato dell’Odisha, e un secondo uso consisteva in investimenti di natura finanziaria in India e
all’estero, ad oggi emerge altresì una propensione verso l’acquisto di terreni da immettere nel
mercato immobiliare in specie nelle aree di Bhubaneswar, Puri, Cuttack (in uno scenario statale e
nazionale caratterizzato da crescenti conflitti sulla terra utilizzata per scopi non agricoli, nonché
dall’emergere di bolle speculative nel mercato immobiliare stesso).
Il controllo delle coltivazioni continua per tanta parte a essere esercitato dagli esportatori locali, in
modalità (descritte qui di seguito e schematizzate nella Figura 1) che si sono rivelate sempre più
mediate nel corso del tempo, in modo tale da rendere sempre meno visibile il coinvolgimento delle
compagnie di esportazione in tali attività. Questa tendenza emergeva già nei primi anni Duemila, e
si è ad oggi mostrata più marcata. Appare dunque importante ricordare che nell’iniziale fase di
avvio delle attività di acquacoltura illegale le compagnie di esportazione potevano inviare presso i
villaggi circostanti il lago Chilika i loro agenti formali perché si ponessero direttamente in contatto
a) con un agente informale (generalmente coinvolto in attività di commercio locale di pesce) in
grado di affermare la propria presenza all’interno dei singoli villaggi, incaricandolo di gestire
materialmente le coltivazioni, il che comportava altresì la gestione della violenza dispiegata a
protezione di un’attività illegale; oppure b) con un personaggio politico della zona lacustre, non
ancora affermatosi a livello statale, che provvedesse a contattare l’agente informale a livello di
villaggio incaricandolo di procedere come da modalità a. Tuttavia, già nei primi anni Duemila si
assisteva all’emergere e al consolidarsi di una modalità diversa, per cui c) la compagnia ritirava
dalla scena i propri agenti formali, ma contattava un agente informale a livello di distretto, perché
questi prendesse contatti con un agente informale a livello di villaggio. Se tali modalità implicavano
comunque un utilizzo non indifferente della violenza a livello di villaggio al fine di contrastare le
proteste dei pescatori tradizionali, a inizio anni Duemila si assisteva al profilarsi di una nuova
modalità che d) prevedeva il coinvolgimento delle cooperative di villaggio; tuttavia si trattava di
una pratica appena nascente, dai contorni non ancora del tutto profilati. La rivisitazione del campo
ha fatto emergere che, ad oggi, tale modalità è molto più diffusa che in passato, ed è dunque
apparso importante comprendere i termini reali del ‘coinvolgimento’ delle cooperative di villaggio.
Prima di addentrarci in tale realtà, vogliamo tuttavia sottolineare che un’ulteriore pratica di
coltivazione emersa nel coso degli ultimi dieci anni implica il subaffitto delle acque assegnate alle
cooperative di villaggio ad agenti locali, intermediari degli esportatori. Sarà più agevole
donne della comunità di pescatori tradizionali del lago Chilika che svolgono attività di lavoro a giornata nel settore
delle costruzioni o in agricoltura.
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comprendere le ragioni della diffusione di tale pratica una volta analizzata la modalità di
coltivazione d, che, come poco sopra sottolineato, vorrebbe il coinvolgimento delle cooperative di
villaggio – e dunque una maggiore acquiescenza da parte dei pescatori tradizionali verso la pratica
di coltivazione intensiva di gamberi.
Figura 1:
Neo-renter class - Local exporters - Foreign markets
(class of capital)
--------------------------------↓--------------------------------(a)
(b)
(c)
(d)
Formal agent of
Formal agent of Informal inter- Informal-inter
export company export company mediary
mediary
(sub-district)
(town or sub-district)
↓
↓
↓
↓
Informal agent,
Local politician
Informal inter- Informal interIntermediary
(not yet established
medary
mediary
(village)
at a state level)
(village)
(village)
↓
↓
Informal agent(village)
Cooperative society
Pur tenendo a mente che ogni schematizzazione, per quanto necessaria ad analizzare e comprendere
i processi oggetto di analisi, comporta alcune limitazioni in specie a fronte di realtà mutevoli e
complesse, possiamo notare che è stato possibile individuare due principali – e differenti – modalità
di coinvolgimento delle cooperative di villaggio (modalità d):
A. Una possibile modalità consiste nell’estensione del controllo delle pratiche di acquacoltura a una
sostanziale minoranza di unità familiari all’interno del singolo villaggio, che può includere i leader
delle cooperative stesse. Talvolta tale modalità può costituire un tentativo di coinvolgimento dei
leader del movimento contro l’acquacoltura che, in casi estremamente limitati, ha avuto successo.
Nell’insieme, tale modalità non differisce sostanzialmente dalla modalità c, se non per il fatto che la
pratica di intermediazione per conto dell’esportatore locale – che si assume per intero i costi
dell’attività di acquacoltura, compresi gli eventuali costi legati a un eventuale esercizio della
violenza a protezione delle enclosures illegali – non viene svolta da un singolo agente, ma da un
gruppo all’interno del villaggio. Gli incontri di villaggio organizzati per discutere di tale attività
coinvolgono solo questo gruppo ristretto, che tuttavia può tentare di mitigare la conflittualità interna
al villaggio stesso coprendo i costi di alcune attività, fra cui per esempio i festival locali – anche se
la minaccia del riscorso alla violenza per tutelare le coltivazioni illegali continua a essere presente.
B. Una seconda possibile modalità consiste nell’effettivo coinvolgimento di un numero consistente
di unità familiari del villaggio che, tuttavia, differentemente dalla modalità A, non hanno alcun
reale controllo sulle pratiche di acquacoltura, per intraprendere le quali si indebitano. Ciò preclude
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loro la possibilità di accedere a qualsiasi beneficio significativo e, nei casi più drammatici, le
condizioni di indebitamento possono peggiorare. In effetti, tale modalità permette agli esportatori e
ai loro intermediari di schiacciare i costi delle possibili perdite del raccolto di gamberi sui pescatori
tradizionali, nonché di erigere un ulteriore schermo di fronte al loro reale coinvolgimento in questa
attività. In questo caso, la gestione della coltivazione avviene attraverso un agente informale a
livello di distretto che mantiene importanti legami con il proprio villaggio di origine. Dopo aver
ottenuto il necessario flusso di credito (informale) da parte della compagnia di esportazione, questi
provvederà a contattare il leader del villaggio (che può essere il leader della cooperativa, oppure
una persona politicamente e socialmente influente nel villaggio), offrendo un credito per avviare
attività di acquacoltura all’interno del villaggio stesso, in cambio dello stretto controllo della
commercializzazione di tutto il raccolto (e dunque del controllo dei prezzi da corrispondere ai
coltivatori). Il leader contattato, potrà estendere, attraverso un meeting pubblico, la proposta a tutto
il villaggio. Consapevoli dei rischi inerenti alla possibile perdita del raccolto e/o della propria
incapacità di sostenere una pesante condizione di indebitamento, le famiglie più povere potranno
preferire di non essere coinvolte in tale pratica. Altre unità familiari potranno invece accettare, nella
speranza di poter migliorare la loro condizione lavorativa ed economica, in ogni caso deteriorata dal
generale fiorire di pratiche illegali di acquacoltura nel lago nel corso di ormai un ventennio. Ciò
implicherà l’indebitamento con l’agente che li ha contattati e l’assunzione dei rischi inerenti a una
possibile perdita del raccolto. In caso di perdita del raccolto, infatti, esse non saranno in grado di
ripagare il debito contratto, il cui ammontare sarà dedotto dal valore del raccolto dell’anno
successivo. In taluni casi, le perdite si sono rivelate insopportabili per la maggioranza delle famiglie
coinvolte, e il villaggio non ha avuto altra scelta se non quella di subaffittare le acque del villaggio a
bassissimo costo agli agenti degli esportatori, perdendone totalmente il controllo.
In taluni casi, alcune famiglie possono essere coinvolte con la stessa modalità in pratiche di
acquacoltura effettuate nella parte più profonda del lago, che costituisce in genere una risorsa
comune di tutta la comunità lacustre. Non diversamente dalla quanto appena richiamato, anche
queste famiglie possono soccombere all’indebitamento. Se ciò non accade, è possibile che tali
famiglie vedano lievi miglioramenti, o evitino drammatici deterioramenti, delle loro condizioni di
vita. Per esempio, nel caso in cui non vi siano perdite del raccolto, tali famiglie potranno evitare il
destino ormai comune a tanta parte delle unità familiari dei pescatori, vale a dire vedere i loro
membri, uomini e donne, spostarsi quotidianamente nei villaggi circostanti dediti principalmente
all’agricoltura, o nelle città, alla ricerca di lavoro a giornata nei campi o nelle costruzioni. Tuttavia,
l’evitare di scivolare in tali condizioni comporta comunque l’accettazione di una costante
condizione di indebitamento con l’agente delle compagnie di esportazione.
L’analisi della più recente modalità di coltivazione intensiva ha fatto dunque emergere una ragione
significativa dell’altrettanto recente diffusione delle pratiche di subaffitto delle acque del lago da
parte dei singoli villaggi. Non dobbiamo tuttavia dimenticare che la caduta in una grave condizione
di indebitamento di molteplici famiglie non è l’unica ragione per cui il villaggio può decidere di
subaffittare a basso costo le acque attribuite alla sua cooperativa – e per le quali la cooperativa di
villaggio continua comunque a parare un affitto allo stato dell’Odisha. Una diversa ragione può
risiedere nella difficoltà di soddisfare alcuni bisogni primari, relativi per esempio all’abitazione o
alla salute, data la prolungata difficoltà a praticare l’attività di pesca tradizionale in acque rese
vieppiù inaccessibili dalle enclosures e le bassissime retribuzioni del lavoro a giornata in altre
attività (punto sul quale ritorneremo a breve); in questi casi, l’opzione del subaffitto appare dettata
11
da necessità economiche gravi e impellenti. Tuttavia, un’ulteriore ragione si è rintracciata nella
sempre presente minaccia della violenza. Gli abitanti dei villaggi, infatti, quand’anche volessero
resistere alle richieste di subaffitto da parte degli agenti delle compagnie di esportazione, possono
trovare estremamente difficile praticare tale opzione. Ciò perché appare a tutti chiaro che opporre
un rifiuto potrebbe comportare un intervento violento da parte di tali agenti, che riuscirebbero
comunque ad appropriarsi delle acque desiderate – ricorrendo cioè a una modalità che era diffusa
nei primi anni Novanta. A fronte di tale consapevolezza, e in uno scenario di tolleranza diffusa delle
pratiche illegali di acquacoltura da parte delle autorità dell’Odisha, in alcuni villaggi la maggioranza
dei pescatori tradizionali sente di non avere scelta alcuna, se non acconsentire al subaffitto a
bassissimo costo. In questo scenario, è possibile che un numero ristretto di abitanti influenti del
villaggio tratti direttamente, nelle cittadine circostanti, l’ammontare del subaffitto con gli agenti
della compagnia, traendone un vantaggio personale.
Lo scenario che ne emerge è dunque quello in cui, da un lato, le compagnie esportatrici sono state in
grado di distanziare sempre più la loro immagine dalle pratiche di acquacoltura illegale di gamberi,
pur continuando a mantenerne il controllo, nonché a trasformare il conflitto inerente a tali pratiche
come un problema essenzialmente interno al villaggio, mentre i costi delle possibili perdite
economiche legate a questa attività sono stati vieppiù schiacciati sui pescatori tradizionali.
Dall’altro lato, mentre una nettissima minoranza di pescatori tradizionali è stata in grado di trarre
alcuni benefici dalla gestione delle pratiche di acquacoltura (con una crescente differenziazione
sociale all’interno dei villaggi di pescatori, prima tendenzialmente più omogenei), la minaccia di
displacement occupazionale dovuta a tali pratiche è divenuta realtà per la maggioranza della
comunità.
In tale scenario, il movimento contro l’acquacoltura intensiva guidato dal sindacato dei pescatori
tradizionali si è rivelato indebolito, rispetto alla vitalità del decennio precedente. Ciò sia in termini
di capacità di mobilitazione (il numero delle manifestazioni pubbliche è calato, così come, a fronte
della violenza delle forze dell’ordine, i pescatori tradizionali hanno rinunciato a operazioni di
distruzione delle enclosures illegali), sia di progettualità politica, ovvero di formulazione e difesa di
proposte di politiche pubbliche da realizzarsi per la salvaguardia delle condizioni di vita della
popolazione dedita alla esca tradizionale e dell’ecologia del lago. Tuttavia, prima di riflettere sulle
implicazioni di tutto ciò rispetto a quello che è stato più su individuato come ‘il paradosso’ della
democrazia indiana in età neoliberista, nonché sull’agire politico dei subalterni, vorremmo
soffermarci sulle condizioni di vita e di lavoro dei pescatori tradizionali che devono vieppiù
ricercare una possibilità di sopravvivenza nel lavoro a giornata in agricoltura o nelle costruzioni.
In questo senso, è importante richiamare un importante elemento dell’attuale parabola di crescita
indiana, cui si è fatto riferimento nella prima parte del paper, vale a dire il fenomeno della jobless
growth, con le sue implicazioni in termini di difficoltà per la maggior parte della popolazione di
accedere ai benefici della crescita aggregata. Come già richiamato, tale fenomeno è ancor più grave
in uno stato come l’Odisha, caratterizzato da profondi squilibri sociali legati alla presenza di
un’élite politica dominante neo-rentier, che nel processo di riforma dell’economia ha trovato nuovi
spazi di riproduzione sociale. In questo scenario, i pescatori tradizionali costretti a cercare diverse
possibilità di sopravvivenza (escludendo le migrazioni di lungo periodo in altri stati nel settore delle
costruzioni) hanno accesso soltanto ad attività informali per periodi di tempo limitato, a condizioni
salariali estremamente svantaggiose – il che significa, inter alia, che, pur non riuscendo più a
sopravvivere di pesca nel loro villaggio, essi non riescono nemmeno a trovare opportunità di
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sopravvivenza dignitose al di fuori di esso, senza altra possibilità che esperire le condizioni che lo
studioso Jan Breman (1996) ha descritto come ‘lavoro errante’, costantemente esposto a gravi
privazioni di natura materiale.
Le traiettorie di sopravvivenza della popolazione di pescatori tradizionali esposte al displacement
occupazionale includono la ricerca di qualsiasi tipo di lavoro disponibile, in agricoltura, nelle
costruzioni in aree urbani raggiungibili dal lago Chilika, fra cui la capitale dell’Odisha,
Bhubaneswar, e in alcuni casi in piccole fabbriche di lavorazione di frutta secca coltivata
localmente. In molti casi, la necessità di sopravvivenza rende necessario combinare l’insieme di
queste occupazioni in diversi periodi dell’anno e in ogni caso, in ciascuno di questi periodi non vi è
certezza di conseguire il lavoro giornaliero che si cerca. In specie nel momento in cui, terminata la
stagione del raccolto, uomini e donne cercano lavoro in città (Bhubaneswar, Puri, Cuttack) nel
settore delle costruzioni, ciò può comportare spostamenti dal costo non irrilevante, senza infine
riuscire ad essere assunti dagli intermediari di manodopera presenti in punti specifici delle città. In
altri casi, può accadere di essere assunti due o tre giorni consecutivi e, non avendo alcuna
sistemazione abitativa disponibile, dormire nella stazione delle città, talvolta accompagnati dalla
prole. Per le donne, il lavoro di produzione si accompagna a quello di riproduzione sociale,
nell’ambito di una giornata lavorativa che può iniziare prima dell’alba e terminare alle 22.00 o alle
23.00. In termini generali, le retribuzioni per il lavoro agricolo o quello nelle costruzioni sono al di
sotto dei minimi salariali, e in alcuni casi, in specie nel lavoro agricolo, può rivelarsi difficile
ottenere a fine giornata il salario pattuito. Nonostante la ricerca di qualsiasi attività lavorativa
disponibile, uomini e donne hanno costantemente sottolineato la difficoltà non solo di provvedere ai
bisogni fondamentali delle loro famiglie, ma anche di liberarsi delle spirali di debito contratto con
gli usurai locali. In termini generali, è emersa una spiccata coscienza delle ragioni del processo di
pauperizzazione cui uomini e donne appartenenti ai villaggi di pescatori tradizionali del lago
Chilika sono oggi di fronte: non solo questi individuavano nella costante pratica dell’acquacoltura
intensiva e illegale le ragioni delle loro crescenti difficoltà materiali e frammentazione dello loro
condizioni lavorative, ma molte e molti riportano di aver aderito alle mobilitazioni contro
l’acquacoltura organizzate dal sindacato, segnalando anche, tuttavia, la costante risposta repressiva
ottenuta dalle autorità statali, nonché l’amplissima tolleranza di queste ultime verso il fenomeno
delle enclosures illegali.
Nell’insieme, le dinamiche dispiegatesi intorno al processo di privatizzazione de facto del lago
Chilika rimandano a molteplici elementi di riflessione. Non è irrilevante, ai fini del nostro discorso,
notare come tale processo di privatizzazione de facto abbia contribuito a creare spazi di
riproduzione sociale per uno strato locale dominante che si distingue per il proprio carattere rentier,
contribuendo di fatto a rafforzarlo, mentre, allo stesso tempo, gli strati sociali più vulnerabili
abbiano per tanta parte conosciuto un’ulteriore frammentazione e precarizzazione delle loro
condizioni di vita e di lavoro. Riprendendo la riflessione più generale circa le implicazioni della
progettualità neoliberista sulla democrazia indiana che individuava un nodo problematico nella
ristretta – seppur socialmente potente – base sociale che ha sostenuto il progetto di riforma stesso, il
caso del lago Chilika indica altresì la dinamicità di tale processo, là dove, nello specifico contesto
studiato, il dispiegarsi di un processo di privatizzazione di una risorsa naturale permette un ulteriore
rafforzamento delle élite dominanti a livello locale. D’altra parte, la nuova traiettoria di
vulnerabilità cui i pescatori tradizionali sono stati esposti rimanda alla riflessione su quello che è
stato individuato come il ‘paradosso’ della democrazia indiana in età neoliberista, per quanto attiene
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ai limiti di una concezione della democrazia in grado di tollerare un’ampia diffusione di malessere
sociale, ma anche la realizzazione di processi di privatizzazione delle risorse che sembrano
ingenerare nuove forme di tale malessere.
Appare chiaro, nel caso del lago Chilika, che le istituzioni statali hanno giocato un ruolo
decisamente rilevante nel permettere il dispiegarsi di questo insieme di dinamiche. Lo stato
dell’Odisha ha mostrato un continuo rifiuto nel garantire il rispetto della legalità, esponendo gli
strati più vulnerabili della popolazione lacustre da un alto alla violenza – o alla minaccia della
violenza – che ha costantemente accompagnato nel corso dell’ultimo ventennio il diffondersi delle
pratiche illegali di acquacoltura intensiva e, dall’altro, al processo di espulsione dalle attività di
pesca tradizionale e, conseguentemente, a condizioni di grave incertezza nella ricerca di nuove fonti
di sopravvivenza. Nell’insieme, nonostante nel corso degli ultimi dieci anni vi siano stati, come
abbiamo sopra indicato, alcuni tentativi per ottenere un certo grado di consenso all’interno di una
minoranza della comunità di pescatori tradizionali sulle attività di coltivazione intensiva nelle acque
del lago Chilika – elemento che ha certamente creato nuove divisioni all’interno della comunità
stessa – appare altresì chiaro, dagli elementi emersi nel corso della rivisitazione del campo, che la
coercizione esercitata dagli statti sociali dominanti in Odisha costituisce un elemento centrale nel
continuo dispiegarsi del processo di privatizzazione delle acque lacustri.
Similmente a quanto mostrato da Sinha in un diverso contesto (2015), le popolazioni di pescatori
tradizionali nel lago Chilika hanno esperito la negazione della richiesta di applicazione della legge
in difesa dei propri diritti, richiesta che nel corso dell’ultimo ventennio queste hanno articolato
attraverso il loro sindacato. Ciò contribuisce a problematizzare la già richiamata teorizzazione di
Chatterjee sulla ‘società politica’ e la specifica modalità dell’agire politico dei gruppi subaltrni. Nel
caso del lago Chilika, infatti, mentre i pescatori tradizionali hanno articolato le proprie istanze
attraverso il linguaggio dei diritti, sono stati i gruppi sociali localmente dominanti ad opporre loro,
in differenti modalità, la negazione, come già sottolineato da Sinha (2015) in un diverso contesto,
dell’universalismo della legge. Ciò ha contribuito a indebolire il movimento dei pescatori
tradizionali anche perché il continuo dispiegarsi del processo di privatizzazione delle acque del lago
Chilika ha causato, come abbiamo visto, importanti trasformazioni materiali nelle vite degli stessi,
ponendoli di fronte a nuove difficoltà in nuovi, frammentati contesti lavorativi, che rendono più
problematica la mobilitazione politica in difesa della loro attività di sopravvivenza tradizionale.
Questo sembra porre i pescatori tradizionali di fronte alla sfida politica di articolare le loro istanze
con quelle degli altri soggetti che sono esposti ai costi delle politiche di riforma, al fine di
concorrere a quel sostanziale ampliamento della cultura democratica del paese cui Chandhoke e
Priyadarshi (2009) fanno riferimento.
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