Catalogo della Mostra - Dipartimento di Filologia Classica e

Letterati all’opera
Catalogo della Mostra
Coordinamento scientifico:
prof.ssa Maria Gioia Tavoni
Testi di:
Federica Rossi e Pasquale Novellino
Con la collaborazione di:
Marco Ercoles, Anna Pegoretti,
Alfredo Vitolo
©2013
Tutti i diritti sono riservati.
Letterati all’opera
Musica e letteratura intrattengono rapporti profondi in tutte le letterature europee: sorelle e rivali, esse si sono
ciclicamente avvicinate e allontanate, in!uenzandosi, condividendo forme, lottando per il primato nelle arti. La
mostra intende seguire il filo rosso di questo rapporto dialettico attraverso i secoli, esponendo opere letterarie
e critiche pubblicate tra il XVI e il XX secolo e acquisite dalla Biblioteca del Dipartimento di Filologia Classica e
Italianistica nel corso della sua lunga e complessa storia. L’attuale Biblioteca, infatti, raccoglie la documentazione
bibliografica e archivistica di quattro Istituti universitari, due Dipartimenti (pre-riforma) e di numerosi letterati e
studiosi, che hanno lasciato, a vario titolo, le proprie raccolte librarie all’Ateneo di Bologna. Grazie alla disponibilità
del Museo internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna sono presenti in mostra anche riproduzioni di
manoscritti e libretti a stampa che arricchiscono l’esposizione e sottolineano il continuo intrecciarsi nei secoli di
poesia e musica.
Il percorso, in un gioco di rimandi tra epoche diverse, parte idealmente dall’antica Grecia, attraverso il recupero
delle fonti classiche attuato a partire dall’Umanesimo, per rintracciare l’origine mitica dell’arte delle Muse e la
sua naturale unione con la poesia. Attraversa, poi, la tradizione dei Salmi e delle Laudi cristiane, i riferimenti
alla musica nella Commedia dantesca, le forme poetico-musicali dell’Ars nova trecentesca e i componimenti di
Petrarca, divenuto nel Cinquecento canone poetico e fonte fecondissima di testi per il madrigale rinascimentale;
giunge alla nascita del melodramma, tra la fine del XVI secolo e l’inizio del successivo, e ai suoi grandi autori
(sopra tutti, Metastasio), soffermandosi sul confittuale rapporto che i letterati del Settecento ebbero con l’opera
in musica. Infine, si chiude con alcuni esempi della grande tradizione musicale dell’Ottocento, esponendo una
raccolta di libretti d’opera in cui sfilano opere di Verdi, Puccini e Wagner.
Ringraziamenti
La realizzazione di questo progetto è stata possibile grazie alla collaborazione e all’impegno di molte persone che, a vario
titolo, vi hanno contribuito. La proposta di partecipare a quest’edizione di ArteLibro 2013, nell’ambito di “Le biblioteche
d’Ateneo si mostrano”, è venuta da Maria Pia Torricelli, attenta coordinatrice dei progetti di valorizzazione del patrimonio
bibliografico antico del Sistema bibliotecario d’Ateneo.
Siamo grati alla prof.ssa Maria Gioia Tavoni, coordinatrice scientifica della Mostra, ad Anna Pegoretti, Marco Ercoles,
Alfredo Vitolo, bibliotecario del Museo internazionale e Biblioteca della Musica di Bologna, e ai professori Bruno
Bentivogli, Alfredo Cottignoli, Paola Vecchi Galli per i suggerimenti nella costruzione del percorso espositivo e per
l’attenta lettura dell’apparato di corredo.
Grande collaborazione abbiamo avuto anche negli aspetti pratici dell’allestimento: Genus Bononiae. Musei nella città nelle persone del suo Presidente, prof. Fabio Roversi Monaco, di Graziano Campanini e di Mirko Nottoli - ha messo
a disposizione le bacheche espositive; Frati & Livi srl - in particolare Pietro Livi e Marina Bonsi - ha curato il restauro
della coperta anteriore dell’edizione bodoniana dell’Aminta del Tasso e la sistemazione degli esemplari negli espositori;
Armando Antonelli e Sara Verrini, nell’ambito del grande progetto “Città degli archivi” della Fondazione Del Monte e
della Fondazione Cassa di Risparmio Bologna, hanno contribuito alla valorizzazione del fondo bibliografico appartenuto
a Piero Camporesi e alla realizzazione della Mostra virtuale sul portale “arcIVI”; il Museo internazionale e Biblioteca
della Musica di Bologna ha fornito le riproduzioni in Mostra; Antonio Chinellato e Saverio Vita hanno contribuito alla
realizzazione del sottofondo musicale.
Siamo riconoscenti a Nanni Garella, regista e attore teatrale, e a Franco Ricci, bibliotecario del Dipartimento di Filosofia e
Comunicazione dell’Ateneo, per aver reso l’inaugurazione della Mostra un momento ricco di suggestioni artistiche; infine,
a tutto il personale della Biblioteca del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica per l’aiuto in questi mesi di intenso
lavoro.
Federica Rossi e Pasquale Novellino
Senza la musica,
nessuna disciplina può considerarsi perfetta:
di fatto, senza la musica
nulla esiste
Isidoro di Siviglia
Molti vogliono, che gli uccelli insegnato abbiamo agli uomini
a cercare nelle lor voci, diverse inflessioni, e toni variati
per esprimere i trasporti, ed i sentimenti dell’anima.
La Musica, sorella della Poesia, è stata in tutti i tempi coltivata,
e la sua origine è di pari antica, che il Mondo.
Jacques Lacombe
Bacheca 1
Il termine musica deriva dal greco mousiké, cioè ‘arte delle Muse’, e per i Greci corrispondeva a un complesso sistema
comunicativoformato da parola poetica cantata e recitata, suono degli strumenti e danza. Il rapporto tra poesia e musica ,
dunque, era strettissimo e naturale: il numerus, ossia la scansione ritmica di valori e accenti che si alternano con regolarità
e secondo precisi principî, accomunava entrambe le arti, unendole in una sorta di simbiosi, spontanea imitazione della
natura attuata dagli uomini fin dalle origini. Si trattava quindi di una relazione formalistica: il fatto sonoro (sia monodico
sia polifonico) seguiva la disposizione del testo poetico, intensificandolo, ma rimanendone completamente svincolato
a livello semantico. Era, essenzialmente, una modalità di esecuzione del testo. Le testimonianze della diffusione della
musica, in questa sua ampia accezione, nel mondo classico e in quello medioevale sono numerosissime: essa accompagnava
tutte le manifestazioni della vita sociale, pubblica e privata, sacra e profana, ma la sua tradizione essenzialmente orale ha
impedito alla maggior parte delle intonazioni di giungere fino a noi, mentre sono sopravvissuti i testi poetici, in quanto in
chartulis ... jacentia.
(1)
(2)
1
ANACREONTE (ca. 560 a.C.-480 a.C.)
Odes d’Anacréon, traduites en françois, avec le texte grec, la version latine, des notes critiques, et deux dissertations. Par le citoyen Gail ...
Avec estampes, odes grecques mises en musique par Gossec, Mehul, le Sueur, et Cherubini; et un discours sur la musique grecque, Édition
plus complete que toutes celles qui ont paru jusqu’a ce jour, A Paris, de l’imprimerie de Pierre Didot l’aîné, an VII [1798-1799], in fol.
[Fondo Istituto di Filologia Classica, Facoltà di Lettere e Filosofia - Università di Bologna]
L’Ode appare nell’antica Grecia come componimento lirico (monodico o corale) accompagnato dalla musica. Anacreonte fu, insieme con Alceo,
Saffo, Pindaro, tra i più celebrati autori di questo genere, che ispirò numerosi compositori tra il XVIII e il XIX secolo.
2
PLUTARCO (50 d.C.-dopo il 120 d.C.)
Opuscoli morali di Plutarco Cheronese; filosofo, & historico notabilissimo ... tradotti in volgare dal sig. Marc’Antonio Gandino, & da altri
letterati Et in questa vltima impressione da infinitissimi errori espurgati, et diligentemenete corretti. Con due tauole, una delli opuscoli
et l’altra delle cose notabili, In Venetia, appresso Gio. Battista Combi, 1625, in fol. [Fondo Istituto di Filologia moderna, Facoltà di
Magistero - Università di Bologna]
Importante fonte sui poeti e musici della Grecia arcaica e classica è il trattatello Sulla musica attribuito a Plutarco, che fornisce un succinto ma
prezioso quadro dell’argomento. Tra l’altro, l’opera tramanda un ampio estratto dalla commedia Chirone di Ferecrate (V sec. a.C.), in cui la Musica
è rappresentata come una donna violentata dai musici innovatori della fine del V sec. a.C. che hanno “sfigurato” la musica tradizionale mediante
l’introduzione di elementi di novità sia mediante l’impiego di una maggiore gamma di note, sia mediante il ricorso a frequenti modulazioni.
Oltre al Trattato, di incerta attribuzione, Plutarco si occupò della musica, non dal punto di vista teorico, bensì da quello di pratica musicale,
sia nella Vita di Licurgo sia in quella di Pericle, dove ci offre ampia testimonianza dei costumi antichi. Nella prima si racconta di Sparta, che
prima di diventare una sorta di “caserma militare”, era stata una città dalla vita culturale e artistica assai ricca, nella quale la musica aveva
un posto d’onore. Canto, musica e danza erano presenti in diversi momenti della vita associata: nei banchetti comuni (gli andreia), nelle feste
sacre, tra cui spiccavano quelle per Apollo (Carnee, Gimnopedie, Giacinzie), nelle marce e nelle esercitazioni militari. La capacità della musica
di spronare l’animo umano e la capacità delle parole poetiche di educarlo al valore faceva della mousiké la forma di educazione migliore per il
cittadino spartano. Nella seconda, invece, si narra che Pericle, il celebre politico ateniese, ricevette la propria istruzione musicale (cioè letteraria
e musicale) dal sofista Damone di Oa, riconosciuta autorità in materia. A lui si deve l’elaborazione di una complessa teoria sugli effetti psicagogici
che un brano musicale può avere sugli uomini. Di qui dovette trarre spunto la tradizione, riportata da Plutarco, che ne faceva un politico sotto le
mentite spoglie di un maestro di musica.
(1)
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Bacheca 2
Si deve a Jules Combarieu, uno dei fondatori della musicografia francese, la scoperta di un manoscritto originale del X secolo
d.C., in cui è contenuta una notazione musicale per l’Eneide. Il manoscritto, pervenuto allo studioso attraverso un voleur
francese di origine italiana, attesta come il poema virgiliano, al pari delle Odi di Orazio, si prestasse, per la melodiosità
delle parole, ad essere musicato, almeno in alcuni passi particolarmente poetici, come appunto i novissima verba di Didone
del quarto libro. L’infelice amore tra la regina di Cartagine ed Enea fu riproposto da compositori e librettisti quali Giovan
Francesco Busenello (1624), Henry Purcell (1689), Metastasio e Giuseppe Sarti (1724), Niccolò Jommelli (1746), Franz
Joseph Haydn (1777-78) e Karl Gottlieb Reissiger (1824).
Spoglie, mentre al ciel piacque amate e care, a voi rend’io
quest´anima dolente. Voi l’accogliete. E voi di questa angoscia mi liberate.
Ecco son giunta al fine de la mia vita:
e di mia sorte il corso o’ già compìto.
Or la mia grande imago n’andrà sotterra. E qui di me che lascio?
Fondata ò pur questa mia nobil terra: viste ò pur le mie mura:
ò vendicato il mio consorte: ò castigato il fiero mio nemico fratello.
Ah che felice, felice assai morrei, s’a questa spiaggia
giunte non fosser mai vele Troiane,
mai toccato i nostri lidi.
[Libro IV, vv. 651-658; traduzione di Annibal Caro]
(4)
(3)
3
VIRGILIO MARONE, Publio (70 a.C.-19 a.C.)
L’Eneide di Virgilio mantuano commentata in lingua volgare toscana da Giovanni Fabrini da Fighine & Filippo Venuti da Cortona, In
Venetia, appresso Gio. Battista Sessa, & fratelli, 1576, in fol. [Fondo Carlo Calcaterra]
L’edizione qui esposta fu stampata dai nipoti di Giovanni Battista Sessa, capostipite di una nota e importante famiglia di editori e tipografi che
lavorarono a Venezia dalla fine del XV secolo all’ultimo quarto del successivo. Assai famosa è rimasta la marca tipografica della famiglia: un gatto
con il topo in bocca, qui inscritta all’interno di una cornice xilografica figurata. Nel sesto libro (vv. 166-174) Virgilio racconta anche la vicenda
di Miseno, compagno di Ulisse, che tante volte “valse a scoter con la tromba i prodi e ad infiammar squillando la battaglia” ucciso da “un rival”
Tritone perché “folle chiama in gara i divi”. L’episodio è commentato da Giovanni Fabrini (1516-1580), grammatico e umanista, che già aveva
collaborato con i Sessa ad altre edizioni e traduzioni di testi classici, in chiave allegorica e morale, come d’uso nei commentatori virgiliani dal
Medioevo a tutto il Rinascimento: “Miseno significa vanagloria [...]. Virgilio lo chiama pazzo ragionevolmente, perché hebbe ardire di provocar
Tritone a combattere: perché qual è maggior pazzia, voler agguagliarsi vanamente e pareggiarsi noi mortali a gli Dei divini? Perciò non è da
maravigliarsi s’egli capitò male.”
4
VIRGILIO MARONE, Publio (70 a.C.-19 a.C.)
P. Virgilii Maronis Opera ex recensione N. Heinsii et P. Burmanni ad Chr. Gottl. Heyne editionem accuratissime exacta, cum notis
selectioribus, Venetiis, apud Thomam Bettinelli, 1784, 3 volumi, 8° [Istituto di Filologia Latina e Medievale, Facoltà di Magistero Università di Bologna]
5
COMBARIEU, Jules (1859-1916)
Fragments de l’Énéide en musique d’après un manuscrit inédit : Fac-similés phototypiques précédé d’une introduction, Paris, Picard et
Fils, 1898 [Istituto di Filologia Classica, Facoltà di Lettere e Filosofia - Università di Bologna]
6
METASTASIO, Pietro (1698-1782)
Opere di Pietro Metastasio. Didone abbandonata, Venezia, presso Ant. Curti q.m Giac., 1794, 16° [Fondo Piero Camporesi]
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Bacheca 3
Il mito di Orfeo - le nozze e la repentina perdita della sposa, la discesa agli inferi per riportarla sulla terra, la supplica agli
dei, piegati dalla magia del canto, l’errore fatale all’uscita dalle valli averne e la definitiva separazione dall’amata - esprime in
maniera esemplare il potere ordinatore e ‘civilizzatore’ assegnato alla musica dagli antichi. Se la figura di Orfeo è comunemente
legata al racconto ovidiano delle Metamorfosi, non mancano citazioni del suo mito anche in altri poeti classici, come Orazio e
Virgilio. Altrettanto ricca è la tradizione dei rifacimenti sia per il teatro sia per la musica, tanto che «si può dire che Orfeo si
ponga quasi come emblema e spirito protettore della nascita di forme teatrali che non coincidono direttamente con i modelli
classici della tragedia e della commedia, ma cercano un intreccio tra codici e tecniche diverse» [Ferroni, 2009]. Poliziano
lo rappresentò nel suo “dramma satiresco” alla maniera antica, uno dei primi del genere, in cui i monologhi e dialoghi in
ottave si alternano a sezioni in metri differenti destinate al canto, compreso il conclusivo e sfrenato coro delle Baccanti, che
festeggiano dopo aver ucciso Orfeo e straziato il suo corpo: «Ognun segua, Bacco, te! | Bacco, Bacco, euoè!». Rinuccini compose,
invece, una tragedia in versi e il suo testo costituisce il primo libretto del melodramma storicamente documentato, mentre
Christoph Willibald Gluck ne fece l’opera cardine della “riforma del melodramma” settecentesco, oltre che il suo riconosciuto
capolavoro.
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7
OVIDIO NASONE, Publio (43 a.C.-17 d.C.)
Le metamorfosi di Ouidio ridotte da Giovanni Andrea dell’Anguillara in ottaua rima, editio terza ... Di nouo dal proprio auttore riuedute
& corrette, con le annotationi di m. Gioseppe Horologgi, In Venetia, appresso Francesco de’ Franceschi senese, 1569, 4° [Provenienza:
Fondo Piero Camporesi]
L’opera, composta in esametri, è un vasto poema in quindici libri, in cui si narrano favole e miti che hanno come conclusione la metamorfosi
dei protagonisti. La fama di Ovidio, figura dominante nella cultura latina, si perpetua per tutto il Medioevo e il Rinascimento per il suo talento
indiscusso di narratore, di pittore del meraviglioso e di psicologo attento a cogliere gli aspetti oscuri dell’animo, soprattutto femminile, qualità
poetiche che resero Ovidio tra gli antichi maggiormente imitati nella posterità. Alla sua fortuna si devono le numerosissime edizioni a stampa
del XVI secolo, tra cui questa versione in ottave di Giovanni Andrea dell’Anguillara (1517-1572), dedicata a Enrico II di Francia e pubblicata a
Parigi, durante il soggiorno del poeta, nel 1554 da André Wechel. Il testo, arricchito con le annotazione di Giuseppe Orologi e, successivamente
anche con gli argomenti del carmelitano Francesco Turchi (esempio ne è questa edizione ), venne pubblicato negli anni successivi da numerosi
tipografi, indotti a riproporlo dalla fama e dal successo di questa versione poetica. Nel poema, Ovidio dedica al mitico cantore Orfeo una sequenza
molto estesa (l’intero libro decimo e l’inizio del successivo, per un totale di 823 versi), connotando sia il personaggio, sia l’arte dell’aedo con
spiccata originalità rispetto ai precedenti letterari greci e latini.
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ORAZIO FLACCO, Quinto (65 a.C. - 8 a.C.)
Q. Horatii Flacci Venusini poetae lyrici Poemata omnia: scholijs doctissimis illustrata, eoque accuratius emendata, optimis quibusque
collatis exemplaribus, quo recentius excusa. In fronte auctoris uita, in calce Index accessit, qui in alijs desideratur, Venetiis, ex officina
Erasmiana Vincentii Valgrisii, 1548, 8° [Fondo Piero Camporesi]
L’edizione della metà del XVI secolo qui esposta fu edita da Vincenzo Valgrisi, tipografo-editore di origine francese attivo tra Venezia e Roma dal
1540 al 1572. La cura filologica del testo e la raccolta dei commenti antichi all’opera fu condotta da Apollonio Campano, letterato e umanista,
che collaborò intensamente tra il ‘48 e il ‘49 con il Valgrisi a varie edizioni antiche come ad esempio il De officiis di Cicerone, le opere di Virgilio,
le Rime del Petrarca, nelle cui dedicatorie sovente si lamenta del poco tempo lasciato ai letterati dai tipografi per la fretta di stampare. Come il mito di Anfione, anche quello di Orfeo si presta ad esprimere in maniera esemplare il potere ordinatore e ‘civilizzatore’ assegnato dagli
antichi alla musica della lira. Orazio così ne canta il ritratto: «Sacerdote e interprete degli dei, | Orfeo ritrasse dalle stragi le turbe selvagge | e le
distolse dai bestiali costumi; | si disse perciò che ammansisse le tigri e i leoni feroci. | Si disse anche di Anfione, fondatore della rocca tebana, | che
al suono della lira movesse i macigni | e con la dolcezza del canto li trascinasse dove gli piaceva. | Fu questa un tempo la sapienza: | dividere le cose
pubbliche dalle private, le sacre dalle profane». [vv. 391-397; traduzione di Colamarino-Bo]
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9
POLIZIANO, Angelo (1454-1494)
La favola di Orfeo composta da M. Angelo Poliziano, e ridotta ora la prima volta alla sua vera e sincera lezione, In Padova, appresso
Giuseppe Comino, 1749, 8° [Fondo Carlo Calcaterra]
Quest’edizione di Comino appartiene alle oltre duecento stampate dal tipografo per i fratelli Volpi, gli editori di cui dirigeva la tipografia a Padova.
Nel loro catalogo prevalgono i classici latini e italiani (Lucrezio, Catullo, Virgilio, Dante, Petrarca, Boccaccio, Tasso), ma non mancano le opere di
argomento scientifico, di antiquaria e di erudizione. Tutte le edizioni sono di alto livello sia per la correttezza dei testi sia per la cura tipografica.
Nella premessa alla Favola di Orfeo Comino richiama proprio l’attenzione a liberare l’opera del Poliziano dalla “rozzezza” che offendeva il testo nelle
precedenti edizioni e a restituirla “con somma diligenza” ad una lezione filologicamente corretta.
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RINUCCINI, Ottavio (1564-1621)
Dafne, Euridice, Arianna. Drammi per musica, introduzione e note di Andrea Della Corte, Torino, Unione tipografico-editrice torinese,
1926 [Fondo Carmine Jannaco]
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GLUCK, Christoph Willibald (1714-1787)
Orfeo ed Euridice dramma per musica da rappresentarsi in una Accademia nel nobile Casino in Bologna la sera delli 16. febbraro 1788,
libretto a stampa, In Bologna, nella Stamperia del Sassi, 1788, 8° [Riproduzione. Museo internazionale e Biblioteca della Musica
- Bologna]
Per il valore dell’opera in un quadro più ampio di storia della letteratura e della musica, sono particolarmente incisive le parole di Giulio Ferroni:
«La figura mitica di Orfeo indica una vera e propria identificazione delle forme poetiche originarie con il canto, con l’esercizio di una sonorità in
atto, affidata ad una esecuzione vocale e strumentale davanti a qualcuno che ascolta: e nella tradizione italiana Orfeo è stato più volte assunto come
emblema di una poesia che si risolve in presenza scenica, che si rappresenta davanti ad un pubblico, con il sostegno di forme musicali più o meno
complesse. [...] Alla fine del Quattrocento la Favola di Orfeo di Poliziano si pone come una delle prime prove sperimentali di un teatro mitologico,
in cui l’evocazione del mito viene sostenuta da essenziali dati di tecnica scenica; poco più di un secolo dopo, l’Euridice di Rinuccini e Peri [...] affida
alla vicenda di Orfeo quasi una funzione ‘fondatrice’ del nuovo genere melodrammatico, il cui primo grande capolavoro si affaccerà pochi anni dopo,
proprio con un Orfeo, quello di Claudio Monteverdi su libretto di Alessandro Striggio, eseguito a Mantova il 24 febbraio 1607». [Giulio Ferroni, Prima
lezione di letteratura italiana, 2009]
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Bacheca 4
In questa grande tavola viene rappresentata una festa in onore del dio Priapo, evento molto diffuso in Grecia e poi a Roma
di grande rilievo nel calendario sacro. La musica, sotto forma di suono, ballo e canto, è protagonista della scena, che viene
resa con grande eleganza e sobrietà, emendata da tutti gli elementi licenziosi che nell’iconografia classica accompagnavano
le raffigurazioni del dio Priapo.
12
MONTFAUCON, Bernard De (1655-1741)
L’antiquité expliquée et représentée en figures ... par dom. Bernard de Montfaucon religieux Bénédictin de la Congrégation de S. Maur,
A Paris, chez Florentin Delaune, Hilaire Foucault, Michel Clousier, Jean-Geoffroy Nyon, Etienne Ganeau, Nicolas Gosselin, et PierreFrancois Giffart, 1719-1724, 15 volumi, in fol. [Fondo Piero Camporesi]
Quest’opera monumentale, compilata da Montfaucon, allievo di J. Mabillon, e dal suo gruppo di collaboratori, rappresenta uno dei più importanti
e completi repertori di iconografia dell’antichità mai realizzati e fu un vero caso editoriale per l’epoca. Il Montfaucon, ricordato anche per essere
stato l’iniziatore della paleografia greca, creò con quest’opera un modello esemplare e a lungo insuperato di ricerca storico-iconografica a carattere
antiquario. Nei 15 tomi (due per ognuno dei volumi e 5 di supplemento), le oltre 1300 calcografie, appositamente composte, illustrano monumenti
e oggetti dell’antichità classica in un vero “museo su carta”, esempio dell’importanza che acquistò in tutta Europa nel XVIII secolo l’antiquaria e
l’histoire visuelle. Nel primo e secondo volume sono contenute riproduzioni di oggetti che ritraggono tutti i principali personaggi mitici dell’antichità;
tanti quelli legati alla musica: dal dio Pan, solitamente rappresentato con il mano una siringa, strumento musicale costituito da una serie di canne
palustri, il cui nome deriva dalla ninfa tramutatasi in canneto per sfuggire alle brame del Dio, alle Muse, dee della musica, della poesia e della danza,
in seguito, più in generale, delle arti, delle scienze e della memoria, figlie di Zeus e della titanessa Mnemosine; da Apollo, figlio di Zeus e Leto e
gemello di Artemide, dio olimpico della divinazione, delle arti e delle scienze, sopratutto della musica e della medicina a Marsia, ucciso proprio da
Apollo per averlo sfidato in una gara musicale; da Orfeo, di cui si è già detto, ad Anfione e Zeto, figli gemelli di Zeus e Antiope, re di Tebe, a cui viene
attribuita la costruzione delle poderose mura che circondavano la città, grazie al magico suono della lira.
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Bacheca 5
Fin dall’antichità alla figura del musicus che studiava la musica come scienza, al pari dell’aritmetica e dell’astronomia (dal
Medioevo il suo insegnamento fu parte delle discipline del Quadrivio) si contrapponeva quella del cantor, il musicista
che la eseguiva. Numerose sono le fonti storiche che ci tramandano notizie sui protagonisti delle rappresentazioni
musicali nel mondo classico e moderno. Tito Livio, ad esempio, da storico sensibile agli aspetti antropologici della storia
romana, testimonia nel settimo Libro dei suoi Historiarum ab vrbe condita libri la nascita dei ludi scaenici a Roma, dove Livio
Andronico, per primo, mise in scena intere azioni teatrali, intonate da cantori e accompagnate da flautisti. Garzoni, nel
secondo Cinquecento, recuperò la lunga tradizione dei musici, con sguardo critico verso questa professione ‘di strada’
che, pur avendo precedenti classici illustri, aveva assunto, nel suo tempo, difetti gravissimi: i musici sono da lui ritratti
come capricciosi, ubriaconi, lascivi, “discordanti”, freddi e “sgarbati” nel cantare, per esplicito disprezzo dell’insegnamento
degli antichi maestri. Garzoni lamentava così l’ormai invasiva presenza sulla pubblica piazza dei cantimbanchi, tra cui
“principe” era considerato Giulio Cesare Croce, cantore di storie e strumentista virtuoso, tanto da meritarsi l’appellativo
di ‘Giulio Cesare dalla Lira’. Tutt’altro che ingenua o incolta, la poesia, che il Croce componeva e intonava pubblicamente,
riconoscendosi una «vena naturale, | come si vede, non alta e sublime, | ma piana e dolce, al basso genio uguale», riproponeva
tutti i generi della tradizione popolare, conservandone cadenze e memorie più o meno involontarie e soprattutto l’abitudine
alla recitazione cantata.
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LIVIO, Tito (59 a.C.-17 d.C)
T. Liuij Patauini, Historiarum ab vrbe condita, libri, qui extant, XXXV cum vniuersae historiae epitomis. Adiunctis scholijs Caroli Sigonij,
quibus ijdem libri, atque epitomae partim emendantur, partim etiam explanantur, Secunda editio, Venetiis, apud Paulum Manutium,
Aldi F., 1566, in fol. [Fondo Piero Camporesi]
L’edizione di Paolo Manuzio, figlio del celebre editore-tipografo veneziano Aldo, è la seconda da lui edita, dopo la prima del 1555. In frontespizio
viene riproposta la popolare marca tipografica del padre, utilizzata da tutti i suoi eredi: l’àncora con delfino in una corona di frutti e foglie
d’alloro e la scritta centrale “Aldus”, segno distintivo di qualità filologica dei testi e di grande eleganza nella composizione tipografica.
La testimonianza di Livio ci permette di apprendere l’origine romana dei giochi scenici, cioè gli spettacoli teatrali, chiamati così perché si
svolgevano nella scenae, edifici temporanei, prevalentemente di legno, almeno fino al 55 a.C., data in cui venne costruito il primo teatro in pietra,
a Pompei, a ridosso della collina. Vivido è il passo di Livio: «Di Toscana furono fatti venire i danzatori, i quali ballavano al suono del flauto, facendo
movimenti non isconci all’usanza etrusca. [...] Fu dunque ricevuta la cosa e collo spesso praticarla si assottigliò e si accrebbe tra i professori
nostrali, à quali fu imposto il nome d’Istrioni, perché in lingua toscana hister significava danzatore: i quali non come prima vicendevolmente
si motteggiavano con verso rozzo e scomposto; ma atteggiavano Satire modulate, accomodato il canto al suono del flauto e con movimenti di
corpo convenevoli. Dopo qualche anno Livio Andronico, che prima di tutti usò cavare dalle Satire Favole, o Azioni intere, essendo egli stesso
atteggiatore de’ suoi versi, [...] dicesi che, [...] avendo posto un fanciullo a cantare avanti al sonatore di Flauto, con più vivace gesto atteggiò, o
rappresentò certo Cantico [...]. E quindi ebbe principio il cantare accosto agl’Istrioni».
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GARZONI, Tommaso (1549-1589)
La piazza vniuersale di tutte le professioni del mondo, nuouamente ristampata, & posta in luce, da Thomaso Garzoni da Bagnacauallo.
Con l’Aggionta d’alcune bellissime annotationi, In Venetia, appresso l’herede di Gio. Battista Somasco, 1592, 4° [Fondo Istituto di
Filologia moderna, Facoltà di Magistero - Università di Bologna]
Opera più celebre del Garzoni, la Piazza universale di tutte le professioni offre una visione onnicomprensiva della società italiana della fine del XVI
secolo, in cui i particolari interessanti e singolari s’intrecciano continuamente alle notizie derivate da autori e repertori antichi.
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Bertoldo con Bertoldino e Cacasenno in ottava rima aggiuntavi una traduzione in lingua bolognese con alcune annotazioni nel fine.
Parte prima che contiene Bertoldo, Di Bologna, per Lelio dalla Volpe, 1740, 12° [Fondo Dipartimento di Italianistica - Università di
Bologna]
Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno è il titolo di tre racconti popolari qui esposti in edizione settecentesca. I primi due sono attribuiti a Giulio Cesare
Croce, l’ultimo ad Adriano Banchieri (1568-1634). La figura del villano Bertoldo, che con la sua rozza astuzia e il suo sbrigativo buon senso tiene
testa al re Alboino, che lo accoglie nella sua corte, è tratta da un anonimo testo latino molto noto già nel tardo Medioevo, il Dialogus Salomonis
et Marcolphi. Nei suoi contrasti col re, a Bertoldo càpita talvolta di sovvertire le forme tipiche della cultura “alta”, di aggredire i valori signorili
e nobiliari; il Croce, tuttavia, non intende tanto presentare un orizzonte umano e sociale alternativo a quello dominante, quanto suggerire al
popolo la prospettiva di un moderato buon senso, mostrando l’ineluttabilità delle gerarchie e delle differenze sociali.
Il celebre Lelio dalla Volpe, tipografo e libraio protagonista della storia dell’editoria settecentesca bolognese, pubblicò nel 1736 il rifacimento in
versi del romanzo burlesco popolare corredato da illustrazioni di Ludovico Mattioli riprodotte dai rami incisi da Giuseppe Crespi. Successivamente,
tra il 1736 e il 1741, Dalla Volpe ripropose più volte l’opera, complice il grande successo che la sua edizione illustrata aveva ottenuto, aggiungendo
i versi bolognesi al testo in italiano. Queste nuove stampe, versioni economiche della prima edizione, vennero illustrate da Giuseppe Cantarelli,
che incise appositamente per l’opera venti rami, tra cui il ritratto dell’autore.
Giulio Cesare Croce nacque nel 1550 a San Giovanni in Persiceto e morì a Bologna nel 1609. Le scarse notizie intorno alla sua vita sono ricavabili
dalla Descrittione della vita del Croce; con una esortatione fatta ad esso da varij animali ne’ lor linguaggi, à dover lasciare da parte la poesia, che
egli cominciò a scrivere nel 1586 e pubblicò, rimaneggiata, circa venti anni più tardi (1608). Da questo testo si apprende che il padre Carlo,
di mestiere fabbro, nonostante fosse poverissimo, gli fece iniziare gli studi che egli ben presto abbandonò, dati gli scarsi risultati raggiunti.
«Cantore pubblico, vanto e lustro municipale, aedo sociale»: così Piero Camporesi descrive Giulio Cesare Croce, cantastorie e poeta-buffone
presso ricche famiglie bolognesi; produsse opere di vario genere che egli stesso faceva stampare e vendere direttamente ai suoi ascoltatori
sulle piazze. I suoi numerosi scritti (alcuni in dialetto bolognese, altri in una lingua di tipo “medio” semplice e rozza) sono diretta espressione
di una cultura popolare cittadina, intrisa di buon senso e moralismo, e lasciano trasparire le tracce amare della realtà quotidiana del tempo. E
come tutti gli aedi popolari, il Croce non si limitava a recitare i propri versi: per noi silenzioso nelle molte stampe rimaste, si imponeva allora
come cantore di storie e strumentista virtuoso. La sua abilità alla lira, con cui si accompagnava, era tale da valergli l’appellativo di ‘Giulio Cesare
dalla Lira’: un “principe” fra i molti cantimbanchi di cui Garzoni lamentava l’ormai invasiva presenza sulla pubblica piazza, ma destinato d’altra
parte ad allietare anche le case di nobili e potenti. Girando per le strade di Bologna (ma andò anche a Modena, Ferrara, Mantova, Venezia e,
forse, Firenze), cantava le sue composizioni, accompagnandosi con il violino e vendeva i testi del suo repertorio stampati in opuscoli (per lo più
di quattro pagine), chiamati anche ventarole (quando la carta più spessa impiegata permetteva di usarli anche per farsi vento) o muricciolai,
cosiddetti perché messi in mostra sui muretti per attirare i compratori.
(15)
Bacheca 6
La correlazione fra musica e religione, raffigurata anche nella vignetta xilografica in apertura del Salterio
dove il ‘poeta del Signore’ Davide suona la lira, è dovuta alla fortissima valenza simbolica attribuita, da
sempre, al suono. E proprio in virtù della forza dei suoni e delle parole di mettere in contatto l’immanente
con il trascendente, la musica trova spazio nei riti e nelle forme di preghiera di tutte le religioni. Ad
esempio, il Libro dei Salmi, presente nella Bibbia ebraica e cristiana - Salmo significa, in greco, ‘canto
accompagnato con musica’ - è composta da inni di vario genere, usati comunemente come preghiera e la
tradizione manoscritta ne tramanda i testi arricchiti da glosse e notazioni musicali. Preghiera è anche lo
Stabat Mater, la cui attribuzione, seppur controversa, conduce a Jacopone da Todi. Melodia gregoriana
popolarissima, in quanto usata per accompagnare la Via Crucis e altri momenti liturgici, lo Stabat Mater
fu posto in musica da oltre quattrocento compositori sia italiani sia stranieri, tra cui Giovanni Pierluigi da
Palestrina (1590), Alessandro e Domenico Scarlatti (1710-15), Antonio Vivaldi (1715), Giovanni Battista
Pergolesi (1736), Johann Sebastian Bach (1748), Franz Schubert (1815), Giuseppe Verdi (1898). Anche la
lauda, forma di canto ‘parareligioso’, popolare, ad uso collettivo, in lingua volgare e generalmente anonimo,
unisce musica e poesia; progressivamente, a partire dal XVII secolo, dalla lauda si passò poi all’oratorio,
componimento musicale, con trama compiuta, d’ispirazione religiosa ma non liturgica e, successivamente,
ad opere teatrali puramente intese, tra cui spiccano i melodrammi biblici di Metastasio.
(16)
(20)
16
Biblia sacra vulgatae editionis Sixti 5. Pont. Max. iussu recognita atque edita, Venetijs, apud Iuntas, 1600, 8° [Fondo Carlo Calcaterra]
L’edizione fu stampata da Lucantonio Giunta (1558-1600), discendente della celebre famiglia dei tipografi fiorentini attivi a Firenze fin dalla fine
del XV secolo. La data di stampa non è posta sull’edizione, ma è stata attribuita da Maria Gioia Tavoni nello studio La Biblioteca comunale di San
Miniato. Il fondo antico, secc. XV-XVIII (Comune di San Miniato, 1990).
Il Libro dei Salmi è anche definito la Torah di Davide, perché egli è il poeta del Signore, che «cantò inni a lui con tutto il cuore e amò colui che
l’aveva creato» (Sir 47,8). Il re Davide «soave cantore d’Israele» (Sam 23,1) non è l’autore dei salmi, anche se molti sono a lui attribuiti.
17
PALESTRINA, Giovanni Pierluigi da (1525-1594)
Cantica canticorum quinque vocibus Jo. Petri Aloysii Praenestini, partitura ms., 8°, inizio sec. XVII [Riproduzione. Museo internazionale
e Biblioteca della Musica - Bologna]
18
Il Cantico de’ cantici adattato al gusto dell’italiana poesia e della musica e corredato di note e osservazioni sul senso letterale da
Evasio Leone, Edizione quarta dall’autore riveduta ed accresciuta, Torino, dalla stamperia d’Ignazio Soffietti, 1796, 8° [Fondo Carlo
Calcaterra]
19
ERMINI, Filippo (1868-1935)
Lo Stabat Mater e i pianti della Vergine nella lirica del Medio Evo, Roma, Tipografia Salesiana, 1899 [Fondo Dipartimento di Italianistica
- Università di Bologna]
20
PERGOLESI, Giovanni Battista (1710-1736)
Stabat Mater in Fa minore a soprano e contralto con violini, partitura ms., 4° obl., metà sec. XVIII [Riproduzione. Museo internazionale
e Biblioteca della Musica - Bologna]
(17)
(16)
(18)
Bacheca 7
Dante e la musica
La critica dantesca si è occupata approfonditamente del rapporto tra l’Alighieri e la musica, sia nell’ambito della sua
produzione poetica sia della sua vita personale. La Divina Commedia è ricchissima di riferimenti musicali, ma certo il più
noto è quello inserito nel secondo Canto del Purgatorio con l’incontro di Casella, compositore e cantore, amico di Dante,
che ne ricorda «l’amoroso canto | che mi solea quetar tutte mie doglie» (vv. 107-108). è strettamente connesso con la teoria
del De vulgari eloquentia, in cui la canzone Amor che ne la mente mi ragiona, musicata o ‘intonata’ secondo la terminologia
del tempo, da Casella e inserita da Alighieri nel Convivio, è portata a testimonianza della relazione forte tra metrica (poesia)
e melodia (musica): se composto secondo i parametri di volta in volta elencati, ogni testo è musicabile, e la linea melodica
di accompagnamento altro non è che una modalità di esecuzione del testo. Da notare infine come nella Commedia il fatto
musicale sia sempre rilevante, oltre che sotto l’aspetto uditivo, anche come emanazione di un movimento, che non è solo
mera traslazione nello spazio, bensì anelito verso il trascendente, la felicità eterna, fine ultimo dell’esistenza.
Dante nella musica
Tra XIII e XIV secolo si andò progressivamente manifestando quel ‘divorzio’ tra poesia e musica che i critici (Gianfranco
Contini e Aurelio Roncaglia in primis) hanno così bene individuato. Mutò la natura stessa dei testi lirici, la cui destinazione
non era più legata al canto bensì alla lettura poetica. Si sviluppò cioè una poesia pura, letteraria, autosufficiente che,
comunque, fu oggetto d’interesse per i musicisti. La Divina commedia ebbe numerose ‘messe in musica’, di cui rimangono
pochissimi frammenti, ma la scelta, in questo caso, come per le liriche da camera del XIX secolo ispirare ai versi del sommo
poeta, fu maggiormente legata all’importanza e alla dignità dell’Alighieri che alla natura delle sue opere. Ancora ai primi
del ‘900 gli episodi danteschi furono oggetto di opere drammatiche e musicali: Gabriele D’Annunzio compone nel 1902
la tragedia storica Francesca da Rimini, basata sul quinto Canto dell’Inferno, poi messa in musica da Riccardo Zandonai e
rappresentata per la prima volta al Teatro Regio di Torino il 19 febbraio 1914 con grande successo di pubblico. Il Gianni
Schicchi, opera in un atto di Giacomo Puccini, su libretto di Giovacchino Forzano, è invece basato sul trentesimo (vv. 2248), in cui compare il ‘falsificatore di persona’ nella bolgia dei falsari. La prima assoluta ebbe luogo il 14 dicembre 1918 al
Metropolitan di New York.
(21)
21
ALIGHIERI, Dante (1265-1321)
Dante con l’espositioni di Christoforo Landino, et d’Alessandro Vellutello. Sopra la sua Comedia dell’Inferno, del Purgatorio, & del
Paradiso. Con tauole, argomenti, & allegorie, & riformato, riueduto, & ridotto alla sua vera lettura, per Francesco Sansouino fiorentino,
In Venetia, appresso Giouambattista, Marchio Sessa, & fratelli, 1578, in fol. [Fondo Silvio Abbadessa]
La Divina Commedia fu una delle opere maggiormente stampate fin dalle origini della stampa. In particolare l’opera dell’Alighieri accompagnata
dal commento di Cristoforo Landino (1424-1498), lettore di poesia e oratoria presso lo Studio fiorentino, fu stampato per la prima volta a
Firenze nel 1481 per Niccolò di Lorenzo della Magna e altre quindici volte solo nel corso del Quattrocento; mentre uscirono da vari torchi italiani
nel corso del secolo successivo otto edizioni, in cui al commento di Landino venne aggiunto quello di Alessandro Vellutello (ca. 1473-nn.) e il
testo landiniano venne curato e rimaneggiato da Francesco Sansovino (1521-1586).
Un brevissimo ma significativo accenno alla vita musicale di Alighieri è stato anche fornito da Giovanni Boccaccio nella sua biografia intitolata
Origine, vita, studj e costumi del chiarissimo Dante Alighieri poeta fiorentino (1351-1366): l’Alighieri viene ritratto come dilettante della musica in
gioventù e amico di cantori e suonatori del suo tempo. Entrambe le affermazioni sono da ritenersi fondate e verosimili. Appare invece alquanto
inverosimile la supposizione di alcuni biografi, tra cui Francesco Filelfo (1398-1481), che indicano Casella come suo insegnante di musica.
22
FORZANO, Giovacchino (1883-1870) - PUCCINI, Giacomo (1858-1924)
Il Tabarro; Suor Angelica; Gianni Schicchi, libretto a stampa, Milano, G. Ricordi, 1920 [Riproduzione. Museo internazionale e
Biblioteca della Musica - Bologna]
23
D’ANNUNZIO, Gabriele (1863-1938)
Francesca da Rimini, Milano, Fratelli Treves, stampa 1903 [Fondo Libreria Palmaverde di Roberto Roversi]
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D’ANNUNZIO, Gabriele (1863-1938)
Francesca da Rimini. Tragedia in quattro atti, ridotta da Tito Ricordi, per la musica di Riccardo Zandonai, Parigi, Société anonyme des
editions Ricordi; Milano, G. Ricordi, 1914 [Fondo Carmine Jannaco]
(21)
(22)
(23)
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Bacheca 8
La musica polifonica, che si afferma a partire dal XII secolo, acquisì nel tempo un proprio specifico sapere disciplinare, che
prende il nome di contrappunto proprio dal magistero di saper combinare i puncta contra puncta, cioè i suoni tra di loro
nella nuova dimensione di contemporaneità sonora e verticalità visiva della notazione, tanto che nel ’300 i compositori
usavano prendere le poesie del tempo, madrigali e ballate sopratutto, e sommergerle con intrichi di ritmi, voci e melodie,
rendendole irriconoscibili. Non cessarono comunque i rapporti di collaborazione tra musicisti e letterati, né la commistione
tra poesia e musica. Caso emblematico fu quello di Petrarca, le cui opere, anche quelle non espressamente inviate dal poeta
agli amici cantori per essere musicate (come nel caso delle tre Ballate del Casanatense messe in musica da Confortino),
vennero utilizzate ampiamente nel nuovo genere musicale cinquecentesco del madrigale rinascimentale. Ma gli esempi di
poesia ‘autonoma’ messa in musica, dal XVI secolo in poi, sono numerosissimi. Nel XVIII secolo, ad esempio, Haydn musicò
Solo e pensoso, e, nel secolo successivo, Schubert introdusse tre testi petrarcheschi tra i suoi Lieder, mentre Petrarca fu
ancora fonte di ispirazione compositiva per Liszt e Schönberg. L’Orlando furioso dell’Ariosto, oltre a madrigali, ispirò ad
esempio alcuni drammi per musica di Antonio Vivaldi tra cui l’omonima opera rappresentata nell’autunno del 1727 al
Teatro Sant’Angelo di Venezia, su libretto di Grazio Braccioli; il Pastor fido del Guarini divenne un’opera in tre atti di Georg
Friedrich Händel, composta e rappresentata per la prima volta nel 1712.
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PETRARCA, Francesco (1304-1374)
Li sonetti canzone triumphi del Petrarcha con li soi commenti non senza grandissima euigilantia et summa diligentia correpti et in la
loro primaria integrita et origine restituti nouiter in littera cursiua studiosissimamente impressi, In Venegia, per meser Bernardino
Stagnino, 1519, 4° [Fondo Carlo Calcaterra]
L’esemplare presenta un’inversione delle due parti che lo compongono dovuta alla legatura. Nel colophon della prima parte, che contiene i sonetti
e le canzoni è riportato «stampadi in Venesia per Gregorio de Grigorij, del mese de maggio 1519». Il testo, apparentemente con la medesima
disposizione tipografica, era già stato edito da Bernardo Stagnino nel 1513. Ma, a ben guardare, la prima parte presenta lievi difformità di
composizione e disposizione del testo nelle pagine, sufficienti a identificarla come nuova edizione. Si può ipotizzare che lo Stagnino, volendo
riproporre l’opera petrarchesca, abbia affidato la ricomposizione della prima parte a Gregorio de Gregori, tipografo con cui sovente collaborava,
mentre o utilizzò per la seconda parte esemplari invenduti della prima edizione con ricomposizione del colophon o attese personalmente ad una
nuova impressione mediante la medesima forma tipografica usata nel 1513.
26
Petrarca. Opere italiane. Ms. Casanatense 924, commento di Emilio Pasquini, Paola Vecchi Galli, con un saggio di Carl Appel, Modena,
F. C. Panini, 2006 [Fondo Dipartimento di Italianistica - Università di Bologna]
Sebbene Petrarca non abbia lasciato un vero trattato sulla musica, numerosissimi sono i riferimenti a essa, sia nelle opere sia nella vita del
poeta: dai riferimenti epistolari alle sue frequentazioni musicali - amici compositori ed esecutori, giudizi sulle determinate qualità dei cantori,
riferimenti alla vita musicale del tempo; dal passo del testamento, in cui lasciò il suo liuto migliore all’amico Tommaso Bambasio, alle cronache
e biografie trecentesche che lo ritrassero sicuro conoscitore di musica nonché dotato di una voce dolcemente intonata.
Rispetto ad Alighieri, Petrarca, però, è testimonianza della profonda mutazione avvenuta nel frattempo nella teoria e pratica musicale. Ormai
lontano dalla trattatistica che faceva capo a Boezio, Petrarca considerò la musica ars nova: linguaggio autonomo, che necessitava di perizia,
talento e virtuosismo e che si avviava a separarsi definitivamente dal fare poetico, dalla teoria filosofica e dall’intonazione monodica di testi
lirici. E per questo, nel Canzoniere, si riferisce ai propri versi abbandonando il verbo cantare e sostituendo con parlare, avvicinando così la sua
poesia alla recitazione e allontanandola dal canto.
(25)
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27
CORTELLINI, Camillo (1561-1630)
Il primo libro de’ Madrigali a cinque voci, con dui à sei, di Camillo Cortellini detto il violino, musico dell’Ill.ma S.ria di Bolonga, nouamente
da lui composti e dati in luce, parte di volume a stampa, In Ferrara, nella Stamperia di Vittorio Baldini, 1583, 4° [Riproduzione.
Museo internazionale e Biblioteca della Musica - Bologna]
Ricchissima è la letteratura critica riguardante il fenomeno del madrigalismo musicale sviluppatosi sui testi del Canzoniere; musicati da Villaert,
Marenzio, de Rore, Cortellini, Monteverdi, Palestrina, i testi di Petrarca verranno considerati come garanzia dell’equilibrio poetico-musicale
del nuovo genere polifonico. Per il solo madrigale Non al suo amante più Diana piacque (Canzone X) esiste anche una trasmissione musicale e
studi recenti hanno dimostrato essere stato inizialmente composto per un’occasione musicale prima di vedere la sua sistemazione all’interno
dei Rerum Vulgarium Fragmenta. La musica, opera di Jacopo da Bologna, è presente, anonima dal punto di vista poetico, in un codice musicale
trecentesco.
28
ARIOSTO, Ludovico (1474-1533)
Orlando furioso di M. Lodouico Ariosto di nuouo ristampato con nuoua giunta di cinque canti del medesimo, In Vinegia, appresso
Gabriel Giolito de Ferrari, 1549, 4° [Fondo Carmine Jannaco]
29
GUARINI, Battista (1538-1612)
Il pastor fido tragicomedia pastorale del m. ill. sig. caualier Batista Guarini dedicata al sereniss. d. Carlo Emanuele duca di Sauoia, &
c. nelle reali nozze di s. a. con la sereniss. infante d. Caterina d’Austria, In Ronciglione, appresso Domenico Dominici, 1616, 24° lungo
[Fondo Giuseppe Raimondi]
30
HÄNDEL, Georg Friedrich (1685-1759)
The favourite Songs in the Opera call’d Pastor fido by M. Händel, partitura in fol., London, J. Walsh, 1734 [Riproduzione. Museo
internazionale e Biblioteca della Musica - Bologna]
(27)
(29)
(28)
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Bacheca 9
Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe, dal momento che nei
primi melodrammi di corte si ritrova sovente l’ambientazione
pastorale, l’Aminta fu solo occasionalmente presa in considerazione e utilizzata dai musicisti. I compositori famosi che
ne utilizzarono i versi (Simone Balsamino nel 1594, Erasmo Marotta nel 1600 e, successivamente Antonio il Verso nel
1612) preferirono il recitativo ai cori e lo adattarono alla forma del madrigale polifonico. La notorietà dell’Aminta musicale
del Marotta è testimoniata da un dipinto d’impronta caravaggesca, attribuito a Bartolomeo Cavarozzi (per le figure) e al
maestro della natura morta Acquavella. Sul tavolo, da notarsi il violino di scorcio e un libro di musica di cui sono visibili le
pagine contenenti il madrigale Dolor che sì mi crucii (Tasso, Aminta, vv. 1417-1438) tratto appunto dall’opera del Marotta.
L’identificazione del brano ha permesso di precisare il soggetto del quadro, che raffigurerebbe Aminta insieme con la
ninfa Dafne o Tirsi, in questo caso con riferimento ai versi 1319-1320 del testo tassiano, nei quali si ricorda l’abitudine di
Aminta di «raddolcir gli amarissimi martiri | al dolce suon de la sampogna chiara».
31
TASSO, Torquato (1544-1595)
Aminta favola boschereccia di Torquato Tasso ora alla sua vera lezione ridotta, Crisopoli [i.e. Parma], impresso co’ tipi bodoniani,
1793, in fol. [Fondo Carlo Calcaterra]
L’opera è qui proposta nell’elegantissima seconda edizione di Giambattista Bodoni (1740-1813), tipografo d’arte ancora oggi famoso per i suoi
Manuali tipografici e per i principi di proporzione estetica con cui curava la composizione della pagina, la scelta dei caratteri, la disposizione
degli ornamenti. Da notarsi la semplicissima copertina di cartone dal dorso piatto e alta unghiatura sui margini, generalmente coperta di carta
priva di decorazione, ovvero con carta solo agli angoli e al dorso, inventata dal Bodoni al fine di proteggere le proprie edizioni pregiate e di
evitare le manomissioni dei legatori.
Tasso dissertò di musica e poesia, a livello teorico, nel dialogo La Cavalletta ovvero della poesia toscana, composto nel 1584 e stampato per la
prima volta tre anni dopo. I coniugi Cavalletta e il poeta (rappresentato dal forestiero napoletano), nel continuo rimando ad autori classici e a
Dante e Petrarca, concludono che la poesia è finzione e le sue forme sono retorica e musica, intesa sia come canto sia come suono strumentale.
(31)
Bacheca 10
La novità introdotta dal madrigale cinquecentesco nel rapporto musica-poesia fu fondamentale: per la prima volta, infatti,
la composizione non intese realizzare un’immagine sensibile dell’armonia del creato o costruire edifici sonori in accordo
formale con il testo, bensì rappresentare in termini espressivi gli stati d’animo evocati dalla poesia. Un rapporto nuovo,
contenutistico, che giustificò i radicali interventi sui testi poetici al fine di rendere massimo l’effetto espressivo della
musica, a sottolinearne ogni significato affettivo, discorsivo e metaforico. Poesia e musica sono intese come sorelle: alla
poesia è dato il compito di tracciare il percorso, mentre alla musica quello di adornarla e ravvivarla, imitando sonoramente
gli affetti. E, nonostante i detrattori che esprimeranno, come vedremo, il loro biasimo verso il ‘teatro in musica’ fino al
XVIII secolo numerosi furono i sostenitori di questa felice unione tra musica e poesia.
L’edizione del Ripa arricchita da Giovanni Zaratino Castellini illustra la Poesia con un’immagine classica in cui la figura
femminile porta uno strumento musicale; Marino afferma nella seconda Diceria sacra, intitolata appunto La musica,
che “il vero concerto si forma di suono e voce”; Domenico Piola e Georges Tansière, rispettivamente pittore e incisore,
compongono l’antiporta del Cannocchiale aristotelico - opera sullo stretto rapporto tra arti e linguaggio - ponendo in
primo piano l’allegoria della Poesia, con un liuto appoggiato vicino, a guardare, aiutata dal vecchio Aristotele, le macchie
solari con un cannocchiale; infine John Brown pone ad epigrafe del suo trattato sulla naturale alleanza di Musica, Ballo
e Poesia alcuni versi tratti dall’Adone (Canto VII) del Marino: MUSICA, e POESIA son due sorelle | Ristoratrici delle afflitte
genti, | De’ rei pensier le torbide procelle | Con liete Rime a serenar possenti.
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32
MARINO, Giambattista (1569-1625)
Dicerie sacre del caualier Marino, In Venetia, appresso Giacomo Violati, 1615, 12° [Fondo Carlo Calcaterra]
Pubblicate per la prima volta a Torino nel 1614, le Dicerie del Marino, studi sulla letteratura patristica, ebbero immediata fortuna e furono
negli anni successive riedite numerose volte. Quest’edizione veneziana ripropone il piccolo formato della princeps, ma impreziosisce il testo
inserendo frontespizi con cornice figurata calcografica per ognuna delle tre trattazioni. Da notare, nel frontespizio calcografico della Musica, la
significativa scelta di strumenti musicali che formano la parte superiore della cornice.
33
RIPA, Cesare (1555-1645)
Della nouissima iconologia di Cesare Ripa ... ampliata non solo dallo stesso auttore ... ma anche arricchita ... dal sig. Gio. Zaratio Castellini,
In Padoua, per Pietro Paolo Tozzi, 1625, 4° [Fondo Istituto di Filologia moderna, Facoltà di Magistero - Università di Bologna]
La princeps di questa enciclopedia delle personificazioni di concetti astratti, compilata mediante l’ausilio di vastissime fonti letterarie antiche
e moderne fu stampata a Roma dagli eredi di Giolito nel 1593 senza apparato iconografico. Le illustrazioni vennero aggiunte, vista la fortuna
dell’opera, nelle edizioni successive, rivedute dall’autore e da Giovanni Zaratino Castellini (1570-1641), studioso di antichità, in particolare di
epigrafi, di cui possedeva una vastissima collezione.
(32)
(33)
34
TESAURO, Emanuele (1592-1675)
Il Cannocchiale aristotelico o sia idea dell’arguta et ingeniosa elocutione, che serue a tutta l’arte oratoria, lapidaria, et simbolica
esaminata co’ principii del diuino Aristotele dal conte & caualier Gran Croce D. Emanuele Tesauro, Quinta impressione, In Torino, per
Bartolomeo Zauatta, 1670, in fol. [Fondo Istituto di Filologia Moderna, Facoltà di Magistero - Università di Bologna]
Questa quinta impressione dell’opera più famosa di Tesauro fa parte di un ambizioso progetto editoriale voluto e sponsorizzato dal Municipio di
Torino nel 1670 per la ristampa di tutte le opere del letterato. Il progetto venne affidato a Bartolomeo Zavatta, editore di punta del momento, e
le opere vennero tutte corredate da nuovi frontespizi e antiporte, con il preciso intento di ammodernare visivamente i testi: la creazione dei rami
per le calcografie delle antiporta vennero affidate alla famosa coppia Domenico Piola-Georges Tansière, l’uno pittore l’altro incisore.
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BROWN, John (1715-1766)
Dell’origine, unione, e forza progressi, separazioni, e corruzioni della poesia, e della musica dissertazione del dottor Giovanni Brown
tradotta in lingua italiana dall’originale inglese, ed accresciuta di note dal dottor Pietro Crocchi senese accademico fisiocritico a cui si
aggiunge La cura di Saule ode sacra dell’istesso autore tradotta fedelmente in poesia italiana di metro irregolare a confronto del testo
inglese da Oresbio Agieo P. A., In Firenze, nella Stamperia Bonducciana, 1772, 8° [Fondo Carlo Calcaterra]
Pubblicato per la prima volta a Londra nel 1763, il trattato di Brown corrispondeva alle aspettative del pubblico colto inglese, che guardava con
interesse crescente al recupero dell’epica classica e della tradizione omerica. La fortuna del trattato fu immediata e, ben presto, l’opera venne
tradotta in francese, tedesco ed italiano. A renderla così popolare fu il singolare approccio antropologico che Brown diede alla questione, molto
dibattuta al tempo, del rapporto tra musica e poesia: la naturale alleanza di Musica, Ballo e Poesia è l’espressione di tutte le passioni dell’uomo
selvaggio, primitivo, non allontanato dalla Natura a causa della civiltà; quando queste tre sorelle vengono separate è inevitabile perdano attrattiva
ed entrino tutte in crisi. Il trattato fu tradotto in italiano da padre senese Pietro Crocchi che lo volle pubblicare insieme con la traduzione della
Cura di Saule curata da un suo confratello Francesco Corsetti, nell’Arcadia conosciuto con il nome Oresbio Agieo. La visione rousseaniana di
Brown lo spinge a considerare come primitiva e spontanea tutta la musica greca, sintesi perfetta di armonia, danza e poesia, idealizzando il
mondo antico, proprio in virtù di questa fratellanza tra le arti espressive, che, per questo, deve essere preso a modello anche per la società
moderna, decaduta nei gusti e nel costume. Così si esprime Brown: «Una unione efficace di queste possenti Arti [Musica e Poesia], dirette a’ loro
convenienti fini produrrebbe le più nobili, e vantaggiose conseguenze; rinnoverebbe, ed accrescerebbe la dignità d’ogni più gentile ornamento,
raffinerebbe il gusto, darebbe forza alla Religione, purificherebbe i costumi, avvalorerebbe la Politica del più prospero Regno. Insomma darebbe
una conveniente, e favorevole direzione a quella inondazione di ricchezze, che debbe o adornarlo, o opprimerlo».
(61)
(35)
(34)
Bacheca 11
Nella prima metà del Cinquecento si diffuse l’abitudine di inserire, tra i diversi atti delle commedie, intermezzi costituiti da
figurazioni mitologiche, allegoriche celebrative prive di dialogo drammatico, ma ricche e sontuose, accompagnate da musica
e da danza (di questi intermezzi ci danno notizia anche relazioni di grandi feste). Spesso gli spettatori erano attratti più
dallo splendore di queste coreografie che dalle vere e proprie rappresentazioni drammatiche. La musica quindi s’inserì nel
teatro come ‘musica di scena’ e, già nei primissimi anni del secolo successivo, prevalse sul testo, ribaltando il rapporto tra
suono e parole. Monteverdi per primo comprese che la disposizione del linguaggio musicale doveva essere commisurata
non alla forma del testo, bensì alla tensione emotiva in esso racchiusa: la nascita del melodramma fu proprio il risultato
di un processo di sperimentazione e riflessione teorica sulle affinità tra parola e musica, e l’aspirazione di fondere nella
forma della favola scenica, parole e musica, idillio e tragedia, contemperandoli in una superiore armonizzazione.
Fenomeno dirompente nella storia della musica e della letteratura italiana, il melodramma si basò proprio sulla divisione
tra il recitativo (il tessuto connettivo drammatico, lo sviluppo, cioè, della vicenda) e le arie (nuove forme musicali per i
momenti dell’affetto che muove i personaggi). E su questa alternanza si costruirono tutte le forme poetico-musicali del
XVIII secolo, di cui Metastasio fu universalmente riconosciuto il ‘campione’.
Da notarsi le due principali forme che assume il libretto in base al diverso contesto e luogo di fruizione: il testo pubblicato
per - e prima di - una specifica rappresentazione (nn. 40 e 41) e quello consolidato a posteriori, che sia stampato in una
collana di singoli opuscoli (n. 39) o in una raccolta completa di drammi (n. 38), in cui scompaiono tutti gli elementi di
legame con l’atto performativo (interpreti, balli, ecc.).
(39)
36
D’AMBRA, Francesco (1499-1558) - CINI, Giovan Battista (1528-1586)
La cofanaria commedia di m. Francesco D’Ambra con gli intermedi di Giovanni Cini. Recitata nelle nozze dell’illustris. sig. principe don
Francesco de’ Medici, e della sereniss. Giovanna d’Austria, In Firenze, 1750, 8° [Fondo Istituto di Letteratura italiana, Facoltà di Lettere
e Filosofia - Università di Bologna]
La Cofanaria, commedia in versi sdruccioli di Francesco D’Ambra (1499-1558), qui esposta in edizione settecentesca, fu rappresentata in
occasione delle nozze di Francesco de’ Medici con Giovanna d’Austria (1565). Per l’evento a Firenze furono decretati festeggiamenti sontuosi
per accogliere la sposa. Numerosi artisti, sotto la guida del Vasari furono chiamati a illustrare un grandioso programma di otto archi trionfali,
ideati da Vincenzio Borghini e intesi a glorificare i Medici e lo Stato toscano. Gli intermedi della commedia furono composti da Giovan Battista
Cini, al quale fu affidato ufficialmente l’allestimento di uno spettacolo teatrale. Essi sono ideati sul mito di Amore e Psiche, nella versione
tramandata dall’Asino d’oro di Apuleio. Il Cini fece un vero e proprio adattamento del testo “alla moderna”: tolse “modi di dire duri” scrisse
un prologo apposito, introdusse “Barbino et un Tedesco”, le cui parole furono tradotte da Jacopo Dani. All’ultimo momento (il 24 dicembre)
anche gli intermezzi furono tradotti in tedesco per uso personale della sposa. La rappresentazione avvenne il 26 dicembre nella “gran sala”
di Palazzo Vecchio. Alessandro Striggio e Francesco Corteccia musicarono i sei intermezzi (lo Striggio il primo, il secondo e il quinto; gli altri il
Corteccia: sono state ritrovate o ricostruite solo le musiche del primo e del quinto); alla scenografia lavorarono il Vasari e Federico Zuccari (di
cui son rimasti tre bozzetti per il sipario); gli effetti e i movimenti scenici (le mirabolanti “imitazioni” eseguite a scena aperta) furono opera del
geniale Bernardo Buontalenti. Fu un grande successo. Un anonimo (quasi certamente Domenico Mellini) fece subito stampare presso i Giunti
un opuscolo intitolato Descrizione dell’apparato della Comedia et intermedii d’essa..., che rapidamente giunse alla quarta impressione. L’ipotesi
che quest’operetta sia del Cini è da respingere. Anzi il Cini restò così seccato dell’operazione, che fece curare una nuova stampa dall’amico
Lasca: lo stesso anno 1566, presso Torrentino e Pettinati, uscì la Cofanaria (con premessa di Ceccherelli), accompagnata dal fascicoletto degli
intermezzi.
37
TASSO, Torquato (1544-1595)
Aminta di Torquato Tasso favola boschereccia, Firenze, per Niccolo Conti, 1819, 8° [Fondo Carlo Calcaterra]
L’edizione ottocentesca, sicuramente non paragonabile per eleganza e formato a quella bodoniana (n. 31), ha però un elemento testuale prezioso:
riporta in fondo al testo i quattro intermedi, aggiunti dall’autore dopo la prima pubblicazione dell’opera e comparsi a stampa solo in edizioni
postume. Giusto Fontanini, nella sua Aminta di Torquato Tasso difeso e illustrato ipotizza che gli intermedi fossero stati composti dall’autore
per la rappresentazione dell’opera a Firenze, voluta dal Granduca Alfonso II d’Este, alla cui corte ferrarese Tasso rimase a lungo con il titolo di
‘gentiluomo’. Sono purtroppo perdute le musiche che Claudio Monteverdi compose per i quattro componimenti, su testo di Ascanio Pio di Savoia,
per una rappresentazione dell’Aminta in occasione dei festeggiamenti per le nozze di Odoardo Farnese e Margherita de’ Medici (1628).
(36)
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METASTASIO, Pietro (1698-1782)
Opere dell’abate Pietro Metastasio arricchite di scelte dissertazioni di Mattei, Calsabigi, Algarotti, ed altri celebri autori, Quarta edizione
napoletana compitissima, Napoli, presso Porcelli, 1816, 19 volumi, 8° [Fondo Istituto di Filologia moderna, Facoltà di Magistero Università di Bologna]
Metastasio operò una vera svolta nel genere del melodramma. Pur non stravolgendone la struttura, mantenendo la divisione in tre atti, scandendo
il testo in arie di metro diverso e in recitativi di endecasillabi e settenari, elaborò un’idea nuova e diversa del genere, fondata sulla convinzione
del valore autonomo del testo poetico rispetto alla musica, ma, nello stesso tempo, creando con una straordinaria sensibilità musicale testi che
si adattavano ‘naturalmente’ al canto. Il fondamentale elemento di coesione tra musica e testo va ricercato nell’intuizione poetica del sogno, che
Metastasio oppone alla tradizionale ricerca della verosimiglianza: esplicitandone la natura di finzione, egli trova un punto di coesione tra natura
musicale e teatrale del melodramma, portando “sulla scena un universo fittizio di favole, immagini e sogni, lucidamente riconosciuti come tali,
ma capaci di muovere la vita degli affetti in una sorta di limpida musica dell’immaginazione” (Ezio Raimondi, Ragione e sensibilità nel teatro di
Metastasio, in Sensibilità e razionalità nel Settecento, 1967).
39
METASTASIO, Pietro (1698-1782)
Opere di Pietro Metastasio. Demetrio, Venezia, presso Ant. Curti q.m Giac., 1794, 16° [Fondo Piero Camporesi]
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METASTASIO, Pietro (1698-1782)
Demetrio drama per musica da rappresentarsi nel Regio Teatro di Torino, nel Carnovale del 1737 alla presenza della sacra real maestà
del Re di Sardegna &c., In Torino, appresso Pietro Giuseppe Zappata e Figlio, 1736, 8° [Fondo Carlo Calcaterra]
41
L’Arminio dramma per musica da rappresentarsi nel teatro Tron di S. Cassiano l’auttunno dell’anno 1747, [s.n.t.], 12° [Fondo Carlo
Calcaterra]
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Bacheca 12
Anche se già dal Cinquecento gli intermezzi avevano trovato, tra i letterati, forti detrattori (Trissino, Giraldi Cinzio, Grazzini),
ben più accaniti oppositori ebbe il melodramma, che nella prima stagione dell’Arcadia, fu oggetto di una vera ‘questione
dell’opera’. Per i letterati impegnati nella riabilitazione e restaurazione delle regole, con valenze morali ed estetiche, (tra
cui Muratori, Bettinelli e Martello) il dramma divenne il capro espiatorio contro cui scagliarsi: esempio di cattivo gusto
e di ignoranza fu individuato come causa prima della corruzione della poesia italiana per tutto il Settecento. Ma sotto
le critiche si nascondeva certo una completa e costante dimestichezza con i drammi dell’epoca e, in non pochi Arcadi, il
medesimo coinvolgimento in quanto autori. L’antinomia tra pubblica condanna e più o meno compiaciuta frequentazione
privata può essere dunque interpretata come segno dell’inevitabile, forzoso riconoscimento d’uno stato di fatto che sul
piano teorico non poteva invece trovare giustificazione. Su questa linea di biasimo si pongono anche Il teatro alla moda di
Benedetto Marcello, uno dei testi più famosi all’interno del filone satirico-umoristico contro il melodramma, e la ‘galante
farsetta’ Prima la musica e poi le parole di Giambattista Casti.
(42)
42
MURATORI, Lodovico Antonio (1672-1750)
Della perfetta poesia italiana spiegata, e dimostrata con varie osservazioni da Lodovico Antonio Muratori con le annotazioni critiche
dell’abate Anton Maria Salvini ... accademico della Crusca, In Venezia, appresso Sebastiano Coleti, 1724, 2 volumi, 4° [Fondo Piero
Camporesi]
Muratori ben rappresenta il panorama culturale italiano del primo Settecento, in cui i letterati coniugarono filologia ed erudizione, portando in
primo piano il valore dei documenti e la fedeltà alle fonti. Il trattato Della perfetta poesia è un compendio del buon gusto arcadico, «materiato di
esperienza e di ragione», e rappresenta il momento centrale della riflessione estetica del grande letterato (poi destinato a divenire, coi Rerum
italicarum scriptores, il padre della nostra storiografia medievale), lì sollecitato dalla polemica nei confronti della nostra più illustre tradizione
letteraria, quella che andava dal Petrarca al Tasso, suscitata dal francese Bouhours nella sua Maniera di ben pensare. Il trattato muratoriano,
parallelo alle ben più attardate osservazioni critiche dell’Orsi in difesa della poesia italiana, travalica quindi i confini del classicismo allora in
voga, appunto contrapponendo all’autorizzamento un nuovo criterio di giudizio, che coincideva con una nuova idea del bello, quale il buon
gusto, e giungendo alla conclusione che il rinnovamento della poesia italiana non può ridursi ad una pura imitazione dei classici (l’assalto ad
Omero era giusto il paradigma, dal Tassoni in poi, di tale loro necessario ridimensionamento), nella persuasione che la ricerca del vero, ossia del
verosimile, debba essere il fine della moderna poesia. Il testo, che circolava tra i letterati in forma manoscritta appena composto nel 1703, venne
pubblicato per la prima volta a Modena nel 1706, ricevendo immediatamente un largo consenso e una rapidissima fortuna, e fu poi ristampato
in quest’edizione dal veneziano Coleti nel 1724, con l’aggiunta delle note inedite del grecista Anton Maria Salvini (1653-1729), che, con Giusto
Fontanini e Giovan Gioseffo Orsi, fu uno dei primi lettori e correttori del trattato muratoriano. Il più vistoso intervento dell’autore, già all’altezza
dell’elaborazione manoscritta del trattato, fu quindi rappresentato (come ha provato Alfredo Cottignoli nel suo Muratori teorico. La revisione
della Perfetta poesia e la questione del teatro) dalla eliminazione dal terzo libro di una problematica dissertazione sulla musica antica, avversa alla
continuata melodia del melodramma moderno. Nonostante fosse un assiduo frequentatore, sin dal giovanile soggiorno milanese, dei moderni
teatri, come ben dimostra il suo epistolario, Lodovico Antonio Muratori consegnò, dunque, alle pagine della Perfetta poesia un giudizio negativo
molto netto sul contemporaneo dramma per musica, descritto come frutto di ignoranza, e addirittura come un ‘mostro’, perché interamente
cantato diversamente dall’antico. Restava, infatti, imprescindibile (anche dopo l’eliminazione dal manoscritto dell’originaria dissertazione
musicale), il richiamo al diverso ruolo ricoperto dalla musica negli antichi teatri (ove verisimilmente essa era riservata al coro e non agli attori,
la cui recitazione coincideva, tutt’al più, con una sorta di recitar modulato o di canto imperfetto), così come la constatazione che la decadenza
della musica contemporanea, in ogni caso totalmente diversa dall’antica, derivasse proprio dalla rottura di quel legame, ossia di quell’equilibrato
rapporto, tra musica e poesia, tra parola e musica, che avrebbe invece caratterizzato, col suo verisimile alternarsi di recitazione e canto, il più
tardo teatro metastasiano.
(42)
43
BETTINELLI, Saverio (1718-1808)
Del risorgimento d’Italia negli studj nelle arti e ne’ costumi dopo il mille dell’abate Saverio Bettinelli, In Bassano, a spese Remondini di
Venezia, 1775 [Fondo Carmine Jannaco]
Il Risorgimento d’Italia, opera molto apprezzata da Schlegel, è proposta qui nella sua prima edizione veneziana, che successivamente Remondini
ripropose con le correzioni dell’autore, che attese alla revisione del testo nei dieci anni successivi alla prima pubblicazione, anche grazie al
confronto con altri testi critici nel frattempo editi, come la Storia della letteratura italiana di Girolamo Tiraboschi. Se nel saggio giovanile
Dell’entusiasmo Bettinelli fa riferimento solo marginalmente alla musica e ai suoi rapporti con la poesia, nella seconda parte del Risorgimento,
dedica un intero capitolo - il quarto - alla musica, primo piacere dell’uomo, arte ‘naturale’ come la poesia e quindi ad essa perfettamente
affiancabile. Da notarsi come, con la maturità, cambino il giudizio e le idee dell’autore sul rapporto tra poesia e musica. Se nell’Entusiasmo
melodramma e tragedia non furono oggetto di puntigliose contrapposizioni e Maffei, Apostolo Zeno, Metastasio vennero approvati come poeti
capaci di investirsi delle passioni dei propri personaggi, in seguito Bettinelli auspicò una riforma del teatro, come già Muratori aveva sostenuto
all’inizio del secolo e critica aspramente il poeta che si dedica al melodramma perché “egli ha dovuto abbandonare lo stil poetico, la vera poesia,
l’eleganza e le grazie tutte di lingua, per servire all’ignoranza de’ maestri e de’ musici”.
44-45
MARCELLO, Benedetto (1686-1739)
Il teatro alla moda. Scrittura satirica di Benedetto Marcello P. V. soprannominato principe della musica; premessevi alcune illustrazioni
ed annotazioni per Andrea Tessier e la biografia dettata dal Conte Giammaria Mazzuchelli, Venezia, Tipografia dell’Ancora editrice,
1887 [Fondo Giuseppe Raimondi]
Il teatro alla moda, con un prologo e un sonetto satirici, a cura di Enrico Fondi, Lanciano, R. Carabba, 1913 [Fondo Giuseppe
Raimondi]
Il teatro alla moda di Benedetto Marcello (1686-1739) è uno dei testi più famosi all’interno del filone satirico-umoristico sul melodramma. Si
tratta di un vero e proprio pamphlet rivolto all’intero mondo del melodramma in tutte le sue componenti: poeti, musici, cantanti, “virtuose”,
madri delle “virtuose”, protettori, impresari, sarti, suggeritori e comparse. I 24 brevi capitoli che compongono il libro sono, in realtà, un decalogo
ironico in cui vengono presentati, come precetti da seguire, una serie di comportamenti riprovevoli dettati dal vizio, dall’ignoranza, dalla vanità,
dalla gelosia e dalla presunzione: grazie a queste prescrizioni antifrastiche, dunque, si offre al lettore uno spaccato impietosamente critico
dell’universo melodrammatico.
(44-45)
(43)
46
CASTI, Giovan Battista (1724-1803)
Prima la musica, poi le parole, in Raccolta di melodrammi giocosi scritti nel secolo XVIII, Milano, dalla Società tipogr. de’ Classici
italiani, 1826, 8° [Fondo Istituto di Filologia moderna, Facoltà di Magistero - Università di Bologna]
Dopo la pubblicazione del Teatro alla moda di Benedetto Marcello, graffiante satira del mondo dell’opera seria, la parodia del teatro musicale
divenne soggetto di intermezzi e opere quali L’impresario delle Canarie di Metastasio, musicato per la prima volta da Sarro (1724) e poi ripreso
da altri compositori, La bella verità di Piccinni, su libretto di Goldoni (Bologna 1762), La critica di Jommelli (1766), La canterina di Haydn
(1767) e L’opera seria di Gassmann (Vienna 1769). Alla stessa tipologia possono essere ricondotti anche Der Schauspieldirektor di Mozart e
Prima la musica, poi le parole, musicato da Salieri su libretto di Giovan Battista Casti. Queste due opere vennero rappresentate a Vienna durante
i festeggiamenti offerti il 7 febbraio 1786 nel giardino d’inverno (orangerie) del Castello di Schönbrunn, dall’imperatore Giuseppe II per la visita
della sorella. Molto probabilmente l’argomento venne scelto dallo stesso Giuseppe II, il quale intendeva mettere così a confronto opera tedesca e
opera italiana sullo stesso tema del ‘teatro nel teatro’. Casti, librettista rinomato presso i contemporanei, che l’associarono, per pregio e qualità,
a Da Ponte, si trovava allora presso la corte austriaca, avendo scelto, come già Metastasio prima di lui, di vivere fuori dall’Italia, presso i grandi
sovrani europei. Nell’elegante silloge ottocentesca qui esposta, questo divertimento teatrale viene riproposto, insieme con i già citati testi di
Metastasio, Goldoni e Jommelli, con una lunga prefazione che indugia sui meriti artisti di Casti, il cui ritratto è inserito in apertura del volume, a
fianco del frontespizio.
(46)
Bacheca 13
Metastasio, ‘perfezionatore’ della riforma del melodramma settecentesco, è l’emblema della tradizione italiana di poesia
in musica e della sua diffusione internazionale. Fatta eccezione per la Francia, l’opera italiana del Settecento ebbe come
territorio di fruizione e di produzione tutta l’Europa. Non mancarono infatti i fautori della musica moderna, sia italiani
sia stranieri. Secondo il loro punto di vista, la scienza musicale aveva ormai elaborato gli strumenti teorici necessari per
essere autonoma e per essere arte di pari dignità della poesia. Anzi, la necessità di commozione, propria della seconda
metà del Settecento, fa diffidare dai poeti «facitor d’anagrammi e incapaci di eccitare le passioni del cuore» ed esaltare
le arie parlanti metastasiane. Sull’esempio del poeta cesareo, a cui venne immediatamente inviata l’edizione spagnola, il
commediografo Tomás de Yriarte compose un poemetto didascalico attingendo dalla ricca ed eterogenea trattatistica sul
rapporto musica e poesia, mentre il medico Francesco Giovanni Zulatti ripercorre tutta la tradizione classica a sostegno
delle teorie mediche che vedono, nella musica, una forza terapeutica prodigiosa. Spettò ad Angelo Solerti, critico letterario
e musicologo, consegnare al XX secolo, una documentata storia del melodramma, in cui si restituisce definitivamente al
genere la propria importanza e dignità.
(48)
47
ALGAROTTI, Francesco (1712-1764)
Saggio sopra l’opera in musica, in Opere dell’abate Pietro Metastasio arricchite di scelte dissertazioni di Mattei, Calsabigi, Algarotti, ed
altri celebri autori, Quarta edizione napoletana compitissima, Napoli, presso Porcelli, 1816, 19 volumi, 8° [Fondo Istituto di Filologia
moderna, Facoltà di Magistero - Università di Bologna]
48
ZULATTI, Francesco Giovanni (1762-1805)
Della forza della musica nelle passioni, nei costumi, e nelle malattie, e dell’uso medico del ballo discorso del dottore Gio. Francesco
Zulatti di Cefalonia letto in una nobile adunanza, In Venezia, appresso Lorenzo Baseggio, 1787, 8° [Fondo Carlo Calcaterra]
Medico originario di Lissuri di Cefalonia, Zulatti studiò medicina a Padova e praticò la professione in varie città d’Italia, intessendo saldi rapporti
con intellettuali e letterati. Nel 1787 pubblicò questo trattato, che approfondiva tematiche già indagate dal padre Angelo, anch’egli medico.
Zulatti si sofferma, proprio nelle prime pagine del suo trattato, sulla questione annosa del rapporto tra poesia e musica, schierandosi nettamente
a favore della seconda. Se, infatti, la parola «convince la mente col raciozinio ma non arriva a commovere il cuore», la semplice lettura di un testo
può solo ispirare ammirazione, mentre se «eseguita con varianti ed energici tuoni di voce, strapperà le vostre lagrime». La musica, quindi, grazie
alla melodia, che è diretta imitazione della natura, è arte che colpisce e ispira sentimenti nell’uomo, e, per questo, può avere una importante
funzione guaritrice nelle malattie nervose, calmando o ridestando l’anima, a seconda delle diverse patologie.
(47)
(48)
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YRIARTE, Tomás de (1750-1791)
La musica poema di D. Tommaso Iriarte tradotto dal castigliano dall’abate Antonio Garzia, In Venezia, nella stamperia di Antonio
Curti, 1789, 4º [Fondo Carlo Calcaterra]
Poeta e favolista, commediografo incline all’imitazione dei modelli francesi, Tomás de Yriarte compose questo poemetto didascalico attingendo
dalla ricca ed eterogenea trattatistica sull’argomento. L’autore si sofferma sugli elementi costitutivi della musica, sulla sua fruizione pubblica
e privata, sulla qualità degli strumenti e sull’origine e i progressi del dramma per musica dall’antichità agli abusi introdotti nei tempi moderni.
L’opera venne pubblicata per la prima volta a Madrid nel 1779. La princeps venne prontamente inviata dall’autore a Pietro Metastasio, che il
25 aprile 1780, da Vienna, gli rispose con una calorosissima lettera di ringraziamenti ed elogi per “l’armoniosa, vivace e nobile facilità del suo
stilo”. Certamente l’apprezzamento del poeta cesareo contribuì alla fortuna dell’opera, che fu varie volte ristampato in Spagna e tradotto prima
in italiano (l’edizione qui proposta è la prima traduzione del poema ad opera di Antonio Garzia) e, successivamente, in francese ed in inglese,
nonostante la critica, soprattutto in patria, non gli fosse particolarmente favorevole. La nitida stampa veneziana fu finanziata dall’ambasciatore
di Madrid a Roma e affidata all’ex gesuita Antonio Garzia (anch’egli spagnolo d’origine) che trasformò in soli endecasillabi la ‘silvas’ polimetrica
originaria. L’edizione è arricchita da “sei rami originali allusivi” già utilizzati per la princeps madrilena. La trattazione del quarto canto rintraccia
le linee fondamentali del rapporto poesia e musica nei secoli: dalla Grecia antica, in cui esse furono compagne inseparabili, alla decadenza del
gusto nei secoli successivi alla caduta dell’Impero romano e al ‘divorzio’ (per usare la terminologia di Contini e Roncaglia) tra le due antiche
sorelle, che ne sancì la ‘fatal strage e rovina’. Yriarte non manca di sottolineare come alla caduta si susseguì una nuova età di splendore, grazie a
Metastasio, capace di esprimere ‘sublimi pensier, [...] colle note, e indi adattarli al dolce tuon di delicata voce!’. Metastasio, quindi, rappresenta per
Yriarte il punto d’arrivo del melodramma riformato, al quale i musicisti debbono adeguarsi con umiltà per valorizzarne l’eccellente poetica.
50
SOLERTI, Angelo (1865-1907)
Gli albori del melodramma, Milano, R. Sandron, 1904-1905 [Fondo Carlo Calcaterra]
Angelo Solerti si laureò in lettere a Torino nel 1887 e fu professore di lettere nei licei di Carmagnola e di Bologna; fu bibliotecario, inoltre, della
Marciana di Venezia. Il principale oggetto dei suoi studi letterari fu Tasso, del quale indagò le vicende biografiche e poetiche in innumerevoli
pubblicazioni analitiche e nella più ampia Vita di Torquato Tasso (Torino, 1895). I suoi interessi di studioso di letteratura si orientarono, inoltre,
su Dante, Petrarca, Boccaccio e Ariosto, occupandosi sia di alcune delicate questioni attributive che delle loro vicende biografiche in senso lato.
Rivolse, quindi, la sua attenzione alla storia e alla tecnica della metrica barbara, alla storia del costume e a quella del melodramma. In quest’ultimo
settore mirabile è la sua ricostruzione monumentale in tre volumi Gli albori del melodramma, in cui si procede alla prima sistematica e rigorosa
codificazione novecentesca del genere operistico. Tale realizzazione, dall’importanza assolutamente fondativa per gli studi in quest’area, ha di
fatto tracciato un canone della storia dell’opera dagli inizi fino al pieno Ottocento, stimolandone il dibattito e promuovendone la dignità.
(49)
(50)
Bacheca 14
Con il Romanticismo nell’opera in musica si consumò il definitivo ribaltamento di importanza tra testo e musica.
L’allontanamento dalla lingua parlata (e letteraria) sia per vocaboli sia per struttura, fece nascere una “lingua dei libretti”,
di tono alto, iperbolica, giustificata dalla forte enfasi ritmica che il testo doveva avere per ben rispondere alla musica,
metricamente e sintatticamente più connotata che in passato. La ‘fabbrica’ del libretto ottocentesco obbediva in tutto
e per tutto alla logica, solo apparentemente esterna, dell’effetto musicale tanto che il verso poetico era organizzato in
modo da salvaguardare la resa della musica. Ma non mancarono nemmeno oppositori a questa comune opinione: Antonio
Ghislanzoni, autore dei versi dell’Aida, ad esempio, nella sua Poetica ad uso dei librettisti (1854-55) critica aspramente
Metastasio «corruttore di questo genere perfettissimo di Poesia» e dichiara che «se la Musica esprime poco di sua natura, il
verso dee supplirvi coll’esprimere troppo». L’allineamento tra poesia e poesia in musica rimase comunque sostanzialmente
invariato; solo verso la fine del secolo, mentre la poesia andava incontro a un rinnovamento radicale e irreversibile, la
lingua librettistica si aprì a diverse soluzioni espressive: il punto di svolta fu, come è noto, la collaborazione tra Verdi e
Boito, ovvero la realizzazione dell’Otello e del Falstaff, e infine quella della Bohème di Puccini, opere con cui la fisionomia
del dialogo in scena e il rapporto tra personaggio e lingua apparirà definitivamente rinnovato.
In Germania il protagonista indiscusso fu Richard Wagner, che riformò il libretto d’opera, sopprimendo il dualismo
librettista-compositore e la distinzione tra recitativo e aria e sostituendo l’ambientazione storica con quella mitologica
e leggendaria della tradizione tedesca. Anche per Wagner il testo è subordinato al suono: egli stesso nel saggio Musica
dell’avvenire affermò che solo «nella musica, in questa lingua intellegibile ugualmente a tutti gli uomini, doveva risiedere
la potenza grande e conciliatrice, la quale, risolvendo la lingua delle idee in quella dei sentimenti, comunicava a tutti gli
uomini universalmente quanto di più impenetrabile vi è nella intuizione dell’artista».
(57)
51-54
Scelta di libretti a stampa pubblicati da Giulio Ricordi, con musiche di:
VERDI, Giuseppe (1813-1901)
[Fondo Piero Camporesi]
55-58
Scelta di libretti a stampa pubblicati da Giulio Ricordi, con musiche di:
PUCCINI, Giacomo (1858-1924)
[Fondo Piero Camporesi]
Se la fama di Verdi e Puccini è tale da far apparire scontato qualunque nostra chiosa ai loro più celebri libretti, meno scontata è la storia
della casa editrice Ricordi, caso unico nel panorama musicale e imprenditoriale italiano, che ci piace qui ricordare, traendo le informazioni
dall’Archivio storico della Ricordi. Fondata nel 1808 da Giovanni Ricordi, violinista e copista musicale, la Casa tradizionalmente intrattenne
rapporti di solidarietà e collaborazione con gli autori pubblicati, che andavano ben oltre il semplice rapporto di lavoro. Quello di Giuseppe Verdi
e Giovanni Ricordi, ad esempio, fu l’incontro ‘fatale’ di due personalità affini che intendevano il genere operistico come fenomeno estetico e
sociale, e su questo sentire fondarono un progetto comune, una fortunata collaborazione coronata da incredibili successi. Con la sua attività,
Giovanni Ricordi avviò nel campo del melodramma italiano un processo decisivo, che interessava anche lo sviluppo dell’opera sotto il profilo
dell’autonomia e unicità della produzione artistica. Il coscienzioso lavoro di promozione svolto da Ricordi nei confronti degli autori e del loro
lavoro, unito al suo intuito imprenditoriale, fecero in modo che, in appena quarant’anni di vita, una piccola copisteria musicale si trasformasse in
una casa editrice influente e di grande successo. Altro incontro non meno fortunato e prolifico avvenne tra Puccini e il nipote di Giovanni, Giulio
Ricordi, che seppe indirizzare e sfruttare al meglio le capacità del compositore. Con profondo intuito e un’eccellente conoscenza del mercato
musicale, nel momento in cui l’energia produttiva di Giuseppe Verdi cominciava a scemare, Giulio si mise alla ricerca di un nuovo astro. Il geniale
editore-impresario aveva nel frattempo sviluppato e consolidato il proprio primato nell’ambito dell’editoria musicale. Chi veniva pubblicato
da Ricordi aveva concrete possibilità di emergere ed era in buone mani, perché Giulio si dedicava con vero slancio alla promozione dei ‘suoi’
musicisti. Fu in effetti ‘l’abile burattinaio’ della scena musicale italiana del suo tempo. All’ormai anziano Verdi egli ‘affiancò’, con un sicuro istinto
per il talento musicale del suo nuovo protetto, un giovane Giacomo Puccini, alla cui ascesa e fama mondiale Giulio contribuì in misura decisiva.
Giulio sostenne Puccini sia moralmente che economicamente; lo aiutò a superare i momenti di crisi personale e produttiva, intrattenne con lui un
intenso scambio epistolare. Impeccabile e cordiale come uomo, geniale come imprenditore, Giulio condusse Casa Ricordi all’apice del successo.
(51-54)
(55)
(56)
(58)
59
WAGNER, Richard (1813-1883)
Lohengrin. Grande opera romantica in tre atti, parole e musica di Riccardo Wagner, traduzione dal tedesco di S. De C. Marchesi, Sesto
S. Giovanni, A. Barion, 1927 [Fondo Piero Camporesi]
60
WAGNER, Richard (1813-1883)
Musica dell’avvenire, ad un amico francese (Fr. Villot) quale prefazione ad una versione in prosa de’ miei poemi d’opera, traduzione dal
tedesco di L. Torchi, 2. ed., Torino, Fratelli Bocca, 1907 [Fondo Enrico Maria Fusco]
Richard Wagner – compositore, scrittore e librettista tedesco dell’Ottocento - impiegò il suo genio per realizzare un teatro totale, unione
stilistica di poesia, suono e recitazione, cioè un’opera in musica che racchiudesse tutte le forme d’arte, compresi gli elementi architettonici e
scenografici. Le sue opere (in particolare l’imponente ciclo L’anello del Nibelungo) sono ispirate per lo più all’epica germanica per concezione
e per linguaggio; esse costituiscono il culmine del dramma musicale romantico. Fortemente attratto dal teatro d’opera, dalla musica, dalla
letteratura, dalla filosofia e dalla politica, Wagner non seguì studi regolari e realizzò il grosso della sua formazione da autodidatta. La sua
riflessione teorica sulla natura dell’arte e dell’opera teatrale sfociò negli scritti L’opera d’arte dell’avvenire (1849) e Opera e dramma (1851), nei
quali Wagner auspicava la nascita di un’arte libera da schemi e da convenzioni, che si esprimesse nell’«opera d’arte totale», in cui parola, musica
e arte drammatica risultassero fuse in unità. Tali ideali estetici sono espressi nell’ambizioso progetto L’anello del Nibelungo, che costituisce il
discrimine dell’esperienza romantica tedesca, in senso artistico e musicale ma anche filosofico; infatti la musica, linguaggio dell’inesprimibile
e dell’inconscio, concorre con le altre arti alla realizzazione di un’esperienza artistica unica, che recupera il valore del mito tornando alle fonti
espressive originarie, esalta la purezza germanica, annulla le differenze tra finzione e realtà.
Dal punto di vista tecnico, teatrale ed espressivo, con L’anello del Nibelungo Wagner portò a compimento innovazioni che si trovavano già in
germe nell’Olandese volante: viene abolita la forma chiusa articolata nell’alternanza di recitativi e arie a favore di un flusso melodico ed emotivo
continuo, e viene impiegato il Leitmotiv, cioè un «motivo conduttore» che caratterizza un personaggio, un sentimento o un’idea, riproposto –
variamente elaborato – ogni volta che il personaggio o la situazione cui il motivo si riferisce si presenta in scena. Inoltre, il timbro e i più ingegnosi
artifici dell’orchestrazione e dell’armonia vengono usati per esprimere i sentimenti o la psicologia dei personaggi e la tonalità tradizionale viene
allargata. La trama dell’Anello del Nibelungo è ricca di vicende, personaggi e significati, ereditati ma talora trasformati rispetto alla mitologia
(Nibelunghi) per esaltare simboli o adattarli alle funzioni drammaturgiche.
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WAGNER, Richard (1813-1883)
Sigfrido. Seconda giornata della trilogia L’anello del nibelungo, versione ritmica dal tedesco di A. Zanardini, Milano, G. Ricordi [Fondo
Piero Camporesi]
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WAGNER, Richard (1813-1883)
Siegfried (Der Ring des Nibelungen). Seconda giornata, in tre atti, nuova produzione, Milano, Edizioni del Teatro Alla Scala, 2013
[Fondo Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica - Università di Bologna]
Wagner a Bologna
Il 1° novembre 1871 venne eseguita la prima del Lohengrin al Teatro comunale di Bologna, prima rappresentazione in assoluto di un’opera di
Richard Wagner in Italia. L’arrivo a Bologna dell’opera del compositore tedesco è frutto dell’interessamento del sindaco Camillo Casarini e avviene
su pressione della stampa cittadina, dominata dalla figura del giovane assessore Enrico Panzacchi. Le «stramberie della musica dell’avvenire»
trovano opposizione tra gli influenti soci della Società Felsinea, che considerano Wagner «incomprensibile come un geroglifico egiziano», tra i
liberali moderati e soprattutto tra i clericali, che si scagliano con aspri articoli contro il “framassone” Wagner. Sotto la guida del maestro Angelo
Mariani, cantano il tenore Italo Campanini (Lohengrin), Bianca Blume (Elsa), Maria Löwe Destin (Ortruda), Elisa Stefanini Donzelli, Pietro
Silenzi. Il Teatro Comunale è gremito in ogni ordine e accoglie i più bei nomi dell’aristocrazia bolognese, fra cui Enrico Panzacchi e Alfredo Oriani.
Il successo è fin dalla prima straordinario: gli artisti e il direttore vengono più volte richiamati alla ribalta. Ad una delle quattordici repliche
presenzierà anche Giuseppe Verdi, accompagnato da Arrigo Boito. Il 31 maggio 1872 il Consiglio municipale assegnerà a Wagner la cittadinanza
onoraria. Il Teatro Comunale diverrà il tempio del culto wagneriano in Italia: a Bologna si terranno anche le prime italiane di Tannhäuser (1872),
Il vascello fantasma (1877), Tristano e Isotta (1888) e Parsifal (1914).
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