Il gusto del paradosso: a proposito di Vivaldiana di Gian Francesco

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Cesare Fertonani
IL GUSTO DEL PARADOSSO: A PROPOSITO DI VIVALDIANA
DI GIAN FRANCESCO MALIPIERO
A Emilio Sala, per aver a lungo discusso insieme di Vivaldi e di Malipiero
UNA TRASCRIZIONE-ELABORAZIONE: GENESI E CONTESTO
Come si sa, il rapporto di Gian Francesco Malipiero con la tradizione musicale italiana e nella fattispecie con la figura e l’opera di Antonio Vivaldi è stato
oggetto di studi approfonditi e spesso assai acuti, ai quali senz’altro si rimanda
per un inquadramento generale della questione.1 Nella lunga, intensa relazione
tra Malipiero e la musica del Prete rosso compare tuttavia anche l’omaggio compositivo di Vivaldiana per orchestra (1952): un lavoro sinora mai affrontato o
discusso nei dettagli perché in genere considerato soltanto uno di quegli «amabili ma poco importanti omaggi [di Malipiero] a compositori italiani di altri
tempi»2 o forse invece proprio perché conferma la complessità di una relazione
in cui gli elementi di indubbio rilievo storico-culturale e fascino artistico s’intersecano con aspetti ambigui, controversi o addirittura paradossali.
Per comprendere appieno tutti questi aspetti ed elementi occorre anzitutto
mettere bene a fuoco l’identità di Vivaldiana. Senza dubbio il lavoro rientra nel
novero di quelle «elaborazioni» o interpretazioni di musiche del passato («elaborazioni di musica antica» le definisce lo stesso Malipiero nel catalogo annotato delle proprie opere), contigue alle «edizioni» vere e proprie e che da queste si
distinguono di fatto per la declinazione ma non per l’essenza dell’atteggiamento nei confronti dei testi musicali in questione. Così come nelle «edizioni»,
Cesare Fertonani, Corso di Porta Vigentina 34, 20122 Milano, Italia.
e-mail: [email protected]
1
Si vedano in particolare GUGLIELMO BARBLAN, Malipiero trascrittore, in Omaggio a Malipiero, a
cura di Mario Messinis, Firenze, Olschki, 1977, pp. 21-28; LUIGI PESTALOZZA, Malipiero nella cultura
italiana del Novecento, ivi, pp. 29-43; FRANCESCO DEGRADA, Malipiero e la tradizione musicale italiana, ivi,
pp. 131-152; NINO PIRROTTA, Malipiero e il filo d’Arianna, in Malipiero. Scrittura e critica, a cura di Maria
Teresa Muraro, Firenze, Olschki, 1984, pp. 5-19; FEDELE D’AMICO, Il pessimismo di Malipiero, in Gian
Francesco Malipiero e le nuove forme della musica europea, a cura di Luigi Pestalozza, Milano, Unicopli,
1984, pp. 144-149. Per un quadro d’insieme del rapporto tra la «generazione dell’Ottanta» e la
tradizione musicale italiana si vedano poi FRANCESCO DEGRADA, La «Generazione dell’80» e il mito della
musica italiana, in Musica italiana nel primo Novecento. La «Generazione dell’Ottanta», a cura di Fiamma
Nicolodi, Firenze, Olschki, 1981, pp. 83-96, e FIAMMA NICOLODI, Gusti e tendenze del Novecento musicale
in Italia, Firenze, Sansoni, 1982, pp. 67-204.
2
JOHN C. G. WATERHOUSE, La musica di Gian Francesco Malipiero, trad. di Marcella Barzetti, Torino,
Nuova Eri, 1990, p. 303.
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Malipiero rispetta nelle «elaborazioni» la sostanza e la struttura degli originali,
limitandosi a modificarne la veste timbrica3 e attuando operazioni di montaggio
(o rimontaggio), sicché si potrebbe ricorrere in linea di principio – e in modo
particolarmente appropriato per Vivaldiana – anche al concetto di trascrizione.
Questo delle «elaborazioni di musica antica» è del resto un filone che attraversa
quasi tutta l’esperienza compositiva di Malipiero (a iniziare dagli anni Venti) e
si rivela parallelo, benché naturalmente non privo di canali di comunicazione e
comuni punti di snodo, rispetto a quello delle «edizioni»: dalla Cimarosiana
(1921), commissionatagli da Leonid Massine, sino alla tarda Gabrieliana (1971),
passando per le «interpretazioni sinfoniche per orchestra» dei Madrigali dal settimo libro di Monteverdi (1931), le varie trascrizioni da Corelli e Domenico
Scarlatti (1927), Veracini e Tartini (1927), Frescobaldi, Stradella e Giovanni
Battista Bassani (1930) e, appunto, Vivaldiana.
Ora, è chiaro che, cronologia alla mano, si potrebbe dire che un conto è proporre nel 1921 una trascrizione di pezzi per tastiera di Cimarosa per un balletto4
– Les femmes de bonne humeur (1917) di Vincenzo Tommasini da Scarlatti o
Pulcinella (1920) di Stravinskij risalgono agli stessi anni – oppure lavorare nel
1931 sui madrigali di Monteverdi per darne delle «interpretazioni sinfoniche per
orchestra»; altra cosa è rielaborare Vivaldi negli anni Cinquanta e Giovanni
Gabrieli negli anni Settanta, specie se si tratta di una rielaborazione per così dire
rispettosa, non straniata né straniante e che comunque non comporta un intervento pesante, invasivo sulla sostanza e sulla struttura musicale degli originali.
O almeno, questo è ciò che in generale parrebbe di dover pensare dalla prospettiva odierna e se non si avesse a che fare con un artista cui sono ormai da tempo
riconosciuti un radicale pessimismo,5 un rapporto con il passato che è istintivo,
sentimentale e medianico, una profonda estraneità e anzi un vero e proprio
orrore per il senso non soltanto di progresso ma di svolgimento stesso, logico e
razionale, della storia. Da questo punto di vista, nella poetica e nella prassi del
musicista, non sorprende che non vi sia alcuna dualità, alcuno scarto tra l’atteggiamento che Malipiero poteva avere nel confezionare La Cimarosiana nel 1921 e
Gabrieliana giusto mezzo secolo dopo.
FRANCESCO DEGRADA, Malipiero e la tradizione musicale italiana, cit., pp. 145-146.
Ecco quanto si legge a proposito della Cimarosiana nel Catalogo delle opere di Gian Francesco
Malipiero, in Omaggio a Malipiero, cit., p. 185: «Quando il ballerino Massine si staccò dalla compagnia
di Diaghilew, mi portò alcuni pezzi per pianoforte di Domenico Cimarosa e mi chiese di
istrumentarli, cosa che feci e che chiamai La Cimarosiana (il titolo in ana data dunque dal 1921. Quanti
ne son venuti poi con la medesima desinenza!). Seppi poi che il Diaghilew accusava il Massine di
avergli carpito il manoscritto di Cimarosa. La conseguenza fu questa: il Diaghilew si impossessò
della mia partitura e, conservando persino il titolo La Cimarosiana la eseguì in tutto il mondo,
centinaia di volte, senza fare il mio nome, ecc. ecc.».
5
Sul pessimismo di Malipiero si vedano in particolare MASSIMO MILA, Modernità e antimodernismo in Malipiero, in Omaggio a Malipiero, cit., pp. 15-20; LUIGI PESTALOZZA, Malipiero nella cultura
italiana del Novecento, cit.; ID, Malipiero e la forma, in Gian Francesco Malipiero e le nuove forme della
musica europea, cit., pp. 15-22; PIERO SANTI, La critica malipieriana, ivi, pp. 31-46; FEDELE D’AMICO, Il
pessimismo di Malipiero, cit.
3
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Ciononostante, di tutte le «elaborazioni di musica antica», Vivaldiana rappresenta forse, proprio per la sua datazione e collocazione storico-culturale, il caso
– almeno in apparenza – più sorprendente e paradossale. Il fatto è che, come si
sa, nel 1947 Malipiero assunse la direzione artistica dell’edizione di tutte le
opere strumentali del Prete rosso, realizzata dall’Istituto Italiano Antonio
Vivaldi in collaborazione con Ricordi e conclusasi nel 1972, dunque proprio un
anno prima della morte dello stesso Malipiero. L’impresa si proponeva di
approntare delle edizioni, destinate in prima istanza all’esecuzione, che fossero
basate su princìpi di maggiore oggettività – e dunque di maggior aderenza alle
intenzioni dell’autore – rispetto alle edizioni pubblicate prima del punto di svolta emblematicamente segnato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale,6
segnando così una discontinuità con il recente passato che d’altro canto non
coincideva ancora con l’affermarsi dei presupposti per un’edizione critica ispirata ad autentici criteri filologici e storico-critici.7 Al di là di quelli che oggi appaiono i limiti e difetti dell’impresa, in larga misura riconducibili alla situazione
della musicologia italiana nell’immediato dopoguerra, nell’intento di Malipiero
e di quanti vi collaborarono (su tutti Antonio Fanna e Angelo Ephrikian, i fondatori dell’Istituto Italiano Antonio Vivaldi) l’obiettivo era comunque mirato
alla pubblicazione di edizioni finalmente affidabili di tutte le opere strumentali
integralmente pervenute del Prete rosso (insieme agli ultimi volumi furono inoltre pubblicati com’è noto anche tredici lavori di musica sacra).
Dunque Vivaldiana nasce proprio negli stessi anni in cui inizia a dispiegarsi
la grande impresa di pubblicazione degli opera omnia vivaldiani, e appunto da
questa coincidenza cronologica scaturisce l’aspetto oggettivamente paradossale
della partitura. Il gusto per il paradosso è un’altra componente essenziale del
codice genetico di Malipiero, così come lo è, del resto, la vitale alternanza tra
utopia e disincanto; nel caso di Vivaldiana, tuttavia, questo gusto per il paradosso, più che legittimo e anzi intrinseco alla soggettiva poetica e prassi dell’artista, finisce per acquisire una dimensione storico-culturale oggettiva che ne travalica l’ambito e gli spazi. Negli anni Cinquanta, da una parte Malipiero è impegnato in prima persona come direttore artistico e curatore di centinaia di edizioni intese a rendere finalmente giustizia, presso gli esecutori ma anche di fronte
agli studiosi, della musica di Vivaldi nella sua ‘verità’ e ‘originalità’ dopo decenni di «equivoche interpretazioni»,8 ovvero dopo i travisamenti, gli arbitrii e le
storpiature delle edizioni realizzate secondo il gusto del primo Novecento.
Scagliandosi contro le «esumazioni» di musiche del passato operate tra la
fine dell’Ottocento e il primo Novecento in una critica che contiene anche
un’apologia della propria arte compositiva, Malipiero scrive:
Si veda al riguardo CESARE FERTONANI, Edizioni e revisioni vivaldiane in Italia nella prima metà del
Novecento, «Chigiana», 41, n.s. 21, 1989, pp. 235-266.
7
Si vedano al riguardo FRANCESCO DEGRADA, Malipiero e la tradizione musicale italiana, cit.,
pp. 144-145 e 147-148, e MICHAEL TALBOT, Vivaldi. Fonti e letteratura critica, trad. di Luca Zoppelli
(«Quaderni vivaldiani», 5), Firenze, Olschki, 1991, pp. 160-162.
8
GIAN FRANCESCO MALIPIERO, Antonio Vivaldi, Il Prete rosso, Milano, Ricordi, 1958, p. 8.
6
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La musicologia divenne allora l’unica risorsa per i compositori falliti, i quali per non
fallire una seconda volta, vestirono alla moda corrente i compositori del passato.
Qualora li avessero lasciati com’erano, urtando contro il gusto corrente, avrebbero
forse subito la stessa sorte dei compositori che rappresentano veramente la musica
contemporanea più vicina all’antica che a quella dell’Ottocento.
Si sarebbero allargati un po’ gli orizzonti del disorientato ascoltatore, se di Palestrina
non si fosse fatto un maestro da chiesa di campagna, di Monteverdi (vedi le elaborazioni di Vincent d’Indy) un Wagner alla casalinga e di Vivaldi un classico del primo
Ottocento.9
Mentre parlando dei criteri editoriali seguiti per la pubblicazione degli opera
omnia, dice tra l’altro:
Purtroppo [le abbreviazioni che compaiono nei manoscritti vivaldiani] si prestano a
equivoche interpretazioni ove in esse si voglia trovare il pretesto per trasformare
Vivaldi in contemporaneo di Beethoven.
Nell’edizione di tutte le opere di Antonio Vivaldi vennero religiosamente rispettati gli
originali, prima di tutto nel fraseggio derivante dalle arcate.10
Dall’altra parte, Malipiero offre con Vivaldiana proprio una prosecuzione di
quell’orientamento d’anteguerra tanto deprecato. La partitura è infatti costituita dalla rielaborazione di sei movimenti, tratti da altrettanti diversi concerti per
archi, all’organico originale dei quali Malipiero aggiunge una sezione di fiati.
Che il lavoro intorno all’edizione degli opera omnia si ponga all’origine di
Vivaldiana è raccontato dallo stesso Malipiero nella nota introduttiva alla partitura:11
Più di cento Concerti di Antonio Vivaldi ho dato alle stampe. Mi vanto solo di aver
fatto opera di umile copista, tanto corretti, precisi e indiscutibili sono i manoscritti
vivaldiani. Non mi sono mai lasciato tentare dalle correzioni a scopo speculativo.
Negli ultimi mesi dell’anno di Grazia 1952, non so per quale intima reazione mi fu
impossibile resistere a certe seduzioni: ho preso il povero Prete Rosso e l’ho mascherato a modo mio. A modo mio sino a un certo punto, ché nulla è stato mutato nella
forma, nell’armonia, nel ritmo.
Come trascrivendo alcuni Madrigali del VII libro, «mi convinsi che il Monteverdi li
aveva, suo malgrado, pensati per l’orchestra d’oggi» (vennero pubblicati nel 1921
[1931!], sotto il semplice titolo di Madrigali per orchestra) così in questa «Vivaldiana»
ho aggiunto gli strumenti a fiato, perché mi sembrava che esistessero già (nei sei
tempi, tratti da sei differenti concerti, e qui ridotti a tre tempi più ampi) e che Vivaldi
li avesse semplicemente tolti perché non li aveva a sua disposizione. Non il corpo, ma
il vestito è stato mutato.
G. F. M.
Asolo, 28 ottobre 1952
9
10
11
Ibidem.
Ivi, p. 32.
GIAN FRANCESCO MALIPIERO, Vivaldiana per orchestra, Milano, Ricordi, 1953.
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Se si analizza con attenzione questa nota introduttiva vi si individuano molti
elementi su cui riflettere. Anzitutto il rapporto intuitivo, medianico e sentimentale con la musica di Vivaldi («non so per quale intima reazione mi fu impossibile resistere a certe seduzioni», «ho aggiunto gli strumenti a fiato, perché mi
sembrava che esistessero già […] e che Vivaldi li avesse semplicemente tolti perché non li aveva a sua disposizione»). Poi la volontà di appropriarsi di questa
musica fino ad assimilarla in un gioco di mascheramento quasi carnevalesco, in
cui il veneziano Malipiero strizza l’occhio al veneziano Vivaldi («ho preso il
povero Prete rosso e l’ho mascherato a modo mio», «non il corpo, ma il vestito
è stato mutato»). Infine, il richiamo assai significativo, ai Madrigali da
Monteverdi interpretati in chiave sinfonica vent’anni prima, a rimarcare la continuità di certe idee e di un certo gusto personale.12
I SEI CONCERTI VIVALDIANI E LE LORO EDIZIONI
L’idea di Vivaldiana maturò dunque in Malipiero nel corso del lavoro intorno
agli opera omnia, a ulteriore testimonianza del legame strettissimo, anzi organico
che nella personalità del musicista sussiste tra l’attività di curatore di edizioni e
quella propriamente creativa. Da sottolineare è l’interesse specificamente compositivo manifestato da Malipiero per il genere del concerto a quattro o «concerto ripieno» come lo definiva talvolta Vivaldi; genere nel quale il Prete rosso,
anche sfruttando l’assenza di parti solistiche, seppe spesso produrre lavori di
raffinata elaborazione compositiva ed elevata qualità estetica.13 Al riguardo, ci si
potrebbe chiedere se nella scelta di simili opere da parte di Malipiero, oltre al
valore musicale abbia avuto una qualche rilevanza anche la loro natura di concerti senza solisti, spesso connotati da una pronunciata matrice contrappuntistica (che non a caso si ritrova nel maggior numero dei movimenti utilizzati, anzitutto nella fuga del Concerto RV 134); insomma, ciò che alle conoscenze storicocritiche diffuse negli anni Cinquanta poteva farli ancora apparire come una
sorta di particolarità rispetto alla linea maestra del concerto settecentesco. In
effetti, sul versante dell’attività critica, tracce di questo interesse s’incontrano
nella monografia dedicata a Vivaldi da Malipiero nel 1958, in cui sono citati due
dei concerti già utilizzati in Vivaldiana, rispettivamente RV 153, definito «uno fra
12
Sulla stessa linea delle affermazioni relative ai Madrigali da Monteverdi e a Vivaldiana è quanto
si legge poi in merito a Gabrieliana nel Catalogo delle opere di Gian Francesco Malipiero, in Omaggio a
Malipiero, cit., p. 223: «Come per Cimarosa, Monteverdi, Vivaldi anche a Gabrieli mi son sentito in
dovere di fare omaggio».
13
Sui concerti per archi si vedano in particolare KARL HELLER, Antonio Vivaldi, Lipsia, Reclam,
1991, pp. 252-264, e CESARE FERTONANI, La musica strumentale di Antonio Vivaldi («Quaderni
vivaldiani», 9), Firenze, Olschki, 1998, pp. 512-539.
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i più bei concerti per soli archi»,14 e RV 123, sul finale del quale avanza l’ipotesi
che potesse trattarsi, in origine, del movimento iniziale di un altro lavoro15 (o
forse, invece, proprio dello stesso concerto RV 123).16
Comunque sia, i sei movimenti utilizzati sono tratti dai concerti in Re maggiore RV 123 e RV 126, in Mi minore RV 134, in Sol minore RV 153, RV 155 e
RV 156. Nello schema seguente, che riassume la struttura del pezzo, sono riportate tra parentesi tonde le indicazioni del numero di battute di ogni movimento
utilizzato, mentre tra parentesi quadre le indicazioni di tempo e le tonalità originali dei concerti vivaldiani.
Movimenti
I
II
III
Concerti di Vivaldi e
relativi movimenti
RV 155, I (22) e II (45)
+
RV 134, I (69)
+
RV 155, II: ripresa della parte finale
RV 153, II, prima e seconda
versione (36)
+
RV 156, II (13)
RV 123, I (64)
+
RV 126, III (71)
Indicazioni di tempo
Tonalità
Adagio – Allegro
sol
(Lo stesso tempo)
[Senza indicazione]
Andante (quasi adagio)
[Andante]
re [mi]
sol
do [sol]
Più lento un poco [Adagio]sol
Allegro
Allegro molto
RE
SOL [RE]
È rilevante notare che cinque dei sei concerti – RV 155, RV 134, RV 126,
RV 123 e RV 156 – furono pubblicati nell’ambito dell’edizione degli opera omnia
con la revisione ed elaborazione dello stesso Malipiero tra il 1947 e il 1951, dunque negli anni immediatamente precedenti Vivaldiana. Il sesto concerto, RV 153,
esiste in almeno quattro versioni diverse. Nella prima e nella seconda versione,
l’Andante comprende 36 battute; in questa forma il movimento si ritrova poi nel
Concerto RV 126. L’edizione curata da Malipiero e pubblicata nel 1958 riproduce
la quarta versione dei due primi movimenti, dove l’Andante è ridotto da 36 a 31
battute, e la prima versione del finale.17 Con ogni probabilità, la decisione di
ricorrere nel 1958 alla versione più breve del movimento centrale si spiega col
fatto che la versione più lunga era già stata pubblicata sette anni prima nell’edizione del Concerto RV 126. Ecco comunque, nel prospetto seguente, i concerti, le
GIAN FRANCESCO MALIPIERO, Antonio Vivaldi. Il Prete rosso, cit., p. 12.
Ivi, p. 24.
16
PETER RYOM, Répertoire des œuvres d’Antonio Vivaldi. Les compositions instrumentales,
Copenaghen, Engstrøm & Sødring, 1986, p. 188.
17
Ivi, pp. 212-213.
14
15
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fonti manoscritte utilizzate da Malipiero, il tomo e l’anno di pubblicazione delle
edizioni Ricordi.
Concerti di Vivaldi
Fonti manoscritte
Tomo ER
RV 155 in Sol minore
RV 134 in Mi minore
RV 126 in Re maggiore
RV 123 in Re maggiore
RV 156 in Sol minore
RV 153 in Sol minore
I-Tn: Giordano 35, cc. 188-193
I-Tn: Foà 31, cc. 166-171
I-Tn: Giordano 30, cc. 22-26
I-Tn: Giordano 29, cc. 23-28
I-Tn: Giordano 29, cc. 29-53bis
I-Tn: Giordano 29, cc. 98-107 e
Giordano 30, cc. 27-30.
11
56
113
114
115
287
Anno di
pubblicazione
1947
1949
1951
1951
1951
1958
SCOMPOSIZIONE E RIMONTAGGIO
Come afferma lo stesso Malipiero nella nota introduttiva alla partitura, il
mascheramento creativo degli originali vivaldiani è consistito essenzialmente in
due tipi d’intervento. Il primo riguarda l’estrapolazione di sei movimenti da sei
differenti concerti; movimenti poi, a loro volta, «ridotti a tre tempi più ampi». In
altri termini, i sei movimenti prescelti sono stati riassemblati e accoppiati da
Malipiero così da configurare i tre macromovimenti di una sorta di nuovo iperconcerto. Nell’applicare questo tipo di intervento, il compositore ha all’occasione trasportato le tonalità originali dei movimenti vivaldiani per conseguire
quella consequenzialità e coerenza tonale che altrimenti non avrebbe potuto
ottenere nel rimontaggio dei brani. Va da sé che, per esempio, l’interpolazione
della fuga che apre il Concerto RV 134, originariamente in Mi minore, tra il primo
movimento del Concerto RV 155 in Sol minore (in realtà si tratta di un doppio
movimento articolato in Adagio-Allegro) e la ricapitolazione della sua parte
conclusiva può essere effettuata senza la necessità di inserire passaggi modulanti di nuova composizione trasportando la fuga un tono sotto, in Re minore.
Proprio la porzione del primo macromovimento ricomposto da Malipiero
successiva alla fuga di RV 134 costituisce inoltre l’unica vistosa eccezione a un
impiego rispettoso e letterale della sostanza musicale vivaldiana. Alla fine della
fuga s’incatena infatti un breve passaggio di collegamento (tratto dalle bb. 3133, parte di viola, dell’originale vivaldiano) che conduce a una ricapitolazione
della parte conclusiva del movimento mosso di RV 155 (bb. 52-68 nella numerazione di Vivaldiana, bb. 30-45 dell’Allegro di RV 155). Un’altra libertà compare
nell’epilogo del terzo macromovimento ricomposto da Malipiero, che si conclude con l’Allegro molto del Concerto RV 126, ma è di entità davvero minima. Le
71 battute dell’originale vivaldiano diventano 73 nella rielaborazione di
Malipiero soltanto perché la clausola cadenzale viene ripetuta a valori aggravati, accompagnata dall’indicazione «un poco rallentando», a formalizzare sulla
carta un riflesso dell’abituale prassi esecutiva con cui si suonava Vivaldi all’inizio degli anni Cinquanta.
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Per meglio cogliere la relazione che sussiste tra la curatela degli opera omnia
e la rielaborazione si possono confrontare le edizioni dei sei concerti – considerate com’è ovvio in rapporto alle fonti originali utilizzate da Malipiero – con le
trascrizioni di Vivaldiana. Ora, già alcuni elementi di ordine generale lasciano
intendere come tra gli impulsi a monte del lavoro di trascrizione-rielaborazione
vi sia quello di suggerire, se non di fissare, un modello di prassi esecutiva e
interpretativa. Libero dai doveri impostigli dal ruolo di curatore degli opera
omnia, Malipiero agisce con la disinvoltura di un compositore che concepisce la
trascrizione-rielaborazione come atto creativo o ancora meglio, nella fattispecie,
ricreativo. In primo luogo, rispetto alle edizioni degli opera omnia, poiché la partitura è esplicitamente destinata a un’orchestra moderna, la parte del basso continuo in quanto tale con la relativa realizzazione proposta viene eliminata per
essere ridotta alle parti di violoncelli e contrabbassi. Non è difficile riconoscere
in questo l’atteggiamento molto personale e comunque storicamente assai
discutibile di Malipiero nei confronti del problema della realizzazione del basso
continuo (egli sostiene infatti che, nella musica del XVIII secolo e con particolare riferimento a Vivaldi, «il compito dell’accompagnatore al cembalo» sarebbe
consistito nell’«accennare timidamente gli accordi per aiutare la intonazione del
cantante, o degli istrumenti a suono non fisso»).18 In secondo luogo, in testa ai
movimenti sono inserite precise indicazioni di metronomo che contribuiscono
in misura decisiva e prescrittiva a determinare lo stacco dei tempi.
In terzo luogo, la partitura di Vivaldiana accoglie in modo esplicito e immediato tutti quei segni – relativi alle dinamiche, all’articolazione e ai modi d’attacco del suono – che nelle edizioni sono indicati, in linea di principio, tra parentesi in quanto aggiunti dal curatore. A tale riguardo può apparire curioso che per
il soggetto di fuga del Concerto RV 134, a tre anni di distanza dall’edizione degli
opera omnia, Malipiero proponga in Vivaldiana un’articolazione leggermente
diversa del fraseggio (nell’edizione del 1949 è suggerita una legatura tra la
prima nota, lunga, e la seconda nota, corta, di ogni battuta, laddove in Vivaldiana
non compaiono segni di articolazione eccettuati i trattini orizzontali che marcano gli ottavi delle prime tre battute).
GIAN FRANCESCO MALIPIERO, Antonio Vivaldi. Il Prete rosso, cit., p. 33. Su questo aspetto si veda
ancora FRANCESCO DEGRADA, Malipiero e la tradizione musicale italiana, cit., pp. 147-148.
18
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Esempio 1a. Tacciono Violoncelli, Contrabbassi e Cembalo + 1b: Tacciono le altre parti
Nel caso della trascrizione dell’Adagio del Concerto RV 156, Malipiero trasforma la dinamica piano («p») suggerita nell’edizione in pianissimo («pp»),
richiedendo inoltre la sordina agli archi, e aggiunge al basso passeggiato dei violoncelli l’indicazione gustosa «nè legato, nè stacc.[staccato]».
L’INTEGRAZIONE DEI FIATI
Il secondo tipo d’intervento operato da Malipiero riguarda invece la cospicua aggiunta dei fiati – due flauti, due oboi, due clarinetti, due fagotti e due
corni – all’organico originale costituito da quattro parti di archi e basso. Legni e
corni a due, uniti al già menzionato sdoppiamento del basso in due parti per
violoncelli e contrabbassi, trasformano l’organico vivaldiano in un’orchestra
«classica». Il sogno di un Vivaldi «classico» si era già delineato nelle edizioni
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proposte negli anni Trenta da Alberto Gentili,19 ed è piuttosto sorprendente ritrovare qui un analogo tipo di proiezione storica. Inevitabilmente, l’orchestrazione
proposta da Malipiero tende proprio a fare di Vivaldi un «classico di primo
Ottocento», un «contemporaneo di Beethoven»: ovvero a riprodurre quell’immagine d’anteguerra del Prete rosso contro la quale lo stesso Malipiero esprime
disappunto o addirittura disprezzo.
È pur vero che la scelta di un organico «classico» richiama alla mente le considerazioni che Malipiero aveva formulato oltre trent’anni addietro sul ruolo
cruciale di tale organico nella storia dell’orchestra moderna.20 Ma ciò non fa che
accrescere il senso di un’operazione che sembra ancora rivelare, così come era
successo tante volte tra gli anni Venti e Quaranta, l’imbarazzo nei confronti di
una musica ritenuta senz’altro di grande valore estetico ma al contempo percepita distante, irrimediabilmente lontana e dunque perduta. Da qui, l’horror vacui
e la necessità del restauro, l’ansia di attualizzare, integrare, completare se non la
sostanza la forma e la veste timbrica della musica vivaldiana, giudicata per alcuni aspetti troppo povera e primitiva e al tempo stesso mitizzata e bloccata nel
suo divenire storico in funzione di una personale poetica compositiva. Ancora
una volta, il processo di adeguamento e perfezionamento della musica del passato tradisce la consapevolezza di una doppia inadeguatezza: l’inadeguatezza
di una musica che non è più riproponibile alla lettera nel presente e quella del
presente nel saperla apprezzare nella sua specificità storico-stilistica.21
Dal momento che le parti dei fiati non introducono materiale di nuova composizione ma sono ricavate dalla sostanza musicale dei concerti originali, questo tipo d’intervento si qualifica essenzialmente come un lavoro di orchestrazione. Va anche detto che l’integrazione dei fiati nella partitura è consona all’insofferenza manifestata da Malipiero per i raddoppi dei fiati agli archi che s’incontrano nella musica di Vivaldi; insofferenza che gli deriva beninteso da un’idea
dell’equilibrio e del suono dell’insieme strumentale improntata a organici e
modelli orchestrali moderni o comunque di molto posteriori rispetto al primo
Settecento, ma che nel lavoro di edizione degli opera omnia lo indusse a intervenire in modo pesante sul dettato delle fonti originali (eliminando in genere i raddoppi da parte dei fiati).22
Se dunque si confrontano le fonti e le edizioni pubblicate negli opera omnia da
un lato con la partitura di Vivaldiana dall’altro, si coglie come l’orchestrazione di
Malipiero segua alcune direttrici fondamentali. La prima consiste nell’impiego
dei fiati come rinforzo timbrico e collante armonico del tessuto degli archi,
secondo modalità caratteristiche dell’orchestra classica: si vedano, per esempio,
CESARE FERTONANI, Edizioni e revisioni vivaldiane in Italia nella prima metà del Novecento, cit.,
pp. 250-256.
20
GIAN FRANCESCO MALIPIERO, L’orchestra, Bologna, Zanichelli, 1920, pp. 29-33.
21
FIAMMA NICOLODI, Gusti e tendenze del Novecento musicale in Italia, cit., p. 152.
22
GIAN FRANCESCO MALIPIERO, Antonio Vivaldi. Il Prete rosso, cit., pp. 33-34. Su questo aspetto si
veda ancora FRANCESCO DEGRADA, Malipiero e la tradizione musicale italiana, cit., pp. 144-145.
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le bb. 31-36 e 58-65 (corrispondenti nell’originale vivaldiano rispettivamente alle
bb. 9-14 e 36-43) dell’Allegro del Concerto RV 155. Nel portare a compimento
questo genere d’intervento, può accadere che la ridistribuzione delle parti vivaldiane a un organico che comprende anche i fiati, o quanto meno alcuni di essi,
renda necessario la scrittura di nuove linee desunte dalla struttura armonica e
compositiva degli originali. Si prendano, per esempio, la linea dei corni, che
pure trae spunto dalla parte di viola, proprio in apertura (bb. 2-4), oppure di lì
a qualche misura, il disegno di accordo spezzato dei violini II (bb. 10-16) (il confronto da fare è, naturalmente, con le stesse battute dell’Adagio introduttivo del
Concerto RV 155).
La seconda direttrice d’intervento affida ai fiati, soli o accompagnati dagli
archi, determinate frasi o sezioni che vengono a essere così enucleate, per giustapposizione timbrica, nel decorso dello svolgimento musicale. È quanto accade alle bb. 18-20 dell’Adagio introduttivo del Concerto RV 155, e alle bb. 44-49
(originale: bb. 22-27) dell’Allegro dello stesso Concerto RV 155, mentre una sistematica alternanza di sezioni tra archi e fiati denota l’intero secondo macromovimento, dove alla realizzazione per così dire a cori alternati dell’Andante di RV
153 segue quella dell’Adagio di RV 156, affidata ai soli archi con sordina. Questi
primi due criteri dell’orchestrazione contribuiscono a segnare l’articolazione
strutturale del periodo musicale, con modi che ricordano spesso le tecniche concertanti settecentesche negli effetti di chiaroscuro (con contrasti del tipo «tutti»
/ «soli») e nella distribuzione di diverse volumetrie sonore. Nella trasposizione
della fuga tratta dal Concerto RV 134 si riscontra l’orchestrazione più varia. Dopo
che l’esposizione è stata suonata dai soli archi, i fiati sono chiamati a interagire in un dialogo mosso e multiforme sino ad appropriarsi del soggetto (corni:
bb. 91-94; viole: bb. 24-27 in RV 134) e a prendere parte attiva agli stretti (flauti, oboi, clarinetti, corni: da b. 104; da b. 37 in RV 134) e quindi anche agli stretti conclusivi su pedale (oboi, clarinetti, fagotti: da b. 125; da b. 58 in RV 134).
Il terzo macromovimento manifesta una terza e una quarta direttrice d’intervento nell’orchestrazione. L’elaborazione dell’Allegro del Concerto RV 123 offre
probabilmente il momento di maggiore invenzione timbrica di Vivaldiana. Qui la
continua pulsazione delle quartine di sedicesimi, che nell’originale è per lo più
suddivisa tra i violini I e II in imitazione, viene scomposta in un prezioso intarsio timbrico tra flauti, oboi e clarinetti, mentre fagotti e corni la punteggiano con
un inciso tratto dalla parte del basso; nel frattempo i violini I (con l’arco) e i violini II (pizzicati) rispondono gli uni agli altri con il motivo di arpeggio discendente (bb. 205-213; bb. 1-9 in RV 123).
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Esempio 2a.
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Esempio 2b.
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L’effetto è molto novecentesco, laddove il completamento del periodo iniziale del movimento riutilizza l’alternanza tra sezioni dell’orchestra e il dialogo
concertante pur con una nettezza di contorni che appare anch’essa sfacciatamente moderna (bb. 213-225; bb. 9-21 in RV 123).
Nella trascrizione dell’Allegro molto del Concerto RV 126, Malipiero opta
invece per una soluzione uniforme per l’intero movimento. La condotta melodica è assegnata ai legni, in particolare a oboi e clarinetti all’unisono (in Vivaldi si
dà ai violini I e II all’unisono), con gli archi sempre tutti pizzicati e ridotti a un
ruolo di sostegno armonico-timbrico così da far suonare il tutto come una vivace aria di danza accompagnata da una specie di grande chitarra; in conseguenza di ciò, le parti originali di viola e di basso sono scomposte e riscritte per il
quintetto orchestrale coll’intento di mantenere una certa leggerezza di tocco.
Esempio 3a.
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Esempio 3b.
Malipiero affida peraltro i ricorrenti salti di quinta discendente che compaiono nella melodia come una sorta d’interpunzione (per esempio alle bb. 272 e
274; bb. 4 e 6 di RV 126) non già all’unisono di oboi e clarinetti bensì ai corni: l’effetto della linea spezzata apporta un tocco novecentesco e sottilmente ironico,
ulteriormente accresciuto quando ai rintocchi dei corni Malipiero fa immediatamente seguire, di propria mano, un’imitazione letterale ai fagotti che suona
come uno sberleffo (bb. 286-289; bb. 18-21 di RV 126).
L’analisi mette insomma in luce come nella trascrizione di Vivaldiana convergano tecniche di orchestrazione molteplici e di diverse epoche, dal primo
Settecento al periodo classico fino alla modernità novecentesca: in tale versione
i concerti vivaldiani appaiono proiettati nella dimensione fantastica di una
musica che, dal punto di vista storico e stilistico, non è mai esistita se non nell’immaginazione dello stesso Malipiero.
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CONTESTUALIZZAZIONE E PARADOSSI
Dunque gli interventi cui Malipiero sottopone i concerti prescelti in Vivaldiana
sono solo apparentemente neutri e riferibili alle esigenze di una pura e semplice
trascrizione. Sono piuttosto interventi che, sotto la maschera, tradiscono aneliti e
oscure pulsioni: «negli ultimi mesi dell’anno di Grazia 1952, non so per quale
intima reazione mi fu impossibile resistere a certe seduzioni», dichiara del resto
il musicista nella nota introduttiva. Alla forza di queste oscure pulsioni va ricondotta l’elaborata operazione di smontaggio e rimontaggio, decontestualizzazione e ricontestualizzazione, ripensamento e risignificazione cui Malipiero sottopone gli originali di Vivaldi. Se si somma il criterio antologico, che fa scegliere a
Malipiero sei movimenti da altrettanti differenti concerti, all’aggiunta dei fiati,
l’esito è una specie di concerto ideale, utopico, un iperconcerto o, se si vuole, un
‘concerto dei concerti’ che non è mai esistito: il perfetto concerto di Vivaldi secondo Malipiero. E a questo punto viene da chiedersi se Vivaldiana non esprima,
negli anni che vedono l’avvio della pubblicazione degli opera omnia, anche una
specie di nostalgia, altrimenti inconfessata e inconfessabile, per il periodo d’anteguerra in cui Vivaldi era riproposto in varie salse attualizzanti. Sempre in
Malipiero le critiche rivolte ai rimaneggiamenti altrui di musiche del passato sottintendono l’orgogliosa rivendicazione della qualità artistica e dell’ideale rispetto degli originali che invece contraddistinguono i suoi personali restauri. Nella
monografia su Vivaldi, tra le «equivoche interpretazioni» cui si è prestata la
musica del Prete rosso, Malipiero cita anche le trascrizioni di Bach ma per dire
subito che esse «rispettavano naturalmente lo stile dell’epoca» e che, tagliando
corto con uno di quei suoi tipici cortocircuiti d’intuizione critica, «poi Bach era
Bach».23 Lasciando intendere, come sottotesto di quest’ultima affermazione, che
dopo tutto, per la dedizione pluridecennale nel restituire la musica del passato e
per il talento compositivo, anche Malipiero è Malipiero.
In Vivaldiana sembra che per un attimo il compositore veneziano metta in
discussione, sospendendoli, i presupposti e gli obiettivi che orientano l’edizione
degli opera omnia per lasciare sfogo all’umore incontrollabile e bizzarro della
propria urgenza ricreativa. In questo attimo, comunque, egli non esita per così
dire a ridimensionare la portata delle edizioni vere e proprie per fornire accanto a esse, della stessa musica, una visione parallela, svincolata da eccessivi obblighi nei confronti del testo originale.
Il paradosso, come si accennava, e le ambiguità sono solo apparenti, se si
pensa che Malipiero era un compositore che disdegnava la qualifica di musicologo e ancor di più quella di filologo. Ma al di là dell’attenzione dovuta alle intime ragioni di una raffinata poetica creativa, all’estro saturnino e alle impennate
imprevedibili di un artista di razza, non si possono trascurare gli aspetti di contraddizione e di paradosso che Vivaldiana fa scoppiettare intorno a sé anzitutto
per la sua contestualizzazione storico-culturale. La partitura, che segna un epi23
GIAN FRANCESCO MALIPIERO, Antonio Vivaldi. Il Prete rosso, cit., p. 8.
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sodio importante nella recezione di Vivaldi nel Novecento, illumina in piena
evidenza il rapporto come si diceva soggettivo di Malipiero con la figura e la
musica del Prete rosso: quel rapporto che lega, come un filo sospeso sulla storia,
il musicista del Novecento a Vivaldi da compositore a compositore, con tutte le
ambiguità e le compromissioni del caso. Ma al tempo stesso la partitura si colloca al centro di un complesso intreccio di ruoli e di funzioni (Malipiero compositore e direttore artistico degli opera omnia), personali ragioni di poetica e istanze culturali (la necessità di riscrivere la musica antica e quella di approntare edizioni più rispettose degli originali rispetto a quelle del recente passato): dunque
al centro di un intreccio tra prospettiva storico-critica e appropriazione soggettiva, tra lavoro editoriale e prassi compositiva. E a questo proposito si potrebbe
anche ricordare come nella prima metà degli anni Cinquanta si assista a una fase
di transizione stilistica nell’esperienza creativa di Malipiero, non priva di ripensamenti anche radicali e momenti di crisi.24
Quanto vitale potesse essere il malipieriano gusto del paradosso lo si vede
ancora oggi. A oltre mezzo secolo di distanza dalla sua composizione, Vivaldiana
sembra aver in qualche modo anticipato certe pratiche musicologiche ed esecutive
che ricorrono a varie forme di manipolazione e integrazione delle fonti testuali
(anche delle più autorevoli), come testimonia l’accanimento di ricostruzione e/o
integrazione che in anni recenti si è rivolto anzitutto, ma non soltanto, sulle partiture operistiche di Vivaldi; pratiche, queste, che implicano spesso un cospicuo
intervento sugli organici. Basti pensare, per ciò che riguarda l’aggiunta dei fiati al
complesso degli archi, ad alcuni concerti conservati a Dresda ed eseguiti con l’aggiunta di parti non originali composte da musicisti dell’orchestra di corte (anzitutto da Pisendel), oppure a certe versioni «impasticciate» delle Quattro stagioni.
Naturalmente non è nel tentativo di recupero di prassi strumentali antiche –
legate a tradizioni esecutive non formalizzate né formalizzabili nella scrittura
compositiva oppure a specifiche consuetudini locali – che Vivaldiana può dare
l’impressione di preconizzare per certi versi queste tendenze odierne (del resto
Malipiero, per ovvie ragioni storiche e culturali, si dimostrò insensibile al richiamo di una prassi esecutiva antica che non fosse quella del proprio immaginario
mitico e soggettivo),25 quanto piuttosto nella ritrovata libertà dell’approccio performativo (e ricreativo) alla lettera dei testi musicali. Eppure, al di là dell’incolmabile distanza che separa nei presupposti e nelle finalità il mondo di Malipiero
dalle attuali tendenze della prassi esecutiva, il contenuto di profezia riscontrabile in Vivaldiana non appare meno suggestivo.
Chissà quale sarebbe la reazione di Malipiero, se oggi potesse ascoltare qualcuna di queste rinnovate, «equivoche interpretazioni». Forse l’accoglierebbe con
una delle sue sferzanti battute di spirito; forse, invece, si limiterebbe a sorridere, riconoscendovi soltanto l’ennesima prova dell’assenza nella storia di qualsiasi razionalità e coerenza.
24
25
JOHN C. G. WATERHOUSE, La musica di Gian Francesco Malipiero, cit., pp. 185-227.
Si veda ancora FRANCESCO DEGRADA, Malipiero e la tradizione musicale italiana, cit., pp. 147-148.
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