relazione 2 - Fondazione Peppino Scoppa

DISPENSA
Nel 1977 un gruppo di psicologi ricercatori dell’Università della California, a Irvine, aveva
segnalato il ruolo positivo che la musica classica (Vivaldi, Bach, Beethoven, Mozart, e così
via) ha per lo sviluppo dell’intelligenza e come a 5 - 6 mesi di età si sia già ricettivi al ritmo,
alla struttura e alle cadenze musicali. Raccomandavano, perciò, di coinvolgere presto i
bambini in attività musicali. Oggi, dalla Germania, ci giungono i risultati di uno studio
scientifico molto rigoroso, che mostra come una buona educazione musicale negli anni delle
elementari renda i bambini non soltanto più intelligenti, ma anche più socievoli e
collaborativi.
“I bambini che studiano e fanno musica” - spiega il pedagogista musicale Hans Bastian,
responsabile della ricerca - “riescono a concentrarsi meglio dei bambini che non suonano
alcuno strumento; hanno anche una resa superiore in matematica, geometria e in lingue,
nonostante siano più impegnati degli altri bambini in termine di tempo, poiché devono fare
esercizio e suonare in gruppo”.
Lo studio tedesco ha coinvolto, dal 1992 al 1998, le scuole berlinesi a indirizzo musicale (con
due ore di lezione di musica consecutive, dove si impara a suonare uno strumento e si fa
musica di gruppo) e due scuole con la tradizionale lezione di musica della durata di un’ora.
Nei sei anni della ricerca sono stati raccolti e analizzati statisticamente oltre un milione di dati
su un totale di 170 alunni tra i 6 e 12 anni. I risultati dello studio sono tutti a favore di
un’educazione di qualità: con “spazi gioco” musicali, insegnanti veramente competenti,
musica di buon livello e via via più complessa. Inoltre è stata dimostrata la non trascurabile
influenza che la musica ha sul carattere e sulla formazione di ogni individuo, in special modo
nel periodo infantile perché stimola la parte creativa e contribuisce a costituire un “modus
vivendi” proteso verso la socialità. Ma perché accade tutto questo?
Effetto Transfer
La nostra mente non è fatta a compartimenti stagni; ciò che i bambini imparano conoscendo
la musica e facendola si trasferisce ad altri ambiti cognitivi.
Già sugli alunni di 6 e 7 anni si sono notati progressi, ma dopo quattro anni di educazione
musicale, sia i bambini con una spiccata predisposizione musicale, sia quelli meno dotati,
avevano prestazioni superiori degli alunni delle scuole tradizionali in una serie di abilità,
ossia: stabilire rapporti, riconoscere regole, concentrarsi, fare ragionamenti logici, fare
analisi a livello visivo - manuale, sviluppare la creatività e la flessibilità del pensiero. Tutte
doti che si “riversano” in altri settori, coinvolgendo vari aspetti della personalità del bambino.
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Intelligenza emozionale
Anche se l’educazione musicale non è una panacea universale e le abilità generali possono
svilupparsi anche in altri modi, i risultati dello studio berlinese indicano che accostarsi ai
grandi autori e fare musica in gruppo favorisce lo sviluppo dell’intelligenza, in particolare di
quella “emozionale”, che è fondamentale per i rapporti umani, di lavoro e per l’equilibrio
personale.
Questo aspetto dell’intelligenza nasce da più doti che in qualunque modo sono in rapporto
con la musica (anche se non solo con essa): conoscere i propri sentimenti e le proprie
capacità, sviluppare l’introspezione (il che aiuta nel fare le scelte di vita); saper gestire i
propri sentimenti in modo da evitare che paure di qualsiasi genere compromettano la qualità
delle decisioni; sapersi motivare nonostante gli insuccessi precedenti; essere capaci di
qualche rinuncia in vista di un obiettivo; saper collaborare con gli altri evitando le lamentele
inutili.
Spirito collaborativo
Indicativi sono stati anche i risultati dei testi sociali. I bambini delle scuole musicali sono più
collaborativi di quelli delle scuole tradizionali ed il numero degli alunni emarginati oppure
“esclusi” è nettamente inferiore. Anche le violenze tra bambini sono minori e non è difficile
comprenderne il motivo: ”Facendo musica attivamente si può imparare a relativizzare la
propria posizione, a darsi davvero da fare per un buon risultato del lavoro di gruppo poiché
diviene prioritaria la preoccupazione di creare qualcosa insieme, di imparare l’uno dall’altro,
di andare l’uno verso l’altro, di essere lì l’uno per l’altro” aggiunge il Bastian. Tutte riflessioni
che molti di noi hanno forse già fatto, ma il vederle confermate da uno studio rigoroso non
solo è confortante, ma ci autorizza a desiderare, anche per i nostri bambini una maggiore
attenzione alla musica, affinché, diventati grandi, non siano costretti a consumare soltanto i
ritmi proposti dai mass media, ma possono apprezzare vari tipi di musica, anche complessa,
ed un numero crescente di loro sia in grado di suonare uno strumento coordinandosi con gli
altri. Naturalmente come fanno notare gli autori dello studio tedesco, non tutti i bambini sono
portati a valorizzare allo stesso modo l’esperienza musicale, che per alcuni può anche
trasformarsi rapidamente in occasione di noia. Molti, però, vi scoprono uno spazio di
espressione, di apprendimento e di socializzazione. Ciò, tra le varie ricadute positive, ha
anche quella di ridurre il fenomeno del “bullismo” che, com’è noto, si sviluppa più facilmente
quando vengono a mancare i punti di riferimento, interessi, concentrazione, sensibilità.
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Effetti provocati dall’esperienza musicale sull’organismo umano
Ascoltando musiche allegre o sentimentali, esaltanti o rilassanti si verificano modifiche del
sistema nervoso vegetativo che regola la pressione arteriosa, il ritmo cardiaco, la
respirazione, la sudorazione e altre reazioni fisiologiche. Brani musicali come i ballabili o le
marce per orchestra provocano risposte soprattutto di tipo motorio: quei movimenti che ci
portano, quasi nostro malgrado, a segnare il tempo col piede o con l’oscillazione delle spalle.
Altri tipi di musica, invece, provocano soprattutto risposte respiratorie o cardiovascolari; il
respiro rallenta e il cuore decelera. Poiché alcuni suoni o ritmi parlano direttamente al nostro
sistema nervoso, certe reazioni emotive prodotte dalla musica si verificano in tutte le
persone, anche in chi non ha un’educazione musicale. Tuttavia la musica anche una forma
di comunicazione strutturata, dotata di un suo linguaggio la cui organizzazione viene
decodificata in gran parte dall’emisfero sinistro del cervello, preposto ai processi logici,
mentre il destro ne coglie i processi emotivi. Nel corso dell’educazione musicale la fruizione
della musica diventa piena e da un’iniziale suo apprezzamento di tipo istintivo si passa ad un
ascolto sempre più raffinato e ad una capacità di sviluppare maggiormente la sensibilità
dell’ascoltatore.
Ma comunque stiano le cose, dimostrazioni scientifiche a parte, i fatti ci ricordano che la
nostra scuola è ancora oggi saldamente attestata sull’equazione comunicazione =
verbalizzazione; quindi capacità di comunicare (=cultura) = capacità di parlare (o meglio di
scrivere).
Il bambino è ricco di risorse espressivo – comunicative sotto utilizzate (o non utilizzate o
addirittura ostacolate) che la scuola deve recuperare: prima di tutto prendendo coscienza e
facendola prendere all’allievo, che tali risorse esistono, e che sono risorse semiologiche.
Comunicazione, espressione, attività simbolica, pensiero, non si possono esaurire nella
costruzione verbale, né necessariamente possono passare attraverso questa. Molte altre
forme sono possibili: un posto quantitativamente e qualitativamente rilevante è stato di fatto
assunto da quel modello così fortemente formalizzato e carico d’imponente tradizione
storica, che è la musica.
Il suono, e quell’organizzazione del suono che è la musica, sono una forma primaria ed
universale dell’essere uomini. Il diritto del bambino di coltivare questa funzione, servendosi
espressivamente del mezzo sonoro, deve diventare un dovere della scuola. Invece nella vita
del bambino questo bisogno è presto mortificato. Se non sempre nella scuola materna,
quasi sempre la repressione è in atto dalle elementari, per non parlare dell’ambiente
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domestico, e adulto in genere, per il quale il suono - rumore del bambino vale come
presenza disturbante, non certo come vitale manifestazione dell’animo infantile.
All’ingresso nella scuola media il preadolescente vede mortificata la sua creatività musicale,
ormai atrofizzata, incapace com’è di essere relazionata al proprio vissuto, che la renderebbe
maggiormente significativa e soprattutto fruibile in modo consapevole. Tutto ciò che resta
dell’originaria disponibilità ad usare il suono come mezzo di comunicazione, è una quasi
sempre penosa routine ripetitiva che induce a sterili reiterazioni di quanto ascoltato oppure al
silenzio totale.
L’esperienza uditiva
L’esperienza uditiva è certamente una fra le più importanti nella strutturazione
dell’intelligenza. Se è perfettamente normale chiudere gli occhi per non vedere, risulta
piuttosto strano, tapparsi le orecchie con le mani per non voler udire.
L’orecchio è l’organo dello spazio e del tempo e ascolta e colloca sempre qualcosa: non si
può “distogliere l’orecchio”, esso ci costringe a una selezione, a una distribuzione gerarchica
e a una collocazione continua dell’udibile anche delle cose lontane da noi ed è senz’altro più
complesso del guardare. Fin dalla nascita il bambino cresce immerso in una realtà sonora
quanto mai complessa che costituisce una fra le matrici più importanti della sua esperienza
intellettiva quella che Sloboda definisce dell’acculturazione evolutiva.
In questa prima fase, le conoscenze che si acquisiscono non sono il prodotto di un
apprendimento consapevole o di azioni educative. La relazione di apprendimento è un
processo comunicativo che si attua grazie a una pluralità di strumenti, dapprima più o meno
rudimentali, poi via via sempre più complessi e formali: i linguaggi. Strumenti a un tempo di
comunicazione e conoscenza, i linguaggi retroagiscono con l’esperienza: l’esperienza
genera i linguaggi, i linguaggi generano esperienze. L’uomo può accedere a qualsiasi forma
culturale e conseguentemente linguistica e può esprimersi con qualsiasi linguaggio purché
trovi un interlocutore disponibile ad accettarlo e a capirlo e che nell’interazione gli rimandi
un’immagine di sé, confermando la sua identità e il suo modo di comunicarla.
L’interazione fra madre e bambino e lo sviluppo della competenza comunicativa
Le prime interazioni sociali, soprattutto quelle fra madre e bambino, rappresentano il luogo
privilegiato in cui studiare la nascita della competenza comunicativa. Le ricerche dimostrano
che il bambino è in grado di partecipare attivamente alle interazioni sociali molto prima di
quanto ritenuto in precedenza. Un’importante scoperta è stata fornita dalla prospettiva
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interazionista in cui ci si è interessati all’esame delle varie caratteristiche del linguaggio che
gli adulti rivolgono al bambino. Durante il primo anno di vita del bambino, si sviluppa infatti
un comportamento sociale e comunicativo sempre più complesso, i cui aspetti più importanti
riguardano la comparsa della comunicazione intenzionale, l’uso privilegiato delle
vocalizzazioni a fini comunicativi e il passaggio dalle vocalizzazioni alle prime parole. Uno dei
comportamenti materni che è stato segnalato più frequentemente in relazione allo sviluppo
delle capacità comunicative è l’attribuzione di intenzionalità. Fin dalle prime ore di vita
(Macfarlane, The psychology of childbirth, Fontana, Londra, 1977) la madre tratta i suoni e i
gesti prodotti dal bambino come messaggi intenzionali a lei diretti. Tutte le azioni del
bambino sono processate attraverso il filtro dell’interpretazione dell’adulto ed alcune
vengono giudicate particolarmente rilevanti in termini umani (Newson, Intentional behaviour
in the young infant, in D. Shaffer, J. Dunn, The first year of life, J. Wiley, Chichester, 1979),
specificamente quelle a cui è attribuibile un significato comunicativo, come lo sguardo, alcuni
gesti e le vocalizzazioni. Sarebbe solo in conseguenza di questa attribuzione di significato
che tali azioni diventano rilevanti dal punto di vista comunicativo anche per il bambino.
Questa tendenza a considerare il proprio bambino fin dalle prime ore di vita come una
“persona” a tutti gli effetti sembra avere una relazione con lo sviluppo del linguaggio. Molte
ricerche suggeriscono che l’adulto svolge un ruolo importante nel processo di selezione da
parte del bambino di alcuni particolari comportamenti comunicativi come, ad esempio, le
vocalizzazioni. Con il passare del tempo, infatti, il bambino utilizza sempre più le
vocalizzazioni come medium comunicativo con il suo ambiente. Comprendere come il
bambino arrivi a questa selezione privilegiata del canale vocale, rispetto a quello gestuale, è
particolarmente importante per spiegare il passaggio dalla comunicazione pre-linguistica a
quella linguistica. I dati relativi all’influenza dell’adulto in questo processo provengono, da un
lato, dalle ricerche che dimostrano un privilegiamento della madre di interazioni basate su
sequenze alternate di vocalizzazioni e, dall’altro, dalle ricerche che mostrano come il
comportamento di vocalizzazione del bambino risulti negativamente alterato, qualora non ci
sia un adulto responsivo a ricevere e a rispondere alle comunicazioni vocali, come nel caso
di bambini istituzionalizzati o, in modo diverso, nel caso di bambini con deficit uditivo, che
non possono utilizzare alcun tipo di feedback alle loro produzioni vocali. Nella prima metà del
secondo anno di vita, comunque, i cambiamenti a livello cognitivo e comunicativo che
avvengono nel bambino sono talmente rilevanti che la natura stessa dell’interazione ne
risulta profondamente modificata. Infatti, l’adulto interagisce ora con un partner competente
non solo dal punto di vista sociale e comunicativo, ma anche linguistico. L’interazione
diventa quindi una vera e propria conversazione. All’interno di questo nuovo schema
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interattivo il linguaggio che gli adulti rivolgono ai bambini acquista un peso ed un significato
particolare rispetto agli altri tipi di modalità interattive.
Molte ricerche hanno mostrato che il linguaggio che gli adulti rivolgono ai bambini piccoli è
diverso su molti parametri dal linguaggio parlato nelle normali conversazioni fra adulti.
Questo speciale registro è stato chiamato Motherese o Baby talk ed è caratterizzato da un
tipo di discorso semplificato (sintatticamente, semanticamente e fonologicamente), ripetitivo
e con esagerazioni nell’intonazione.
Il Motherese non viene parlato solo a bambini in fase di apprendimento del linguaggio, ma
anche a bambini di pochi mesi. Ciò suggerisce che gli aggiustamenti linguistici presenti in
tale registro, e che lo differenziano dal discorso fra adulti, discendano non tanto da
un’intenzione “d’insegnamento” della lingua, quanto piuttosto da un’intenzione
“conversazionale” dell’adulto. L’adulto modificherebbe il proprio linguaggio in modo
funzionale all’interazione con un bambino piccolo. Le madri tendono a sottolineare con
un’intensità maggiore della voce l’introduzione a bambini di circa un anno del nome di
oggetti nuovi che vengono presentati. Inoltre è stato in generale osservato che il linguaggio
materno si presenta spesso in forma interrogativa e molto frequentemente alla forma
interrogativa è associata l’intonazione ascendente. Stern, Spiekere e Mac Kain (1982) hanno
mostrato che c’è una forte relazione fra intonazione ascendente e attenzione visiva del
bambino. La produzione di molte interrogative potrebbe quindi essere funzionale a tenere
desta l’attenzione del bambino nello scambio interattivo. È stato dimostrato che i bambini
piccoli mostrano una netta preferenza per stimoli linguistici costituiti da un discorso “in
Motherese”, caratterizzabile dal punto di vista acustico da un’altezza tonale maggiore (più
elevata frequenza fondamentale media), più ampie escursioni tonali, espressioni più brevi e
pause più lunghe, coincidenti con i confini della frase, più lenta velocità di articolazione e
contorni melodici “espansi” e prevalentemente semplici, cioè caratterizzati da uno solo o al
massimo due movimenti tonali (p.es. contorni discendenti, ascendenti, ascendenti discendenti o viceversa), rispetto a un discorso che utilizza il normale registro fra adulti.
La mente musicale
La mente musicale, la capacità cioè di vivere consapevolmente determinate esperienze che
hanno come oggetto la realtà sonoro - musicale, si forma secondo Sloboda attraverso i due
processi dell’acculturazione e dell’educazione intenzionale. In particolare, mentre la prima
fase è vissuta più o meno intensamente da tutti gli esseri umani, la seconda può o meno
seguire la prima. Della prima fase, l’acculturazione musicale, legata all’interazione tra le
capacità già presenti alla nascita, l’esperienza indotta dall’ambiente e l’evoluzione
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psicomotoria generale dell’individuo, che può essere ricondotta quindi a due principali
elementi (basi genetiche e ambiente), abbiamo già trattato nei paragrafi precedenti e ne
riparleremo in quelli inerenti lo sviluppo dell’intelligenza musicale attraverso i vari stadi
attraverso cui si struttura.
L’istruzione o per meglio dire, l’educazione musicale individua invece quegli interventi
didattici mirati allo sviluppo di specifiche abilità musicali attraverso l’elaborazione di strategie
adeguate alle potenzialità degli allievi. L’educazione implica che il soggetto educando
compia uno sforzo consapevole con lo scopo di raggiungere obiettivi più elevati, con l’ausilio
di mezzi fornitigli o procurati dal soggetto stesso. Alla ricerca e allo sfruttamento di tali mezzi
provvedono le strutture cognitive, che se ben sviluppate ed integrate permettono al soggetto
il migliore raggiungimento degli obiettivi preposti. Sloboda, in particolare, per quanto
concerne l’acquisizione e lo sfruttamento di determinate abilità per l’esecuzione musicale
utilizza la proposta teorica di Anderson: la teoria del Sistema di produzione, che fra l’altro
permette la costruzione di macchine che operano sulla base dei postulati della teoria. “Gli
elementi fondamentali del Sistema di Produzione sono estremamente semplici e precisi, ma,
ponendo insieme molti di questi elementi, con poche regole semplici che ne determinano le
modalità d’interazione, possono essere ottenuti anche dei comportamenti di una certa
complessità.” Tale sistema presenta degli aspetti simili a quelli dei processi mentali.
Presupposti alla formulazione della teoria summenzionata sono i concetti di abitudine, che
presuppone lo svolgimento di determinate operazioni automaticamente, con scarsa
implicazione dell’attività mentale nonostante nelle prime esperienze tale attività abbia avuto
un carattere intenzionale per l’acquisizione di determinate scelte operative, ed il concetto in
base al quale l’apprendimento implica il passaggio dal sapere cosa al sapere come.
E’ lo scopo, la cosiddetta motivazione, che sottesa ad ogni azione consente di conseguire
degli apprendimenti. Da non trascurare sono comunque i ruoli della ripetizione e del
feedback (rinforzo). Non solo la reiterazione ma anche le capacità di auto correzione di
determinate azioni portano al successo in determinati compiti. Il processo di acquisizione
delle abilità si snoda attraverso tre fasi: una prima fase cognitiva che implica una
codificazione iniziale dell’abilità da conseguire, una successiva fase associativa in cui si ha
un graduale appianamento degli errori nella comprensione iniziale dell’esecuzione e una
fase finale autonoma in cui si attua un miglioramento continuo e graduale del compito
richiesto.
Le tre fasi di cui sopra sono frammentate in molteplici items di semplice strutturazione e privi
di rumore per permetterne un’immediata decodificazione da parte delle strutture cognitive
interessate. È opportuno segnalarne la tassonomica propedeuticità per giungere agli obiettivi
prefissati. È da osservare che la quantità e la complessità delle informazioni analizzabili da
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parte del soggetto, cresce proporzionalmente al livello iniziale di partenza in cui versa lo
stesso soggetto. Le regole sottese agli items costituenti l’algoritmo del compito assegnato,
determinano una gerarchia di scopi e sottoscopi. Un aspetto cruciale di un Sistema di
Produzione è dato dall’importanza che riveste un qualche mezzo per ricordare gli scopi di
ordine superiore, quando vengono eseguiti i sottoscopi. La capacità di trattenere in memoria
degli scopi non è limitata e spesso all’inizio di un apprendimento si verifica comunque che
l’insieme degli scopi sia sovraccarico ed alcuni scopi superiori si perdano.
Le regole che risiedono in un Sistema di Produzione operano in modo del tutto automatico
quando si presentano determinate condizioni, prelevando le informazioni necessarie dalla
memoria di servizio. Ma non bisogna assimilare le regole di produzione con i legami stimolo
– risposta della tradizione comportamentistica, poiché esse sono molto più sofisticate e
versatili. L’interrogativo circa l’origine e la provenienza di queste regole di produzione porta
ad una considerazione del fatto che l’uomo nasce con una dotazione di queste regole che gli
consentono di rispondere istintivamente a certi stati di cose.
Al momento, sembra non vi siano altre cornici teoriche disponibili, che consentano delle
formalizzazioni così dettagliate dei processi cognitivi.
Ma non bisogna trascurare il fattore allievo, che più di ogni altro determina il progresso in
ogni segmento di apprendimento, le procedure di cui dispone e soprattutto le motivazioni
che lo spingono verso lo scopo desiderato. E non bisogna trascurare in ultimo la persona
dell’insegnante che , se capace di fornire gli opportuni messaggi di feedback ai suoi allievi,
potrà ottenere da questi maggiori motivazioni all’apprendimento tramite elaborazioni di
regole di produzione sempre più fini.
Funzioni dell’Educazione al suono e alla musica
“La scuola ...elementare, attraverso l’azione educativa e didattica che propone, svolge
l’importante compito di promozione e sviluppo del ricco potenziale umano che caratterizza
ogni alunno. Nel fare questo si serve si serve degli strumenti culturali che le sono propri e
che sono, principalmente, le discipline, intese come sistemi simbolici che gli alunni devono
progressivamente scoprire, in modo attivo e costruttivo, a partire dalla propria esperienza
...”.(Programmi della scuola elementare)
La musica, in questo contesto, si configura come strumento didattico per far sì che i bambini
sviluppino una serie di competenze che spaziano dalla capacità di percepire i fenomeni
circostanti (e non solo a livello sonoro) alla capacità di analizzarli criticamente, dal connetterli
con altre discipline e altri contesti al classificarli e gestirli. La musica può essere strumento di
socializzazione, di integrazione e di possibile soluzione di gestioni relazionali.
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L’Educazione al suono e alla musica si propone di sviluppare la capacità dei bambini di
partecipare all’esperienza musicale, sia nella dimensione del fare musica, sia in quella
dell’ascoltare e del capire.
L’Educazione al suono e alla musica e la musica in sé possono essere strumenti didattici,
mezzi educativi ad ampio raggio e non solamente discipline che, tra le tante, mirano ad
obiettivi specifici.
Ancora una volta l’Educazione al suono e alla musica, insieme alle altre discipline, si
propone di dotare il bambino di strumenti di consapevolezza dell’importanza dei diversi
linguaggi espressivi, sempre più fortemente legati e collegati tra di loro. Il compito della
scuola è proprio, secondo noi, restituire ai bambini il sogno, l’immaginario, gli ideali, la
capacità di credere in se stessi, di potersi esprimere per quello che si è e di migliorarsi.
Crediamo, inoltre, che la scuola dovrebbe impostare la naturale integrazione equilibrata delle
parti che compongono il nostro essere: ricostituire le frammentazioni, valorizzare l’individuo
e, allo stesso tempo, sostenere la socializzazione e la relazione.
La musica contiene le potenzialità per fare tutto questo. A partire da questo “sentire”, nel
campo specificamente musicale, costruiamo, nel percorso didattico della scuola, una
consapevolezza del saper fare e allo stesso tempo consolidiamo una capacità di esplorare e
riconoscere i suoni, per poi imparare a notarli e a produrli, fino ad arrivare alla creazione,
all’esecuzione e all’interpretazione di testi musicali, attraverso l’uso della voce, di uno
strumento o delle tecnologie multimediali e audiovisive.
Il settore dell’Educazione musicale è stato, nel passato, tradizionalmente trascurato. La
logica curricolare, ancora fino a qualche anno fa, ha obbedito a criteri di gerarchia fra le
discipline di studio. Tuttavia, se l’insegnamento della musica è stato generalmente trascurato
tra le materie curricolari, ha trovato invece spazio tra pochi facoltosi alunni più o meno dotati.
In breve, la musica è stata coltivata privatamente con l’assistenza di maestri che, tuttora, più
che stimolare lo sviluppo della personalità con la musica, addestrano al suono di uno o più
strumenti.
La recente teoria delle “Intelligenze multiple” ha valorizzato l’intelligenza musicale come una
delle otto (forse nove) intelligenze possedute da ciascun individuo. Descriviamo brevemente
le caratteristiche delle singole intelligenze: 1. Linguistica: padronanza e amore per il
linguaggio e le parole uniti al desiderio di indagarli. (Poeti, scrittori, linguisti); 2. Logicomatematica: confrontare e valutare oggetti e astrazioni, scoprire le relazioni tra di loro e i
principi a essi sottesi. (Matematici, scienziati, filosofi); 3. Musicale: competenza non solo nel
comporre ed eseguire, ma anche nell’ascoltare e distinguere brani musicali in relazione
all’altezza, al ritmo e al timbro. Può essere legata ad altre intelligenze come quella
linguistica, spaziale o cinestetica. (Compositori, direttori, musicisti, critici musicali); 4.
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Spaziale: abilità di percepire con precisione il mondo visivo, di trasformare e modificare le
percezioni e di ricreare esperienze visive anche in assenza di stimoli fisici. (Architetti,
scultori, cartografi, navigatori, giocatori di scacchi); 5. Cinestetica: controllare e armonizzare
i movimenti del corpo e manipolare con destrezza gli oggetti. (Danzatori, atleti, attori); 6. e 7.
Intelligenze personali: determinare stati d’animo, sentimenti e altri stati mentali propri
(intelligenza intrapersonale) o altrui (intelligenza interpersonale) e usare le informazioni come
guida del comportamento. (Psichiatri, politici, capi religiosi, antropologi); 8. Naturalistica:
riconoscere e classificare gli oggetti naturali. (Biologi, naturalisti); 9. Esistenziale (possibile
intelligenza): cogliere e riflettere sulle questioni fondamentali dell’esistenza. Si richiedono
tuttavia ulteriori verifiche per accertare se si tratti di un’intelligenza. (Capi spirituali, filosofi e
pensatori). Ognuna delle intelligenze o formae mentis si sviluppa secondo la teoria di
Gardner, in modo peculiare nelle diverse culture, perché differentemente plasmate e
combinate, secondo percorsi adattivi diversificati.
Lo sviluppo di ogni intelligenza, precisa Gardner, consiste nell’avvio a processi di
simbolizzazione, fortemente determinati dal contesto culturale e, quindi, dalle stimolazioni
educative cui il soggetto viene esposto. Si passa dunque, da onde, correnti, canali di
simbolizzazione più semplici a forme gradatamente più complesse.
Si parte da una simbolizzazione di base (2-5 anni), durante la quale il bambino acquista la
capacità di apprezzare e creare esempi di linguaggio (frasi e racconti), di simbolizzazione
bidimensionale (disegno), di simbolizzazione gestuale (danza, musica, canto, ...). Dopo i 5
anni, generalmente, egli diviene capace di simbolizzazione notazionale. Quindi si avvia ai
canali di codifica della cultura e, di conseguenza, a padroneggiare gli strumenti di codifica
dell’informazione provenienti dall’ambiente.
Di particolare interesse sono gli studi specifici condotti da H. Gardner sull’intelligenza
musicale e sullo sviluppo di essa, sul grado di applicazione di queste indicazioni, desunte dal
modello teorico, ed applicate nei Nuovi Programmi, nonché gli spunti utili per l’elaborazione
di corretti itinerari di apprendimento relativi all’educazione musicale.
Gli elementi centrali dell’intelligenza musicale sono il tono (o melodia), il ritmo (suoni
raggruppati secondo uno schema prescritto) ed il timbro (impronta caratteristica della
sorgente sonora considerata). Qualche studioso ha incluso tra le componenti dell’intelligenza
musicale anche una componente affettiva che si colloca in prossimità del suo nucleo
centrale. È infatti, difficile trovare qualcuno che abbia “vissuto intensamente l’esperienza
musicale” e che riesca a trattenersi dal menzionare le implicazioni emotive.
In altri termini, se la musica non trasmette in sé emozioni o affetti, coglie, però, la forma di
questi sentimenti. Ciò mette in discussione la posizione della scienza positivistica “dura” che
descrive la musica in termini obiettivi, fisici e sembra anche vanificare in qualche modo i
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tentativi compiuti nel corso dei secoli per associare la musica alla matematica. La ricerca,
inoltre, ha dimostrato che gli individui hanno “schemi” o “strutture” per ascoltare la musica,
attese su come dovrebbero essere una frase o una sezione di un brano ben strutturato, oltre
che almeno un’abilità incipiente di completare un segmento in modo che abbia un senso
musicale. Di qui l’analogia con il linguaggio. Così “come si possono separare serie di livelli di
linguaggio, dal livello elementare fonologico, - passando per la sensibilità - all’ordine delle
parole e al loro significato”, parimenti, “nell’ambito della musica, è possibile esaminare la
sensibilità a piccoli suoni o frasi, ma anche considerare in che modo questi si combinino in
strutture musicali maggiori che manifestano loro proprie regole di organizzazione”. In pratica,
così come i livelli di analisi sono indispensabili “alla comprensione di un’opera letteraria”, alla
stessa maniera “la comprensione di opere musicali richiede la capacità di compiere l’analisi
locale del campo”.
Aspetti neurologici dell’intelligenza musicale: analisi delle componenti del linguaggio
musicale
La Melodia
Sebbene si tenda ad indicare generalmente nell’emisfero destro la sede del cervello dove
nasce l’ispirazione musicale, non è di fatto ancora chiaro quale sia l’effettiva organizzazione
cerebrale della musica. Nell’ultimo ventennio, gli studi sperimentali si sono affiancati ai dati
clinici raccolti in individui cerebrolesi, più o meno famosi. La tecnica usata in questi
esperimenti è quella dell’ascolto dicotico, consistente nel riconoscimento di stimoli differenti
tra di loro trasmessi simultaneamente alle due orecchie. Quando i due stimoli uditivi sono
simultanei entrano in competizione tra di loro e vince lo stimolo trasmesso all’orecchio
opposto (controlaterale) all’emisfero cerebrale che è delegato alla sua elaborazione. Se gli
stimoli sono due parole, una trasmessa all’orecchio destro e una al sinistro, il soggetto
riconoscerà meglio lo stimolo trasmesso all’orecchio destro. Trattandosi infatti di
informazione verbale, è l’emisfero sinistro quello interessato, l’emisfero appunto
controlaterale all’orecchio destro. Usando invece stimoli uditivi non verbali, come delle
melodie, l’orecchio vincente risulta il sinistro perché controlaterale all’emisfero destro,
appunto interessato al materiale musicale. La melodia è un insieme di toni isolati che non
vengono percepiti separatamente, ma nel loro insieme, come una serie di punti sarà
percepita per esempio come un triangolo, un quadrato o un cerchio. La forma prevale sui
singoli elementi ed essa viene percepita come un tutto. La melodia è stata infatti considerata
dagli psicologi un esempio classico di forma che riorganizza gli elementi componenti. Che la
melodia venisse riconosciuta dall’emisfero destro era un risultato che si accordava con una
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concezione diffusa della specializzazione emisferica: l’emisfero destro elabora l’informazione
secondo una modalità globale, sintetica, per la quale riconosce una melodia o una faccia nel
loro insieme senza un’analisi dettagliata degli elementi particolari; l’emisfero sinistro elabora
l’informazione in modo analitico, elemento per elemento, così come accade nell’ascolto di
una frase, quando la sua comprensione si realizza attraverso il riconoscimento delle singole
parole, dei pronomi, dei verbi, ecc. Questa distinzione è espressa lucidamente nelle parole di
W.A. Mozart: “Nella mia immaginazione non sento le parti in successione, ma le sento come
se fossero tutte insieme in una volta”.
La dicotomia emisfero destro/riconoscimento sintetico - emisfero sinistro/riconoscimento
analitico venne ulteriormente articolata anche dopo una serie di esperimenti proprio sul
riconoscimento di melodie. Bever e Chiarello nel 1974 sottomisero due gruppi di soggetti,
uno “naïf” per la musica e uno “esperto”, ai compiti di riconoscimento di una melodia o di una
coppia di toni estratta da una melodia, trasmessi ai due orecchi. I naïf riuscirono solo a
riconoscere le melodie, con una preferenza per quelle trasmesse all’orecchio sinistro
(emisfero destro), ma non riuscirono nel compito di riconoscimento delle due note. Gli
esperti in musica riuscirono in entrambi i compiti, preferendo però l’orecchio destro (emisfero
sinistro).
L’interpretazione data a questi risultati fu che nei naïf la melodia è percepita come un tutto e
come tale viene elaborata dall’emisfero destro (per cui vince, nella stimolazione simultanea
alle due orecchie, l’orecchio sinistro), mentre negli esperti vi è la capacità di elaborare
analiticamente la melodia nelle sue componenti, elemento per elemento, e per questo
motivo interviene l’emisfero sinistro (e vince l’orecchio destro). Per la stessa ragione gli
esperti, a differenza dei naïf, riuscivano a riconoscere se due note erano state estratte o no
da una sequenza melodica. La variabile importante introdotta da Bever e Chiarello era il
fattore “apprendimento”, una variabile culturale, che avrebbe fatto sì che negli esperti ci
fosse stato un graduale trasferimento dall’emisfero destro all’emisfero sinistro durante
l’apprendimento del linguaggio musicale. L’esperimento, è stato qui citato non tanto perché
conclusivo sul problema della relazione tra musica e cervello (molte sono state le repliche
anche negative dei loro risultati), quanto per essere paradigmatico del tipo di ricerche svolte
attualmente su questo problema. È stato fra l’altro commentato che la superiorità
dell’emisfero sinistro negli esperti potrebbe dipendere non tanto dall’apprendimento, quanto
da una predisposizione innata in tali soggetti a trattare in modo analitico l’informazione. Il
rapporto esistente tra i due emisferi può variare in funzione del fattore apprendimento
all’interno di una stessa cultura, come nei precedenti soggetti naïf ed esperti in musica
dell’area di New York, ma anche passando da una cultura all’altra. Nei giapponesi si
riscontra la stessa organizzazione cerebrale degli occidentali quando ascoltano la musica
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occidentale, ma non quando ascoltano i suoni degli strumenti tradizionali giapponesi. In
questo caso infatti l’elaborazione è riservata all’emisfero sinistro probabilmente per la
connotazione verbale che ha tale musica, un insieme di suoni neutri per gli occidentali ma
carichi di significati verbalizzabili per i giapponesi.
Il Ritmo
Tra gli aspetti fondamentali del linguaggio musicale, il ritmo è stato particolarmente studiato.
Si è trovato che l’emisfero sinistro è implicato nel riconoscimento e nella produzione del
ritmo. Un violinista rumeno colpito da un attacco cerebro-vascolare all’emisfero sinistro
aveva perso infatti il riconoscimento del ritmo, ma non la capacità di riconoscere sequenze di
toni per le quali ovviamente poteva usare l’emisfero destro. Il disturbo nel ritmo non
riguardava solo i suoni, ma anche sequenze di stimoli visivi (una serie di flash) e tattili (una
serie di colpi sulla mano). Al di là della dissociazione tra aspetti melodici e aspetti ritmici, da
questo caso risulta evidente che il disturbo nel riconoscimento del ritmo investe un
meccanismo indipendente dalla natura degli stimoli (siano una sequenza di suoni, flash o
stimoli tattili), il meccanismo che è probabilmente localizzato nell’emisfero cerebrale sinistro.
Il sistema funzionale musicale
Considerando un musicista professionista, quello che accade nel suo cervello in relazione
alla musica è un insieme molto complesso di funzioni che possono essere separate, ma che
interagiscono strettamente tra di loro. Questo sistema di funzioni o sistema funzionale
comprende almeno i seguenti processi fondamentali: creare un brano musicale, valutarlo
esteticamente, leggerlo, comporlo e scriverlo, eseguirlo con uno strumento e infine in alcuni
casi dirigerne l’esecuzione da parte di un’orchestra. Questi processi dipendono da aree
cerebrali diverse, sia nell’emisfero destro che in quello sinistro, e praticamente si può
affermare che nella produzione musicale ad alto livello è interessato tutto il cervello. Qualora
un’area cerebrale sia distrutta, gli esiti sul piano della produzione musicale potranno essere
diversi: si perderà la capacità di comporre o di eseguire oppure di apprezzare un brano
musicale per il suo valore estetico. Bisogna precisare che la musica non è un sistema
staccato dal resto delle funzioni cerebrali. Nell’esperienza musicale, ad esempio, si
combinano le percezioni uditive a quelle visive e corporee. Un brano musicale può evocare
una serie di sensazioni cromatiche o sensazioni corporee che si accompagnano a stati
emotivi (un brivido sulla pelle, sudorazione, angoscia) a loro volta associati a ricordi
personali.
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Il rapporto tra colore e musica è un tema ricorrente. Vari musicisti hanno tentato di
esprimere in sequenze cromatiche le loro composizioni. Per alcuni ricercatori, la
sincronizzazione tra udito e visione, tra suoni e colori è un fenomeno che risale a un’epoca in
cui le sensazioni sarebbero state indifferenziate, prima di una loro canalizzazione in organi
speciali di senso. Questo mondo indistinto di sensazioni è difficilmente verbalizzabile, ma lo
si può comunque provare durante la percezione della musica, quando tutto il corpo e lo
spirito vibrano in un intreccio indeterminato di suoni, immagini, visive, colori, emozioni e
ricordi.
In conclusione: il cervello di un musicista ha un’organizzazione molto complessa che
richiede la collaborazione dei due emisferi. Questa organizzazione è probabilmente
cambiata nel tempo con l’evoluzione della produzione musicale e della strumentazione.
L’uso integrato delle due mani è divenuto gradualmente una condizione essenziale
nell’esecuzione, sicuramente programmata e controllata nella sua scansione temporale
dall’emisfero sinistro. Molti musicisti hanno dimostrato di ascoltare e comporre musica con il
solo emisfero destro: esso può essere considerato la parte del cervello essenziale per la
creatività musicale. Anche in chi ascolta la musica solo per piacere, senza essere un
professionista, sarebbe dominante questo emisfero. La specificità dei due emisferi nella
musica risalta quando si considerano aspetti separati (il ritmo, la melodia) o i fattori culturali
(conoscenza tecnica della musica, culture musicali differenti: Occidente e Giappone).
Rapporti tra musica e altre competenze intellettuali
La ricerca ha accertato l’esistenza di stretti legami tra musica e linguaggio del capo e dei
gesti. Inoltre, la localizzazione di capacità musicali nell’emisfero destro ha suggerito che
certe abilità musicali possono essere strettamente connesse a capacità spaziali. Alcuni studi
hanno dimostrato che i compositori necessitano di forti abilità spaziali, indispensabili per
fissare, valutare e rivedere la complessa architettura di una composizione. Ciò potrebbe
essere dimostrato, tra l’altro, dallo scarso numero di compositori di sesso femminile, dovuto
non a qualche difficoltà nell’elaborazione personale di per sé (come dimostra il numero
considerevole di cantanti e strumentisti di sesso femminile), ma alle prestazioni
relativamente modeste manifestate dalle donne in campo spaziale.
Circa il nesso intelligenza musicale - affettività, cui si fa spesso riferimento, va ricordato che i
meccanismi neurologici che permettono o facilitano l’associazione intelligenza musicale affettività non sono stati ancora definitivamente accertati.
I rapporti tradizionalmente più accettati sono quelli tra intelligenza musicale ed intelligenza
logico-matematica, sia per i fondamenti numerici a base della musica, sia per i molteplici
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caratteri condivisi dallo studio teorico della musica con molti caratteri della matematica
(proporzioni, speciali rapporti, schemi ricorrenti, sequenze rilevabili). In effetti, una sensibilità
a schemi e regolarità matematici ha caratterizzato molti compositori (Bach, Schumann,
Mozart). Tuttavia, secondo Gardner, le operazioni centrali della musica non hanno
connessioni intime con le operazioni centrali in altre aree, neanche con quella logicomatematica; perciò la musica merita di essere considerata un ambito intellettuale autonomo,
in quanto “le strutture formali, che costituiscono una ragione d’essere per il matematico,
sono per i musicisti un ingrediente utile, ma non essenziale ai fini espressivi per il
conseguimento dei quali essi usano regolarmente le loro capacità.
Psicologia genetica della musica e didattica
Panoramiche abbastanza ampie sullo sviluppo dell’intelligenza musicale sono state
pubblicate da diversi autori, come la Shuter - Dyson (1981), Hagreaves (1986), Sloboda
(1988), alla luce dei risultati forniti dalle numerose ricerche realizzate su aspetti diversi.
Tracciando un profilo evolutivo in base alle ricerche citate, si può formulare un percorso da
prendere in considerazione con molta flessibilità in quanto le età fornite nelle ricerche
corrispondono ad una media e sono quindi puramente orientative.
Premesso che l’udito funziona già negli ultimi mesi della vita intrauterina, nelle prime
settimane di vita il bambino manifesta attenzione al suono ed è sensibile ai suoni acuti
(conseguenza dell’ascolto intrauterino che è caratterizzato dai suoni acuti in quanto filtrati
dal liquido amniotico che li priva delle frequenze gravi) e all’intensità.
Tra i 2 e i 4 mesi avviene la discriminazione delle altezze, la produzione di suoni
percuotendo oggetti, il coordinamento suono - vista e la produzione di suoni vocali in
funzione del linguaggio (lallazione). Da 4 a 6 mesi aumenta la capacità discriminativa delle
altezze (fino a suoni distanti ½ tono) e compaiono la capacità di percepire cambiamenti di
durata e di produrre suoni cantati, oltre all’aumento delle capacità di ascoltare con
attenzione e visibile piacere.
Da 6 mesi a 1 anno abbiamo la comparsa di risposte motorie alla musica (anche se non
ancora sincronizzate) e della produzione di piccoli canti (ancora in forma di abbozzi) che
aumentano gradatamente in lunghezza e varietà.
Da 1 anno a 2 anni, compare la capacità di esplorare le possibilità sonore degli oggetti e di
combinare i suoni secondo le regole della ripetizione e dell’alternanza, l’introduzione di
parole nei canti spontanei con l’uso di due durate diverse, l’aumento di risposte motorie con
accenni di danza.
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A 3 anni i bambini cominciano a imitare, in modo ancora molto approssimativo, le canzoni
degli adulti e riescono a riprodurre il ritmo delle parole; inoltre accennano tentativi di
sincronizzazione con la musica mediante il movimento; i lavori di Moog (1976), di Dumaurier
(1982), Zenatti (1981), e Lucchetti (1987), mostrano questa evoluzione.
Prima dei tre anni, l’attività del bambino è soprattutto fatta di reazioni spontanee alla musica
che sente. E’ comunque da sottolineare, l’importanza delle esperienze musicali durante i
primi due anni di vita, esperienze che non solo favoriscono lo sviluppo dell’orecchio e delle
capacità di discriminazione percettiva, ma stimolano le capacità di coordinazione motoria,
poiché i movimenti corporei sono, in effetti, il modo primario dei bambini molto piccoli di
rispondere alla musica, e queste reazioni motorie costituiscono la base per le future
sequenze ritmico - melodiche del periodo successivo, fra i 3 e i 6 anni.
Dapprima frammentarie, senza specificità e in particolare senza rapporto diretto con la
struttura armonico - melodica della sequenza musicale - stimolo (una sorta di reazioni globali
indifferenziate), tali sequenze si articolano progressivamente secondo il ritmo dello stimolo,
caratterizzandosi mediante una netta separazione dalle altre condotte motorie: è verso i 3
anni che Moog osserva i primi passi di danza spontanea eseguiti dai bambini in risposta a
una sequenza musicale.
Naturalmente questi comportamenti sono ancora molto ripetitivi, e non hanno alcuna
organizzazione temporale precisa. Ma la ripetizione è l’inizio di una serie ordinata di eventi
dove il concatenarsi dell’uno con l’altro crea l’inizio di una linearità temporale irreversibile
vissuta e provata attraverso il corpo. Questo stesso tipo di abbozzo di strutture temporali si
manifesta nell’imitazione, comportamento iterativo per eccellenza, e del quale Piaget ha
largamente mostrato il ruolo nella costruzione della funzione simbolica. Moog e Michel
osservano i primi tentativi di imitazione del canto dell’adulto (della madre in particolare)
prima della fine dei due anni. Queste imitazioni che si sviluppano in seguito, sono all’inizio
estremamente rozze e imprecise. Si tratta solamente di imitazioni globali dinamiche,
movimenti vocali e contrazioni muscolari della zona laringo - faringea, intimamente uniti in un
vissuto corporeo unico. Anche in questo caso però, possiamo notare che la ripetizione del
modello porta con sé una prima successione temporale che, tuttavia, non riguarda la
struttura medesima dell’imitazione indifferenziata nelle sue componenti, ma solo il principio
della ripetizione imitativa in seguito all’esposizione ad un modello.
Se nel periodo inferiore ai 3 anni è ugualmente difficile parlare di esperienze ritmiche,
essendo la coordinazione motoria ancora troppo debole perché ci siano, particolarmente
nelle imitazioni, articolazioni di movimenti sincronizzati al ritmo del modello, possiamo al
contrario porci la questione dell’esistenza o meno di schemi di intervalli o schemi scalari.
Mentre Moog è molto prudente su questo punto, dando maggiore importanza alla struttura
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ritmica in particolar modo nei canti imitativi e, a partire dai 4 anni, nei canti “immaginativi”,
Michel invece afferma l’esistenza di “sequenze melodiche di base”. Secondo questo autore,
questi schemi di intervalli sarebbero osservabili già durante il secondo anno di età, ma
nessuna costante d’insieme sembra tuttavia emergere dai risultati. Le sequenze sono
costituite da due, tre o quattro note nelle produzioni melodiche di bambini di due anni, e
inoltre, molti dei canti registrati sono canti “parlati”, organizzati attorno ad una sola nota.
Questi schemi melodici di base, sono dunque ancora molto imprecisi e poco frequenti
nell’insieme delle produzioni. Senza dubbio si tratta di un abbozzo di sequenze di suoni
ordinati, ma in realtà questi “ordini” non durano che due o tre note, e ciò non costituisce
ancora una serie irreversibile, in quanto tali sequenze di base o microstrutture non
oltrepassano i limiti della memoria immediata. Del resto ciò che caratterizza nei bambini
molto piccoli la produzione e le imitazioni vocali è la brevità delle sequenze individuabili: tutte
rientrano in quello che Fraisse chiama il “presente psicologico”, cioè la durata memorizzata
dalla memoria immediata, e tale presente rende possibile soltanto la coerenza di messaggi
simbolici elementari che si svolgono nel tempo (linguaggio, musica, ...). Non c’è dunque
un’organizzazione lineare propriamente detta, ma, ancora una volta, l’iterazione di una
cellula melodico - ritmica che s’inserisce in ciò che Piaget chiama la reazione circolare
terziaria. Tutte le strutture sonore che noi osserviamo in questo periodo dai 3 ai 6 anni, si
basano senza dubbio su dei meccanismi psicologici innati, ma la loro manifestazione nelle
produzioni reali o nelle imitazioni di modelli dipende largamente dalle motivazioni che il
bambino trova nel proprio ambiente familiare o scolastico. Lo stesso Piaget, e poi Bruner
con uno spirito diverso, hanno insistito sull’importanza dell’esercizio funzionale nella
costruzione della struttura cognitiva in generale. Da parte sua, Bruner insiste molto, come fa
Chomsky nel campo più specifico del linguaggio, sul fatto che le capacità mentali di cui è
dotato il soggetto fin dalla nascita devono essere costantemente sollecitate dall’ambiente,
altrimenti diventa poi quasi impossibile utilizzarle in modo efficiente. Queste capacità, per
mancanza di adeguamento e di esercizi, diventano come atrofizzate, e all’età adulta, il loro
uso è quasi irrecuperabile. Si vuole quindi sottolineare l’importanza dell’educazione
funzionale durante il periodo prescolastico, nel quale si è ancora sufficientemente in tempo
per sollecitare le disposizioni innate che possiede ogni bambino di quest’età.
Sotto il profilo della comprensione armonica, Imberty (1981) ha dimostrato che prima dei 6
anni, il bambino è insensibile ad ogni riferimento armonico: qualunque frase musicale
armonica tonale che si interrompa è, per lui, conclusa. Ma a partire da quest’età, appare una
prima reazione che conferma l’evoluzione degli schemi dell’intelligenza musicale: per
apparire conclusa, una frase musicale deve interrompersi su di un appoggio ritmico forte.
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Tra i 4 e i 6 anni compaiono e si sviluppano molte capacità di tipo ritmico: discriminare
strutture ritmiche diverse e cambiamenti ritmici introdotti dopo il primo ascolto; riprodurre con
il battito delle mani dei ritmi proposti con le mani, con il pianoforte, con il registratore,
riconoscere la regolarità della pulsazione ritmica e sapersi sincronizzare con essa battendo
le mani. Sincronizzarsi camminando è ancora difficile e sono pochi quelli che ci riescono a
quest’età. Nel campo dell’organizzazione delle altezze le capacità sono minori: aumenta (ma
è ancora approssimativa) la capacità di imitare canzoni e aumenta quella di inventare
canzoni; compaiono le capacità di discriminare strutture melodiche diverse, di percepire
differenze di registro, di profilo melodico e di intervalli.
Tra i 6 e gli 8 anni, vi è un vero salto di qualità in campo ritmico ma soprattutto in campo
melodico. Dal punto di vista ritmico vediamo la comparsa di diverse capacità: distinguere
l’isoritmia del ritmo libero, individuare cambiamenti ritmici in sequenze ritmico - melodiche,
individuare l’uguaglianza o la differenza di ritmi in frasi melodiche e saperli riprodurre,
sincronizzarsi con la pulsazione di una melodia organizzandola metricamente, ecc.
In campo melodico i bambini iniziano a essere capaci di percepire la presenza o assenza
della cadenza perfetta, la cadenza sospesa e la modulazione ai toni lontani. Qui vediamo
chiaramente l’emergere del senso tonale. Finalmente compare anche un’incipiente capacità
di tipo armonico: distinguere tra note singole e accordi, discriminare serie diverse di accordi,
percepire armonizzazioni dissonanti.
Dopo gli 8 anni il progresso continua più lentamente, migliorano le capacità comparse a 8
anni e se ne aggiungono altre più complesse come appaiare altezze uguali con strumenti
diversi (9anni), differenziare le funzioni di tonica e dominante (10 anni), percepire le
modulazioni ai toni vicini (12 anni), ecc. C’è da notare come certe capacità rimangano
modeste anche verso i 12 anni (per es. percepire il cambiamento di un accordo in una serie
di accordi) e anche verso i 15 anni (per es. continuare in silenzio una pulsazione regolare, o
discriminare temi uguali o diversi in sequenze melodiche). A questo proposito c’è da dire
però che la maggior parte delle ricerche sono svolte con gruppi di soggetti che arrivano
all’età di 8 - 10 anni, raramente più grandi.
A questo punto non si può non accennare all’importanza di questi dati per l’educazione
musicale. Progettare strategie didattiche che promuovano lo sviluppo dell’intelligenza
musicale comporta infatti il dover fare i conti con i tempi di maturazione delle varie capacità.
Tre sono i fattori determinanti per lo sviluppo musicale: l’età, la pratica e l’esercizio.
E’ determinante l’età perché non si possono pretendere certe prestazioni se lo sviluppo
mentale, ma anche quello fisico, non ha raggiunto determinati livelli; così come non si può
pretendere che un bambino cammini o parli a 3 mesi e non c’è esercizio che tenga,
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altrettanto dicasi, per esempio, se un bambino non ripete perfettamente una canzone o non
riconosce la conclusione tonale di una frase a 4 anni.
Allo sviluppo concorre quindi l’età ma anche la pratica, ossia tutti gli stimoli che il soggetto
riceve in modo informale dall’ambiente e senza i quali non ci sarebbe crescita possibile.
In tempi e modi opportuni può infine intervenire “l’esercizio” inteso in senso ampio come
momento di pratica organizzata verso un determinato obiettivo.
La pratica e l’esercizio possono accelerare i tempi di sviluppo ma sempre entro certi limiti.
Terminato l’iter evolutivo generale (12 - 15 anni), solo la pratica, e soprattutto l’esercizio,
possono permettere l’acquisizione o anche solo il miglioramento di certe capacità. Da qui la
necessità di un’attività educativa costante (scuola ed extra scuola) che accompagni, stimoli e
sostenga lo sviluppo di quell’intelligenza musicale che tutti abbiamo il diritto di possedere!
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