CAPITOLO II La politica estera del New Labour tra l’Europa e l’Atlantico In questo capitolo cercheremo di illustrare le principali caratteristiche della politica estera dei governi Blair dal 1997 a oggi. L’idea di fondo è che tale approccio alla politica estera contenga, a ben guardare, svariate contraddizioni; non ultima la pretesa di avere un ruolo di leadership nell’Unione Europea e nel contempo mantenere una relazione preferenziale con gli Stati Uniti. La tesi che si intende sostenere più in generale, come si vedrà anche nel capitolo III, è che la crisi irachena sia servita in effetti da catalizzatore per le contraddizioni latenti nella stessa ideologia del New Labour, che ci sia stata una sostanziale discrepanza tra le reali ragioni che spingono Blair ad appoggiare l’avventura americana in Iraq e le giustificazioni fornite al riguardo dallo stesso primo ministro, e dunque che Blair, propostosi esplicitamente come mediatore tra Stati Uniti ed Europa nella gestione della crisi irachena, abbia di fatto fallito nel suo intento. 1. La politica estera del New Labour 1.1 La rinascita del Labour Party e la “Third Way” Quando Tony Blair diviene, nel maggio 1997, primo ministro, il contesto internazionale nel quale il nuovo governo si trova a operare è profondamente cambiato rispetto a quello di pochi anni prima. Terminata la guerra fredda, la situazione delle relazioni internazionali appare estremamente fluida, con un ruolo di primo piano per gli Stati Uniti, lo sviluppo rapidissimo di forme avanzate di interdipendenza complessa tra attori internazionali50, la globalizzazione dei mercati finanziari. In tale contesto, la Gran Bretagna non può più aspirare, come in passato, a un ruolo egemonico, e dovrà ritagliarsi il proprio spazio nell’arena internazionale, confrontandosi principalmente con due importanti attori: gli Stati Uniti, appunto, con i quali la Gran 50 Cit. A. Papisca, M. Mascia, Le Relazioni Internazionali nell’Era dell’Interdipendenza e dei Diritti Umani, p.108 27 Bretagna intrattiene, dai tempi della seconda guerra mondiale, una ‘special relationship’; e l’Unione Europea, giunta alla fine degli anni ‘90 sulla soglia dell’unione monetaria. Il mondo politico britannico è stato dominato dal 1979 al 1997 dal Conservative Party; in questi anni, sulla sfera politica nazionale campeggia formidabile la figura di Margaret Tatcher, “the Iron Lady”, la cui impronta politica sul Paese, e, come vedremo, sullo stesso Labour Party, è molto marcata. Tony Blair, principale artefice della rinascita del Labour Party, si farà promotore di una ‘Third Way’, una Terza Via (teorizzata dal sociologo Anthony Giddens,) che dovrebbe superare le contraddizioni del capitalismo conciliando la promozione del libero mercato con i correttivi necessari a garantire un certo livello accettabile di giustizia sociale: “...Let me explain what I mean when I talk of a Third Way or New Labour. My conviction is that we have to be absolute in our adherence to our basic values, otherwise we have no compass to guide us through change. (…) These values: solidarity, justice, freedom, tolerance and equal opportunity for all, the belief in a strong community and society as the necessary means of individual advancement. These are the values that drive and govern my political life.”51 Il Labour Party viene dunque ribattezzato “New labour”. Quest’aggettivo, “Nuovo”, ha un senso ben preciso: in effetti nel corso degli anni precedenti la vittoria elettorale del ’97 il partito laburista si allontana da una politica basata su collettivismo, interventismo e pianificazione statale, per abbracciare almeno in parte l’eredità del tatcherismo52. In particolare, il New Labour si mostra determinato a promuovere il libero commercio, la flessibilità nel mercato del lavoro, il capitalismo imprenditoriale, la privatizzazione del settore del welfare (in particolare per ciò che attiene la sanità e l’istruzione). Margaret Tatcher, e il suo successore Major, avevano mantenuto un atteggiamento di sostanziale diffidenza nei confronti dell’Unione Europea, privilegiando il rapporto con gli Stati Uniti53. 51 Prime Minister's speech to the French National Assembly, Tuesday 24 March 1998, source: http://www.number-10.gov.uk/output/Page1160.asp 52 Monica Monti, La politica estera di Margaret Tatcher e Tony Blair. Le relazioni Britanniche con la Comunità Europea. Working papers sull’Europa dell’Istituto di Studi per l’Unione Europea n°2, anno 2003, p. 36 53 Michael F. Hopkins, In Pursuit of British Interests: Reflections on Foreign Policy Under Margaret Thatcher and John Major, Contemporary Review, March 1998 v272 n1586 p.156(3) 28 Tale diffidenza era alimentata dal timore che il perseguimento di un ideale reputato astratto, quello di un’Europa unita a più livelli, potesse in qualche modo danneggiare i reali interessi nazionali britannici54. La politica estera di Blair è invece, almeno per ciò che attiene al suo primo mandato, e in certa misura anche in seguito, improntata alla conciliazione della cosiddetta ‘special relationship’ con gli Stati Uniti con un ruolo di primo piano nell’Unione Europea. Blair si proporrà sempre, anche per ciò che attiene alla guerra in Iraq del 2003, come mediatore tra le due sponde dell’Atlantico. Nei prossimi capitoli cercheremo appunto di comprendere se Blair di fatto abbia avuto o meno, in quest’opera di mediazione, il successo sperato. 1.2. Il New Labour e la visione ‘etica’ delle relazioni internazionali Un’altra importante caratteristica del New Labour, particolarmente rilevante ai fini della nostra analisi, è l’approccio per così dire ‘moralistico’ alla politica estera del governo Blair. Tale approccio, il cui maggior fautore sarà il ministro degli esteri Robin Cook, implica essenzialmente due dimensioni, ciascuna delle quali è destinata a giocare un ruolo chiave nel successivo entusiasmo di Blair per la guerra in Iraq: primo, il New Labour dovrà essere più ‘internazionalista’ dei Conservatives, abbracciando l’interdipendenza come caratteristica imprescindibile del mondo moderno, e lavorare a soluzioni multilaterali, piuttosto che unilaterali, ai problemi internazionali, giocando anche un ruolo di primo piano in Europa. Secondo, il nuovo Labour dovrà avere una politica estera più ‘etica’, rispetto ai predecessori, ovvero una politica estera basata su principi morali piuttosto che su un approccio puramente realista alle relazioni internazionali55. Non a caso Cook manifesterà l’intenzione di voler restaurare il prestigio della Gran Bretagna come “guida” per il bene nel mondo (a “leading force for good in the world”)56, promuovendo un nuovo tipo di politica estera, centrata sui diritti umani. 54 Michael Clarke, British External Policy-Making in the 1990s, London : McMillan (1992), p.266 David Coates e Joel Krieger, Blair’s War, Cambridge: Polity 2004, pp. 11-12 56 Robin Cook's speech on the government's ethical foreign policy, Monday May 12, 1997, fonte: http://www.guardian.co.uk/indonesia/Story/0,2763,190889,00.html 55 29 Se da un lato alcune importanti iniziative del gabinetto Blair risulteranno coerenti con tale approccio 57 , in realtà, come svariati critici fanno notare, numerose saranno, in quest’ ambito, anche le mancanze e le incongruenze del governo laburista. Tali incongruenze vengono in luce, ad esempio, per ciò che riguarda il campo del commercio internazionale di armi58. Particolare risonanza mediatica riceve il caso dell’hardware bellico“made in UK” venduto all’Indonesia e successivamente utilizzato per azioni intimidatorie nei confronti della popolazione di Timor Est59. Perplessità rispetto all’etica delle relazioni internazionali propugnata in via di principio dal New Labour sollevano inoltre le ottime relazioni diplomatiche intrattenute da Blair con Putin 60 nonostante le violazioni dei diritti umani perpetrate in Cecenia e a dispetto del deficit democratico che, com’è noto, caratterizza le istituzioni russe; lo stesso può dirsi per ciò che attiene alle relazioni con la Cina61: anche qui considerazioni di opportunità geo-strategica evidentemente prevalgono su altre di ordine diverso. Un’importante iniziativa di politica estera, che contribuirà a gettare le basi per il coinvolgimento britannico nella guerra in Iraq, è quella che riguarda il Kosovo.62 Quando nel 1998 si profila nella regione l’insorgenza di un conflitto tra l’esercito serbo e l’Esercito di Liberazione del Kosovo, e si inizia a parlare di pulizia etnica perpetrata ai danni della popolazione albanese, per Tony Blair non c’è dubbio: intervenire è la cosa moralmente giusta da fare. L’intervento militare da parte delle forze britanniche nei Balcani prelude a un nuovo corso nella politica estera del Regno Unito, un nuovo corso che sembra voler mettere da parte il concetto westfaliano di sovranità statale a favore dell’“interventismo umanitario”: secondo questo principio, qualora un determinato regime violasse i diritti 57 Volendo menzionare alcuni esempi, ricordiamo che il governo Blair assumerà un ruolo di primo piano nella stesura del testo del protocollo di Kyoto del 1998 sul cambiamento del clima, promuoverà una serie di forum globali per definire una strategia di aiuti nei confronti dei Paesi del Sud del mondo, appoggerà , a differenza degli USA, la creazione della Corte Penale Internazionale. Lo stesso Cook annuncerà inoltre la messa al bando da parte della Gran Bretagna delle mine antiuomo per ciò che attiene all’importazione, esportazione, trasferimento e manifattura delle stesse. 58 Un rapporto redatto nel 2004 da Oxfam mostra come, benchè dal 1997 siano state introdotte regole più rigide sulla concessione di licenze per l’esportazione di armi assemblate, tali regole non restringano invece l’esportazione di componenti di armi; anzi, tra il 1998 e il 2002, il volume delle esportazioni di componenti di (assault rifle) è quadruplicata (vedi: Lock, Stock and Barrel: How British Arms Components Add up to Deadly Weapons, Control Arms Campaign, 2004, fonte: www.oxfam.org) 59 UK Politics Halt Indonesian arms exports – MPs, Friday, September 3, 1999, www.bbc-news.co.uk 60 Vedi Kampfner in The strange return of the ethical dimension, New Statesman, 15 october 2001 61 Nel 1998 Robin Cook, significativamente, pone fine alla pratica di firmare la risoluzione annuale della Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite condannante il relativo record della Cina . 62 Coates e Krieger , op. cit. p. 19 30 umani del proprio popolo, esso si auto-delegittimerebbe, perdendo il proprio diritto alla sovranità territoriale. In un importante discorso del 1999 Blair sosterrà che il principio di non-intervento negli affari ‘domestici’ degli altri stati dovrebbe essere disapplicato nel caso in cui gli stati contravvengano ai propri obblighi internazionali (anche se, aggiungerà, un intervento in tal caso dovrebbe essere soggetto a determinate condizioni). Quello che Blair auspica, in sostanza, è l’affermarsi di una nuova norma di diritto internazionale che vada a intaccare la sovranità degli stati. La materia, inutile dirlo, è estremamente delicata: l’affermarsi di tale consuetudine presenterebbe molteplici rischi, e darebbe certamente luogo a pericolosi abusi. Ad ogni modo, il conflitto in Kosovo si rivela significativo per la politica estera britannica in quanto questa è la prima occasione in cui la NATO intraprende una campagna militare mirata non alla difesa di uno degli stati membri, ma piuttosto a evitare un’emergenza umanitaria. Non solo; la crisi del Kosovo rafforza la leadership militare di Tony Blair e dimostra ai vertici dello stesso Labour Party che l’uso della forza è talvolta la cosa più ‘giusta’ da fare63. 2. La politica estera britannica e gli Stati Uniti 2.1 Una ‘Special Relationship’? L’esistenza di un legame “speciale” con gli Stati Uniti è considerato, sin dagli inizi del XX secolo, un elemento di rilievo nell’ambito della politica estera britannica. Il termine “special relationship” viene reso popolare da Winston Churchill nell’inverno 1945, e, significativamente, è stato ed è molto più utilizzato in Gran Bretagna che negli Stati Uniti. In effetti la special relationship, fermo restando che tra Regno Unito e USA esistono di fatto forti legami storici, linguistici e culturali, è stata da alcuni interpretata come un ‘espediente diplomatico’ usato da una potenza in declino per tentare di spingere una 63 Ibid. p. 21 31 potenza nascente a perseguire i fini della prima64; e infatti, in particolare a partire dalla fine della Guerra Fredda, sono in molti a domandarsi se “the special relationship is not a consolation for a country that has lost its way, a political construct that provides an illusion of continuity for a nation that is experencing a profound sense of purposelessness”65. Considerando la storia politica britannica degli ultimi decenni, di partnership preferenziale con gli Stati Uniti si può senza dubbio parlare negli anni che vedono al potere Margaret Tatcher da un lato e Ronald Reagan dall’altro (i due leader sono accomunati tra le altre cose da forti affinità ideologiche). Margaret Tatcher, se da una parte riconosce la necessità della Gran Bretagna di essere membro comunitario, soprattutto per motivi economici, dall’altra manifesta chiaramente la volontà di difendere con forza gli interessi nazionali britannici opponendosi al sovranazionalismo66. La Gran Bretagna trova dunque negli Stati Uniti un interlocutore naturale nell’arena politica internazionale. Del resto, il terzo “cerchio” della politica estera britannica, il Commonwealth, non sembra più offrire reali possibilità a Whitehall. Quando il New Labour di Tony Blair vincerà le elezioni nel 1997, le affinità tra il nuovo governo britannico e l’amministrazione Clinton appaiono evidenti: Clinton e Blair condividono infatti un’eredità politica di centro-sinistra e si fanno promotori, ciascuno a suo modo, di una ‘Third Way’ al governo dei rispettivi Paesi. Tuttavia, suscitando lo stupore di molti, Blair riuscirà a stabilire un ottimo rapporto, umano e politico, anche col successore repubblicano di Clinton, George W. Bush. Dopo l’11 settembre il legame tra Gran Bretagna e Stati Uniti apparirà più forte che mai. Naturalmente, tale vicinanza non è dovuta soltanto all’impatto emotivo dell’attacco terroristico al World Trade Centre ma affonda le sue radici in quella che Tim Dunne chiama “the resurgent Atlanticist identity which is shaping British security strategy after 9/11”67. 64 David Reynolds, A ‘Special Relationship’? America, Britain and the International Order Since the Second World War, International Affairs, (Royal Institute of International Affairs)Vol. 62, No. 1 (Winter, 1985-1986) p. 2 65 Christopher Coker, Britain and the New World Order: The Special Relationship in the 1990s, International Affairs (Royal Institute of International Affairs), Vol. 68, No. 3(Jul.,1992) p. 409 66 Monica Monti, op. cit. p. 19 67 Tim Dunne, ‘When the Shooting Starts’: Atlanticism in British Security Strategy, International Affairs 80, 5 (2004) p. 894 32 Il tema della ‘special relationship’ si ripropone con forza: tale relazione privilegiata esiste effettivamente come tale oppure la vicinanza della Gran Bretagna agli Stati Uniti in questo preciso momento storico è frutto di una propensione ideologica del New Labour a una politica di ‘committment’ rispetto ai grandi temi internazionali? Sin dalla crisi di Suez del 1956, “It was apparent that the United Kingdom could not expect to play a major role in the world either independently of or in opposition to the United States. Its future strategy would be to trade loyalty for privileged access to Washington’s foreign-policy making”68. Del resto, i precetti della ‘Third Way’ implicano un preciso impegno internazionalista per il governo britannico, laddove per internazionalismo si intende “a way of addressing some of the problems traditionally resolved at the nation-state level (Giddens, 1998)”69 Sembrerebbe corretto, dunque, sostenere che entrambi i fattori, cioè la volontà britannica di coltivare la special relationship con gli USA e l’internazionalismo del New Labour (nonché, dall’altra parte, il bisogno americano di alleati leali nella ‘war on terror’), giochino un ruolo importante nella scelta britannica di appoggiare gli USA nel 2003. Tuttavia non bisogna sottovalutare il fatto che, in realtà, nel caso della guerra in Iraq, l’internazionalismo del New Labour mal si concilia con l’ ‘atlantismo’70 che varcata la soglia del nuovo millennio sembra rimanere un elemento basilare della politica estera britannica. 2.2 Atlanticism vs. Internationalism: le contraddizioni della British Security Strategy. Quando nel 1997 diventa primo ministro, Blair è ben conscio delle grandi sfide che dovrà affrontare, soprattutto per ciò che riguarda le grandi, irrisolte ‘issues’ che caratterizzano la seconda metà del ventesimo secolo. Di conseguenza, egli delinea una ‘grand strategy’ mirata ad affrontarle. Si tratta di sostenere lo sviluppo economico incoraggiando l’eguaglianza sociale, di rispondere alla decadenza dell’identità nazionale 68 Lawrence D. Freedman, The Special Relationship, Then and Now, Foreign Affairs, May-June 2006 v85 i3 p61 69 Steve Ludlam e Martin J. Smith (a cura di) Governing as New Labour : Policy and Politics under Blair, London : Macmillan (2003) p. 197 70 Per atlantismo in questo contesto si intende, rifacendoci alla definizione di Dunne, il senso di politica volta a favorire “the bilateral relationship with the United States above all others when forced to make a choice” vedi Tim Dunne, op. cit. p. 895 33 e delle istituzioni politiche britanniche, di sviluppare un nuovo rapporto con l’Europa in cui la Gran Bretagna possa giocare un ruolo di primo piano, di bilanciare i legami con l’Europa e la special relationship con gli Stati Uniti71. In un discorso tenuto il 10 novembre 1997, Blair dirà, introducendo la nota metafora del Regno Unito come “ponte” sull’Atlantico: “Our aim should be to deepen our relationship with the US at all levels. We are the bridge between the US and Europe. Let us use it.”72 Tuttavia, come vedremo a breve, gli sforzi di Blair sembrano aver successo solo finché la questione irachena non porta Londra a scontrarsi con Parigi e Berlino, mettendo in discussione il ruolo della Gran Bretagna come mediatore tra le due sponde dell’Atlantico, il senso della special relationship, la stessa leadership di Blair. La crisi irachena, infatti, finisce per mettere in luce le contraddizioni latenti nei disegni strategici della Gran Bretagna. Vediamo in che termini. Nel dicembre 2003 il Foreign and Commonwealth Office (ministero degli esteri britannico) pubblica un documento strategico in cui, tra le altre cose, sono elencati otto obiettivi di politica estera che il governo intende perseguire nei successivi dieci anni. Ai fini della nostra analisi, tre di essi appaiono interessanti: 1. a world safer from global terrorism and weapons of mass destruction (…) 3. an international system based on the rule of law, which is better able to resolve disputes and prevent conflicts. (…) 6. sustainable development and poverty reduction underpinned by human rights, democracy, good governance and protection of the environment73 E’ necessario al riguardo fare alcune osservazioni. Il caso dell’Iraq dimostra che l’uso della forza come mezzo per disarmare i ‘rogue states’ si è decisamente rivelato di 71 Steven Philip Kramer, Blair’s Britain After Iraq, Foreign Affairs,July-August 2003 v82 i4 p90 Speech by the Prime Minister at Lord Mayor’s banquet, Friday 10 november 1997, fonte: http://www.number-10.gov.uk/output/Page1070.asp 73 'UK International Priorities', Foreign and Commonwealth Office, Cm 6052, December 2003 fonte: www.fco.gov.uk 72 34 efficacia discutibile74, visto che il Paese è adesso ben lontano dalla pacificazione, né si può sostenere che il resto del mondo sia, rispetto alla minaccia terroristica, più sicuro adesso che prima della guerra (c’è anzi chi sostiene l’esatto contrario). In secondo luogo, l’obiettivo di promuovere la legalità internazionale come mezzo per prevenire e risolvere i conflitti appare in stridente contraddizione con la posizione del governo britannico rispetto alla guerra in Iraq. Come abbiamo visto nel primo capitolo, il tentativo di Blair di ottenere una seconda risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che autorizzi l’uso della forza contro Saddam, fallirà, principalmente per l’opposizione della Francia. Non solo: ironicamente, gli sforzi fatti dal premier per ottenere tale risoluzione fanno sì che essa appaia ancora più importante, e fanno quindi risaltare ancor più l’illegittimità della decisione di andare in guerra anche senza l’autorizzazione delle Nazioni Unite. Per inciso, è interessante notare come, nella versione aggiornata del documento strategico del Foreign and Commonwealth office, pubblicata nel 2006, siano scomparsi i riferimenti a un “international system based on the rule of law” e si parli più vagamente di “preventing and resolving conflict through a strong international system”. Guardando infine all’ultimo obiettivo strategico preso in esame, si potrebbe argomentare che esso venga fortemente limitato dalla dubbia portata morale della “war on terror” guidata dagli USA. Le centinaia di migliaia di vittime civili nella guerra in Iraq, le torture perpetrate ai danni dei prigionieri di Abu Ghraib, il sostegno incondizionato agli USA nonostante i diritti umani non siano una priorità per l’amministrazione Bush (si pensi ai detenuti del carcere di Guantanamo, la cui prigionia viola palesemente la convenzione di Ginevra del 1949 sui diritti dei prigionieri di guerra), tutto questo sembra dimostrare che il governo britannico risponda a una logica machiavellica, o si rifaccia a un approccio realista, piuttosto che a una logica etica delle relazioni internazionali. Tirando le somme di quanto detto finora, la scelta del governo britannico di stare ‘shoulder to shoulder’, ‘spalla a spalla’ con gli Stati Uniti nell’avventura irachena mette a rischio la maggior parte degli obiettivi delineati nel documento sulle priorità strategiche del Foreign and Commonwealth office; a danneggiare l’immagine del 74 Tim Dunne, op. cit. p. 901 35 governo britannico è inoltre la discrepanza sostanziale tra i fini propugnati e i mezzi utilizzati per perseguirli. Non solo: la vecchia convinzione secondo la quale “British interests and influence are best served by close positioning to the foreign policies of American presidents” presenta non pochi rischi, non ultimo “the danger that Washington will simply take British support for granted, seeing no reason to offer much in return”75. 3. Il New Labour e l’Europa 3.1 L’Europeismo del primo governo Blair La tematica dell’Europa è stata, sin dalla fine della seconda guerra mondiale, fonte di divisioni e contrasti all’interno del partito laburista. Contrariamente ai Conservatives, moderatamente favorevoli al processo di integrazione europea, il primo ministro Attlee era chiaramente contrario ad esso, mentre Gaitskell argomentava che un migliaio di anni di storia britannica sarebbero stati spazzati via se il Regno Unito avesse aderito al Mercato Comune76. Con l’eccezione di Harold Wilson, i primi ministri laburisti fino agli inizi degli anni ’80 sono tendenzialmente euroscettici. A partire dalla metà degli anni ottanta, tuttavia, mentre i Conservatives della signora Tatcher diventano via via più diffidenti nei confronti della dimensione comunitaria, la politica europea del labour party comincia a mutare direzione. Entro la fine del decennio, i laburisti compiono la svolta che nel 1997 li porterà a enfatizzare, nel loro manifesto elettorale, il loro pro- europeismo: “We will stand up for Britain's interests in Europe after the shambles of the last six years, but, more than that, we will lead a campaign for reform in Europe. Europe isn't working in the way this country and Europe need. But to lead means to be involved, to be constructive, to be capable of getting our own way”.77 75 John Dumbrell, The US–UK ‘Special Relationship’ in a World Twice Transformed Cambridge Review of International Affairs, Volume 17, Number 3, October 2004, p. 449 76 Julie Smith, A missed opportunity? New Labours’ European policy 1997-2005, International Affairs 81, 4 (2005) p. 705 77 “Because Britain Deserves Better”, New Labour manifesto 1997, (source: www.labour.org.uk) 36 Quella del New Labour però non è tanto un’adesione entusiastica all’ideale comunitario, quanto piuttosto un “constructive committment”, che non implica l’accettazione dell’agenda federalista, ed è affiancato dalla promessa di una campagna di riforme in Europa. Il sovranazionalismo, infatti, viene ancora visto dal governo Blair come una potenziale minaccia per la sovranità della Gran Bretagna. Se da un lato, l’atteggiamento positivo del governo britannico nei confronti delle issues comunitarie sembra essere confermato dalla decisione, annunciata dal ministro degli esteri Robin Cook, di aderire al Social Chapter, d’altro canto in occasione della conferenza di Amsterdam del giugno 1997, il gabinetto Blair sembra condividere ancora una volta molte delle riserve poste dai suoi predecessori rispetto a una più stretta integrazione europea78. Mentre infatti svariati governi europei, tra cui Francia e Germania, manifestano l’intenzione di estendere ulteriormente il meccanismo decisionale basato sulla votazione a maggioranza qualificata, e di andare avanti col processo di integrazione nei campi della politica estera, affari interni, difesa e giustizia, la risposta britannica al riguardo è per lo più negativa. Ad ogni modo, il trattato di Amsterdam accoglie le riserve britanniche, relative soprattutto ai campi della difesa europea (che nell’ottica del governo Blair deve restare competenza della NATO) e della politica interna (Blair chiede che il nuovo trattato riconosca alla Gran Bretagna il diritto di mantenere controlli permanenti alle proprie frontiere). A partire dal 1998, Blair avvierà una serie di contatti bilaterali con altri governi europei, spingendo ministri, parlamentari e funzionari statali a cercare l’intesa con i loro pari in ambito comunitario. Particolarmente interessante in tal senso sarà il vertice anglo-francese di Saint Malo, nel dicembre 1998, nell’ambito del quale per la prima volta la Gran Bretagna si proporrà come attore chiave nel dibattito relativo alla sicurezza e alla difesa europee.79 Particolarmente significativi saranno inoltre i rapporti instaurati con leader come Aznar, Chirac, Berlusconi. Nell’ottobre 2000, a Varsavia, Blair si pronuncerà inoltre a favore dell’allargamento dell’Unione ai Paesi dell’Europa dell’Est: 78 79 Monti, op. cit. p. 41 Julie Smith, op. cit. p. 709 37 “Enlargement to the East may be the EUs greatest challenge, but I also believe it is its greatest opportunity (…) I am determined there should be a breakthrough on enlargement under the Swedish Presidency. I will be urging Europe’s political leaders to commit themselves to a specific framework leading to an early end of the negotiations and accession. I want to see new member states participating in the European Parliamentary elections in 2004 and having a seat at the table at the next IGC.” 80 L’approccio del governo britannico alla tematica dell’unione monetaria sarà tuttavia decisamente meno entusiastico rispetto agli altri temi affrontati nel forum europeo. In effetti, durante il primo mandato, pur essendo favorevole all’ingresso britannico nell’European Monetary Union (EMU), Blair eviterà di affrontare concretamente la questione, ben sapendo che l’opinione pubblica non è pronta a un tale passo81, e che un referendum sulla questione avrebbe quasi sicuramente esiti negativi mettendo a rischio anche il consenso elettorale di cui il New Labour gode. C’è però da rilevare che negli anni immediatamente successivi all’ascesa al potere il governo Blair, pur avendone la possibilità, non proverà neanche a sfruttare la propria popolarità per lanciare una campagna a favore dell’Euro. Per ciò che invece attiene al secondo mandato, come vedremo, l’impatto della ‘war on terror’ causerà un cambiamento nelle priorità del governo Blair, e nel medio periodo anche una perdita di consensi tale82 da rendere politicamente inopportuna la proposta di un eventuale referendum, e il lancio della relativa campagna propagandistica, mirati a promuovere l’adesione della Gran Bretagna all’EMU. Nel giugno 2003, il ministero del Tesoro comunicherà che due dei cinque test il cui superamento è ritenuto essenziale per l’adesione britannica alla moneta unica hanno avuto esito negativo, e dunque il Regno Unito rimarrà verosimilmente fuori dall’EMU negli anni immediatamente successivi83. 80 Speech to the Polish Stock Exchange, 6 october 2000, fonte: http://www.number10.gov.uk/output/Page3384.asp 81 Un sondaggio MORI del1’ agosto 1996 mostra come il 54% dei cittadini britannici sia contrario all’ingresso nell’unione monetaria, percentuale che sala al 59% nel giugno 1999 (dati reperibili all’indirizzo web http://www.mori.com/europe/euro-participation.shtml) 82 Nel febbraio 2003 il tasso di consenso del partito laburista scende al 39%. Al riguardo vedi Alan Travis and Ian Black in Brussels, Blair's popularity plummets , The Guardian ,Tuesday February 18, 2003 83 The draft single European currency (referendum) bill, 8 January 2004, source: http://www.parliament.uk/commons/lib/research/notes/snpc-02851.pdf 38 3.2 L’impatto della guerra in Iraq Si può dire senza timore di esagerare che l’impatto dell’intervento militare in Iraq sulle relazioni britanniche con l’Unione Europea sia stato molto negativo. Non solo la questione provocherà un allontanamento di Londra da Parigi e Berlino, ma essa avrà anche un impatto generalizzato sull’Unione Europea, mettendone in luce le debolezze e contraddizioni. A dividere i governi dell’Unione, com’è noto, sono due diverse concezioni del rapporto che l’Europa deve avere con gli Stati Uniti: da un lato i Francesi parleranno della necessità di controbilanciare la potenza americana, al fine di perseguire un ordine mondiale multipolare basato sulla cooperazione e la solidarietà internazionali84; dall’altro lo stesso Blair sosterrà invece che ciò di cui il mondo ha bisogno è “one polar power which encompasses a strategic partnership between Europe and America”85. Nei primi mesi del 2003, la retorica franco-tedesca sottolinea la necessità di un ruolo centrale dell’ONU nella gestione della crisi irachena; d’altro canto, come abbiamo visto nel capitolo precedente, altri otto governi europei, con una lettera al Wall Street Journal e al Times esprimono la propria solidarietà nei confronti di Washington. Il segretario della difesa americano Rumsfeld parlerà di una ‘old Europe’ (Francia e Germania, fondamentalmente), in senso dispregiativo, e di una ‘new Europe’ (i paesi che appoggiano la guerra in Iraq). Nel dopoguerra, con il delicato processo di pacificazione dell’ Iraq ancora in ballo, non mancano all’interno dell’UE occasioni di attrito : nel caso della Costituzione Europea, la Gran Bretagna manifesterà molta cautela negoziando clausole di opt-out in aree cruciali come fisco, difesa, politica estera; Gran Bretagna da un lato e Germania e Francia dall’altro si scontreranno sulla nomina del nuovo presidente della Commissione Europea, scegliendo infine il portoghese Barroso86; infine, la questione irachena finirà anche per polarizzare il dibattito sull’ingresso della Turchia nell’Unione Europea; membro della NATO e tradizionale alleato degli USA, la Turchia inizialmente offrirà agli Stati Uniti le proprie basi militari (il parlamento turco successivamente bloccherà l’offerta). 84 Anand Menon, From crisi to catharsis: ESDP after Iraq, International Affairs 80, 4 (2004) p. 638 Intervista al primo ministro in Financial Times, 28 April 2003, citata in A. Menon (op. cit.) 86 Sam Natapoff, A more perfect Union?, The American Prospect, 14 september 2004 85 39 In seguito a ciò, Blair, spalleggiato da Bush supporterà la causa turca per l’ingresso nell’UE, suscitando l’irritazione di Chirac, e incontrando anche l’opposizione della stessa Germania. Certamente quest’inversione di tendenza nei rapporti con l’Unione Europea non è un buon risultato per un premier come Blair, che negli anni del primo mandato era considerato (e in parte lo è tuttora) il più ‘europeo’ tra i leader britannici, sia rispetto ai suoi predecessori, sia all’interno del suo stesso partito. Certo il rapporto con Francia e Germania esce danneggiato dalla guerra in Iraq, eppure, anche se la spinta europeista del New Labour ha subito indubbiamente una battuta d’arresto a partire dal 2002, esistono ancora degli spazi di cooperazione tra i tre Paesi, che lasciano aperto un possibile spiraglio di riavvicinamento per il futuro: è il caso ad esempio degli sforzi congiunti dei ministri degli esteri britannico, francese e tedesco nei negoziati con l’Iran volti a persuadere il governo di Tehran ad abbandonare i programmi di arricchimento dell’uranio nel marzo 200587. 4. Blair e le Nazioni Unite Avviandosi alla conclusione questo capitolo dedicato alla politica europea e atlantica dei governi guidati da Blair , è opportuno soffermarsi brevemente sull’atteggiamento che questi hanno tenuto nei confronti dell’ONU. Pur riconoscendo la necessità di una riforma che la renda effettivamente funzionale al mantenimento della pace e della sicurezza internazionali, Blair manifesta sempre una grande fiducia nell’ONU e in ciò che essa rappresenta: “If we want a world ruled by law and by international co-operation then we have to support the UN as its central pillar. But we need to find a new way to make the UN and its Security Council work if we are not to return to the deadlock that undermined the effectiveness of the Security Council during the Cold War. This should be a task for members of the Permanent Five to consider once the Kosovo conflict is complete.”88 87 Iran nuclear plans under pressure, March 2, 2005 in http://news.bbc.co.uk/go/pr/fr//2/hi/middle_east/4311077.stm 88 Prime Minister's speech: Doctrine of the International community at the Economic Club, Chicago, 24 April 1999, source: http://www.number-10.gov.uk/output/Page1297.asp 40 Non a caso, come abbiamo accennato in precedenza, Blair compirà grandi sforzi per assicurarsi una seconda risoluzione ONU che autorizzi l’uso della forza in Iraq. Si potrebbe argomentare che anche l’intervento in Kosovo non è stato autorizzato dalle Nazioni Unite, eppure non ha sollevato polemiche e divisioni paragonabili a quelle sorte in occasione della crisi irachena. Per chiarire le differenze che hanno caratterizzato la guerra in Iraq rispetto alle precedenti operazioni militari promosse da Blair, è opportuno rifarsi al discorso col quale Robin Cook, ex ministro degli esteri, rassegna le sue dimissioni dal governo, invitando i parlamentari laburisti a votare contro l’azione militare: “I have heard some parallels between military action in these circumstances and the military action that we took in Kosovo. There was no doubt about the multilateral support that we had for the action that we took in Kosovo. It was supported by NATO; it was supported by the European Union; it was supported by every single one of the seven neighbours in the region. France and Germany were our active allies. It is precisely because we have none of that support in this case that it was all the more important to get agreement in the Security Council as the last hope of demonstrating international agreement. The legal basis for our action in Kosovo was the need to respond to an urgent and compelling humanitarian crisis. Our difficulty in getting support this time is that neither the international community nor the British public is persuaded that there is an urgent and compelling reason for this military action in Iraq.”89 Cook sostiene, dunque, che anche se l’intervento in Kosovo non trova concordi tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, nondimeno esso è giustificabile sia perché è mirato a risolvere una crisi umanitaria in atto, sia perché della sua necessità sono convinti i membri della NATO, l’Unione Europea, i Paesi confinanti con la regione. Le circostanze relative alla guerra in Iraq sono invece ben diverse: la reale portata della minaccia costituita da Saddam è tutta da dimostrare, né la NATO né l’UE né il 89 Robin Cook’s resignation speech, 18 march 2003, source: http://news.bbc.co.uk/1/hi/uk_politics/2859431.stm 41 Consiglio di Sicurezza ritengono che si debba agire con la fretta che anima gli USA, e in più si tratterebbe qui di appoggiare un’amministrazione americana che nella National Security Strategy del 2002 ha esplicitamente propugnato l’uso preventivo della forza armata contro gli ‘stati canaglia’ che sviluppano (o che sono “in fama” di sviluppare, potremmo aggiungere), armi di distruzione di massa90, e che non tiene le Nazioni Unite in seria considerazione (come abbiamo visto nel capitolo precedente, i ‘falchi’ dell’amministrazione Bush avrebbero volentieri persino evitato di chiedere l’autorizzazione delle Nazioni Unite). Tale atteggiamento è estremamente nocivo per il sistema ONU. In passato, infatti, i ricorsi da parte degli stati all’uso della forza “were accompanied by a fig leaf of legal justification, which, at least tacitly, recognized the residual force of the requirement on Charter Article 2(4) ‘refrain in their international relations from the threat or use of force against the territorial integrity or political independence of any state’”91 Adesso anche la ‘foglia di fico’ della giustificazione viene messa da parte. Sicuramente l’atteggiamento del governo britannico nei confronti dell’ONU contiene una delle più evidenti contraddizioni del New Labour. Quando nel 1999 Blair sostiene che il principio di non-intervento negli affari domestici degli altri stati dovrebbe essere in alcuni casi (cioè in occasione di crisi umanitarie) disapplicato, egli elenca anche cinque ‘test’ destinati a loro volta a limitare in qualche modo l’interferenza negli affari interni degli stati ai casi in cui non ci sia altra soluzione possibile: “First, are we sure of our case? War is an imperfect instrument for righting humanitarian distress; but armed force is sometimes the only means of dealing with dictators. Second, have we exhausted all diplomatic options? We should always give peace every chance, as we have in the case of Kosovo. Third, on the basis of a practical assessment of the situation, are there military operations we can sensibly and prudently undertake? Fourth, are we prepared for the long term? In the past we talked too much of exit strategies. But having made a commitment we cannot simply walk away once the fight is over; better to stay with moderate numbers of troops than return for repeat performances with large numbers. And finally, do we have national interests involved? The mass expulsion of ethnic Albanians from Kosovo demanded the notice 90 Mark A. Pollack, Unilateral America, multilateral Europe? In John Peterson and Mark A. Pollack (edited by) Europe, America, Bush: Transatlantic relations in the twenty-first century (Routledge, 2003) p. 115 91 Thomas M. Franck, What Happens Now? The United Nations after Iraq, The American Journal of International Law, Vol.97, No. 3. (Jul.,2003), p. 608 42 of the rest of the world. But it does make a difference that this is taking place in such a combustible part of Europe”92. Salta subito all’occhio la discrepanza tra la prudenza da Blair suggerita nell’abbozzare i suddetti cinque criteri, e la condotta del governo nell’affare iracheno. Il fatto che la Gran Bretagna dispieghi le sue truppe al fianco di quelle americane nel marzo 2003 costituisce una grande sconfitta a più livelli: una sconfitta per il governo Blair che posto di fronte ad una scelta cruciale si lancia in una guerra impopolare e costosa piuttosto che mettere in discussione l’alleanza con gli Stati Uniti; una sconfitta per l’Unione Europea, che non riesce a mantenersi coesa in questo difficile frangente, dimostrando che la strada verso l’integrazione è ancora lunga e insidiosa; una sconfitta per la comunità internazionale nel suo insieme, e specialmente per le Nazioni Unite, il problema della cui riforma si ripropone sempre più complesso, e la cui autorità viene sminuita dalla volontà della potenza americana di perseguire unilateralmente la propria agenda internazionale e imporre la sua idea di ‘new world order’. 92 Prime Minister's speech: Doctrine of the International community at the Economic Club, Chicago, 24 April 1999 43