Dottorato di Ricerca in Musica e Spettacolo Curriculum “Storia e

Dottorato di Ricerca in Musica e Spettacolo
Curriculum “Storia e Analisi delle Culture Musicali”
Undicesimo Seminario Annuale dei Dottorandi
14 e 15 febbraio 2017
Aula di Storia della Musica “Nino Pirrotta”
IV Piano, Edificio di Lettere e Filosofia
Come ogni anno l’attività dei dottorandi in Storia e Analisi delle Culture Musicali trova
uno spazio di confronto all’interno della programmazione accademica. Gli iscritti al terzo
anno e i dottorandi in consegna propongono una relazione su alcuni risultati o nodi teoricometodologici della loro ricerca. Il convegno, aperto a tutti, è introdotto da una lezione
magistrale dell’illustre etnomusicologo Richard Widdess della School of Oriental and
African Studies di Londra.
Programma
Martedì 14 febbraio
11:30
Lezione magistrale
Richard Widdess (School of Oriental and African Studies, Londra)
Analysing alap: historical, cognitive and linguistic approaches to Indian music
Pausa pranzo
14:30
Maria Giuliana Rizzuto
“Shai, Fai, Hori… we want to read, write speak and pray...”. I maestri di canto
nell’Ecumene copto-ortodossa: alcune figure emblematiche
15:00
Francesco Serratore
Musiche migranti e musiche dei migranti. Una ricerca multi-situata fra Milano e
Wencheng
15:30
Marinella Acerra
“The Beat Generation”, RCA, 1960
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16:00
Claudia Calabrese
Una Suite “psichedelica” nel cuore degli anni Sessanta: “Danze della sera” [1968] di De
Carolis/Pasolini
Pausa
17:00
Valentina Panzanaro
Scrivere musica strumentale ‘alla francese’ nella Roma seicentesca
17:30
Maria da Gloria Leitao Venceslau
I liutai tedeschi dell’Italia Centrale. Il caso del Granducato di Toscana
Mercoledì 15 febbraio
9:30
Gianluca Bocchino
La tradizione manoscritta musicale del Canzoniere U
10:00
Alexandros M. Hatzikiriakos
Lo Chansonnier du … ? Raccolte, antologie, C\canzonieri e autori indigesti
10:30
Eleonora Di Cintio
Open opera: fondamenti, finalità, possibilità di un'edizione critica digitale
11:00
Daniele Mastrangelo
Nottebohm e Brahms, studiosi della reticenza e della precisione
Pausa
12:00
Discussione generale
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ABSTRACTS
“Shai, Fai, Hori… we want to read, write speak and pray...”. I maestri di canto
nell’Ecumene copto-ortodossa: alcune figure emblematiche
Maria Giuliana Rizzuto
La trasmissione del sapere liturgico-musicale avviene, nella Chiesa copta-ortodossa, in
luoghi e tempi stabiliti attraverso l’apprendimento orale/aurale che si declina sia per
“imitazione” durante il rito e sia per “trasmissione orale diretta” durante appositi momenti
di formazione musicale codificati nelle lezioni di canto.
L’apprendimento del canto liturgico da parte dei giovani copti è fondamentale sia
nelle comunità copte in Egitto sia in quelle della diaspora. Ogni rito è, infatti, interamente
cantato, dunque la formazione musicale è centrale per “comunicare” con Dio, e, per
confermare nel rito la propria identità. L’apprendimento dell’arte del canto è garantita da
diaconi-cantori riconosciuti dalla comunità e dal Vescovo. Costoro rivestono un ruolo
chiave nel processo di educazione alla “copticità” come maestri di canto. Attraverso le
lezioni essi trasmettono ai giovani il patrimonio musicale e culturale, sia in Egitto, dove i
Copti vivono come minoranza in un paese musulmano, sia nelle diaspore, in cui i essi sono
minoranza nella minoranza.
Tra i cantori emergono alcune figure la cui azione interagisce in modo dialettico sia
con la Comunità copta nel suo insieme sia con le singole realtà locali legate alla Chiesa
centrale: in Egitto eccelle Ibrahim Ayyad, e in Italia (nella diocesi di Torino la cui sede
vescovile si trova a Roma) si sono affermati George Samwaeil, Kiro Haroun e Mina Awad.
Ayyad è diacono del Patriarca copto-ortodosso di Alessandria d’Egitto, uno dei cantori e
maestri più noti e apprezzati in Egitto e nel mondo: attraverso molteplici registrazioni sia
audio sia video questi è un riferimento per i cantori copti di tutto il mondo. In Italia il ruolo
svolo in modo macroscopico da Ayyad è incarnato da George, Kiro e Mina. I tre giovani,
di formazione e vissuti differenti, costituiscono uno degli anelli di congiunzione con la
“tradizione” egiziana così perpetuata con intenso orgoglio anche nel nostro paese.
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Musiche migranti e musiche dei migranti. Una ricerca multi-situata fra Milano e
Wencheng
Francesco Serratore
La presenza cinese in Italia è un fenomeno piuttosto recente che ha interessato il nostro
paese a partire dagli anni Ottanta, da allora il numero di arrivi è stato sempre in crescita
fino al 2009. Si tratta di un periodo storico in cui le migrazioni internazionali e gli studi ad
esse rivolti, hanno iniziato a subire notevoli cambiamenti dovuti principalmente
all’aumento delle connessioni reali e virtuali fra le comunità migranti e la madrepatria.
La comunità cinese di Milano rappresenta un punto di vista privilegiato per lo
studio di questi nuovi fenomeni migratori, in quanto, oltre ad essere di recente formazione,
la maggior parte dei suoi membri proviene da un’unica area geografica che può essere
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circoscritta ad alcune zone rurali della provincia cinese di Wenzhou, in modo particolare
alla contea di Wencheng.
In merito sono state realizzate diverse ricerche antropologiche e sociologiche,
basate principalmente su analisi di tipo quantitativo e affiancate a volte da brevi lavori sul
campo. Di fatto ancora molti aspetti al riguardo rimangono inesplorati. Non risultano
presenti inoltre studi di carattere etnomusicologico che a mio avviso potrebbero contribuire
a colmare parte di queste lacune.
Basandomi sul lungo periodo di lavoro sul campo realizzato a Milano e a
Wencheng, su documenti d’archivio e su materiale bibliografico in lingua cinese e in
lingue occidentali, metterò in luce come l’osservazione delle pratiche musicali e la
partecipazione attiva alla vita musicale della comunità, abbiano fatto emergere elementi
intrinsechi delle abitudini e degli stili di vita dei migranti cinesi, e di conseguenza le loro
modalità di costruzione e di rappresentazione identitaria. Presenterò quindi un quadro
generale delle pratiche musicali che fanno parte della vita quotidiana dell’attuale comunità
cinese di Milano, incentrando la discussione sulle motivazioni e sui significati di alcuni
elementi peculiari di continuità e di discontinuità che emergono nel confronto con la
madrepatria.
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“The Beat Generation”, RCA, 1960
Marinella Acerra
Questo disco registrato nel 1960 racchiude la storia della magnifica orchestra jazz che
Trovajoli costituì e diresse dal 1956 al 1959. Rappresenta anche la competenza musicale
di chi ne faceva parte e l'audacia del suo direttore, Armando Trovajoli, che voleva
realizzare in Italia quello che già da tempo avveniva negli Stati Uniti, una ricerca musicale
che partendo dal bebop si era indirizzata verso nuove forme musicali influenzate dalla
musica contemporanea europea da una parte e dalla volontà di utilizzare nel jazz tecniche
della musica classica occidentale come il contrappunto e il canone dall'altra. Una ricerca
che si realizzava in una scrittura orchestrale che superava gli stili di arrangiamenti fatti di
formule, come era stato fino ad allora. Una scrittura non più solo verticale, per blocchi e
sezioni, ma che si esprimeva anche attraverso le linee orizzontali indipendenti delle voci
in contrappunto e dal cui incrocio emergeva l'armonia.
Una vera rivoluzione che provocò posizioni contrastanti su queste ricerche e
sperimentazioni. La polemica si sviluppò soprattutto tra i critici, tra i tradizionalisti e i
modernisti, quelli che pensavano che il linguaggio jazzistico dovesse restare fedele
all'idioma originario e quelli che invece pensavano che dovesse essere il frutto di una
ricerca continua.
Questo jazz moderno era il cool jazz, già in atto negli Stati Uniti da anni, quel jazz
che Trovajoli vuole realizzare e che affiderà alle penne di una squadra di arrangiatori di
tutto rispetto: Bill Holman, Bill Smith, Bill Russo. Smith e Russo sono stati in Italia, vi
hanno vissuto per perfezionarsi nella musica contemporanea e di avanguardia. Ma sono
andati oltre, hanno partecipato in modo concreto, specialmente Bill Smith, alla crescita del
nostro patrimonio musicale jazzistico e dei nostri musicisti scrivendo per loro e
condividendo con loro quella musica e quella ricerca. Il disco è importante perché
rappresenta l'unica testimonianza di questa storia, di questa orchestra jazz, dei suoi
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compositori/arrangiatori, dei brani originali che venivano proposti in piena libertà di stile e
di repertorio, del ruolo che questo jazz ha avuto nel panorama italiano di quegli anni, un
ruolo reale, da protagonista e non solo riflesso e di importazione.
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Una Suite “psichedelica” nel cuore degli anni Sessanta: “Danze della sera” [1968] di De
Carolis/Pasolini
Claudia Calabrese
Nonostante varie generazioni di compositori di musica abbiano dialogato, con diverso stile
e in un flusso che pare inarrestabile, con l’opera di Pasolini, pochissimi sono i contributi
musicologici che hanno preso in esame le intonazioni dei suoi versi. Quest’analisi di
Danze della sera – una canzone con testi di Ettore De Carolis (compositore anche della
musica) e Pier Paolo Pasolini, che sorprendentemente non ha avuto fortuna critica – è il
primo contributo esegetico su un brano significativo della psichedelia italiana degli anni
Sessanta e, insieme, una riflessione, nell’ambito del filone di studi poetico-musicali, su
come l’intreccio tra rappresentazioni simboliche evocate dai versi, vicende storiche del
tempo e musica possa narrare una storia che sembra sospesa tra mito e realtà.
Sorretta da un attento esame dei versi, della partitura e del contesto storico, illustro
l’influenza del pensiero e dell’opera di Pasolini nello spazio po(i)etico di Ettore De
Carolis, con la convinzione che sia possibile cogliere il significato di Danze della sera solo
facendo emergere dall’analisi le profonde relazioni intertestuali che si attuano nella
sovrapposizione di codici diversi. I rimandi alla Bibbia e al Nuovo Testamento, i
riferimenti ai conflitti generazionali dell’epoca e le connessioni con la musica, che riflette
il pastiche delle fonti da cui ha tratto nutrimento l’ispirazione, hanno richiesto un
approccio metodologico interdisciplinare e un’attenzione particolare verso quelle
rappresentazioni mitico-simboliche che fanno di Danze della sera un’opera ancora attuale,
capace di parlare ai giovani di ogni tempo.
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Scrivere musica strumentale ‘alla francese’ nella Roma seicentesca.
Valentina Panzanaro
Negli ultimi decenni del Seicento, si è andato via via diffondendo in Italia nella letteratura
musicale, lo stile francese -codificato con la locuzione ‘alla francese’ -tanto da essere
considerato allogeno e aggiunto a molte composizioni sia vocali che strumentali. Il
proposito del presente contributo è approfondire il tema sulla ricezione della musica
strumentale francese, in particolare della musica ‘da ballo’ alla luce di recenti studi
avanzati da P.Allsop, G.Barnett, W. Hilton e A.Pavanello.
Per la ricerca ho preso in considerazione la produzione strumentale da ballo ‘alla
francese’, da fonti manoscritte e a stampa, ascrivibile a Roma tra il 1660 e il 1690. Tale
repertorio strumentale, di compositori italiani (Stradella, Berneri, Melani e Corelli), ha
trovato ispirazione nello stile francese per arricchire e diversificare la scrittura musicale,
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con l’uso non solo dell’aggettivazione ‘alla francese’ o ‘stil francese’, ma anche di una
certa scrittura ‘francesizzata’ riconoscibile attraverso: nomi delle danze (borè, rigadone,
brando, minuetta), ritmo puntato, abbellimenti scritti, nuclei ritmico-tematici ricorrenti.
Nei brani strumentali ‘da ballo’ non si riconoscono facilmente i caratteristici tratti della
‘danse noble’, pertanto la connessione tra le danze ‘alla francese’ e lo stile francese non è
sempre ovvia. Per determinare le caratteristiche di queste danze in stil francese ho messo
in relazione alcuni modelli ritmico-musicali ricorrenti nelle danze francesi, riscontrati in
molte danze italiane, tra le quali la corrente, una delle danze più conosciute e diffuse,
arrivando così alla consapevolezza che esistono sottili differenze tra la courante francese e
la corrente italiana.
Sono convinta, pertanto, di offrire spunti di riflessione sulle possibili cause che
hanno spinto i compositori italiani a usare elementi caratteristici del goût français in molte
loro composizioni strumentali, per comprendere soprattutto, l’annosa queastio: quanto è
francese la musica scritta ‘alla francese’? Le significative ‘tracce’ di scrittura musicale
francese nei manoscritti romani, avvalorano la convinzione che gli scambi culturali
raramente avvenissero a senso unico.
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I liutai tedeschi dell’Italia Centrale. Il caso del Granducato di Toscana
Maria da Gloria Leitao Venceslau
Con l’aiuto della ricerca storica in campo organologico riusciamo a valutare l’importanza
di un determinato costruttore o di un singolo esemplare strumentale superstite, in relazione
ad uno specifico ambiente musicale ed area geografica. La ricerca, in particolare quella
archivistica, risulta fondamentale anche per il tema da me studiato: l’immigrazione dei
liutai tedeschi in Italia tra il XVI e XVII secolo. Fenomeno ampiamente indagato per città
come Venezia e Padova, ma poco affrontato per altre aree della penisola, come il
Granducato di Toscana o le città periferiche dello Stato Pontificio.
Da qui la mia scelta dell’Italia Centrale come area di analisi, dove mi sono
concentrata nell’individuazione di testimonianze concernenti l’attività dei liutai tedeschi in
diversi contesti – dalla Firenze cinquecentesca alla Pesaro del primo Seicento.
La principale domanda che questa ricerca si pone è: come hanno concorso i liutai tedeschi
alla produzione strumentale e allo sviluppo socio-economico dell’area analizzata? Pertanto
ho cercato di dare una risposta tramite la ricerca archivistica e l’analisi dei pochi strumenti
superstiti, in particolare per il Granducato di Toscana.
Di conseguenza in questo intervento, presenterò il caso di alcune città toscane, dove
ho trovato inedite testimonianze riguardanti i liutai tedeschi, che permettono di ampliare il
quadro sociologico del fenomeno. Inoltre illustrerò il loro contributo nello scenario
musicale urbano di città come la Livorno seicentesca, per la quale possediamo un unico
esemplare strumentale superstite – la chitarra di Jacopo Checcucci (MFA inv.n.2001.707)
– che, tramite i risultati raggiunti, può esser meglio contestualizzata.
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La tradizione manoscritta musicale del Canzoniere U
Gianluca Bocchino
La tradizione manoscritta musicale del canzoniere U presenta difficoltà di analisi a causa
dell’esiguo numero di studi di settore, e per la duplicità di repertorio che conserva, quello
trobadorico e quello trovierico. Alla luce delle ricerche paleografiche musicali condotte è
stato possibile sanare lo iato esistente, collazionando il testo musicale nelle due tradizioni,
proponendo così un avanzamento della ricerca. I centoquindici componimenti completi di
testo e musica di U si dividono in ventitré di origine provenzale e novantadue francese. Se
per il repertorio occitano le possibilità di analisi sono limitate a ragione dei soli due
canzonieri contenenti il corredo melodico (X, W), per quello oitanico il discorso è diverso.
Ben quindici canzonieri della tradizione francese contengono musica (A, F, K, L, M, N, O,
P, R, T, U, V, X, Z, a), pertanto per ogni componimento si riscontra un massimo di dodici
lezioni differenti. La ricerca ha mostrato che in U sono rari i casi in cui la suddivisione in
famiglie di Eduard Schwan della tradizione manoscritta testuale è rilevabile in quella
musicale, divergenze che emergono palesemente nella comparazione melodica. Il
fenomeno è possibile spiegarlo attraverso la compilazione di ogni singolo canzoniere, il
quale prevede una stratificazione redazionale a più livelli, laddove il corredo neumatico è
l’ultimo elemento del manufatto artistico ad essere completato, con l’inevitabile dubbio
della fonte. Nonostante la complessità del lavoro, le indagini condotte hanno identificato le
lezioni comuni, dando la possibilità di formulare un’ipotesi di studio sulle famiglie
musicali. Infine, attraverso la varia lectio musicale sono state risolte questioni
paleografiche musicali di difficile decodificazione neumatica.
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Lo Chansonnier du … ? Raccolte, antologie, C\canzonieri e autori indigesti
Alexandros M. Hatzikiriakos
Lo Chansonnier du Roi (Parigi, BnF f. fr. 844), compilato ad Arras intorno al 1260, è tra le
più antiche e importanti raccolte di lirica e polifonia del Duecento. Per molto tempo gli
studiosi hanno cercato di ritrovare nella complessa struttura di questa raccolta tracce della
volontà soggettiva di un presunto autore/committente, identificato prima con Carlo I
d’Angiò (Beck) e poi nel principe crociato Guillaume II di Villehardouin (Haines). Il mio
intervento cercherà invece di collocare la questione autoriale in una prospettiva finora non
considerata.
La nascita dei cosiddetti canzonieri si pone al centro di un processo di
“letteralizzazione” che coinvolge non solo la lirica ma anche tutta la musica profana del
Duecento. Partendo da una contestualizzazione del Roi all’interno della riflessione critica
sulle raccolte liriche medievali, proporrò una nuova lettura del codice tramite un’inedita
analisi della sua strategia compilativa. Sebbene spesso definito un “canzoniere
disordinato”, il Roi è in realtà una raffinata antologia, strutturata in sezioni d’autore, a loro
volta ordinate secondo un ferreo criterio di gerarchia sociale e poetica. Tale architettura
formale è utilizzata dal compilatore della raccolta per esprimere una narrazione
comunitaria, piuttosto che individuale, e che mira a rappresentare il canone lirico-musicale
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cortese, raccontato dal punto di vista dei trovieri borghesi di Arras. In questo senso il
codice può essere definito un canzoniere d’autori.
La questione autoriale è inoltre all’origine della concezione moderna della raccolta
lirica, ma tale presupposto non si mostra sempre coerente nel mondo medievale. Il caso del
Roi si rivela fondamentale per capire non solo come a monte di tali raccolte prevalga
ancora il valore antico di auctoritas, piuttosto che di soggettività autoriale, ma anche come
questo abbia permesso alla musica di ottenere, per la prima volta, una propria literacy
all’interno della cultura manoscritta occidentale.
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Open opera: fondamenti, finalità, possibilità di un'edizione critica digitale
Eleonora Di Cintio
Nel 2016 si sono formalmente conclusi i lavori di edizione critica delle opere Giulio
Sabino e Fra i due litiganti il terzo gode di Giuseppe Sarti, a cura di Dörte Schmidt e
Christine Siegert (Berlin, Universität der Kunste). In entrambi i casi, oggetti dell'analisi
filologica sono stati sia i testi d'autore, sia quelli 'spuri', avvicendatisi nel lasso di tempo
compreso tra le première e le ultime performance teatrali dei titoli considerati. Le musiche
relative a ciascun melodramma sono state rese in due rispettive edizioni digitali, ipertesti
che, a detta delle curatrici, presentano un enorme vantaggio rispetto alle edizioni cartacee,
grazie alla possibilità loro propria di mostrare adeguatamente un elevato numero di
diverse versioni (Fassungen).
L'iniziativa sartiana si presenta quale operazione filologica atipica, lontana, nei
fondamenti e negli esiti, rispetto alle edizioni critiche di opere musicali basate sui principi
della 'classica' filologia d'autore. Dove risiede la plausibilità teorica e pratica del modello
Sarti, e, in generale, di un'edizione critica digitale di un melodramma del Settecento?
In attesa di conoscere i lavori di Schmidt e Siegert, non ancora pubblicati, cercherò
di rispondere ad un simile interrogativo avvalendomi di un prototipo di edizione digitale
dell'opera Penelope (Napoli 1794 – Parigi 1815), che comprenda tutte le manifestazioni del
titolo di cui rimanga almeno un frammento musicale. Tramite l'esplorazione dei testi
rappresentati e dei collegamenti tra essi possibili misurerò l'utilità della tecnologia digitale
in relazione ad un oggetto artistico la cui natura aperta trascende la versione del primo
autore, Domenico Cimarosa in questo caso, manifestandosi altresì nell'interezza della
tradizione testuale. In prospettiva esecutiva, proverò inoltre a mostrare come lo stesso
modello possa delineare approcci al testo operistico d'ancien régime alternativi rispetto a
quello informato dal principio di intangibilità della partitura, generalmente adottato nella
prassi teatrale corrente.
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Nottebohm e Brahms, studiosi della reticenza e della precisione
Daniele Mastrangelo
La reticenza, questo è l’atteggiamento comune che risuonava nelle corde più profonde
dell’animo di Gustav Nottebohm e di Johannes Brahms. Reticenza come costume, come
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modo di realizzare la propria opera, come ‘retorica’ della comunicazione con il pubblico.
Entrambi, Nottebohm e Brahms, furono maestri nelle loro rispettive attività, quella di
musicologo e quella di compositore, furono compagni di studio nella conoscenza del
passato e una profonda amicizia li unì nel corso della loro vita; certamente la più profonda
che Brahms abbia stretto con uno storico e filologo della musica.
Nel corso della mia ricerca dottorale ho trascritto e tradotto le lettere di Nottebohm
a Brahms, recuperato le testimonianze indirette del loro rapporto e qualche traccia dei loro
studi. Ora vorrei condividere con voi i primi risultati di queste ricerche: non solo i risvolti
biografici, ma anche le forme in cui si tradusse il loro interesse storico. Che si occupassero
di antiche musiche di origine coreutica, di critica testuale, oppure degli abbozzi di
Beethoven, per fare qualche esempio, a guidarli furono sempre curiosità, intuito, acribia.
Una sorta di demone della precisione li univa e li portava a cercare nei manoscritti e nelle
edizioni a stampa ogni minima variante d’autore, a dissotterrare le tracce più minute della
vita e dell’opera dei grandi maestri e, allo stesso tempo, a nascondersi dietro la loro opera:
Nottebohm praticò uno stile asciutto, concentrando spesso la sua scrittura nella forma di
brevi Mitteilungen di una manciata di pagine, Brahms distrusse quasi tutto ciò che
documentava lo sviluppo delle sue composizioni. Entrambi si mostravano al mondo
esterno in una maniera che era anche un nascondersi. Quali istanze della musicologia del
secondo Ottocento fa emergere il loro rapporto? E in particolare: quale significato culturale
congiunge la loro precisione alla loro reticenza?