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Sintesi di storia altomedievale da:
Cantarella-Guidorizzi, L’eredità antica e medievale, 2
Bettini-Lentano-Puliga, Tempo e racconto, 2
Una nuova fase storica
IL MEDIOEVO, TRA DECADENZA E RINASCITA
"Medioevo" significa letteralmente «età di mezzo». Questo termine è tradizionalmente impiegato
dagli storici per indicare il periodo di circa mille anni compreso tra la fine del mondo antico e l'inizio
dell'età moderna. Il Medioevo è stato a lungo considerato un periodo di decadenza delle arti e delle
lettere, di crisi della vita cittadina, di imbarbarimento e regresso complessivo dell'Europa. La
storiografia più recente tende invece a recuperare tutta la complessità e la ricchezza della vita
culturale, economica e politica di quest'età e a sottolineare come fra la civiltà antica e quella
medievale la frattura non sia stata poi cosi netta; infatti, se è indubbio che molti fenomeni storici
furono tipici del Medioevo (per esempio, l'apporto demografico di popolazioni come i franchi, i
normanni, gli slavi, l'importanza politica del papato oppure la nascita delle lingue moderne), è vero
pure che nell'età di mezzo continuarono a svilupparsi fenomeni già in atto nell'ultima fase del
mondo antico, come l'affermazione del cristianesimo, l'impoverimento delle campagne, la crisi della
vita cittadina. Inoltre, se è vero che la prima fase del Medioevo (in particolare i secoli dal VI al X
d.C, comunemente indicati come "Alto Medioevo") fu caratterizzata da una complessiva decadenza
della vita civile, è vero anche che in seguito (durante il "Basso Medioevo", tra l'XI e il XV secolo) in
Europa maturarono le condizioni di un grande sviluppo: vi furono notevoli innovazioni
nell'agricoltura, che in alcune zone permisero di aumentare la produttività delle campagne, e anche
l'arte e la cultura elaborarono forme originali ed elevate.
Va poi detto che, se l'Europa occidentale attraversò una lunga fase di regresso, durante questi secoli
varie parti del mondo limitrofo conservarono o persino incrementarono la loro prosperità: fu infatti
il periodo medievale che vide l'età d'oro della civiltà araba e di quella bizantina, che si svilupparono
a stretto contatto con il mondo europeo e, anzi, in gran parte in territori che erano stati un tempo
inclusi entro i confini dell'impero romano.
La fine della centralità del Mediterraneo
UNA NUOVA GEOGRAFIA STORICA
Un primo aspetto che bisogna considerare, avvicinandosi allo studio dell'età medievale, è il
cambiamento dei rapporti tra i vari territori che avevano fatto parte dell'impero romano. Intorno al
Mediterraneo si erano sviluppate tutte le grandi civiltà del mondo antico. Nell'Atene del V secolo
a.C. Socrate poteva dire: «Noi viviamo intorno a un mare come rane intorno a uno stagno», e mille
anni più tardi - ha scritto lo storico inglese Peter Brown - il mondo classico era ancora abbarbicato
attorno al medesimo «stagno», vale a dire il Mediterraneo. L'unità del mondo mediterraneo era una
realtà già dai tempi in cui fenici, greci e cartaginesi vi intrecciavano i propri traffici commerciali.
Successivamente si era creata anche un'unità politica, quando Roma aveva sottoposto le popolazioni
della regione al proprio dominio. Le regioni Bell'Europa centrale e settentrionale si trovavano
ancora oltre il limes, la frontiera bell'impero, oppure erano terre di confine, dove la vita era
primitiva. Anche la maggioranza delle grandi città europee di oggi (come Londra, Parigi, Berlino,
Mosca) non esistevano oppure risultavano marginali o estranee rispetto all'asse fondamentale della
civiltà antica. La "vera" vita si svolgeva nelle città di impronta romana e greca, affacciate sul
Mediterraneo, da cui provenivano gli impulsi fondamentali della civiltà.
Tra la fine del IV e l'inizio del VI secolo d.C. si assistette invece a una dinamica opposta: con
l'ingresso nella storia di popolazioni che fino ad allora erano rimaste ai margini (germani, tra cui
franchi e longobardi, slavi e, nel secolo successivo, arabi), le terre oltre il confine nord-occidentale
entrarono a far parte di un'Europa comune, mentre la storia di molte regioni fino a quel momento
strettamente collegate a Roma come l'Egitto, la Siria, l'Africa e anche vaste aree della regione
balcanica) procedette per vie proprie.
LO SPOSTAMENTO DELL'ASSE POLITICO EUROPEO
La conseguenza, anche se non immediata, di questo stato di cose fu lo spostamento dell'asse politico
europeo verso nord. L'Italia, che si era trovata al centro delle grandi correnti del mondo
mediterraneo, all'inizio dell'epoca medievale ne divenne la frontiera meridionale. La geografia
politica d'Europa mutò profondamente. Se all'epoca di Costantino (inizi del IV secolo d.C.) i confini
del mondo civile erano il Reno e il Danubio, che separavano l'Europa settentrionale e barbarica dal
mondo mediterraneo, un secolo più tardi, e poi definitivamente a partire dall'invasione araba (inizi
del VII secolo d.C), un rigido confine veniva fissato tra quelle che erano state le terre occidentali e
orientali dell'impero romano. Il tentativo dell'impero romano d'Oriente di riconquistare i territori
occidentali, avvenuto all'epoca di Giustiniano (VI secolo), ebbe solo un successo effimero. Questi
processi storici e politici ebbero profondi effetti anche a livello culturale: l'impero d'Oriente restò per
molti secoli un'area più avanzata rispetto all'Europa occidentale.
La crisi economica e il declino della città
LO SPOPOLAMENTO DELLE CITTÀ E LA CRISI DEI COMMERCI
I territori dell'Europa occidentale che avevano fatto parte dell'impero romano conobbero durante il
VI e il VII secolo una gravissima crisi demografica che condusse a un imponente regresso della vita
cittadina. Questo fenomeno si era già manifestato durante gli ultimi due secoli dell'impero romano,
ma si aggravò ulteriormente: in seguito alle enormi devastazioni causate da invasioni, guerre,
carestie e pestilenze, le città sopravvissute si ridussero enormemente di estensione. Mentre l'impero
romano era stato caratterizzato dalla presenza di un'intensa vita cittadina, durante l'Alto Medioevo
le città progressivamente si spopolarono.
Ben presto le strade non furono più curate, i ponti crollarono, gli acquedotti andarono in rovina: le
comunicazioni di conseguenza risultarono ovunque sempre più difficili.
Inoltre, la moneta - che con la scomparsa dell'impero romano d'Occidente non potè più essere
garantita - venne usata progressivamente di meno, sicché gli scambi avvenivano perlopiù attraverso
:1 primordiale sistema del baratto, generalmente in fiere e mercati di livello regionale. Tra le cause
del declino delle città vi fu anche la stagnazione dei commerci e dell'artigianato. Anche il commercio
internazionale andò riducendosi enormemente e con esso quella classe imprenditoriale che aveva
movimentato la vita economica di epoca imperiale. Infetti, oltre alla grave crisi economica :che
accompagnò l'insediarsi delle popolazioni germaniche, occorre tener conto che a :partire dal VII
secolo d.C. gli arabi si impadronirono di buona parte delle coste mediterranee, rendendo
impercorribili le rotte marittime: il Mediterraneo divenne un "lago" arabo, in cui le flotte islamiche
dominavano incontrastate. L’Europa dell'Alto Medioevo fu, per cosi dire, "un'Europa senza mare": i
porti si insabbiarono, le città portuali erano semidistrutte e, a partire da un certo momento, si aggiunse il pericolo dei pirati arabi sempre in agguato; e del resto, che cosa mai si poteva : commerciare,
in assenza di un mercato che consentisse lo scambio? Continuò a esistere, comunque, un commercio di
lusso che trasportava in Europa merci preziose destinate alle corti o all'alta aristocrazia; esse
provenivano dall'Oriente per mezzo dei mercanti bizantini, i quali, come vedremo in seguito,
mantennero la possibilità di servirsi di porti ancora sotto il loro diretto controllo (per esempio
Ravenna e Bari, in Italia).
L'EUROPA DELLE FORESTE
Il declino demografico fu un processo lungo e non riguardò solo le città. Sappiamo che, ormai in
pieno Medioevo, al tempo di Carlo Magno (771-814), l'intera Europa arrivò a contare meno di
trenta milioni di abitanti. Durante l'Alto Medioevo vaste porzioni di terra rimasero quindi incolte e i
boschi tornarono a invadere le campagne; molte zone (specialmente nell'Italia centro-meridionale)
s'impaludarono e furono abbandonate, spopolandosi anche in seguito al flagello della malaria,
malattia quasi sconosciuta in epoca antica, ma che andò sviluppandosi sino a diventare endemica in
età successiva. Disboscare un terreno e dissodarlo era un lavoro assai lungo e difficile: richiedeva
infatti strumenti di ferro che pochi possedevano e la possibilità di giovarsi di altre risorse per il periodo
in cui il nuovo terreno non produceva frutto. In questa situazione, una risorsa fondamentale era
offerta dai boschi e dagli specchi d'acqua (stagni, laghetti, paludi): il bosco rendeva disponi bile il
legname, che era indispensabile per le costruzioni, per cucinare, riscaldarsi e alimentare le fucine dei
fabbri; esso forniva inoltre ghiande per l'allevamento dei maiali (una delle principali risorse
alimentari), cacciagione, bacche commestibili. Gli specchi d'acqua permettevano invece la pesca e la
caccia di selvaggina palustre. La resa dei campi inselvatichiti era estremamente bassa: si calcola che
fosse in genere nel rapporto di due o al massimo di tre semi a uno (vale a dire, per ogni seme
piantato nel suolo ne venivano raccolti due o tre).
A differenza che nel mondo antico, quella dell'Alto Medioevo fu dunque un'economia di
sussistenza: i prodotti dei campi, lavorati con tecniche primitive, fornivano a malapena quanto
bastava per nutrire gli agricoltori stessi e quindi il numero di coloro che potevano dedicarsi ad
attività diverse dall'agricoltura era inevitabilmente molto basso. I pochi artigiani producevano solo
i manufatti che servivano a soddisfare le necessità locali.
Ogni singola comunità tendeva quindi all'autarchia, ossia all'autosufficienza economica.
I regni romano-germanici
LA FUSIONE FRA SOCIETÀ GERMANICA E SOCIETÀ LATINA
Alla fine del v secolo d.C. la parte occidentale dell'impero si trovava sotto il dominio dei "barbari", i
quali iniziavano a organizzare in forme stabili il loro potere. Sul territorio dell'impero sorsero vari
regni, posti sotto il dominio di sovrani germanici, i quali governavano utilizzando quel poco di
struttura politica e amministrativa che ancora restava dell'impero romano.
Per quanto elementari potessero essere le necessità di governo, un potere reale aveva infatti bisogno
di una cancelleria, di funzionari addetti all'amministrazione, di architetti e tecnici per la
manutenzione di palazzi e acquedotti; e queste persone non potevano essere che romane, le uniche
a possedere le conoscenze necessarie per far fronte a tali esigenze.
In pratica, la classe dirigente era barbarica per quanto riguardava l'esercito e il potere politico,
romana per l'amministrazione dello stato e della vita cittadina, ragione per cui questi regni sono stati
definiti "romano-germanici".
LA COSTITUZIONE DI NUOVI REGNI
I regni romano-germanici che nel corso del V e del VI secolo d.C. presero il posto dell'ormai
decaduto impero romano d'Occidente furono i seguenti:
- nell'Africa settentrionale, in Corsica e in Sardegna quello dei vandali;
- nella Gallia centro-settentrionale quello dei franchi;
- nella Gallia meridionale e in Spagna quello dei visigoti;
- nella valle del Rodano quello dei burgundi;
- nella Spagna nord-occidentale (parte dell'odierno Portogallo) quello degli svevi;
- in Italia e in parte dell'Illiria, della Dalmazia e della Gallia meridionale quello degli
ostrogoti.
Particolare fu, infine, il caso della Britannia, dove le popolazioni locali si diedero ordinamenti
propri, ma dovettero poi fronteggiare le invasioni degli angli e dei sasso-ni. che a poco a poco
s'impadronirono di buona parte del paese. Molti degli antichi britanni decisero allora di emigrare
sulle coste della Francia, nella regione che da loro prese il nome di Bretagna e in cui ancora oggi è
diffuso il bretone, antico dialetto celtico derivato dalla loro lingua.
LA SOCIETÀ E IL POTERE NEI REGNI ROMANO-GERMANICI
All'interno di questi regni, tra germani e romani si instaurò un modus vivendi relativamente
pacifico, tranne che nel caso del regno vandalo dove la classe dirigente romana venne
sostanzialmente eliminata. I germani pretesero per il proprio popolo solamente una parte delle terre
(la metà oppure un terzo, a seconda dei casi), lasciando all'aristocrazia romana la parte restante.
Come ha scritto lo storico Peter Brown, «l’aristocrazia romana si accorse con stupore che, dopo
avere separato i suoi destini da quelli dell’esercito romano che la difendeva, poteva benissimo farne
a meno». Nel complesso, i dominatori non intervennero profondamente sulla struttura della società,
cosicché per la popolazione poco o nulla cambiò: i contadini legati alla terra avevano solo cambiato
i padroni, gli aristocratici potevano continuare a godere dei propri privilegi e ricavavano ulteriori
vantaggi dal fatto di essere validamente protetti da quegli stessi barbari da cui, sino a pochi decenni
prima, erano stati costretti a difendersi. Proseguendo anzi una tendenza che si era già manifestata
nell'ultimo periodo dell'impero, la grande proprietà divenne sempre più il centro organizzativo della
popolazione di coloni, liberi o schiavi che fossero, e l’egemonia sociale dei grandi proprietari
terrieri si fece
ancora più schiacciante di fronte alla debolezza del potere centrale dei regni romano-germanici e al
declino delle città.
Il processo di integrazione tra la società germanica e quella latina non poteva essere indolore. In un
primo momento si tentò di evitare i conflitti mantenendo separati i diritti e le comunità, ma con il
procedere degli anni l'integrazione divenne inevitabile. un importante fattore di contrasto fu la
diversità religiosa, poiché i barbari, pur essendo spesso già convertiti al cristianesimo, avevano
perlopiù aderito all'arianesimo, mentre la popolazione romana era cattolica.
Infine, un importante elemento accomunava i regni germanici (anche in questo caso con l'eccezione
di quello vandalo in Africa). I sovrani "barbarici" d'Occidente erano convinti che l'autorità ultima
sui loro territori spettasse all'imperatore bizantino. Essi, cioè, si sentivano semplici delegati di
quell'imperatore e dipendenti dalla sua approvazione. Di fatto i regni germanici si mossero il più
delle volte in totale autonomia dalla volontà di Costantinopoli; la coscienza di questo fondamento
ultimo del loro potere, però, non venne mai del tutto meno.
L'impero romano d'Oriente
COSTANTINOPOLI, "LA CITTÀ D'ORO E DI LUCE"
Mentre la parte occidentale agonizzava, l'impero d'Oriente riuscì a sopravvivere arroccato intorno
alla sua capitale, Costantinopoli. Questa città, come abbiamo già detto, era sorta in riva al Bosforo,
proprio all'incrocio tra Europa e Asia, là dove era prosperata la colonia greca di Bisanzio: per questo
motivo la civiltà dell'impero romano d'Oriente è nota con il nome di "civiltà bizantina". Quando
l'impero d'Occidente finì, ormai da centocinquant'anni Costantinopoli era la sede principale
dell'impero ramano, e i suoi abitanti si erano abituati a considerare l'antica Roma con un misto di
compatimento e di superiorità. A Roma - si diceva - erano restati solo palazzi cadenti e una
popolazione inselvatichita: tutto ciò che era rimasto di veramente civile, di veramente romano si
trovava sulle rive del Bosforo. Lì risiedevano l'imperatore e il senato della vera nobiltà; li c'erano
scuole, università, cultura, arti, ricchezza. A questa città, "la città d’oro e di luce", tutto il mondo
guardava con ammirazione e invidia; essa era (e rimase a lungo nel Medioevo) il centro del mondo,
"la New York dei secoli oscuri".
Dopo la sconfitta di Attila, gli imperatori d'Oriente riuscirono a liberarsi dell'elemento germanico,
che si era infiltrato a corte e negli alti gradi dell'esercito. Poiché, inoltre, la pressione dei germani si era
ormai riversata oltre i confini occidentali, la parte orientale nell'impero per alcuni decenni non fu
minacciata da altre gravi invasioni.
IL CONSOLIDAMENTO DEL POTERE IMPERIALE IN ORIENTE
L'Impero romano d'Oriente resistette per quasi mille anni alla caduta di quello d'Occidente: solo nel
1453 i turchi riuscirono a conquistare la capitale Costantinopoli, che divenne - con il nome di
Istanbul - la capitale del loro nuovo impero. Soprattutto durarono a lungo la convinzione secondo
cui l'insediamento dei "barbari" in Occidente fosse una situazione temporanea e la percezione di
quei territori come tuttora appartenenti all'Impero.
Le ragioni della sopravvivenza dell'impero d'Oriente sono numerose: anzitutto, nel momento in cui
l'onda d'urto delle popolazioni germaniche si abbatteva sull'Europa, l'Oriente si trovò
geograficamente in posizione più defilata: le direttrici migratorie degli invasori puntavano perlopiù
verso l'Europa continentale (Gallia, Italia, Spagna), lasciando da parte i territori orientali. E quando
questo non accadeva, i sovrani bizantini potevano sempre indurli a deviare più a ovest, in cambio
del diritto di governare in loro nome questa o quella regione dell'antico Impero d'Occidente. È
quanto accadde per esempio con gli ostrogoti. L'assenza di gravi invasioni, inoltre, fece sì che non
si verificasse, nel territorio bizantino, quello spopolamento delle città che aveva invece segnato gli
ultimi due secoli dell'Occidente: le strade di comunicazione si mantennero intatte e si conservò
ancora molto attiva la vita cittadina, alimentata da un vivace commercio estero con Persia, India e
Cina, con le quali si commerciavano la seta, le spezie e altri beni di lusso; tra l'altro, a
Costantinopoli si mantenne costante l'uso della moneta, mentre in Occidente si tornava agli scambi
in natura. Questa prosperità consentì al governo imperiale di reclutare eserciti efficienti per la
propria difesa e di tenere in piedi una struttura burocratica che conservò le forme dello stato romano
tardoantico. Il cuore di questa organizzazione era il palazzo imperiale (detto il "sacro palazzo"),
costruito come una città nella città; qui, circondato da una corte fastosa, come un personaggio
semidivino, risiedeva l'«imperatore» (basileus, in greco).
A differenza dell'imperatore d'Occidente, che negli ultimi tempi dell'impero era ormai un fantoccio
nelle mani dei generali di stirpe barbara, quello di Costantinopoli riuscì a conservare saldamente il
controllo sullo stato. Il potere del basileus era assoluto. Egli si proclamava difensore dello stato romano e
nello stesso tempo protettore della religione cristiana; l'ideologia imperiale affermava che il suo potere
promanava direttamente da Dio, motivo per cui la sua persona era considerata sacra. L'imperatore si
riteneva perciò autorizzato a intervenire nelle questioni religiose e, tra l'altro, aveva l'autorità di
nominare il patriarca (vale a dire il vescovo) di Costantinopoli.
La sacralizzazione della figura imperiale era già emersa nell'Occidente tardo-antico, ma a
Costantinopoli fu portata molto più avanti; anche le funzioni religiose dell'imperatore si erano
affermate in Occidente, all'epoca di Costantino. In Occidente, però, con la nascita dei regni romanogermanici i vescovi (e tra loro quello di Roma) si svincolarono dal potere politico, mentre in
Oriente l'imperatore nominava la più alta autorità religiosa, cioè il patriarca di Costantinopoli,
presiedeva i concili, aveva la responsabilità ultima della dottrina, si batteva attivamente contro
l'eresia. Questa somma di potere politico e religioso va sotto il nome di cesaropapismo e rimase a
lungo caratteristica della cultura bizantina: autorità politica e autorità religiosa erano strettamente
collegate nella figura dell'imperatore, che ne era il tutore: questo tipo di rapporto tra sfera civile e
religiosa è noto con il nome di "cesaropapismo", in virtù del quale l’autorità politica si riserva il
diritto di intervenire nelle questioni religiose.
LA FORTE ORGANIZZAZIONE STATALE E LA VIVACITÀ ECONOMICA
In sostanza, l'impero d'Oriente riuscì a conservare ciò che l'Occidente andava perdendo: rimase cioè
uno stato, e anzi l'unico stato organizzato in un modo che altrove non esisteva più. Solo nell'impero
bizantino c'erano ancora tribunali, leggi, poste pubbliche e scuole dove si leggevano gli autori
classici. Fu proprio l'organizzazione statale a dare all'impero d'Oriente la supremazia decisiva contro
gli avversari che dovette affrontare nel corso di tutto il Medioevo: esso possedeva finanze
organizzate, un'economia monetaria (laddove nel resto dell'ex impero romano d'Occidente si era
molto spesso regrediti al baratto), una diplomazia abile e scaltra, la superiorità tecnologica che si
manifestava nella capacità di costruire fortificazioni, acquedotti, navi e armi. La civiltà che vi si
formò nel corso di questi secoli assunse dunque caratteristiche assai differenti da quelle dei regni
romano-germanici d'Occidente; l'impero d'Oriente era popolato per la massima parte da genti di
lingua greca, che divenne ben presto la lingua ufficiale dello stato: stato romano, cultura greca e
religione cristiana furono dunque i tre pilastri della società bizantina medievale.
Il regno degli ostrogoti in Italia
L'ITALIA DI TEODERICO
I goti, come tutte le stirpi germaniche, avevano migrato a lungo prima di giungere nel cuore
dell'Impero romano. La loro patria d'origine era nella lontana Scandinavia, dalla quale si erano
mossi verso il centro dell'Europa, giungendo più tardi sino ai confini dell'Asia; si erano poi divisi in
due gruppi, visigoti e ostrogoti, il secondo dei quali si era insediato nel territorio dell'attuale
Bulgaria, premendo dunque direttamente sui confini dell'Impero d'Oriente.
Nel 488 l'imperatore bizantino Zenone pensò di dirottare il loro re Teoderico, con tutta la sua gente,
verso l'Italia, con il compito di rovesciare il regime di Odoacre, insediatosi dopo la deposizione di
Romolo Augustolo. In questo modo Zenone allentava la pressione sui confini e puntava a
recuperare il controllo sia sull'Italia sia sui territori occidentali: Teoderico, infatti, ricevette
dall'imperatore il diritto di governare per suo conto un vasto territorio che comprendeva anche la
Provenza, l'area a nord delle Alpi sino al Danubio e la parte settentrionale della penisola balcanica,
sino al confine con l'Impero d'Oriente.
Entrati in Italia da nord-est, gli ostrogoti ebbero facilmente ragione delle truppe di Odoacre, mentre
la cattura di quest'ultimo - che si era asserragliato a Ravenna, circondata da paludi e per questo
impossibile da assediare - richiese tre anni di combattimenti. Nel 493 anche quest'ultima resistenza
fu superata, Odoacre venne eliminato e Teoderico divenne padrone del suo vasto regno, che
avrebbe governato fino alla morte, avvenuta nel 526.
Da bambino Teoderico era stato condotto a Costantinopoli come ostaggio, e i dieci anni che
trascorse in quella città lo segnarono per sempre. Pur essendo analfabeta, Teoderico rimase infatti
profondamente affascinato dalla cultura romana e si sentì sempre privilegiato rispetto agli altri
sovrani germanici per il fatto di governare su territori che erano stati la culla della civiltà latina. Dal
punto di vista di Teoderico, il sovrano ostrogoto era il legittimo continuatore degli imperatori
romani. Non a caso, stabilì la capitale del suo regno a Ravenna, cioè nella città che era stata già
capitale dell'Occidente negli ultimi decenni della sua storia, e cercò sotto molti aspetti di imitare lo
stile dei principi romani, fino a farsi costruire un mausoleo (tuttora conservato a Ravenna) per la
propria sepoltura, come già avevano fatto tanti imperatori.
In questo spirito, Teoderico avviò una politica volta a ottenere il consenso di tutti i poteri forti
presenti nella penisola: l'aristocrazia romana, che aveva il suo centro nel senato, e la chiesa di
Roma. Le funzioni militari rimasero saldamente nelle mani dei conquistatori, ma Teoderico
trasse dalle file dell'aristocrazia latina il personale necessario all'amministrazione statale.
• Boezio, per esempio, appartenente a una famiglia che da generazioni dava a Roma senatori,
principi e uomini di cultura, fece una brillante carriera politica, culminata nell'incarico di
responsabile unico dell'amministrazione ostrogota.
• Un altro collaboratore, Simmaco, era suocero di Boezio e discendeva a sua volta da una
prestigiosa famiglia di politici e letterati.
• Cassiodoro, infine, divenne responsabile della cancelleria di corte, incaricata di redigere i testi
dei provvedimenti giuridici e normativi e di stendere la corrispondenza ufficiale.
LA TOLLERANZA RELIGIOSA E LE DIFFICOLTÀ DELL'INTEGRAZIONE.
Gli ostrogoti erano ariani, ma anche con il papato romano i rapporti di Teoderico furono cordiali e
improntati alla reciproca tolleranza. Nelle città le cattedrali ariane, riservate al culto della minoranza
gota - come la bellissima struttura di Sant'Apollinare Nuovo a Ravenna, o il Battistero degli ariani,
sempre a Ravenna -, si affiancarono alle chiese destinate alla ben più numerosa popolazione
cattolica. Negli ultimi anni del regno di Teoderico, però, la coesistenza pacifica fra le due etnie
iniziò a incrinarsi. Se l'unificazione politica dei due popoli in un unico stato poteva dirsi
sostanzialmente riuscita, goti e romani rimanevano estranei gli uni agli altri, pur vivendo nelle
stesse città.
Come se non bastasse, il nuovo imperatore d'Oriente Giustino avviò una politica religiosa
volta a estirpare tutte le eresie o le dottrine estranee al cristianesimo "ortodosso": e tale era
anche la fede ariana di Teoderico e dei goti. Non si trattava solo di una preoccupazione di tipo
religioso: l'uniformità delle credenze era un obiettivo perseguito già a suo tempo da Costantino, in
quanto eliminava una possibile fonte di tensione fra i sudditi e contribuiva a rafforzare il potere
dell'imperatore, suprema autorità politica ma anche garante dell'autentica dottrina cattolica; era
perciò importante che questa dottrina fosse definita in modo univoco e accettato da tutti.
FALLISCE LA CONVIVENZA FRA GERMANI E ROMANI IN ITALIA.
I riflessi della politica intollerante di Giustino si fecero sentire anche nel regno di Teoderico,
che era pur sempre, nella concezione bizantina, una provincia dell'Impero d'Oriente; e in questo
clima era inevitabile che le tensioni crescessero, intrecciandosi con il problema irrisolto della
fusione fra conquistati e conquistatori. Teoderico temette che l'aristocrazia romana
simpatizzasse per l'imperatore bizantino e preparasse complotti per rovesciarlo; l'incarcerazione
e la successiva condanna a morte di Boezio e Simmaco, nel 524-525, segnarono la fine della
politica di convivenza pacifica fra le due etnie.
Nel 526 morì Teoderico, l'anno seguente Giustino. Il nuovo imperatore, Giustiniano, era deciso a
proseguire la lotta all'eresia e, per di più, riteneva che la politica dei predecessori nei confronti
dell'Occidente - governare quei territori in maniera indiretta, con la mediazione di principi barbari
formalmente dipendenti dal sovrano bizantino - avesse fatto il suo tempo. Secondo Giustiniano era
giunto il momento di recuperare il controllo diretto sull'Occidente.
L’impero bizantino da Giustiniano al VII secolo
L’UNIFICAZIONE RELIGIOSA E CULTURALE SOTTO GIUSTINIANO
Giustiniano salì al potere nel 527 e vi rimase fino al 565. Un lungo regno, che il nuovo
imperatore sembrò subito impostare nel segno di una tenace ricerca dell'unità a tutti i livelli della
vita dello stato: unità dell'Impero, unità della dottrina religiosa, unità del diritto e naturalmente, al
vertice di tutto questo, unità della direzione politica, saldamente nelle mani del sovrano.
Sul piano religioso, si trattava di continuare la linea del predecessore Giustino, quella della lotta a
ogni forma di credenza religiosa "deviante": dunque, non solo le eresie interne al cristianesimo,
ma anche i residui di paganesimo, ancora diffusi, per esempio, negli ambienti filosofici e
intellettuali: si inquadra in questa politica la decisione storica di chiudere l’Accademia di Atene
(529), la prestigiosa scuola di filosofia fondata da Platone dopo il 387 a.C. Il ruolo del sovrano
come supremo garante della vera fede non si espresse solo nella persecuzione del dissenso religioso.
Ebbe per esempio una manifestazione spettacolare nel grandioso progetto della basilica di Santa
Sofia a Costantinopoli.
Nel 528, quindi poco dopo l'ascesa al trono, Giustiniano nominò una speciale commissione di
esperti giuristi, con l'incarico di procedere a un riordinamento complessivo del diritto
romano. Nei secoli, le leggi e le norme romane si erano accumulate, sovrapposte, non di rado
contraddicendosi fra loro e comunque dando origine a un edificio giuridico dalla struttura confusa,
nella quale non si riusciva a rintracciare un ordine. Il risultato di sei anni di intenso lavoro della
commissione fu il Codice di Giustiniano (Corpus iuris civilis), un'opera fondamentale, che
sintetizzò organicamente tutta la tradizione giuridica romana.
L’UNIFICAZIONE TERRITORIALE E POLITICA
La vocazione all'unità di Giustiniano si manifestò poi nell'ambizioso progetto di recuperare al
controllo diretto di Costantinopoli i territori dell'ex Impero d'Occidente, ponendo fine al
compromesso di affidare questi territori a reggenti germanici in qualità di rappresentanti del
sovrano bizantino. Un progetto al quale non era estranea, ancora una volta, una motivazione di
carattere religioso, dato che i re germanici erano perlopiù ariani, dunque eretici. Per realizzare i suoi
piani, Giustiniano aveva bisogno di avere le mani libere lungo la frontiera orientale, contro la quale
premeva il Regno persiano; nel 532 il problema fu risolto attraverso un accordo con il sovrano
persiano Cosroe, favorito dal versamento di una consistente indennità da parte bizantina.
• AFRICA. L'anno seguente (533) il progetto di riconquista prese il via dal Regno africano dei
vandali, il più fragile tra i domini germanici. Fu sufficiente un anno di campagna militare
perché le forze bizantine, guidate dall'abile generale Belisario, potessero entrare trionfalmente
nella capitale Cartagine, nel 534. I vandali sopravvissuti si dispersero e scomparvero dalla
scena della storia.
• ITALIA. Nel 535, con il pretesto di presunti atteggiamenti antibizantini della corte ostrogota,
Giustiniano scatenò l'offensiva in Italia nella cosiddetta guerra greco-gotica, attaccando la
penisola da nord e da sud, ancora una volta sotto la guida di Belisario. Appena cinque anni
dopo, con l'occupazione di tutto il centro-sud (dove del resto la presenza ostrogota era
sporadica), la conquista di Ravenna e la cattura del sovrano germanico Vitige, sembrava che la
guerra si fosse conclusa a favore dei bizantini. I goti dimostrarono però un'imprevedibile
capacità di resistenza. Il nuovo re Totila tenne testa a lungo alle forze di Giustiniano, ricorrendo
anche a provvedimenti estremi come la concessione della libertà agli schiavi dei grandi
latifondisti latini (considerati simpatizzanti dei bizantini), a patto che combattessero dalla parte
dei goti. L'Italia venne percorsa in lungo e in largo dai due eserciti in uno stillicidio di
devastazioni e violenze, dato che ognuno dei contendenti cercava di fare terra bruciata attorno
all'altro. Nel 552 Totila fu ucciso e l'anno dopo anche l'ultima resistenza gota fu
annientata. I bizantini avevano vinto la guerra, ma l'Italia era prossima al collasso.
Nel 554, un provvedimento di Giustiniano noto come Prammatica sanzione sancì
ufficialmente il ricongiungimento dell'Italia all'Impero. Diciotto anni di guerra all'ultimo
uomo avevano però avuto effetti devastanti sul tessuto economico e sociale della penisola. I
campi erano sconvolti, l'antica aristocrazia latifondista decimata, e anche la popolazione
urbana si era ridotta fortemente, per i massacri e per le epidemie provocati dalla guerra.
Molte strade romane risultavano ormai inservibili, vaste aree rurali si erano impaludate o erano
tornate all'incolto; nelle città spopolate interi quartieri rimasti deserti venivano adibiti a zone di
pascolo o a serbatoio di mattoni e altri materiali da costruzione. Per di più, l'aristocrazia
•
romana, che i goti avevano rispettato e coinvolto nel governo, venne emarginata da
Giustiniano, che amministrò i territori riconquistati con personale proveniente
dall'Oriente. L'aristocrazia fu anche mortificata da un prelievo fiscale esoso, che scaricava i
costi altissimi della guerra proprio sulla classe che avrebbe dovuto trarne vantaggio. Si
capisce bene come, in queste condizioni, il controllo bizantino dell'Italia fosse durato appena
quindici anni: nel 569 una nuova invasione condusse nella penisola i longobardi, la più
selvaggia fra tutte le genti germaniche. Prima, però, Giustiniano fece in tempo ad abbellire
Ravenna, ex capitale ostrogota e ora sede del comando militare bizantino, di splendide chiese,
secondo un uso politico dell'architettura sacra che abbiamo già conosciuto a Costantinopoli.
SPAGNA. Intanto, i costi umani ed economici della campagna d'Italia non arrestarono il progetto
di riconquista dell'Occidente. Appena un anno dopo la fine delle ostilità in Italia, nel 554
l'esercito bizantino veniva diretto contro la Spagna visigota. L'attacco prese le mosse
dall'Africa, attraverso lo stretto di Gibilterra, e portò all'occupazione dei territori
meridionali della penisola iberica. Anche in questo caso si trattò di un successo effimero:
trent'anni dopo, nel 585, i visigoti avevano di nuovo riunificato sotto il loro controllo
l'intera Spagna.
L’EFFIMERA RICONQUISTA DI GIUSTINIANO, “ULTIMO DEI ROMANI”
La politica di riconquista di Giustiniano si risolse dunque in un insuccesso. Anzitutto, le guerre
in Occidente drenarono immense risorse economiche, necessarie a pagare il soldo alle truppe
(perlopiù mercenarie) e poi, a conquista ultimata, ad assicurare la ricostruzione e a mantenere le
forze di occupazione. In secondo luogo, si trattò di conquiste effimere, durate solo pochi anni, in
parte proprio per l'impossibilità strategica e finanziaria di garantire l'occupazione e la difesa dei
nuovi territori.
Infine, il massiccio concentramento dell'impegno militare sul fronte occidentale sguarnì
inevitabilmente i confini orientali dell'Impero bizantino, che conobbe ripetute invasioni sia nei
suoi territori europei sia in quelli asiatici. Costantinopoli dunque sarebbe stata costretta a
rinunciare al controllo di territori lontani ed economicamente poco redditizi e a concentrare le forze
nella difesa dei propri confini storici.
mani. Il fallimento della politica di Giustiniano ebbe un'altra conseguenza di lungo periodo: ai suoi
successori non sarebbe rimasto che prendere atto del fatto che le terre d'Occidente erano perdute per
sempre e che anche il controllo indiretto di quei regni non era più possibile; da allora in avanti, le
due metà dell’antico Impero avrebbero avuto storie, protagonisti e culture sempre più distanti
l’una dall’altra e dalla loro matrice comune. Il sogno di fermare la storia, o di riportarla indietro,
era tramontato per sempre: ma proprio per avere cercato di realizzare quel sogno, Giustiniano può
davvero essere definito l’ultimo dei romani.
L’IMPERO D'ORIENTE DOPO GIUSTINIANO
Dopo la morte di Giustiniano (565), l'impero d'Oriente andò incontro a una grave crisi. E la
situazione si aggravò ulteriormente agli inizi del VII secolo, quando il re persiano Cosroe pensò che
fosse giunto il momento di dare il colpo definitivo al traballante edificio dello stato bizantino. I suoi
eserciti occuparono la Siria e l'Egitto e giunsero sino alle porte di Costantinopoli: tra l'altro i
persiani saccheggiarono Gerusalemme e s'impadronirono della Vera Croce, una teca in cui era
conservata una scheggia della croce sulla quale si riteneva fosse stato giustiziato Gesù e che era
perciò venerata dai cristiani come la più sacra delle reliquie. Per fronteggiare i persiani, i bizantini
richiamarono in Oriente tutte le loro forze, cosicché le frontiere sguarnite del Danubio furono
attaccate da popolazioni barbariche che fino a quel momento erano state trattenute al di fuori dei
confini: grandi masse di slavi dilagarono per la penisola balcanica e vi si stabilirono. Tutta la
regione subì una radicale trasformazione etnica: le popolazioni indigene, di lingua greca o romana, si
rifugiarono verso la costa, mentre le regioni dell'entroterra furono da quel momento popolate da
slavi.
ERACLIO E LA VITTORIA DELL'IMPERO BIZANTINO
Sembrava ormai che fosse giunto il momento del crollo, quando venne proclamato imperatore un
abile generale proveniente dall'Africa romanizzata, Eraclio (610-641), che riuscì a risollevare
l'impero dalla rovina in cui era precipitato. Eraclio riorganizzò l'esercito e con una serie di ardite
operazioni militari arginò i persiani; giunse persino a espugnare la capitale nemica dove, per
vendicare il saccheggio ii Gerusalemme, fece dare alle fiamme il tempio del fuoco di Zoroastro,
luogo sacro per i persiani. A questo punto, nel 626, mentre Eraclio si trovava nel cuore del territorio
nemico, i persiani passarono alla controffensiva e strinsero d'assedio Costantinopoli per terra e
per mare, ma la città, protetta dalle sue formidabili fortificazioni, resistette grazie alla coraggiosa
difesa condotta dalla popolazione. Lo stesso patriarca di Costantinopoli, Sergio, si esponeva tra i
combattenti sulle mura, rianimando i difensori con prediche e solenni processioni religiose: la guerra
contro i persiani, seguaci di Zoroastro, era infatti considerata dalla popolazione come una vera e
propria guerra di religione. I persiani furono costretti a levare l'assedio; due anni più tardi, nel 628,
presso le rovine di Ninive (l'antica capitale degli assiri) si combatté la battaglia decisiva, che
terminò con la completa vittoria dell'esercito bizantino comandato personalmente da Eraclio.
Il re persiano Cosroe fu deposto e ucciso, e il suo successore dovette implorare la pace dai bizantini.
Tra le clausole del trattato di pace, Eraclio impose anche la restituzione della Vera Croce, che fu
portata a Costantinopoli come segno del trionfo.
IL RINNOVAMENTO DELL'IMPERO D'ORIENTE
La guerra tra bizantini e persiani, protrattasi per più di vent'anni tra immense munizioni, fini con la
vittoria dei primi, ma ebbe risvolti fatali per entrambi gli imperi; questi s'indebolirono al punto di
non essere più in grado di opporsi all'invasione degli arabi, che già andava profilandosi e che di li a
pochi anni avrebbe cambiato il volto di tutto il mondo mediterraneo.
Ma l'importanza di Eraclio nella storia bizantina fu notevole anche per un altro aspetto: egli fu
l'unico imperatore dell'epoca tarda che cercò di operare sulle cause profonde della crisi sociale.
Infetti, per fare fronte alle necessità militari, Eraclio fece distribuire grandi estensioni di terre ai
contadini, obbligandoli a prestare in cambio il servizio militare, e stabilì leggi severe per impedire
che i grandi proprietari terrieri mettessero le mani sugli appezzamenti dei contadini-soldati; di
conseguenza, i soldati dell'esercito bizantino non furono più mercenari, ma soldati-contadini
direttamente interessati alla difesa del territorio da cui essi stessi traevano i mezzi di sostentamento.
In questo modo Eraclio liberò l'impero dalla dipendenza dalle costose milizie mercenarie e favori lo
sviluppo di una libera popolazione contadina, che formò il nerbo e la forza dello stato bizantino
durante tutto il Medioevo.
GLI SLAVI E I BULGARI
Come abbiamo accennato sopra, nella parte orientale dell'impero andavano intanto maturando altri
eventi, di grandissima rilevanza storica: nei Balcani infatti s'insediarono due nuove popolazioni, gli
slavi e i bulgari. Tra la fine del V e l'inizio del VI secolo d.C. gli slavi, una popolazione
indoeuropea stanziata nelle pianure dell'Europa orientale, iniziarono a espandersi verso occidente,
occupando i territori abbandonati dalle popolazioni germaniche; successivamente tribù slave
scesero nella penisola balcanica, sino alla Grecia. Alcuni di loro poi si stanziarono lungo il Volga,
altri in Boemia e Moravia, mentre i serbi e i croati, anch'essi genti slave, in accordo con l'impero di
Bisanzio, si stabilirono oltre il Danubio, nell'Illirico. La prima conseguenza della definitiva
trasformazione dei popoli slavi da nomadi in sedentari fu che essi vennero raggiunti con maggiore
facilità dalle missioni di cristianizzazione. La maggioranza degli slavi (in particolare, serbi e russi)
subirono l'influenza bizantina e si convertirono al cristianesimo orientale, entrando nell'orbita
religiosa e culturale di Costantinopoli. Un altro popolo che in quest'epoca entrò prepotentemente
nella storia furono i bulgari, in origine dei nomadi di razza turco-mongola. Essi penetrarono nei
Balcani attorno al VII secolo e vi si insediarono, mescolandosi poi alla locale popolazione slava, da
cui mutuarono la lingua. In un'alternanza di guerre e di alleanze, i bulgari furono il rivale storico di
Bisanzio nei Balcani; ma dal punto di vista culturale anch'essi attinsero da Costantinopoli gli
elementi fondamentali della loro civiltà. L'avere plasmato le basi delle civiltà slave fu dunque una
delle missioni storiche fondamentali di Bisanzio, i cui effetti si sarebbero protratti sino all'età
contemporanea.
L’Italia dei longobardi (VI –VII secolo)
L’ARRIVO DEI LONGOBARDI
Secondo lo storico latino Velleio Patercolo, i longobardi erano "più barbari della stessa barbarie
germanica": erano infatti del tutto estranei alla civiltà dei latini. A quel tempo, nel I secolo d.C, i
longobardi vivevano ancora nel cuore dei territori germanici, lungo il corso dell'Elba; da lì si
spostarono man mano verso sud ed è in Pannonia, cioè pressappoco nell'attuale Ungheria, che li
troviamo qualche secolo dopo, prossimi a entrare nella storia dell'Italia. Nel 568, a meno di
vent'anni dalla drammatica guerra greco-gotica che aveva messo in ginocchio l'Italia, questi
"barbari fra i barbari" fecero il loro ingresso nella penisola dal Friuli, e questa regione rimase
sempre un po' la loro culla; da lì dilagarono in tutta la pianura padana, in Toscana e nelle zone
appenniniche dell'Italia centrale, giungendo fino a Benevento: i longobardi erano pochi
(centomila, forse centocinquantamila, comprese le donne e i bambini) e il loro scopo era di fare
bottino, ma erano pronti a tornare indietro se avessero incontrato resistenza da parte dei bizantini.
Le cose, invece, andarono molto diversamente e la scorreria si trasformò ben presto in un vero e
proprio stanziamento, dato che l'imperatore bizantino, il quale avrebbe dovuto difendere l'Italia da
poco riconquistata, non riuscì a impedire l'invasione.
L'amministrazione e il controllo militare dell'Italia assorbivano immense risorse finanziarie, risorse
che i bizantini, dopo Giustiniano, non furono più in grado di mobilitare, anche perché dovevano
difendersi da pericoli ben più ravvicinati (i persiani e le popolazioni che dall'Asia continuavano a
sconfinare verso l'Europa). La scelta dei comandi militari bizantini di stanza in Italia fu quindi
di abbandonare al loro destino le aree meno importanti dal punto dì vista strategico e di
concentrare le forze nel controllo di alcune zone-chiave e dei principali centri portuali,
essenziali per mantenere i contatti con la madrepatria.
II NUOVO EQUILIBRIO TERRITORIALE: FINE DELL’UNITÀ POLITICA
Rimasero nelle mani dei bizantini la Sicilia e la Sardegna, la Puglia e la Calabria, Napoli,
Roma, Ravenna e il suo entroterra, e Venezia. Questo equilibrio si stabilizzò. Nei due secoli
circa della loro permanenza in Italia i longobardi strapparono ai bizantini qualche altro lembo di
territorio, ma in sostanza si limitarono a controllare le zone che avevano occupato al loro arrivo; a
loro volta, i bizantini mantennero tenacemente le posizioni e non tentarono di riconquistare le terre
perdute.
L'invasione dei longobardi rappresentò una novità importante nella storia dell'Italia, per almeno due
motivi. Anzitutto, a seguito della spartizione del territorio fra bizantini e nuovi arrivati, la penisola
si ritrovò divisa in due aree con culture, lingue e religioni diverse; era la prima volta che accadeva
da quando i romani, nove secoli prima, avevano unificato l'Italia sotto il loro dominio. L'area
occupata dai longobardi iniziò a essere chiamata Longobardìa (da qui l'attuale nome della
Lombardia), mentre la zona intorno a Ravenna - il centro bizantino più importante, che ospitava la
sede del governatore, o esarca - fu definita Romania, letteralmente "il paese dei romani" (da qui
l'attuale nome della Romagna).
LE DIFFICOLTÀ DELL’INTEGRAZIONE
In secondo luogo, l'invasione longobarda segnò la vera, drastica rottura con il passato romano: il
Medioevo in Italia inizia davvero solo con i longobardi: gli ostrogoti erano giunti sotto la guida di un
re, Teoderico, cresciuto a Costantinopoli, imbevuto di ammirazione verso la cultura classica, la cui
massima aspirazione era di assomigliare a uno dei grandi imperatori romani; per non parlare poi del
breve periodo di governo dei bizantini, giunti in Italia proprio con il sogno di riportare sotto il
controllo dei "romani" (tali infatti si consideravano i bizantini) la metà occidentale dell'Impero. Con i
longobardi fu tutto diverso: i residui dell'antica aristocrazia romana vennero spazzati via, le terre
passarono massicciamente nelle mani dei nuovi arrivati e i rapporti fra invasori e romani furono
spesso ostili e violenti. Molte città vennero abbandonate o ridussero drasticamente le proprie
dimensioni, e almeno in un primo momento ci fu un forte arretramento delle attività artigianali e
commerciali.
Nel difficile rapporto fra longobardi e romani pesava infine, come già con gli ostrogoti, la differenza
religiosa, perché anche i longobardi erano ariani, se non pagani. A poco a poco i nuovi invasori si
accostarono al cattolicesimo. Autari, re alla fine del VI secolo, proibì ai longobardi di battezzare i
figli secondo il rito cattolico perché casi del genere già si verificavano fra i longobardi; per arrivare
alla conversione generalizzata e all'integrazione religiosa con gli italici, però, ci volle ancora quasi un
secolo.
LA SOCIETÀ LONGOBARDA
I longobardi erano giunti in Italia suddivisi in gruppi e bande, i cui membri erano legati fra loro da
vincoli di parentela e obbedivano agli ordini di un capo, il duca. Era una struttura sociale che si
ritrova anche presso altri popoli germanici e aveva finalità essenzialmente militari: fra i longobardi,
infatti, solo gli uomini liberi in grado di portare le armi (detti arimanni) godevano di pieni diritti, fra
cui assai importante era quello di partecipare alla spartizione del bottino conquistato. I singoli duchi
agivano autonomamente. L'usanza di eleggere un re dell'intero popolo si limitava ai momenti di
emergenza, quando era strategicamente conveniente unificare il comando nelle mani di una sola
autorità, ma veniva abbandonata una volta superato il pericolo. Così, in occasione della migrazione in
Italia i duchi avevano scelto come re Alboino; ma una volta condotta a termine l'invasione, per
parecchi anni il trono rimase vacante e i duchi si mossero in totale autonomia, insediandosi nelle aree
di volta in volta occupate dai guerrieri del loro seguito.
Quando la presenza longobarda in Italia si trasformò in un insediamento stabile, tuttavia, i duchi
preferirono tornare alla nomina di un sovrano e la città di Pavia fu scelta come sede della monarchia.
La presenza di un comando unificato si rendeva necessaria per affrontare la resistenza bizantina e
portare a termine l'occupazione del territorio. Ma i ducati più lontani rimasero sempre indipendenti
dal potere del re e resistettero a vari tentativi di ridurli all'obbedienza: fu il caso del Ducato di
Spoleto, comprendente una vasta area dell'Italia centrale, e del Ducato di Benevento.
La struttura della monarchia longobarda si consolidò progressivamente nel corso del VII secolo.
Durante il regno di Rotari (636-652) la conquista della Liguria ridimensionò ancora la presenza
bizantina nel Nord Italia. Ma, soprattutto, venne messo per la prima volta per iscritto, nel cosiddetto
editto di Rotari, il diritto consuetudinario dei longobardi, tramandato fino a quel momento in forma
orale. Scritto in latino, che rimaneva anche nell'Italia longobarda la lingua ufficiale della cultura
scritta, e in particolare del diritto, l'editto in origine si applicò ai soli longobardi, mentre per gli italici
continuava a valere l'antico diritto romano.
LA CONVERSIONE AL CATTOLICESIMO
Sempre nel VII secolo avvenne il definitivo passaggio dei longobardi al cattolicesimo, che segnò un
netto miglioramento nei loro rapporti con la chiesa e con la popolazione italica. I longobardi
divennero grandi costruttori di monasteri. Abati e monaci provenivano spesso dall'aristocrazia
longobarda, che aveva scoperto nella costruzione e direzione di monasteri una nuova forma di
governo del territorio. Le abbazie avevano infatti spesso proprietà agricole molto estese, che si
ampliavano ulteriormente attraverso le opere di disboscamento e messa a coltura di nuovi terreni da
parte dei monaci; senza contare che molte di esse erano situate in zone politicamente e militarmente
strategiche.
La chiesa di Roma e il rafforzamento del cattolicesimo
IL MONACHESIMO
Il monachesimo (dal greco monos “solo, unico”), nacque a partire dal III secolo nei territori
orientali dell'Impero romano, dove si doffuse nella variante eremitica, parola derivata dall'aggettivo
greco héremos, che significa "deserto", "solitario". I monaci eremiti vivevano appunto in solitudine,
scegliendo luoghi disabitati, spesso estremi dal punto di vista della disponibilità di risorse e delle
possibilità di sopravvivenza, testimoniando così una volontà di rinuncia radicale alla vita mondana e
ai suoi valori. Fondatore di questo tipo di monachesimo sarebbe stato l'egiziano Antonio, nato
intorno al 270, un benestante cristiano che, secondo la tradizione, trascorse gli ultimi settant'anni
della sua lunghissima vita nel deserto, in completa solitudine.
In Europa, però, sul monachesimo di tipo eremitico prevalse nettamente il monachesimo cenobitico
(dal greco koinòs bios “vita comunitaria”), cioè praticato da gruppi più o meno numerosi di monaci
all'interno di abbazie, nelle quali la vita comune era rigorosamente scandita da norme precise, della
cui osservanza era garante un responsabile del monastero, l'abate. Scopo di queste comunità non era
tanto di mortificare i desideri mondani o di sfidare condizioni di vita estreme, quanto di trascorrere
una vita improntata alla meditazione e alla preghiera, non disgiunta però dal lavoro manuale e da un
minimo di attività intellettuale, perlopiù limitata alla lettura dei testi sacri. Inizialmente ciascun
monastero decideva con una certa autonomia le norme cui doveva ispirarsi la vita comune dei suoi
appartenenti: chi fondava l'abbazia ne decideva anche le regole.
Nel 529, l'anno in cui Giustiniano chiude d'autorità la scuola platonica di Atene ponendo fine a una
tradizione di pensiero e di cultura antica di mille anni, il monaco Benedetto, originario di Norcia in
Umbria, fonda ai confini fra Lazio e Campania l'abbazia dì Montecassino, madre di un nuovo tipo
di monachesimo, che si chiamerà appunto benedettino e si diffonderà in tutta l'Europa cristiana.
Mentre dunque in Oriente una tradizione culturale giungeva alla sua traumatica conclusione, in
Italia si apriva un altro capitolo di storia, destinato a influenzare profondamente la vita, l'economia,
l'immaginario e la cultura dell'Occidente. La Regola benedettina era caratterizzata anzitutto da
un'equilibrata alternanza, nel corso della giornata e nei vari periodi dell'anno, di preghiera,
meditazione delle Sacre Scritture e lavoro manuale. La totale povertà, che era stata un tempo degli
eremiti e degli stiliti, venne imposta da Benedetto anche ai suoi seguaci: ai monaci non era
consentito possedere nulla di proprio, tutto doveva essere in comune fra loro e il "vizio della
proprietà" - così lo definisce la Regola - andava eliminato alla radice. Assoluta era anche l'autorità
dell'abate, chiamato a guidare la comunità del cenobio, alla quale il monaco doveva piegare la sua
volontà in omaggio al supremo valore dell'obbedienza.
Quella di Benedetto sarebbe forse rimasta un'esperienza fra le tante di quegli anni difficili ma
fecondi se Gregorio I, papa dal 590 al 604, affascinato dalla figura di Benedetto e autore di una
biografia del fondatore di Montecassino (alla quale dobbiamo quasi tutto quello che sappiamo di
lui), non avesse cercato di promuovere l'adozione della Regola benedettina in tutti i monasteri di
nuova fondazione. In breve tempo, le abbazie benedettine divennero il modello standard (anche se
naturalmente non l'unico) di monachesimo in Europa occidentale mentre nuovi monasteri
venivano fondati continuamente in Italia, in Francia, in Germania, e più tardi in Britannia e in
Irlanda.
Nell'Europa segnata dalle invasioni, dal diffondersi della foresta e dell'incolto e dal ristagno
dell'economia, le abbazie benedettine contribuirono a garantire la prosecuzione dell'attività
agricola, attraverso la messa a coltura di nuove terre. Ma furono anche luoghi di raccolta di
manoscritti, sedi di biblioteche a volte consistenti e dotati quasi sempre di scriptoria, ovvero di
ambienti riservati alla ricopiatura dei manoscritti stessi. Molte opere della cultura latina hanno
transitato, in un qualche momento della loro lunga storia testuale, da un monastero europeo. Ai
monaci siamo quindi debitori, tra l'altro, di numerosi testi classici che il potere laico non volle o non
seppe proteggere e conservare.
LA CHIESA DI ROMA DA VESCOVADO A PAPATO
Cosa stava succedendo intanto, fra VI e VII secolo, alla chiesa di Roma? Sul piano formale, Roma
apparteneva ancora ai bizantini e il suo vescovo era un suddito dell'imperatore d'Oriente. Ma Roma
non era una sede vescovile qualsiasi: intanto perché la città era l'antica capitale imperiale, poi
perché sin dall'epoca delle prime invasioni barbariche il suo vescovo aveva svolto anche un
importante ruolo politico-diplomatico, negoziando con i vari condottieri germanici e assicurando,
per quanto possibile, la difesa della città e la tutela dei suoi abitanti. Il vescovo di Roma, insomma,
era intervenuto laddove il potere in declino degli imperatori romani d'Occidente non riusciva più ad
arrivare. Ma c'erano anche altre ragioni che rendevano speciale la figura del vescovo di Roma.
Anzitutto, la chiesa possedeva un patrimonio di beni e terre che si incrementava nel corso del
tempo, a mano a mano che ricchi latifondisti entravano a far parte delle alte gerarchie
ecclesiastiche, lasciando magari in eredità alla chiesa le loro proprietà; questo patrimonio faceva
capo in ultima istanza al vescovo di Roma, che perciò assumeva le opportune iniziative per tutelarlo
e renderlo redditizio. In secondo luogo, il prestigio di Roma era legato anche a ragioni più
strettamente religiose. A Roma era morto Pietro, l'apostolo al quale Gesù, secondo il racconto dei
Vangeli, aveva affidato il ruolo di capo supremo della chiesa; perciò, il vescovo di Roma si
considerava in un certo senso come il successore di Pietro, depositario di un potere conferito da
Cristo stesso. Per tutti questi motivi, l'autorità e il prestigio della chiesa di Roma erano in
continua crescita e, soprattutto, sempre meno dipendenti dal controllo dell'imperatore d'Oriente.
RAFFORZAMENTO DELL’AUTORITÀ POLITICA
Quando i longobardi iniziarono la loro avanzata, fu subito chiaro che i bizantini non erano in grado
di contrastarli e di garantire la difesa del territorio. La stessa Roma e il Lazio, dove si
concentravano molte proprietà ecclesiastiche, furono così più volte attaccati dai longobardi, alla
ricerca di un'ulteriore espansione. Per la chiesa divenne dunque urgente trovare nuovi e più
potenti alleati: già alla fine del VI secolo, pochi anni dopo la discesa longobarda in Italia, il papa di
Roma prese contatti diplomatici con i sovrani franchi, chiedendo e ottenendo un loro intervento
militare in Italia contro i longobardi. I contatti proseguirono nei decenni successivi e si rivelarono
determinanti per il futuro del papato e dell'intera storia europea.
La figura più importante fra i papi di età longobarda è quella di Gregorio I, detto Magno, pontefice
tra il 590 e il 604. Gregorio dette impulso al processo di progressivo sganciamento dell'autorità
pontificia dal controllo dell'imperatore bizantino e del patriarcato di Costantinopoli. Razionalizzò
l'amministrazione delle vaste proprietà fondiarie che la chiesa possedeva in Italia centromeridionale e in diverse aree dell'Europa, in modo da renderle redditizie. Le rendite servivano al
mantenimento della chiesa di Roma, come pure ad assicurare lo svolgimento di attività caritative, il
sostegno a chiese e monasteri, spesso l'approvvigionamento o perfino la difesa militare delle città,
essendo venuto meno il sostegno bizantino. Al tempo stesso, Gregorio creò e tenne in vita una fitta
rete di contatti diplomatici con i sovrani germanici italiani ed europei. Fu durante il suo pontificato
che i longobardi avviarono alcune timide aperture nei confronti del cattolicesimo, favorite da
Teodolinda, moglie del sovrano longobardo Agilulfo e figlia di un capo barbarico cattolico.
LA FRATTURA CON COSTANTINOPOLI
I rapporti fra papato e impero peggiorarono ulteriormente all'inizio dell'VIII secolo, quando in
Oriente prese piede il movimento degli iconoclasti. Secondo i seguaci di questa dottrina, il culto
prestato alle immagini sacre (Cristo, la Madonna o i santi) doveva considerarsi un residuo di
religiosità pagana e idolatra; pertanto, statue e icone di soggetto sacro dovevano essere distrutte. Gli
imperatori bizantini , a partire da Leone III (717-741) e fino all’842, fecero propria la dottrina
dell'iconoclastia, da un lato per togliere un argomento alla propaganda musulmana, che accusava il
cristianesimo di idolatria, dall’altro per contrastare l’ascendente presso la popolazione di cui
godevano i monaci, pittori e custodi della icone, oggetto di vera e propria venerazione.
L’imperatore avrebbe preteso di imporre la dottrina iconoclasta anche alla chiesa occidentale, ma il
papa di Roma, invece, la condannò come eretica. Era una scelta coraggiosa, considerando che il
papa, come si è detto, era pur sempre un "suddito" dell'Impero d'Oriente. Dietro la disputa
religiosa, però, la vera posta in gioco era politica: il papa intendeva infatti sottolineare la sua
assoluta indipendenza dall'autorità orientale. La rottura tra Roma e Costantinopoli avvenne di
fatto nel 711: fu l'ultimo anno in cui un papa si recò alla corte d'Oriente. Da quel momento in poi,
nessun pontefice romano avrebbe più preso ordini dall'imperatore bizantino. Pochi anni dopo,
l'imperatore sottrasse la giurisdizione ecclesiastica della Grecia e della Macedonia al papa e la
attribuì al patriarca di Costantinopoli, massima autorità religiosa dell'Impero bizantino, la cui
nomina dipendeva dallo stesso imperatore, alla stregua di quella di qualsiasi funzionario. Alla
frattura politica fra i due poteri fece così seguito la separazione religiosa: si formarono due
chiese cristiane indipendenti, quella latina e quella greca.
I RAPPORTI CON I LONGOBARDI
Nel 712 salì sul trono longobardo Liutprando, un sovrano che rilanciò in grande stile la politica
aggressiva contro i territori della chiesa nel Lazio e quelli dell'Impero nella regione di Ravenna.
Liutprando non era un nemico della chiesa: era piuttosto fermamente intenzionato a riunire sotto il
suo controllo i territori longobardi sparpagliati nella penisola, compresi i ducati di Spoleto e
Benevento, che da sempre si comportavano come entità autonome e non riconoscevano l'autorità del
re. I territori controllati dalla chiesa e dai bizantini in Italia centrale rappresentavano un oggettivo
ostacolo per i progetti di Liutprando, perché interrompevano la continuità territoriale dei domini
longobardi. Negli anni successivi la politica di Liutprando fallì, per l'opposizione del papa, dei
bizantini e degli stessi duchi di Spoleto e Benevento. Prima di ritirarsi nel Nord Italia, nel 728,
Liutprando compì però un gesto molto importante: donò alla chiesa il castello di Sutri, un piccolo
centro, oggi in provincia di Viterbo, insieme ad altri villaggi della zona conquistati nel corso della
sua campagna. Si trattava di territori che a rigore appartenevano all'Impero bizantino, e
dunque Liutprando avrebbe dovuto restituirli al sovrano d'Oriente: donandoli al papa, il re
longobardo mostrava di considerare ormai il papato come un potere autonomo, sganciato dal
legame di subordinazione con Costantinopoli.
Con la ritirata di Liutprando, il pericolo di un'invasione del Lazio da parte dei longobardi era
momentaneamente scongiurato. Ma una nuova, gravissima crisi nei precari equilibri della penisola
si verificò nel 751, allorché il nuovo sovrano longobardo Astolfo riuscì a espugnare Ravenna,
capitale fino a quel momento imprendibile dei domini bizantini in Italia. Si trattava di una vittoria di
enorme significato simbolico: se i bizantini non erano riusciti a difendere la loro roccaforte più
importante nella penisola, voleva dire che l'Impero aveva deciso ormai di abbandonare l'Italia al suo
destino. E appariva chiaro che, dopo Ravenna, il prossimo obiettivo dell'espansione
longobarda non poteva che essere Roma.
L’ALLEANZA CON I FRANCHI
Al papa Stefano II, salito al trono pontificio nel 752, un. anno dopo la caduta di Ravenna, non
restò che prendere atto della situazione: l'Impero d'Oriente non era più in grado di difendere Roma e
occorreva mobilitare nuove forze. La strategia di Stefano II fu di riprendere e rafforzare i contatti
con la monarchia franca, già avviati all'epoca dell'invasione longobarda e mai del tutto interrotti. I
franchi erano cattolici, la chiesa era presente in modo capillare sul territorio di quel regno, e
inoltre, fatto essenziale, i franchi erano in quel momento la maggiore potenza militare del
continente. Perciò nel 753, primo papa nella storia della chiesa, Stefano si recò in viaggio da
Roma a Parigi e l'anno dopo, in una solenne cerimonia religiosa, consacrò Pipino il Breve re dei
franchi. In cambio di questo riconoscimento, il re si impegnava a scendere in Italia contro i
longobardi.
In due successive spedizioni, nello stesso 754 e nel 756, Pipino liberò Ravenna e il suo
entroterra. Come già Liutprando trent’anni prima con il castello di Sutri, anche Pipino non restituì
i territori occupati all'imperatore bizantino: li donò invece al papa, che vide così notevolmente
incrementati i suoi possedimenti nell'Italia centrale.
L'EMBRIONE DELLO STATO PAPALE E IL POTERE TEMPORALE DELLA
CHIESA
Grazie alle donazioni di Liutprando e Pipino, la chiesa controllava ormai una striscia di terra che si
estendeva dal Lazio fino al litorale romagnolo: nasceva così, per aggiunte successive, il "Patrimonio
di san Pietro”, come lo si chiamava a quel tempo, ovvero il primo nucleo del futuro Stato della
chiesa, un'entità politica che sarebbe sopravvissuta fino al 1870 e di cui l'attuale Città del Vaticano
rappresenta l'ultimo, minuscolo residuo.
La chiesa finalmente respirava: l'intervento dei franchi avrebbe ridimensionato per un po'
l'espansionismo dei longobardi, e soprattutto il papa aveva definitivamente acquistato un nuovo e
potente alleato in Occidente: all'asse Roma-Costantinopoli si sostituiva il rapporto privilegiato fra
Roma e Parigi, destinato a durare per secoli. Gli equilibri strategici dell'Europa cambiavano, mentre
Oriente e Occidente erano sempre più distanti. Del resto, anche i sovrani franchi avevano tutto da
guadagnare dall'alleanza con la chiesa: grazie alla consacrazione papale il loro potere, sempre un po'
traballante, riceveva il riconoscimento della più importante autorità religiosa d'Europa.
Ma chi dava al papa il diritto di incoronare i re? E quale autorità il vescovo di Roma governava
città, castelli e campagne in Lazio, nelle Marche, in Romagna, tutti territori appartenenti, in linea di
principio, all'Impero bizantino? Più il ruolo e l'importanza del papa in Europa occidentale cresceva,
più diventava urgente dare risposte credibili a queste domande. Fu probabilmente in questo
contesto che venne elaborato nella cancelleria papale uno dei più clamorosi falsi della storia,
la cosiddetta Donazione di Costantino: si trattava di un documento messo a punto dalla segreteria
del papa e attribuito niente meno che a Costantino, il primo imperatore cristiano. Secondo quanto
risultava dal falso documento, l'imperatore, in procinto di trasferirsi a Costantinopoli, avrebbe
dato al vescovo di Roma e ai suoi successori l'intera parte occidentale dei domini romani,
riconoscendo il papa come suprema autorità politica, oltre che religiosa. La Donazione di
Costantino fu costruita per dare un fondamento giuridico alle iniziative del papato alla metà
delI'VIII secolo. Non per nulla, Costantino vi stabiliva, oltre alle concessioni territoriali, la
superiorità del papa su tutte le altre autorità religiose, compreso il patriarca di
Costantinopoli: una dichiarazione concepita dagli estensori della Donazione su misura per
respingere qualsiasi pretesa dell'imperatore d'Oriente di influenzare l'operato e la politica
della chiesa di Roma. Ma la Donazione si rivelò preziosa anche nei secoli successivi. Basandosi
sulle presunte concessioni dell'imperatore romano, infatti, i papi del Medioevo rivendicarono il
proprio diritto a esercitare una specie di supervisione generale sulla politica europea, nonché
il primato del potere "spirituale", quello appunto esercitato dalla chiesa, su quello
"temporale" di re e imperatori. Il falso creato al tempo di Stefano II, insomma, condizionò
un'intera epoca della storia europea. Ci vollero sette secoli per smascherare la clamorosa
contraffazione: solo nel 1441 l'umanista italiano Lorenzo Valla dimostrò, attraverso una serrata
analisi del testo, che si trattava, per l'appunto, di un falso di età longobarda.
Il regno dei franchi (V – VIIIsecolo)
L'ARRIVO DEI FRANCHI IN GALLIA.
I franchi erano già noti ai romani: dalla metà del IV secolo gruppi di germani di stirpe franca erano
stati accolti al di qua del confine e insediati in Gallia, lungo l'alto corso del Reno. La tradizione
vuole anzi che il loro re Meroveo, capostipite della dinastia merovingia, avesse combattuto a fianco
dei romani contro il re unno Attila. Dopo la caduta dell'Impero d'Occidente i franchi si erano
insediati nella Gallia settentrionale, che prenderà da loro il nome odierno di Francia, e avevano
scelto come loro capitale Lutetia Parisiorum, cioè Parigi, antico centro celtico posto su un'isoletta
della Senna.
LA DINASTIA MEROVINGIA
Un primo momento importante nella storia del regno franco venne con la riunificazione delle
diverse tribù operata dal re Clodoveo (481-511), appartenente alla dinastia dei Merovingi, il
quale inoltre si convertì al cattolicesimo, trascinando con sé il suo popolo. Fu una scelta dettata
non tanto da motivazioni religiose, ma da lungimiranza politica: attraverso il suo gesto, Clodoveo
superava di colpo uno dei principali motivi di attrito con la maggioranza romana, di religione
cattolica, e poneva le premesse per quella politica di buoni rapporti fra monarchia franca e
chiesa di Roma che si svilupperà nei secoli successivi. La conversione al cattolicesimo e la lunga
frequentazione tra franchi e romani, già prima del crollo dell'Impero, fecero del Regno franco uno
dei regimi romano-germanici in cui meglio funzionò l'integrazione fra antichi gruppi dirigenti
romani, gerarchie ecclesiastiche e nuovo governo. Clodoveo ebbe anche l'intelligenza politica di
conservare sempre rapporti eccellenti con il sovrano bizantino, presentandosi, secondo la
concezione dominante dell'epoca, come un rappresentante dell'imperatore d'Oriente, che governava
per conto di quest'ultimo un territorio dell'antico Impero d'Occidente. Il re franco intraprese
inoltre l'espansione verso la Gallia meridionale, controllata dai visigoti; essendo questi ariani,
l'impresa ottenne il beneplacito del papato e dei vescovi della Gallia. Infine, estese la sua autorità
sulle tribù di franchi stanziate sulla sponda destra del Reno. Lo sforzo di unificare sotto l'unico
dominio franco tutto il territorio dell'antica Gallia proseguì comunque ben oltre la morte di
Clodoveo: i suoi successori sottomisero i burgundi e tentarono, con parziale successo, di scacciare
gli ostrogoti dalla fascia mediterranea della Francia.
Tuttavia, tra la metà del VI e la metà dell'VIII secolo il regno franco attraversò una fase di
divisioni, dovute alla debolezza del potere centrale: l'usanza, infatti, di suddividere il regno tra
tutti i figli del re defunto ne aveva causato un progressivo smembramento in vari staterelli,
largamente autonomi l'uno dall'altro. Alla base di questa usanza c'era l'idea, propria della cultura
germanica, che il sovrano è proprietario del territorio su cui governa, e che quindi ha il diritto di
disporne, lasciandolo in eredità ai propri figli, esattamente come un qualsiasi privato cittadino
divide per testamento i propri beni fra i suoi discendenti.
A metà del VII secolo, la Francia risultava suddivisa in quattro regioni principali, nelle quali il
potere effettivo era esercitato dai cosiddetti maggiordomi (o maestri di palazzo), cioè dagli
amministratori delle proprietà reali, che si comportavano come dei veri e propri sovrani. I re della
dinastia di Clodoveo, cioè i Merovingi, continuavano a esistere, ma il loro potere era poco più che
formale, tanto da guadagnarsi l’appellativo di “re fannulloni”.
DAI MEROVINGI AI CAROLINGI
La situazione iniziò a modificarsi nel 687, allorché Pipino di Héristal, maggiordomo di una delle
quattro aree in cui il Regno era diviso, riuscì a portare sotto il proprio controllo anche i
rimanenti territori franchi. A questo punto Pipino era un re di fatto ma non di diritto, perché il
titolo continuava ad appartenere al legittimo discendente della dinastia merovingia. Il prestigio della
famiglia di Pipino, del resto, crebbe ulteriormente con il figlio e successore Carlo Martello: nel
732 Carlo Martello guidò l'esercito che a Poitiers, nella Francia meridionale, sconfisse gli arabi, la
nuova potenza mediterranea che pochi anni prima aveva spazzato via il Regno dei visigoti dalla
penisola iberica. Erano anni in cui l'Europa cristiana era attaccata da entrambi i fronti: mentre da
un lato occupavano la Spagna e tentavano di penetrare in Francia, al lato opposto del
Mediterraneo, gli arabi giungevano a minacciare la stessa Costantinopoli. E già alcuni fra i
contemporanei ebbero l'impressione di un pericolo mortale, che rischiava di travolgere l'intera
civiltà che aveva il suo punto di riferimento unificante nel cristianesimo. La posta in gioco nella
battaglia non era solo la sconfitta o la vittoria di Carlo Martello, ma il destino di tutti gli europei, di
cui i franchi erano in quel momento i rappresentanti: si profila per la prima volta, l'idea di Europa:
non una semplice realtà geografica, una somma casuale dì territori e di genti, ma un insieme di
valori e di tradizioni comuni; ma nasce qui anche quella contrapposizione fra Occidente e mondo
arabo come realtà nemiche e inconciliabili, destinata a pesare sulla storia del mondo fino ai giorni
nostri.
Il figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve, portò a compimento quel passaggio dei poteri dai
Merovingi ai maggiordomi che nei fatti era avvenuto da un pezzo. Come il padre e il nonno prima
di lui, Pipino agiva a tutti gli effetti da re e nel 751 decise di porre fine a questa situazione ambigua
nel modo più drastico: quell'anno, l'ultimo rappresentante legittimo della dinastia merovingia fu
destituito e Pipino assunse il titolo di re dei franchi. Da politico abile e spregiudicato quale era,
Pipino si rivolse direttamente al papa per legittimare il suo potere: l'autorità e il prestigio del
pontefice avrebbero fatto passare in secondo piano i modi non proprio limpidi in cui quel potere era
stato ottenuto. Il momento era ben scelto, perché proprio nel 751 i longobardi strappavano Ravenna
all'Impero d'Oriente e il papato aveva urgente bisogno del sostegno franco. Il pontefice, perciò, non
si fece pregare: dichiarò legittimo il potere di Pipino e dei suoi discendenti e l'ultimo re merovingio
finì i suoi giorni in un convento. Nel 754, come abbiamo visto, il papa Stefano II si recò addirittura
a Parigi, per incoronare personalmente il nuovo sovrano franco e chiedergli quell'intervento in Italia
ormai non più rinviabile. Iniziava così, all'insegna di un patto di ferro tra monarchia franca e
papato, una nuova dinastia, detta carolingia dal nome del suo più illustre rappresentante, Carlo
Magno, il figlio di Pipino il Breve.
L’INTERVENTO DI CARLO MAGNO IN ITALIA
Nel 768 Pipino il Breve morì. Il Regno passò nelle mani dei due figli, Carlo e Carlomanno, poi,
alla morte di quest'ultimo, nel 771, al solo Carlo, uno dei sovrani più intelligenti e lungimiranti del
Medioevo, tanto da meritarsi l'appellativo di Magno, cioè il Grande.
In Italia, intanto, si apriva una crisi decisiva negli assetti di potere. Il nuovo re longobardo Desiderio
aveva seguito dapprima una politica di buoni rapporti con i franchi, cementata dal doppio
matrimonio fra due sue figlie e i due figli di Pipino il Breve. Ma quando, alla morte di Carlomanno,
Carlo concentrò tutto il potere nelle sue mani, i rapporti fra il sovrano longobardo e quello franco si
deteriorarono bruscamente, proprio mentre saliva al trono pontificio Adriano I, un papa
fortemente ostile ai longobardi. Desiderio reagì aggredendo i domini pontifici e accadde allora
l'inevitabile: il papa invocò l'aiuto di Carlo, che colse al volo l'occasione per liquidare il suo ex
alleato. La formidabile cavalleria carolingia dilagò nella pianura padana spazzando via la resistenza
longobarda; solo Pavia, l'antica capitale del Regno dove Desiderio si era asserragliato con le ultime
forze, tenne testa per molto tempo alle truppe franche. Alla fine la città capitolò e lo stesso
Desiderio venne preso prigioniero. Era il 774, il Regno longobardo era finito per sempre e Carlo
Magno era il nuovo padrone dell'Italia settentrionale.
Carlo assunse il titolo di re dei franchi e dei longobardi. Il governo dell'Italia del nord fu affidato
da Carlo a uno dei suoi figli, mentre esponenti dell'aristocrazia franca sostituivano in tutti i posti di
comando dell'amministrazione la classe dirigente longobarda. Al centro della penisola, ormai sicuri
da ogni aggressione, c'erano i domini della chiesa, già grandi abbastanza da formare un vero e
proprio stato, e il Ducato di Benevento, ultimo residuo del dominio longobardo, che resse per altri
tre secoli. L'estremo sud e le isole rimanevano assoggettate a un controllo bizantino sempre più
fragile e in costante balia delle incursioni arabe.