Non mi può far ombra: Le distinzioni fra luce e lume nelle Rime di Dante GIANPIERO W. DOEBLER University of California, Los Angeles RIASSUNTO: Nella Vita nuova e nelle Rime, Dante utilizza due voci che a prima vista sembrano sinonime a molti lettori moderni: luce e lume. Un esame contestuale, però, suggerisce che Dante fa distinzione tra i due vocaboli, in base a distinzioni stabilite da scritti filosofici dell’antichità e del medioevo sulla natura dell’illuminazione e dei suoi componenti. Nelle sue opere poetiche (senza considerare la Commedia) sembra che Dante scelga luce e lume in un modo coerente secondo le distinzioni filosofiche. Tuttavia, Dante usa entrambe le voci in maniera creativa per sottolineare la natura del suo soggetto poetico. Parole chiave: coerenza, Dante, luce, lume, lumen, lumiera, lux, raggio, rime ABSTRACT: In the Vita Nuova and in his Rime, Dante employs two words to describe light: luce and lume. To many modern readers, these may appear to be synonymous. Contextual examination, however, suggests that Dante distinguished between the two, based on classical and medieval philosophical writings on the nature light and its components. In his poetic works other than the Commedia, Dante appears to employ luce and lume consistently in accordance with these philosophical distinctions. Nonetheless, Dante uses both terms creatively, in order to emphasize the nature of his poetic subject. Key Words: consistency, Dante, light, luce, lume, lumen, lumiera, lux, raggio, rime 29 Tenzone nº 7 2006 Non si muova a Dante l’accusa di usare i vocaboli in modo casuale o occasionale. Le accezioni e sfumature del lessico dantesco sono tali che lavoriamo per dedurle o riscoprirle anche sette secoli dopo. Distinzioni ben note a Dante ed ai suoi contemporanei a volte possono venir nascoste dal tempo. È il caso di due voci—luce e lume—che a prima vista sembrano voci del tutto sinonime. Un esame attento, però, suggerisce che, nelle Rime, Dante le usa coerentemente secondo distinzioni stabilite dalla filosofia medievale della luce. L'analisi presente descrive il modo in cui Dante intende e usa lume e luce nella Vita Nuova e nelle Rime—cioè, nelle sue opere poetiche oltre la Commedia.1 Anche nel caso delle poche eccezioni considerate, è evidente che la scelta di luce o lume non dipende dalle richieste della rima o della metrica, e tanto meno dal capriccio del poeta, bensì è governata dal soggetto o dal concetto di cui Dante intende parlare. LA FILOSOFIA DELLA LUCE E LE FONTI DELLA DISTINZIONE La distinzione fra luce e lume rispecchia una diversità già presente in latino fra lux/lucis/luce(m) da una parte e lume(n) dall'altra, anche se persino in latino le parole derivano dalla stessa radice. L'esistenza di una distinzione concettuale è evidente fin dai versi più noti della Bibbia. Genesi 1:2 («Dixitque Deus: Fiat lux. Et facta est lux.») è probabilmente la fonte principale per la concezione divina della luce qui discussa. Forse più importante per l'origine della distinzione è un verso simile di Giovanni (8:12): “Iterum ergo locutus est eis Jesus, dicens: Ego sum lux mundi: qui sequitur me, non ambulat in tenebris, sed habebit lumen vitæ”.2 Qui gli antecedenti di luce e lume appaiono nello stesso versetto.3 La «lux» (luce) del mondo—ovvero l'illuminazione equivalente a Cristo—è diversa dal «lumen» (lume) della vita, inteso come l'illuminazione terrena, cioè dell'ambiente umano.4 Forse partendo da questa base biblica, i filosofi fino al tempo di Dante hanno costruito teorie sulla 30 Gianpiero W. DOEBLER Non mi può far ombra: Le distinzioni fra luce... natura della luce—le sue qualità naturali e metafisiche—compresa la distinzione fra luce e lume.5 Nel secolo prima della morte di Dante (ed anche per un secolo dopo), scrittori come Roberto Grossatesta, Tommaso d'Aquino, Alberto Magno e (meno noto oggi) Bartolomeo di Bartolo da Bologna si occupavano della luce.6 Questi scrittori ragionavano, fra altro, sulla natura della luce come sostanza e fenomeno, del suo primato rispetto altre materie durante la creazione del mondo (per es.: esisteva la luce prima del sole, o no?), e del rapporto fra Dio e la luce (per es.: se fosse la luce un prodotto di Dio, o Dio stesso?). Queste teorie derivano da opere dei primi secoli d.C,, soprattutto di Agostino e dello pseudo-Dionigi l'Aeropagite e, verso la fine del primo millennio, da opere attribuite ad Avicenna ed altri.7 Le teorie dei filosofi del XIII e del XIV secolo non concordavano su queste questioni, ma condividono almeno due caratteristiche pertinenti ad una discussione della poesia di Dante. Prima, per tutti, la luce appartiene al cielo e, per estensione, a Dio ed alle cose divine. Secondo, la luce è un fenomeno distinto da lumen, raggi, splendore, calore ed altre cose che sono invece considerate derivare dalla luce. Le opere di Dante indicano che il poeta conosceva almeno i principi e le distinzioni delle teorie contemporanee. Quando cerca sostantivi connotativi dei vari tipi d'illuminazione, Dante sceglie luce e lume non solo per le loro convenienza per la rima, il ritmo o la fonetica di un testo, ma come termini tecnici dotati di una loro specificità. LUCE E LUME: ACCEZIONI FONDAMENTALI Nella spiegazione più semplice, con luce ci si riferisce ad un'illuminazione divina o celeste —il che ha senso qualora si considerino le prime parole attribuite a Dio: Fiat lux.8 Lume, invece, indica un prodotto della luce—un'illuminazione terrena, la materia che permette all'uomo di vedere. Luce appartiene principalmente al cielo e alle cose che provengono dal cielo. Lume invece non porta 31 Tenzone nº 7 2006 nessuna connotazione di divino. Il Grande dizionario della lingua italiana, fra le sue ventinove accezioni di luce, mette «Vivo splendore che emana da un corpo celeste» come la seconda definizione, con Dante come primo esemplare dell'accezione (Battaglia 1975: 240). L'inferiorità (o la natura secondaria) del lume è indicato da Grossatesta: “Lumen quidem gignitur ex prima sphaera, et lux, quae in prima sphaera est simplex, in secunda est duplicata..." 9 Benché i particolari della filosofia della luce di Tommaso siano diversi da quelli di Grossatesta, il rapporto fra luce e lume è simile. Tommaso lo riassume bene: [...] lux est qualitas activa corporis caelestis, per quam agit [...] Ipsa igitur participatio vel effectus lucis in diaphano, vocatur lumen. Et si fit secundum rectam lineam ad corpus lucidum, vocatur radius. Si autem casetur ex reverberatione radii ad corpus lucidum, vocatur splendor. Lumen autem commune est ad omnem effectum lucis in diaphano. [...] Nam cum lux sit qualitas primi alternantis, quod est maxime perfectum et formale in corporibus, illa corpora quae sund maxime formalia et mobilia sunt lucida actu; quae autem propinqua his, sund receptiva luminis sicut diaphana; quae autem sunt maxime materialia, neque habent lumen in sui natura, neque sunt luminis receptiva, sunt opaca. [...] (Tommaso, De Anima Commentarium. Liber II, Lectio XIII [420-422]) Luce, dunque, è la forma più alta, qualitas activa, sit qualitas primi aternantis, mentre lume indica la propagazione della luce verso la terra, quando essa incontra un medium diafano. Secondo Tommaso, lume è l'effetto della luce e un mezzo per la sua diffusione. A differenza di luce, lume non è attivo in sé. Si noti che ciò corrisponde al verso di Giovanni: Cristo è lux, ma lumen vitæ è una cosa che l'uomo ha. Nel Convivio (scritto fra 1303 e 1308, quando Dante aveva in gran parte finito la sua carriera come rimatore, Commedia esclusa), il 32 Gianpiero W. DOEBLER Non mi può far ombra: Le distinzioni fra luce... poeta espande e ripropone la discussione di Tommaso e degli altri filosofi nel terzo trattato (sulla canzone Amor che nella mente mi ragiona): Ove è da sapere che discender la virtude d'una cosa in altra non è altro che ridurre quella in sua similitudine, sì come ne li agenti naturali vedemo manifestamente; che, discendendo la loro virtù ne le pazienti cose, recano quella a loro similitudine, tanto quanto possibili sono a venire ad essa. Onde vedemo lo sole che, discendendo lo raggio suo qua giù, reduce le cose a sua similitudine di lume, quanto esse per loro disposizione possono da la [sua] virtude lume ricevere. Così dico che Dio questo amore a sua similitudine reduce, quanto esso è possibile a lui assimigliarsi. E ponsi la qualitade de la reduzione, dicendo: Sì come face in angelo che 'l vede. Ove ancora è da sapere che lo primo agente, cioè Dio, pinge la sua virtù in cose per modo di diritto raggio, e in cose per modo di splendore reverberato; onde ne le Intelligenze raggia la divina luce sanza mezzo, ne l'altre si ripercuote da queste Intelligenze prima illuminate. Ma però che qui è fatta menzione di luce e di splendore, a perfetto intendimento mostrerò [la] differenza di questi vocabuli, secondo che Avicenna sente. Dico che l'usanza de' filosofi è di chiamare «luce» lo lume, in quanto esso è nel suo fontale principio; di chiamare «raggio», in quanto esso è per lo mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina; di chiamare «splendore», in quanto esso è in altra parte alluminata ripercosso (Convivio, III, xiv, 2-6).10 La spiegazione di Dante è meno chiara di quella di Tommaso, ma suggerisce come i due concetti funzionano nella sua poesia. Notevole è il suo concordare con «l'usanza de' filosofi» per cui luce è l'illuminazione «nel suo fontale principio», cioè in cielo. Importante anche è il riferimento al «raggio». Nel Convivio Dante nota che «li raggi non sono altro che uno lume che viene dal principio de la luce per l'aere infino a la cosa illuminata» (Convivio, II, vi, 8-10). Nelle Rime, Dante lega lume e raggio—il lume dantesco si muove sempre con una direzionalità, tramite raggi, anche se proviene da fonti 33 Tenzone nº 7 2006 diverse (il sole, il cielo, gli occhi di una donna divina). È quasi sempre presente un senso di movimento. Di solito Dante rispetta la dicotomia divina-terrena anche se (come prevedibile, e secondo la sua natura) il poeta sviluppa minuziosamente le sfumature della distinzione. Nelle Rime (la Vita Nuova ed il Convivio inclusi), Dante usa luce almeno una volta in nove rime e usa lume in otto. Inoltre, entrambe le voci appaiono in due rime—un'indicazione in più che Dante intende qualcosa di molto preciso con ciascuna delle due parole.11 IL SISTEMA DANTESCO Secondo la poetica dantesca, luce si usa quando si parla del cielo—o nel senso del regno di Dio, o come un luogo astronomico (cioè, la sede del sole e delle stelle). Il sole equivale al «fontale principio» di cui Dante parla nel Convivio. Il «signore» a cui Dante si rivolge nelle Rime, però, di solito non è il Dio cristiano, bensì l'Amore. Tuttavia, anche l'illuminazione e il potere che proviene dall'Amore è luce celeste nel sistema dantesco. Per quanto riguarda le donne delle Rime, Dante fa distinzione fra quelle a cui attribuisce un legame col cielo e quelle totalmente «terrene». Quando parla d'illuminazione rispetto alle prime, usa luce. Vasoli nota l'associazione della luce con la donna (e la filosofia) nella sua introduzione al Convivio: [I]l Poeta può affermare che il sole, nel suo perenne volgersi intorno alla terra, non vede cosa più nobile della «donna gentile»; ma ciò significa, nel suo senso più ascoso, che Dio, nel suo assoluto «intendere» non vede cosa più «gentile» e perfetta della Filosofia (Vasoli 1988: xxxv). Per Dante, però, la donna non è sempre una metafora per la divinità o un prodotto del cielo. Frequentemente, il poeta non parla delle donne rispetto al cielo, alla divinità oppure all'Amore. L'assegnazione della donna al mondo terreno di solito non è fatta con 34 Gianpiero W. DOEBLER Non mi può far ombra: Le distinzioni fra luce... intento spregiativo, ma il tema della rima particolare semplicemente non ha che fare con i temi celesti che Dante sviluppa meglio altrove. In questi casi, Dante usa lume. Sia luce che lume passano dalla fonte al mondo o, più spesso, all'amante o al poeta che parla. La voce usata dipende dal punto di origine dell'illuminazione. Inoltre, la luce può essere trasmessa attraverso un oggetto intermedio (di solito una donna) o può essere riflessa da un terzo oggetto (per esempio, le stelle). Lume generalmente arriva a destinazione per mezzo dei raggi, spesso diretti al poeta. Però, anche luce può far uso di raggi—soprattutto se passa attraverso una donna celeste. Con questa breve presentazione come base, possiamo considerare testi specifici in cui vediamo non solo come il modello funziona ma anche altre sottili specificità della concezione dantesca. Date i limiti di spazio di questa che non è se non un’introduzione ad un più ampio lavoro, non discuto in dettaglio tutti i testi dove luce e lume appaiono (anche se tutti sono stati considerati). Invece, presento i testi principali su cui il sistema è basato, e noto i casi speciali: quelli che indicano eccezioni che suggeriscono un approfondimento della ricerca. LUME SECONDO IL MODELLO Per lume, prendiamo in considerazione cinque testi principali:12 1. 2. 3. 4. 5. De gli occhi de la mia donna si move Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra Tre donne intorno al cor mi son venute Amor, da che convien pur ch'io mi doglia. Di donne io vidi una gentile schiera Sono riprodotti qui i brani di queste rime che comprendono solo i versi necessari per stabilire il contesto rispetto a lume. I versi chiave per l'applicazione del modello sono in corsivo. 35 Tenzone nº 7 58 (C:18) Degli occhi de la mia donna si move un lume sì gentil che, dove appare, si veggion cose ch'uom non po' ritrare per loro altezze e per lor esser nove; e li suo' razzi sovra 'l meo cor piove tanta paura che mi fa tremare, e dicer: «Qui non voglio mai tornare»; ma poscia perdo tutte le mie prove, e tornomi colà dov'io son vinto riconfortando gli occhi paurosi, che sentier prima questo gran valore. Quando son giunti, lasso, ed è son chiusi; lo disio che li mena qui è 'stinto: però proveggi a lo mio stato Amore. 2006 4 8 11 14 Notiamo qui l'assenza di qualsiasi legame fra la donna e il cielo. Quindi, l'illuminazione che esce dai suoi occhi è lume che arriva tramite razzi (raggi). Si noti anche che la donna, benché terrena, si trova al di sopra del poeta, ed i raggi del suo lume scendono verso di lui. 7 (C:44) [Al poco giorno e al gran cerchio d'ombra] La sua bellezza ha più vertù che pietra, e 'l colpo suo non può sanar per erba; ch'i' son fuggito per piani e per colli per potere scampar da cotal donna; e dal suo lume non mi può far ombra poggio né muro mai né fronda verde. 20 In questa sestina, la prima delle rime petrose, la donna è esplicitamente non-divina, e lume è la parola adatta. Anche qui il poeta si trova al di sotto della donna: dal suo lume non mi può far ombra. 15 (C:53) [Amor, da che convien pur ch'io mi doglia] Così m’ha' concio, Amore, in mezzo l’alpi, ne la valle del fiume 36 Gianpiero W. DOEBLER Non mi può far ombra: Le distinzioni fra luce... lungo 'l qual sempre sopra me sè forte: qui vivo e morto come vuoi mi palpi mercé del fiero lume che folgorando fa via alla morte. 65 Ancora una volta, qui lume è metafora per l'illuminazione che proviene dagli occhi di una donna. Un altro aspetto significativo del lume è che non è attivo, a differenza della luce, che invece può originare l'illuminazione. Ciò è coerente con la filosofia della luce, in cui il lume semplicemente si spande in un mezzo diafano. Detto questo, consideriamo l'uso di lume nella canzone Tre donne intorno al cor mi son venute, dove l’ordine sintattico della frase non è interpretabile univocamente secondo i critici. Nei versi seguenti, la figura che parla al poeta (piangendo e spiegando l'identità delle tre donne) dice: 13 (C:47) [Tre donne intorno al cor mi son venute] […] «Sì come saper dei, di fonte nasce Nilo picciol fiume quivi dove ’l gran lume toglie alla terra del vinco la fronda, sopra la vergin onda genera’ i’ costei che m'è dallato e che s'asciuga con la treccia bionda; 45 50 Ad una prima lettura dei versi in corsivo, il soggetto della frase risulta essere lume e l'oggetto fronda. In questa lettura, il lume toglie (depriva/brucia/elimina) l'ombra che di solito fanno le fronde di un albero (Contini 1965: 176).13 Nella seconda possibile lettura, invece, fronda è il soggetto e lume l'oggetto—cioè, la fronda impedisce al lume di raggiungere la terra. Quest'interpretazione, meno comune, risale almeno al 1900 (Casari 1900: 272). Il modello qui discusso accorda preferenza alla seconda lettura perché, nel sistema concettuale dantesco, lume non è mai attivo. Non è cosciente in sé e non può togliere alcuna cosa. Quindi, la lettura che propone la fronda come l'agente attivo—che blocca una materia inerte (il lume)—ha 37 Tenzone nº 7 2006 più senso secondo il modello e gli altri esempi di lume presenti in Dante. Il seguente è un altro caso particolare, con un vocabolo che sembra intermedio fra luce e lume: 60 (C:22) Di donne io vidi una gentil schiera quest' Ogni Santi prossimo passato, e una ne venia quasi 'mprimiera veggendosi l'Amor dal destro lato. Degli occhi suoi gittava una lumiera, la qual parea un spirito 'nfiammato, e io ebbi tanto ardir [ch'] in la sua ciera guarda', e vidi un a[n]giol figurato. A chi era degno d[on]ava salute con [gli ]atti suoi quella benigna e piana, e empiva 'l cor a ciascun di virtute. Credo che de l[o] ciel fusse soprana, e ven[n]e in terra per nostra salute: laond'è beata chi·ll'è prossimana. 4 8 11 14 Questo sonetto è simile a Degli occhi de la mia donna si move (58), ma qui il poeta assegna la donna al cielo (v. 12). È notevole, però, che Dante non usi lume, bensì lumiera—una forma comune nella poesia del Duecento (spesso rimata con ciera/cera), ma già al tempo di Dante meno diffusa (Doebler 2005). Infatti, questa è l'unica volta che Dante usa lumiera, Commedia inclusa. Quindi, è lumiera più simile filosoficamente a luce o a lume? Dato la somiglianza con la radice latina lumen, lumiera dovrebbe essere sinonimo di lume. Però, l'uso con una donna celeste è più tipico degli esempi di luce. Forse lumiera è un ibrido o—visto che non fa parte del solito lessico dantesco—è un riferimento conscio alla lirica duecentesca e quindi la distinzione fra luce e lume non è tenuta in conto. 38 Gianpiero W. DOEBLER Non mi può far ombra: Le distinzioni fra luce... LUCE SECONDO IL MODELLO Rispetto a luce, è importante distinguere fra i casi dove la voce è usata come sostantivo e la forma verbale. Per essere parallela e omogenea all'indagine su lume, la presente analisi considera luce come sostantivo.14 Nella Vita Nuova, Dante non usa lume né nella prosa, né nella poesia.15 È possibile che, al tempo della Vita Nuova, Dante non avesse ancora una concezione matura della struttura filosofica.16 Tuttavia, sembra che Dante avesse già una consapevolezza della connotazione divina o celeste di luce, come si vede nei due esempi seguenti: Vita Nuova, XXXI [Li occhi dolenti per pietà del core] Ita n' è Beatrice 'n l' alto cielo, nel reame ove li angeli hanno pace, e sta con loro; e voi, donne, ha lassate: no la ci tolse qualità di gelo né di calore, come l' altre face, ma solo fue sua gran benignitate; ché luce de la sua umilitate passò li cieli con tanta vertute, che fe' maravigliar l'etterno sire, 1 15 20 In questo sonetto—l'unico in cui appare il nome di Beatrice—i legami fra la morte Beatrice ed il cielo sono evidenti e rafforzati quasi in ogni verso. Benché abbia «umilitate», è naturale che l'illuminazione che origina da Beatrice sia caratterizzata come luce. Vita Nuova, XXXIII [Quantunque volte, lasso! mi rimembra] perché 'l piacere de la sua bieltate, partendo sé da la nostra veduta, divenne spirital bellezza grande, che per lo cielo spande luce d'amor, che li angeli saluta 20 39 Tenzone nº 7 e lo intelletto loro alto, sottile face maravigliar, sí v' è gentile. 2006 25 Qui non c'è una donna intermedia. La luce viene direttamente dall'Amore, dal cielo. Questo è probabilmente il caso più evidente di concordanza con il modello. L'uso di spande è coerente con la citazione di Tommaso sopra riportata. Anche quando la rima ha un tono doloroso e il poeta si lamenta, la natura celeste di luce è rispettata, come nell’esempio che segue: 16 (C:21) Lo doloroso amor che mi conduce a·ffin di morte per piacer di quella che lo mio cor solea tener gioioso m'ha tolto e toglie ciascun dì la luce che avean gli occhi miei di tale stella che non credea di lei mai star doglioso; 5 Nella canzone Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato, la luce è sia componente fondamentale del sole sia il suo prodotto. Entrambi i casi nella canzone concordano con il modello. 11 (C:30) [Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato,] Sollazzo è che convene con esso amore e l'opera perfetta: da questo terzo retta è leggiadria e in esser dura, sì come il sole al cui esser s'adduce lo calore e la luce co·lla perfetta sua bella figura. Al gran pianeto è tutta simigliante che, dal levante avante infino a tanto che s'asconde co· li bei raggi infonde vita e vertù qua giuso ne la matera sì com'è disposta: 40 90 95 100 Gianpiero W. DOEBLER Non mi può far ombra: Le distinzioni fra luce... […] Oh falsi cavalier’, malvagi e rei, nemici di costei ch'al prenze delle stelle s'assomiglia! Dona e riceve l'om cui questa vole, mai non se ·n dole, né 'l sole per donar luce alle stelle né per prender da elle nel suo effetto aiuto; ma l'uno e l'altro in ciò diletto tragge. 115 Si nota che il meccanismo descritto nei vv. 97-101 riflette la filosofia della luce in cui il sole dirige i «bei raggi […] qua giuso / ne la matera». Dante riprende questa terminologia qualche anno dopo nel passo del Convivio già discusso («Onde vedemo lo sole, che discendendo lo raggio suo qua giù, reduce le cosa a sua similitudine di lume».) LUCE E LUME INSIEME Consideriamo adesso un verso dove tutti e due termini sono usati. Nella ballata «I' mi son pargoletta bella e nova, l'uso di luce si conforma perfettamente con il modello. Il parlante—la pargoletta— annuncia «Io fui del cielo, e tornerovi ancora». È naturale, dunque, che la sua luce, e non il lume, susciti «altrui diletto». 22 (C:34) «I' mi son pargoletta bella e nova, e son venuta per mostrare altrui De le bellezze del loco ond'io fui. Io fui del cielo, e tornerovi ancora per dar de la mia luce altrui diletto; e chi mi vede e non se ne innamora d'Amor non averà mai intelletto, ché non gli fu in piacer alcun disdetto quando Natura mi chiese a Colui che volle, donne, accompagnarmi a voi. Ciascuna stella negli occhi mi piove 5 10 41 Tenzone nº 7 2006 del lume suo e de la sua vertute; le mie bellezze sono al mondo nove, però che di là su mi son venute: Però, l'uso di lume al verso 12 è problematico. Secondo il modello, l'aspettativa sarebbe che ciascuna stella negli occhi di questa donna celeste ‘piovesse’ la sua luce—ma invece non lo fa. Si nota che ne lo doloroso amor che mi conduce (si veda sopra), le stelle, come oggetti celesti, danno luce. È importante notare che— benché stabilisca «del lume suo» per il v. 12, De Robertis indica che una famiglia di manoscritti ha «de la tua luce» in questo luogo (De Robertis 2002: 266). Dante stesso dice nel Convivio II, vi, 9 che «luce non sia se non ne la parte de la stella». Foster e Boyde vedono un legame fra questa citazione e il lume del verso 12 (Foster and Boyde 1967: 188). Se Dante intende lume qui (dove luce funzionerebbe ugualmente bene rispetto alla metrica), la scelta non è del tutto chiara.17 L'altra rima dove entrambi i termini appaiono è la canzone E' m'incresce di me sì duramente, i cui primi 30 versi parlano degli occhi della donna amata. Anche qui, nel verso 16, gli occhi— parlando direttamente al poeta—dicono «Nostro lume porta pace». Nel contesto di questa canzone, però, la voce poetica parla degli «occhi micidiali» (v. 49) di una donna terrena che «si lamenta / d'Amore, che fuor d'esto mondo la caccia» (vv. 38-39). Quindi, questo lume si comporta coerentemente con il modello. Rispetto a luce, la voce poetica racconta come, a prima vista della donna quando erano giovani (ricordando il momento quando il giovane Dante vede Beatrice nella Vita Nuova): 10 (C:20) [E' m'incresce di me sì duramente,] ch'a tutte mie virtù fu posto un freno subitamente, sì ch'io caddi in terra, per una luce che nel cuor percosse: e se 'l libro non erra, 42 65 Gianpiero W. DOEBLER Non mi può far ombra: Le distinzioni fra luce... lo spirito maggior tremò sì forte che parve ben che morte per lui in questo mondo giunta fosse: ma or ne 'ncresce a quei che questo mosse. 70 È vero che la comparsa di questa donna risulta nella reazione del parlante. Però, il poeta non attribuisce la luce a lei—cioè, non descrive la luce come un elemento che proviene dai suoi occhi o una cosa di cui la donna è conscia (come in «I' mi son pargoletta bella e nova»). Invece, il testo suggerisce che la fonte di questa sensazione sia «quei [quelli] che questo mosse» (v. 70), dove quei, secondo Contini (1965: 65), significa il Creatore. Quindi, è possibile che la luce che il poeta si sente nel cuore sia di origine divina, e anche questo caso si conforma al modello. CASI PARTICOLARI È opportuno notare alcuni casi che, a prima vista, sembrano non conformarsi al modello. Nell'unico sonetto politico di Dante, (Se vedi li occhi miei di pianger vaghi, sulla morte dell’imperatore Arrigo VII), Dante si rivolge a un «Signore» che non è né Dio né Amore bensì Arrigo stesso. Non sorprende, dunque, che Dante usi lume. Però, la parola appare in una locuzione inaspettata: «lume del cielo». 25 (C:48) [Se vedi li occhi miei di pianger vaghi] e messo ha di paura tanto gelo nel cor de' tuo' fedei che ciascun tace. Ma·ttu, foco d'amor, lume del cielo, questa vertù che nuda e fredda giace levala sù vestita del tuo velo, ché·ssanza lei non è in terra pace. 11 14 La combinazione di lume e cielo sembra non concordare con il modello. Forse in un contesto politico, Dante non sentiva l'obbligo di mantenere la distinzione filosofica. D'altra parte, può darsi che 43 Tenzone nº 7 2006 Dante si riferisca al «cielo» perché suppone che Arrigo sia lì. Però, è più probabile che Dante intenda lodare Arrigo come una figura che, in terra, ha ricevuto il lume che è sceso dal cielo. Dante riserverà un posto di onore assoluto per Arrigo nella rosa celeste di Paradiso XXX (e lo loderà anche in Paradiso XVII).18 È importante anche ricordare che questo sonetto è forse stato scritto tardi, e tradizionalmente è collocato fra la produzione poetica dantesca oltre la Commedia. Arrigo VII è morto nel 1313—cioè, dopo che l'Inferno e il Purgatorio erano stati compiuti. Se Dante aveva già iniziato ad usare accezioni molteplici di luce e lume nella Commedia, forse questo nuovo atteggiamento può aver influenzato anche le sue ultime rime. Un altro caso particolare è la canzone-sestina Amor, tu vedi ben che questa donna (8, C:45)—anch'essa una delle rime petrose. Qui Dante usa luce come una delle sei parole rima—tredici volte in totale. Senza esaminare tutti i casi, è sufficiente notare che fra i tredici casi, tre sono forme verbali e non non ci si aspetta che concordino con il modello. Fra gli altri dieci casi, otto sembrano seguire la formula (per es., v. 43: Degli occhi suoi mi vien la dolce luce, e a vv. 20-21, l'inabilità di una pietra a produrre la luce). In un altro caso, luce rappresenta lo sguardo del poeta stesso—uno sguardo presumibilmente terreno. Più in avanti, luce è metonimica e rappresenta il giorno (contrapposta alla notte [v. 46]). Le molteplici accezioni sono più comprensibili se consideriamo che questa sestina era particolare anche secondo Dante stesso. Questa diversità di accezioni può essere il risultato della sperimentazione strutturale che Dante fa in questa sestina, forse il poeta non si sentiva costretto a stabilire la solita coerenza semantica. Dante fa un breve riferimento alla sestina alla fine di De vulgari eloquentia, dove spiega: Tria ergo sunt que circa rithimorum positionem potiri dedecet aulice poetantem: nimia scilicet eiusdem rithimi repercussio, nisi forte novum aliquid atque intentatum artis hoc sibi preroget – ut 44 Gianpiero W. DOEBLER Non mi può far ombra: Le distinzioni fra luce... nascentis militie dies, qui cum nulla prerogativa suam indignatur preferire dietam: hoc etenim nos facere nisi sumus ibi: Amor, tu vedi ben che questa donna (DVE, II, xiii, 13).19 Nelle sue note, Contini conferma che quest'opera è un «esemplare unico» nel senso che è «una sestina rinterzata o doppia» (Contini 1965: 160). Quindi, visto che è un esempio esplicito di una «novità mai tentata di tecnica», forse è normale che non vi sia fino in fondo una coerenza semantica e filosofica. Quest'analisi si limita alla poesia di Dante senza prendere in considerazione la Commedia. Questa è una prima parte di un lavoro più ampio che analizzerà, fra altro, la maniera in cui anche la poesia dei contemporanei (e predecessori) di Dante rispecchia la filosofia medievale della luce, la persistenza delle distinzioni dopo Dante— cioè, il modo in cui scrittori del Tre-Quattrocento o mantengono le distinzioni o le usano per innovazioni semantiche. Inoltre, il lavoro esaminerà anche l'uso, nelle Rime e altrove, delle altre parole pertinenti alla filosofia della luce: raggi, splendore, ecc. Una lettura attenta rivela l'influenza della filosofia medievale della luce nelle Rime di Dante. È evidente che Dante usa luce e lume non come libere scelte artistiche, ma come termini tecnici (anche se flessibili) che descrivono non solo la natura dell'illuminazione di cui il poeta parla, ma la natura dei suoi soggetti poetici—per esempio, la donna celeste rispetto a quella terrena. Anche se esistono eccezioni e casi ancora da spiegare pienamente, l'apparente solidità della struttura suggerisce fortemente che la differenza era ben presente a Dante. Le ricerca che mi propongo di affrontare in futuro credo che rivelerà altre sfumature letterarie delle distinzioni fra luce e lume che per secoli sono state dimenticate o, potremmo dire, oscurate. 45 Tenzone nº 7 2006 NOTE 1 I numerosi esempi di luce e lume nella Commedia meritano uno studio proprio che mi propongo di affrontare successivamente. 2 Le traduzioni comuni in italiano e in inglese utilizzano una voce sola per lux e lumen: Italiano (Nuova riveduta): Gesù parlò loro di nuovo, dicendo: «Io sono la luce del mondo; chi mi segue non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita». English (New Revised Standard): "Again Jesus spoke to them, saying, 'I am the light of the world. Whoever follows me will never walk in darkness but will have the light of life.'" 3 Federici Vescovini (1965:25) nota che Bartolomeo da Bologna discute molto questo verso nel suo Tractatus de luce del secondo Duecento. 4 «Illuminazione» è usata qui solo per indicare il fenomeno senza l'uso di luce o lume. Si trova «luce del mondo» anche in Matteo 5:14; Giovanni 9:5 e 2Corinzi 4:4. 5 Per una discussione comprensiva delle teorie filosofiche della luce fino al XIV secolo, e le distinzioni fra di loro, si veda Federici Vescovini 1965, soprattutto cap. I-II. 6 Le opere principali sulla luce scritte fra il primo Duecento ed il tempo di Dante includono Tommaso, In Aristotelis Librum De Anima Commentarium; Roberto Grossatesta, de Luce; Alberto Magno, de Anima; Bartolomeo da Bologna, Tractatus de luce. 7 Le opere sulla luce di questi autore includono Agostino, de Genesi ad litteram; pseudo-Dionigi, de Divinis nominibus; pseudo-Avicenna, de Anima; pseudoVitellione, De intelligentiis. Federici Vescovini (1965:19) nota che opere comunemente attribuite ad Avicenna e Vitellione risalgono alle loro epoche, ma i veri autori non sono individuabili. 8 Il primato della luce nella filosofia di Grossatesta è basato su questo verso. 9 Grossatesta 1912; 56, citato anche in Federici Vescovini 1965: 17. 10 Vasoli e De Robertis (1979: 452-458) menzionano i testi filosofici qui citati (Grosseteste escluso). Inoltre, Busnelli e Vandelli (1964: 416) notano i legami fra questo brano e Summa contra Gentiles di Tommaso e de Causis et processu univertatis di Alberto Magno. 11 Ecco le rime in cui Dante usa luce e/o lume: 46 Gianpiero W. DOEBLER Non mi può far ombra: Le distinzioni fra luce... Rime con luce: Degli occhi de la mia donna si move 58 (C:18); Di donne io vidi una gentil schiera 60 (C:22); Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra 7 (C:44); Tre donne intorno al cor mi son venute 13 (C:47); Se vedi li occhi miei di pianger vaghi 25 (C:48); Doglia mi reca ne lo core ardire 14 (C:49); Amor, da che convien pur ch’io mi doglia 15 (C:53); Donne, i’ non so di ch’i’ mi prieghi Amore, d.2 (C:61). Rime con lume: Li occhi dolenti per pietà del core (Vita Nuova XXXI); Quantunque volte, lasso!, mi rimembra (Vita Nuova XXXIII); Oltre la spera che più larga gira (Vita Nuova XLI); Lo doloroso amore che mi conduce 16 (C:21); Poscia ch’Amore del tutto m’ha lasciato, 11 (C:30); Amor, che movi tua vertù da cielo 5 (C:37); Amor, tu vedi ben che questa donna 8 (C:45); Amor che ne la mente mi ragiona 3 (Convivio III); «Non piango tanto il non poter vedere d.17 (C:78). Rime con luce e lume: E’ m’incresce di me sì duramente 10 (C:20); «I’ mi son pargoletta bella e nova, 22 (C:34). «Opera del vocabolario italiano (OVI)», Base di dati dell'italiano antico (ARTFL Project). Notre Dame University. 12 I testi e la numerazione qui sono quelli di De Robertis (2002: vol. 3). Per facilitare la ricerca e gli eventuali confronti, indico anche la numerazione di Contini 1965 (segnalata con una C). Anche i testi della Vita Nuova sono quelli di De Robertis (1995). 13 Benché Contini riconosca la pluralità delle letture, ritiene che gran lume riferisca al sole e che lume sia il soggetto. Per quanto riguarda l'azione, Contini favorisce una lettura dove l'ombra è tolta dalla «perpendicolarità dei raggi» invece di una bruciatura della fronda. Riconosce, ma non accetta, la posizione di Casari. 14 Un'analisi susseguente delle forme dei verbi lucere e illuminare potrebbe determinare se anch‘essi concordano con il sistema. 15 «Opera del vocabolario italiano (OVI)», Base di dati dell'italiano antico (ARTFL Project), Notre Dame University. 16 Rispetto ai vv. 5-8 di Oltre la spera che più larga gira (Vita Nuova XLI), (Quand'elli è giunto là dove disira, / vede una donna che riceve onore, / e luce sì, che per lo suo splendore / lo peregrino spirito la mira), De Robertis (1995: 245) sostiene: «La distinzione tra luce («fontale») e splendore (riflesso) di cui a Conv., III, xiv, 4-5 e Par., I, 1-4, benché sollecitata dall'accostamento nel verso, è qui prematura». Foster e Boyde (1967: 156) affermano lo stesso. 17 Si può ipotizzare che nella concezione dantesca le stelle siano simili—anche se sempre subordinate—al sole e che la loro luminescenza non sia paragonabile al sole 47 Tenzone nº 7 2006 o alle donne e, quindi, lume sia giusto. Però, quest'ipotesi è problematica, perché qui Dante parla delle stelle negli occhi della donna e, altrove, le stelle danno luce. 18 Par. XVII:82-87(Cacciaguida sta parlando): ma pria che 'l Guasco l'alto Arrigo inganni, parran faville de la sua virtute in non curar d'argento né d'affanni. Par. XXX:134-138 (Beatrice sta parlando): E 'n quel gran seggio a che tu li occhi tieni per la corona che già v'è sù posta, prima che tu a queste nozze ceni, Le sue magnificenze conosciute saranno ancora, sì che ' suoi nemici non ne potran tener le lingue mute. sederà l'alma, che fia giù agosta, de l'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia verrà in prima ch'ella sia disposta. Dante fa riferimento ad Arrigo anche in Purg. VI: 96-102 come il successore di «Alberto tedesco» (Alberto I d'Austria, re di Germania). Questi brani parlano del futuro perché nel 1300, quando il viaggio dantesco si svolge, Arrigo VII non è ancora re (succederà nel 1309) o imperatore (1312), tanto meno morto (1313). 19 «Tre dunque sono i procedimenti di cui è sconveniente che il poeta aulico faccia uso per quanto concerne la collocazione delle rime: vale a dire l'eccessivo ripetersi del suono di una stessa rima, a meno che proprio in ciò non consista l'affermazione di una qualche novità mai tentata di tecnica […] quanto in effetti noi abbiamo tentato di fare in questa poesia: Amor, tu vedi ben che questa donna». (Mengaldo 1979: 233-235). 48 Gianpiero W. DOEBLER Non mi può far ombra: Le distinzioni fra luce... RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ALIGHIERI, D. (1994): La Commedia, secondo l'antica vulgata, a c. di G. Petrocchi, Società Dantesca Italiana, Firenze, Le Lettere. ALIGHIERI, D. (1964): Convivio, a cura di G. Busnelli e G. Vandelli, 2a edizione, Firenze, Le Monnier. ALIGHIERI, D. 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