LA CRISI DEL III SECOLO d. C. 1.1. Il caos

LA CRISI DEL III SECOLO d. C.
1.1. Il caos politico dopo i Severi
I precedenti. Nel 235, con la morte di Alessandro Severo, la dinastia che governava l'Impero
da quarant’anni si esaurì. Non era la prima volta che accadeva, nell'ormai lunga storia della Roma
imperiale: una situazione simile si era verificata nel 68dopo la morte di Nerone, nel 96 dopo quella
di Domiziano, e ancora nel 192 dopo quella di Commodo. Tutte le volte, l'accesso di una nuova
famiglia al trono era stato problematico e aveva comportato scontri violenti fra i diversi aspiranti.
Alla morte di Nerone ben quattro pretendenti al trono si erano combattuti con violenza inaudita
e il vincitore, Vespasiano, era stato il primo imperatore designato non dal senato, ma dai legionari
del suo esercito; inoltre, Vespasiano era un provinciale e di nobiltà molto recente, tutt'altra cosa,
insomma, rispetto ai Giulio-Claudi, aristocratici si può dire da sempre. Non meno traumatica, e
ricca di importanti novità, la successione a Domiziano: il nuovo imperatore Nerva aveva infatti
introdotto il principio adottivo in sostituzione di quello dinastico, in modo che a succedere al
principe defunto non fosse il figlio, ma un uomo opportunamente selezionato per le sue capacità.
235-284: l’anarchia militare. Il principato adottivo funzionò bene per quasi un secolo, ma
naufragò tragicamente con Commodo. Questa volta la lotta per la successione durò cinque anni,
prima che emergessero dal caos i nuovi padroni del mondo, i Severi: appunto quei Severi il cui
ultimo rappresentante era morto nel 235. Cosa sarebbe successo ora?
Quello che successe fu la crisi politico-militare più grave e più lunga affrontata fino a quel
momento da Roma. Nei cinquant'anni che vanno dal 235 al 284, anno in cui salì al potere
Diocleziano, sul trono imperiale si alternarono almeno una settantina di principi, alcuni legittimi,
nel senso che la loro ascesa al potere ricevette il riconoscimento del senato, la maggior parte
usurpatori, cioè mai riconosciuti ufficialmente. Ma la differenza tra le due categorie era in realtà
labile, perché quasi tutti gli imperatori furono scelti e sostenuti dai loro soldati, che in quel
cinquantennio divennero gli arbitri assoluti della vita politica romana: è l'epoca che va sotto il nome
di anarchia militare.
Il potere degli eserciti. Nella maggioranza dei casi, perciò, questi imperatori non erano
espressione di ceti, classi sociali, gruppi di interesse diffusi, e men che meno erano portatori di un
progetto complessivo di governo della società o di soluzione ai problemi dell'Impero. Essi
rappresentavano perlopiù gli interessi immediati dei propri legionari (quando non erano legionari
essi stessi), che si attendevano dal proprio ufficiale divenuto imperatore privilegi, un miglioramento
delle proprie condizioni di vita e di servizio o semplicemente riconoscimenti materiali.
Poteva perciò capitare, e di fatto capitò spessissimo, che gli stessi soldati, dopo aver acclamato
imperatore il loro comandante, delusi dal suo comportamento lo eliminassero con la stessa facilità
con la quale lo avevano eletto. Inoltre, poiché le legioni erano sparpagliate ai quattro angoli
dell'immenso territorio imperiale, accadeva che legioni diverse proclamassero contemporaneamente
imperatori diversi, che quindi si sovrapponevano, si combattevano, qualche volta riuscivano ad
affermarsi, per poi soccombere dopo pochissimi anni, talvolta dopo pochi mesi o giorni, di fronte a
un nuovo principe, spesso altrettanto effimero.
Il ruolo del senato. In questo contesto, il ruolo del senato e dell'aristocrazia che in esso sedeva
- la seconda colonna del sistema istituzionale costruito da Augusto - finiva per essere fortemente
ridimensionato. Dal punto di vista formale, l'acclamazione ^dei soldati non bastava per trasformare
un privato cittadino in principe: doveva essere il senato a convalidarla e l'aristocrazia cercò di
sfruttare questa sua funzione per condizionare in qualche modo il convulso andamento delle
vicende.
Il riconoscimento del senato rafforzava indubbiamente il prestigio e il consenso del prescelto
così come, viceversa, l'opposizione della massima assemblea romana rischiava di indebolire
l'appoggio (già di per sé tutt'altro che solido) di cui imperatori o aspiranti tali godettero durante
l'anarchia militare. In generale, però, l'aristocrazia fu vittima delle circostanze; tentò di orientare il
gioco a proprio vantaggio, o quantomeno di limitarne i danni, ma si trattava di un gioco del quale
non era lei a dettare le regole.
1.2. Il cedimento delle frontiere
I barbari alle porte. La nuova importanza assunta dall'esercito nel cinquantennio
dell'anarchia militare dipendeva anche dal fatto che la difesa era diventata il settore cruciale
dell'azione di governo. A partire dal III secolo, le incursioni delle popolazioni germaniche
all'interno dell'Impero divennero sempre più frequenti e non si limitarono a occasionali razzie nei
territori di frontiera, ma penetrarono molto in profondità nel tessuto vivo delle campagne e delle
città romane. Come se non bastasse, fu una pressione diffusa lungo l'intero confine: crisi continue
tormentarono tanto l'asse Reno-Danubio, cioè il confine nord dell'Impero, quanto la frontiera
esterna della Siria, che ne rappresentava invece il confine orientale.
Il ritorno dei persiani. Proprio nella zona della Mesopotamia, immediatamente all'esterno
della frontiera est, si stavano verificando infatti cambiamenti inquietanti. In questa regione per
secoli i nemici per eccellenza di Roma erano stati i parti; con il tempo, però, i due imperi avevano
raggiunto una sorta di pacifica convivenza, rinunciando ai reciproci tentativi di sottomissione. Ma
all'inizio del III secolo (227 d.C.) si affermò tra i parti la nuova dinastia dei Sasanidi, che si
proclamavano discendenti degli antichi re persiani e delle loro ambizioni espansionistiche: nei
documenti ufficiali, i Sasanidi si definivano "re dei re dell'Iran e del non-Iran", volendo significare
che il loro potere si estendeva idealmente a tutti i popoli della Terra.
L'imperatore prigioniero. Il cambio al vertice dell'Impero partico si fece subito sentire. Le
province orientali dell'Impero romano furono ripetutamente attaccate dai persiani. Nel 260 l'allora
imperatore Valeriano cadde prigioniero del re sasanide Shapur I. Era un evento epocale: per la
prima volta, un imperatore romano era schiavo di un sovrano straniero. Shapur, dal canto suo,
celebrò l'evento in una colossale iscrizione collocata a Persepoli, una delle antiche capitali
dell'Impero persiano.
La pressione dei germani. Un'altra area calda era il fronte renano-danubiano. Nel corso del III
secolo le popolazioni germaniche dei franchi, degli alamanni e dei vandali sfondarono a più riprese
il confine del Reno, penetrando a fondo in Gallia e Spagna e giungendo anche in Italia. La Dacia, il
vasto territorio a nord del Danubio conquistato all'inizio del II secolo da Traiano, dovette essere
abbandonata: la provincia era priva di difese naturali, e dunque di fatto indifendibile. Intanto i goti,
un'altra popolazione germanica, originariamente stanziata in Scandinavia, si affacciavano nella
penisola balcanica, giungendo fino in Grecia e saccheggiando, tra l'altro, Atene.
L’impero spaccato. Di fronte all'enorme difficoltà degli eserciti imperiali di presidiare tutte le
zone di crisi, le diverse aree dell'Impero cercarono di fare da sé, mobilitando ogni risorsa
disponibile. Si verificò allora un fatto inaudito: intere aree dell'Impero si sganciarono dal potere
centrale, organizzandosi come entità autonome per meglio resistere alle invasioni. Per alcuni anni, a
partire dal 260, ci fu così un "imperium Galliarum", impegnato a fronteggiare i germani, mentre le
province dell'area siriana si organizzavano nel Regno di Palmira, la città più importante, che
conserva ancor oggi splendide vestigia romane: qui la lotta era diretta contro i persiani, che vennero
in effetti respinti.
Aureliano e le mura di Roma. Le ripetute invasioni dell'Italia furono uno shock per gli
abitanti della penisola: e Aureliano, imperatore dal 270 al 275, ne trasse fino in fondo le
conseguenze, facendo circondare Roma con una nuova cinta di mura, così solide e imponenti da
essere sopravvissute in gran parte fino a oggi. Era dall'epoca dei re, quasi ottocento anni prima, che
a Roma non si costruivano mura difensive: la semplice idea che la capitale dell'Impero potesse
essere attaccata era stata fino ad allora impensabile. Sotto Aureliano e il suo successore Probo (276282) le secessioni dei decenni precedenti furono riassorbite e il rischio di una disgregazione
dell’Impero venne per il momento scongiurato. Tuttavia il senso delle mura di Roma restava chiaro:
nessun luogo era più sicuro, nemmeno in Italia, e i nemici dell’impero erano ormai capaci di
colpirlo al cuore.
2.1. Economia e società in un'età di crisi
L’economia nel tardo-antico. Oltre mezzo milione di soldati; continue invasioni da parte delle
popolazioni germaniche, con il loro seguito di saccheggi, razzie, distruzioni di case di campagna,
raccolti, strumenti di lavoro; un potere politico instabile, che passava di mano in mano prima ancora
che ci fosse il tempo di impostare un programma di governo: nel secolo che stiamo prendendo in
considerazione c'erano tutte le premesse per una gravissima crisi economica e sociale.
Del resto, da quando Roma aveva esaurito la spinta espansiva il denaro non affluiva con la
facilità di prima nelle casse pubbliche. Se l'Impero non cresceva in estensione e in popolazione, non
crescevano nemmeno le persone e le attività tassabili, lo sfruttamento agricolo e minerario di nuovi
territori, il volume dei commerci interni. Tendeva quindi a circolare la ricchezza già esistente,
piuttosto che a crearsene di nuova: anzi, specie nel martoriato Occidente, c'erano voci di spesa che
assorbivano risorse sempre più ingenti, a partire dalle spese militari.
Una pesante tassazione. Qualsiasi esercito costa, e l'esercito romano di età tardo-antica
costava enormemente. Si trattava di una spesa irrinunciabile, e non solo per ragioni strettamente
legate alla difesa: era importante che i soldati fossero ben pagati, perché di fronte alla pressione dei
"barbari" non si poteva correre il rischio di rivolte o ammutinamenti fra le truppe. Dagli imperatorisoldati a Diocleziano a Costantino si assistette perciò a un continuo aumento della pressione fiscale,
perché le risorse necessarie alla macchina militare potevano essere ricavate soltanto attraverso un
giro di vite della tassazione.
Altre risorse servivano per il meccanismo delle distribuzioni gratuite di generi alimentari ai
nullatenenti, a Roma e in altre metropoli dell'Impero, per esempio Costantinopoli: un privilegio
antichissimo, che nessun imperatore aveva osato intaccare e al quale la plebe romana non avrebbe
rinunciato mai. Gli esattori fiscali non erano mai stati popolari; ma nel corso del tardo impero la
tassazione divenne un meccanismo opprimente, che generò vere e proprie rivolte e scioperi fiscali.
La svalutazione della moneta. Nell'antichità il valore della moneta non era nominale, come
quello delle nostre banconote (che sono pezzi di carta senza valore intrinseco): era invece un valore
reale, determinato dalla quantità d'oro o d'argento contenuta nelle monete stesse. A partire dal III
secolo, la necessità di coniare quantità maggiori di monete, per far fronte alle spese, portò a
diminuire la percentuale di metallo pregiato nelle monete e, per conseguenza, si innescò un
processo di inflazione.
L'inflazione ha luogo quando aumentano in modo generalizzato i prezzi e diminuisce il potere
d'acquisto della moneta. I prezzi crebbero durante tutta l'età imperiale di Roma: nel I-II secolo in
misura fisiologica, nel III-IV con brusche impennate e fuori da ogni controllo. Oltre all'emissione di
moneta svalutata (con poco metallo prezioso), un'altra causa dell'inflazione tardo-antica dovette
essere l'aumento del costo del lavoro e quindi dei prodotti finiti, perché gli schiavi cominciarono a
scarseggiare e dovettero essere rimpiazzati con lavoratori salariati.
Le campagne. Mentre infatti la società nel suo complesso si impoveriva, c'era chi diventava
sempre più ricco. I senatori, i funzionari che avevano raggiunto i vertici della carriera burocratica, i
grandi comandanti militari continuarono ad accumulare anche nel III e IV secolo fortune
scandalose: i latifondi erano diventati sterminati, specialmente in Africa, un'area rimasta immune
dalle grandi invasioni barbariche e dove la terra era nelle mani di pochissimi privilegiati.
Ma a lavorare nei latifondi non c'erano più le grandi concentrazioni di schiavi, perché in età
tardo-antica (accelerando la tendenza già in atto) il numero degli schiavi si ridusse fortemente. Per
integrarli o sostituirli occorreva un nuovo tipo di rapporto fra proprietari e lavoratori della terra:
questo rapporto, che lentamente si diffuse, fu il colonato.
Il colonato. Dal punto di vista formale i coloni erano uomini liberi, ma di fatto risultavano
legati alla terra che lavoravano. Erano alle dipendenze di un grande latifondista, dal quale non
venivano nutriti, come gli schiavi, ma ricevevano appezzamenti di terra per ricavarne il proprio
sostentamento. Al padrone dovevano corrispondere un canone in denaro o in natura e,
soprattutto, non potevano abbandonare la terra, né per dedicarsi a un mestiere diverso né per
cambiare residenza; la terra e chi la lavorava costituivano quindi un'unità inscindibile, che
passava di mano in blocco, se cambiava il proprietario.
A parte la nascita libera, insomma, non molto differenziava i coloni dagli schiavi. La loro
vita era assai dura, senza contare che le campagne erano le più esposte alle invasioni (a
eccezione dell'Africa, per il momento), tanto che la casa padronale divenne spesso una sorta di
villa fortificata, quasi un piccolo castello, per affrontare meglio gli eventuali attacchi. In queste
campagne tardo-antiche, il Medioevo, con i suoi feudatari e i suoi servi della gleba, stava già
prendendo forma.