Bollettino Panta Rei (2016) 15:20-29 CONTRIBUTO SCIENTIFICO Reologia dei polimeri: quanto può aiutare l’industria? Dino Ferri Versalis S.p.A., Basic Chemicals and Plastics Research Center, Via Taliercio 14, Mantova, I46100 – Presidente dell’Associazione Italiana di Reologia - SIR Ricevuto: 20 maggio 2016 / Accettato: 23 maggio 2016 / Pubblicato online: 30 giugno 2016 Sommario Dopo la nascita ufficiale della reologia nel 1929, il comportamento viscoelastico dei fusi polimerici ha dato gli stimoli più importanti allo sviluppo delle basi teoriche di questa branca della fluidodinamica che si occupa di fluidi complessi. La presenza di significative componenti elastiche dello sforzo in esperimenti di taglio ha evidenziato numerosi fenomeni fino ad allora sconosciuti ed estremamente ricchi di spunti per la comunità scientifica. A distanza di alcuni decenni si può affermare che le “instabilità idroelastiche”, vere e proprie “idiosincrasie” mostrate da questi materiali durante i processi di trasformazione, sono state spiegate e superate con svariate strategie. Questo lavoro si propone di mettere in luce, con alcuni esempi applicativi, quanto l’industria della trasformazione dei polimeri possa trarre vantaggio dallo studio e comprensione del comportamento reologico di questi materiali. Parole chiave polimeri, instabilità, processabilità viscosità, elasticità, Abstract After the official birth of rheology in 1929, the viscoelastic behavior of molten polymers strongly encouraged the development of the theoretical basis of this branch of fluid dynamics dealing with complex fluids. The presence of significant elastic stress components in shear experiments highlighted several phenomena, unexplored at that time, and food for thoughts for the scientific community. After few decades we can say that the “hydro-elastic instabilities”, real “idiosyncrasies” exhibited by these materials during transformation processes, have been explained __________________________________________________ e-mail di D. Ferri: [email protected] and overcome using several strategies. The aim of this work is to point out, with a few practical examples, how the polymer transformation industry can take advantage by the study and understanding of the rheological behavior of these materials. Keywords polymers, instability, processability viscosity, elasticity, 1. Introduzione Sono trascorsi ormai alcuni decenni da quando Bingham, nel 1929, ha fondato in modo ufficiale la branca della meccanica dei fluidi nota come reologia. Ad oggi risulta chiaro come, al di là della definizione storica di Bingham come “scienza che studia la deformazione e il flusso dei materiali”, la reologia abbia come tratto caratteristico quello di occuparsi di materiali ormai universalmente noti col termine di “fluidi complessi”. La definizione di “fluido complesso” può essere data basandosi su molteplici proprietà sconosciute ai materiali classificati come fluidi ideali “newtoniani”. La peculiarità senz’altro più importante di questo comportamento complesso risiede nella dipendenza non lineare dello sforzo dalla velocità di deformazione e nella sua dipendenza dal tempo che ha portato all’individuazione di una nuova classe di materiali che sono stati chiamati “fluidi non-newtoniani”. Tra questi i polimeri rappresentano di gran lunga quelli con il comportamento più spettacolare e, proprio per questo, hanno costituito per lungo tempo, specialmente all'inizio, il motore per lo sviluppo teorico della reologia. La rilevanza tecnologica e industriale del comportamento reologico dei polimeri è provata dal fatto che, negli anni, la ricerca fondamentale ha Bollettino Panta Rei (2016) 15:20-29 fatto passi da gigante per risolvere problemi legati al processo di sintesi e alla successiva lavorazione di questi materiali. La vera sfida in questo senso è a tutt’oggi rappresentata dalla capacità di sintetizzare architetture molecolari ben precise in virtù delle quali ottenere ben definite proprietà reologiche da cui la lavorabilità (processing) di questi materiali o le applicazioni dei medesimi possano trarre giovamento. In seguito verranno proposte alcune riflessioni su particolari caratteristiche dei fluidi complessi che toccano aspetti rilevanti per l’industria dei polimeri. 2. Viscosità e velocità di deformazione La prima novità che si incontra quando si studia la reologia dei fusi polimerici è senz’altro la dipendenza della viscosità da variabili diverse da quelle termodinamiche, come temperatura e pressione, che regolano il flusso dei liquidi semplici. Infatti è noto anche a chi abbia solo acquisito le prime nozioni di fisica dei polimeri come la viscosità di questi materiali dipenda fortemente dalla storia di deformazione. In particolare la dipendenza dal tempo delle proprietà reologiche implica che, se si tenta di far fluire un polimero fuso, per esempio forzandolo con un pistone a fuoriuscire da un capillare, lo sforzo (e quindi la caduta di pressione ai capi del condotto) non si instaura immediatamente ma esibisce dei transitori. Oltre a questo, i valori di viscosità registrati in condizioni di regime risultano dipendere fortemente dalla velocità di deformazione (o se si preferisce dalla portata). Solitamente si osserva per i polimeri una diminuzione di viscosità al crescere della portata, fenomeno questo noto col nome di shear thinning. Questo aspetto nasconde gran parte del successo tecnologico dei polimeri che, nonostante le elevate viscosità in condizioni di flusso lento, divengono via via più fluidi man mano che cresce la velocità di deformazione. Si pensi, come tipico esempio, al caso dell’estrusione. Se la portata è molto bassa il polimero si comporta in modo molto simile ad un fluido semplice esibendo un valore costante di viscosità, per quanto elevato possa essere. Se però si incrementa la portata, la viscosità inizia a diminuire sensibilmente riducendosi mediamente, nella zona di lavoro degli estrusori industriali, anche centinaia o migliaia di volte. Questo non significa naturalmente che aumentando la velocità di estrusione la pressione diminuisca, quanto piuttosto che la correlazione portata-pressione non è più lineare come per i fluidi newtoniani. Proprio per questo fatto i polimeri fusi sono chiamati, insieme ad altri fluidi complessi, “non-newtoniani”. In Fig. 1 viene riportata la curva di viscosità al variare della velocità di deformazione per un polietilene commerciale. Le caratteristiche appena 21 discusse sono chiaramente evidenti. Quanto appena visto risulta estremamente importante se si vuole capire meglio la correlazione tra reologia e lavorazione dei polimeri. In molti casi i materiali polimerici, una volta sintetizzati, devono essere fusi per poterli sottoporre a fasi di lavorazione specifiche a seconda del tipo di applicazione a cui sono destinati. Ogni processo di trasformazione è caratterizzato da un ben definito intervallo di velocità di deformazione come si può vedere dalla figura. Se si considera un processo come lo stampaggio rotazionale (rotomolding) in cui è coinvolta la deposizione lenta di polvere di polimero che deve, una volta raggiunto il punto di fusione, ricoprire la parte interna di uno stampo adatto alla preparazione di parti cave di grandi dimensioni, sarà necessario considerare valori di viscosità prossimi a quello di zero shear. Nella fattispecie si tratta di valori superiori a 10 kPa·s. Nel caso invece in cui si consideri un processo di filatura (fiber spinning) la velocità di deformazione a cui sono sottoposti gli elementi di fluido quando fuoriescono dalla filiera è sensibilmente maggiore e questo comporta un valore di viscosità di due ordini di grandezza inferiore (circa 100 Pa·s)! Oltre alla scala tempo tipica del processo, un’ulteriore complicazione deriva poi dal tipo di cinematica di flusso coinvolta. La curva mostrata in Fig. 1 è relativa ad applicazioni in cui la deformazione del polimero fuso è realizzata in “condizioni di taglio” (shear). Per situazioni in cui il flusso coinvolge invece componenti elongazionali, come la filatura appena citata, ci si deve attrezzare per misurare anche la viscosità elongazionale. E questa, diversamente dai liquidi newtoniani per cui vale la ben nota legge di Trouton, è davvero tutta un’altra storia! 3. Instabilità di flusso Nel caso di fluidi semplici le instabilità di flusso derivano da effetti inerziali (elevati numeri di Reynolds) o dalla dinamica che coinvolge eventuali superfici libere. Totalmente diverso è il caso delle instabilità di flusso che si osservano talvolta nei polimeri fusi. Queste non sono attribuibili ad effetti inerziali ma piuttosto sono legate a fenomeni superficiali che coinvolgono per lo più l’interazione polimero/parete. Le instabilità di flusso che si incontrano nell’estrusione delle poliolefine e degli elastomeri sono di certo il caso più paradigmatico in relazione alla ricchezza e spettacolarità dei fenomeni osservati. Il rilievo industriale di questa instabilità è chiaro se si pensa che la loro comparsa è per lo più sinonimo di peggioramento delle qualità estetiche dei manufatti. Dato che le instabilità si presentano se si superano certi valori critici di sforzo, il modo più semplice per non 22 Bollettino Panta Rei (2016) 15:20-29 Figura 1 - Curva di viscosità di un polietilene lineare commerciale e intervalli indicativi tipici di alcuni dei più diffusi processi di trasformazione. incorrervi è quello di diminuire la portata di estrusione. Questo però penalizza irrimediabilmente la produttività! Le forme di instabilità sono diverse e discretamente ben catalogate nella letteratura. Diversa è invece la situazione per quel che riguarda i meccanismi che le generano, a tutt’oggi materia di dibattito (Hatzikiriakos e Migler 2005). In Fig. 2 è visibile la sequenza di instabilità che si osserva per un polietilene lineare lungo la curva sforzo/velocità di deformazione (Ferri 2010a). La più conosciuta è sicuramente la forma di rugosità periodica superficiale nota come effetto sharkskin. Essendo la prima perdita di trasparenza che si incontra aumentando la portata di estrusione nella produzione dei film di polietilene, lo sharkskin rappresenta la forma di instabilità più importante e più studiata, anche se in realtà la meno severa. Oggi è noto come questa rugosità periodica si produca all'uscita dagli ugelli di una filiera ogni volta che viene superato un valore critico dello sforzo (τc) che per il polietilene vale circa 0.2 MPa. Per velocità di deformazione superiori si osservano poi forme più severe di instabilità come la transizione stick-slip che rappresenta la manifestazione, in condizioni di estrusione in cui si mantiene costante la portata, di un fenomeno di slittamento macroscopico alla parete (spurt). Quest'ultimo è ben visibile quando si opera in condizioni di sforzo imposto in quanto genera incrementi di portata anche di ordini di grandezza quando viene superato τc. Da ultimo, a portate ancora superiori, ci si imbatte nella gross melt fracture (GMF), la forma più spettacolare e insieme meno studiata di instabilità. Oggi si sa che questa ha origine nella regione di flusso convergente che precede i fori di una filiera. Ancora una volta l’instabilità si propone in corrispondenza di un valore critico di sforzo che, in questo caso, anziché di taglio, risulta essere elongazionale. Una delle più difficili sfide tecnologiche nei processi di lavorazione dei polimeri interessa lo studio di soluzioni per l'eliminazione di queste instabilità, in particolare dello sharkskin, che minano irrimediabilmente la qualità dei manufatti (in particolare l'aspetto estetico). Uno dei metodi più utilizzati consiste nell'impiego di additivi che promuovono lo slittamento del polimero alla parete (tipicamente fluoro-elastomeri). Su questo tema si tornerà ampiamente in uno dei prossimi paragrafi. Bollettino Panta Rei (2016) 15:20-29 23 Figura 2 - Aspetto della curva di flusso di un polietilene lineare con alcune immagini rappresentative dei diversi tipi di instabilità di flusso. Figura 3 - Aspetto dell’estruso di un polietilene lineare a shear rate di 92 s-1 (a), 184 s-1 (b), 368 s-1 (c) e 736 s-1 (d). Figura 4 - Aspetto dell’estruso di un blend contenente 50% di polietilene lineare e 50% di polietilene ramificato a shear rate di 184 s-1 (a), 276 s-1 (b), 460 s-1 (c) e 645 s-1 (d). Una soluzione alternativa consiste nello sfruttare il fatto, noto ai produttori e trasformatori di poliolefine, che polimeri a catena lineare sono particolarmente predisposti a mostrare queste instabilità diversamente dalle loro controparti con struttura ramificata. Nel caso del polietilene per esempio è noto come sia il polietilene lineare ad alta densità (HDPE) che quello lineare a bassa densità (LLDPE) sviluppino un pronunciato effetto sharkskin come riportato in un tipico esempio in Fig. 3. Il polietilene a bassa densità invece (LDPE) presenta solo instabilità di flusso simili alla GMF e può essere così utilizzato, mescolato con polietilene lineare, come mitigatore dello sharkskin. Questo è ben visibile in Fig. 4 dove si nota chiaramente come questa instabilità di flusso venga quasi del tutto soppressa, o comunque di fatto molto posticipata, se viene estruso un blend costituito per metà da polietilene lineare e per l'altra metà da polietilene ramificato (Ferri 2010a). Il panorama delle instabilità di flusso è comunque alquanto variegato e complesso. Come 24 Bollettino Panta Rei (2016) 15:20-29 esempio didattico in Fig. 5 viene riportato l'estruso di un elastomero termoplastico, ossia un copolimero a blocchi stirene-etilen-co-butenestirene (SEBS) ottenuto con un reometro a capillare a controllo di portata (Ferri 2010b). L'aspetto istruttivo di quest'immagine risiede nel fatto che, contrariamente a quanto solitamente ci si aspetta, l’instabilità di flusso sembra scomparire ad elevati valori di velocità di deformazione, a differenza di quanto visto in precedenza per il polietilene lineare. Infatti le foto riportate in Fig. 5 mostrano come, aumentando la velocità di deformazione, dapprima compaia una frattura drammatica che porta ad un fenomeno (flow split) che si osserva solo in alcuni casi particolarissimi nei quali il tempo di rilassamento del materiale risulta estremamente lungo. Questo impedisce il rilassamento dello sforzo a basse velocità di deformazione e fa avanzare delle fratture secondarie (secondary cracks) per produrre un estruso che assomiglia a quanto si ottiene quando si sbuccia una banana. Aumentando poi la velocità di deformazione i cracks secondari scompaiono e rimangono solo quelli primari con una forma che evolve fino a formare degli anelli, o delle eliche, che danno la classica distorsione a spirale. Si incontra poi la transizione stick-slip con alternanza di estruso liscio e fatturato ed infine la regione terminale oltre lo spurt (super-spurting) apparentemente priva di difetti. Qui scompaiono le oscillazioni di pressione e si innesca una situazione di slittamento permanente alla parete polimero/metallo. Questo rappresenta quindi uno dei pochi casi in cui per migliorare le cose conviene, apparentemente, aumentare la portata! In realtà anche dove l’elastomero estruso sembra privo di difetti una sua analisi accurata rivela la presenza di fratture “composte” che ne impediscono l’allungamento senza rottura. 4. Effetti elastici Una delle caratteristiche più importanti della viscoelasticità dei polimeri è la presenza di forti componenti elastiche dello sforzo che si traducono nella comparsa di sforzi normali in flussi di taglio. Questi si manifestano inizialmente come termini con dipendenza quadratica dalla velocità di deformazione. Un semplice esperimento in grado di evidenziare la presenza di eventuali sforzi normali consiste nell’immergere un’asticella dentro un liquido contenuto in un bicchiere. Nel caso di un fluido newtoniano si osserva una depressione della superficie libera con la formazione di un menisco in prossimità dell'asticella. Nel caso di una soluzione polimerica invece si osserva che il fluido si arrampica verticalmente lungo l’asticella. Questo effetto, noto a chiunque abbia avuto a che fare con la lavorazione di paste alimentari, è stato discusso per la prima volta con approccio scientifico da Karl Weissenberg negli anni ’40 e per questo porta il nome di “effetto Weissenberg” o rod climbing. Una bella collezione di immagini in merito si trova nel libro di Boger e Walters (1993). Per quantificare il peso delle componenti “elastiche” della risposta dei polimeri si ricorre spesso a nuovi numeri adimensionali sconosciuti alla fluidodinamica classica dei liquidi semplici. Oltre al noto numero di Weissenberg si usa spesso, in un esperimento in shear, il rapporto tra componente normale dello sforzo e componente di taglio dello stesso (recoverable shear). Un’altra evidenza della presenza di componenti elastiche degli sforzi è il rigonfiamento di un polimero estruso una volta che si presenta all’uscita di un capillare o comunque degli ugelli di una filiera (die swell). Il rilievo industriale di questo fenomeno -1 -1 2.88 s 5.76 s -1 1.44 s velocità di deformazione 11.52 s -1 23 s -1 46 s -1 Figura 5 - Instabilità di flusso di un elastomero termoplastico (SEBS lineare). Bollettino Panta Rei (2016) 15:20-29 25 Figura 6 - Rigonfiamento dell’estruso di un polistirene lineare misurato a diverse velocità di deformazione e a diverse temperature. è chiaro. Basti pensare all’estrusione di lastre o alla dimensione di spaghetti estrusi attraverso fori, la cui geometria dipenderà necessariamente dalla quantità di rigonfiamento del fuso polimerico. Tale effetto viene quantificato, nel caso di estrusione attraverso una filiera circolare, tramite il rapporto tra il diametro del foro di estrusione D0 e l’effettivo diametro dello spaghetto estruso D. Il rigonfiamento dipende sia da parametri strutturali (peso molecolare, polidispersità, ramificazioni) che da condizioni di processo (temperatura, portata, geometria del foro). In Fig. 6 è possibile apprezzare la dipendenza del rapporto di rigonfiamento dalla velocità di deformazione a diverse temperature per un polistirene commerciale. Si nota come si veda quasi raddoppiare il diametro dell’estruso in alcune condizioni! E questa non è nemmeno la situazione più spettacolare dato che non è inusuale trovarsi di fronte a rapporti di rigonfiamento ben superiori a quelli qui mostrati. Si osserva anche come il rigonfiamento, e quindi l’elasticità, aumenti all’aumentare della velocità di deformazione (o, equivalentemente della portata di estrusione). Lo stesso effetto è anche prodotto da diminuzioni della temperatura. Il legame tra le variabili di processo e la risposta elastica di un polimero fuso si comprende meglio se si definisce un parametro adimensionale, noto come “numero di Debora”. L’origine di questo curioso appellativo coniato da Markus Reiner, va ricercata nel canto della profetessa Debora quando, nel biblico libro dei Giudici, inneggia alla vittoria contro i Filistei menzionando il fatto che “anche le montagne fluirono prima di Dio”. Questo importante numero è definito come il rapporto tra la scala di tempo tipica del fenomeno di rilassamento dello sforzo nel materiale e quella caratteristica dell’esperimento che si sta effettuando (Reiner 1964). Nel caso riportato in Fig. 6, per esempio, un aumento del numero di Debora, e quindi della componente elastica della risposta, si realizza ogni volta che, a parità di temperatura, la velocità di deformazione (e quindi la portata) aumenta. In sostanza in tal caso la scala di tempo diventa via via più piccola e il polimero manifesta la sua elasticità non avendo il tempo necessario per rilassare lo sforzo. Analogo aumento del numero di Debora si realizza anche, a parità di portata, se si diminuisce la temperatura. In questo caso si rallenta la dinamica dei fenomeni di rilassamento dello sforzo e l’elasticità si fa sentire in modo sempre più importante. Un altro effetto interessante dovuto all’elasticità si può sperimentare nel processo di coestrusione. In Fig. 7 (a) è riportato il risultato della qualità della coestrusione attraverso un condotto a sezione circolare di due polistireni antiurto (HIPS) a diversa viscosità dei quali uno è stato colorato di nero. Nelle due immagini della sezione relative a due posizioni progressive lungo il canale dopo l’iniezione dei due fusi, si nota come il polimero bianco (il meno viscoso) tenda ad incapsulare quello nero. Per l’uniformità degli strati in un estruso bicomponente infatti il fattore più importante è l’uguaglianza delle viscosità dei due polimeri come riconosciuto per la prima volta nei primi anni settanta da esperimenti di reometria capillare su materiali destinati alla produzione di fibre (White et al. 1972; Han 1973). Differenze di viscosità portano a distorsioni interfacciali durante l’estrusione attraverso un canale a sezione circolare in cui il polimero più fluido tende ad incapsulare quello più viscoso. 26 Bollettino Panta Rei (2016) 15:20-29 a) b) c) Figura 7 - Incapsulamento viscoso nella coestrusione attraverso un canale circolare a) e riarrangiamento elastico nella coestrusione attraverso un canale a sezione quadrata b). Simulazione dei vortici viscoelastici attesi c). Il livello di distorsione interfacciale dipende dalla differenza di viscosità e dal tempo di residenza. In Fig. 7 (b) invece è riportato il risultato della qualità della coestrusione attraverso un condotto a sezione quadrata degli stessi due polistireni antiurto. Nelle due immagini della sezione, sempre relative a due posizioni progressive lungo il canale dopo l’iniezione dei due fusi, si nota come la mancanza di simmetria radiale e la presenza conseguente di flussi secondari, rappresentati dai vortici predetti dalla simulazione riportata in Fig. 7 (c), generino un tipo di distorsione del profilo interfacciale che può minare irrimediabilmente la qualità del manufatto coestruso. La ricaduta tecnologica di questi effetti “elastici” dei fusi polimerici è più che evidente! condizione tipica dell’idrodinamica classica che un fluido aderisca perfettamente alla parete solida con cui è in contatto poteva essere decisamente disattesa. Lo studio della viscosità di taglio attraverso capillari ha evidenziato in talune circostanze fenomeni spiegabili solo assumendo una consistente velocità di slittamento tra polimero e parete. Questa fenomenologia ha stimolato parecchi approfondimenti in questo campo portando nel tempo a numerosi studi che hanno messo in luce la dipendenza dello slittamento dal tipo di metallo con cui la parete solida è costruita. Per esempio, a parità di pressione imposta, si realizzano portate significativamente diverse se si estrude un polimero in regime di slittamento attraverso un capillare di ferro o di rame (Ghanta et al. 1999) Oggi alcuni aspetti sono stati definitivamente chiariti. Ad esempio è noto come lo slittamento compaia specialmente in polimeri con bassi pesi molecolari tra entanglements quando lo sforzo 5. Slittamento alla parete Quando negli anni sessanta si iniziò a studiare il flusso dei polimeri fusi ci si accorse che la 10 6 shear stress (Pa) LLDPE vslip 10 5 concentrazione di fluoroelastomero (ppm) 10 0 250 500 1000 4 10 1 2 3 10 10 -1 shear rate apparente (s ) 10 4 Figura 8 - Curve di flusso di un LLDPE contenente diverse percentuali di un additivo che promuove lo slittamento alla parete del capillare (FE: fluoro-elastomero). Bollettino Panta Rei (2016) 15:20-29 supera una soglia critica che risulta dello stesso ordine di grandezza del plateau modulus. Per il polietilene ad esempio, come già descritto, lo sforzo di taglio critico per l’insorgere dello spurt è di circa 0.2 MPa. Da un certo punto di vista il fenomeno dello slittamento alla parete, così come la melt fracture, può risultare per un reologo sperimentale una sorta di “morte della misura reologica” in quanto obbliga a tediose correzioni dei dati non sempre applicabili con precisione. Visto da un’altra prospettiva però lo slittamento alla parete rappresenta un campo di ricerca stimolante se si rinuncia a calcolare la viscosità e si studiano invece le relazioni tra pressione e portata in un reometro a capillare o in un estrusore. La ricerca ha ormai messo in luce persino i meccanismi microscopici che regolano questo slittamento. Il rilievo tecnologico di questa peculiarità di alcuni polimeri è provato dalla prassi di uso diffuso tra chi estrude poliolefine di usare additivi, quali i fluoro-elastomeri, che addirittura sono aggiunti alla matrice polimerica come promotori dello slittamento alla parete (polymer processing aids, PPA). In tal caso risulta possibile aumentare la portata di estrusione (e quindi la produttività!) mantenendo i valori di sforzo al di sotto della soglia che porta ai fenomeni di instabilità di flusso citati nel paragrafo precedente. Un tipico esempio di curva sforzo vs. velocità di deformazione per un polietilene lineare contenente diverse percentuali di fluoro-elastomero è riportato nella Fig. 8 (Scavello e Ferri 2009). Si vede chiaramente come vi sia una regione di velocità di deformazione (o portate se si preferisce) in cui è possibile realizzare sforzi minori in virtù dell’esistenza dello slittamento tra polimero e parete. Questo consente di mantenersi più a lungo al di sotto del valore critico dello sforzo per l’insorgere dei fenomeni di instabilità. Informazioni di questo tipo sono anche fondamentali per determinare la quantità minima di additivo richiesta per gli scopi del particolare processo che si vuole migliorare. Quest’ultimo aspetto è particolarmente apprezzato in industria se si pensa all’elevato costo che queste additivazioni comportano. senza additivo 27 Nella Fig. 9 è anche riportato l’aspetto di un film di polietilene ottenuto nelle stesse condizioni di processo con e senza l’impiego dello stesso PPA in questione. Il miglioramento estetico apportato dall’additivo che sopprime l’effetto sharkskin è chiaro, e altrettanto evidente dovrebbe essere, per quanto detto in precedenza, il beneficio in termini di produttività! 6. Modellazione del comportamento reologico Si è già accennato al fatto che la rilevanza tecnologica e industriale della reologia dei polimeri è provata dal fatto che, negli anni, la ricerca fondamentale ha fatto passi da gigante per risolvere problemi legati al processo di sintesi e alla successiva lavorazione di questi materiali. Una delle sfide più affascinanti è quella di riuscire a descrivere il comportamento reologico a partire dalla conoscenza dell’esatta struttura molecolare del polimero in esame. La situazione negli ultimi anni ha portato a risultati concreti eccellenti in questo campo se si tratta di polimeri a catena lineare (Van Ruymbeke 2010). In Fig. 10 viene riportata la predizione teorica, a partire dalla curva di distribuzione dei pesi molecolari, dell’andamento del modulo elastico di immagazzinamento G’ misurato in prove dinamicomeccaniche per tre campioni di polistirene commerciale aventi diverso peso molecolare. Come si nota il grado di accuratezza della predizione (la linea continua) è impressionante. L’informazione strutturale che si usa in questo caso è la distribuzione dei pesi molecolari. Ovviamente a questa si applica poi la dinamica che si è ormai assodato essere alla base del rilassamento dello sforzo delle catene polimeriche. L’idea che sta alla base della modellazione è che il modulo di rilassamento dello sforzo in un con additivo Figura 9 - Film di LLDPE estrusi nelle stesse condizioni con e senza PPA. 28 Bollettino Panta Rei (2016) 15:20-29 a) b) Figura 10 - Mastercurves del modulo di immagazzinamento G’ per tre polistireni lineari con diverso peso molecolare e relativa predizione b) calcolata dalla distribuzione dei pesi molecolari a). esperimento in cui si applica istantaneamente una deformazione costante ad un materiale sia determinato dalla somma di contributi costituiti dal modulo di rilassamento di un materiale monodisperso (di peso molecolare M) “pesato” per la frazione ponderale w di catene con quella lunghezza, frazione quest’ultima misurata appunto determinando la distribuzione di pesi molecolari: 1 G t G FMONO t , M w M d log M log M e 0 N Il tutto viene “incorporato” in una regola di miscela in cui compare un esponente (β) il cui valore si fonda sulla base di argomentazioni relative alla dinamica molecolare. I risultati riportati, se da un lato confortano, dall’altro lasciano aperta la sfida nel caso della modellazione dei polimeri con strutture più complesse. Il caso più interessante è quello di polimeri che contengono delle ramificazioni. Ancora una volta, a questo riguardo, la ricerca fondamentale ha dato risposte esaurienti nel caso di architetture ben definite, come i polimeri a stella, a forma di H o di pettine. Rimane però ancora tutto da esplorare, per la complessità dell’argomento, il caso di polimeri con ramificazioni casuali, sia per lunghezza che per posizione, che rappresentano il caso più largamente diffuso nella produzione industriale. A questo proposito è emblematico l’esempio costituito dal polietilene a bassa densità prodotto con diverse tecnologie di processo di sintesi. Nel caso della produzione con un reattore tubolare la struttura è nota richiamare maggiormente quella delle ramificazioni semplici, tipo pettine, mentre nel caso di produzione con un reattore di tipo vessel è noto che la struttura che si ottiene è maggiormente “arborescente” con possibilità concreta di numerose ramificazioni multiple di tipo “ramo su ramo” (branches on branches, BOB). 7. Simulazione di processo Dal punto di vista industriale il campo della simulazione di processo rappresenta un’opportunità fondamentale per ottimizzare le condizioni di produzione di manufatti evitando costose procedure di tipo trial and error. Qui l’attenzione non è necessariamente rivolta a comprendere la fisica dei polimeri cercando di modellarne il comportamento reologico tramite equazioni costitutive che descrivano ab initio la dinamica delle catene polimeriche. L’obiettivo principale in questo ambito è piuttosto quello di individuare delle equazioni costitutive il più semplici possibile ma anche adatte alla descrizione del comportamento del polimero in relazione al particolare processo da modellare. La simulazione di processo richiede infatti collezioni di dati reologici da modellare con l’equazione costitutiva più appropriata per poi risolvere localmente le equazioni di bilancio in ciascuno degli elementi finiti nei quali si suole suddividere la regione interessata dal flusso del polimero. Le variabili che intervengono sono davvero molte. Si va dalle informazioni riguardanti la compressibilità a quelle riguardanti lo scambio termico fino alla dipendenza dalla temperatura delle proprietà reologiche. Tutto questo per predire cosa accadrà durante la fase di lavorazione di un polimero e, cosa ancor più difficile, le sue proprietà finali come manufatto. In Fig. 11 viene riportato a scopo didattico un esempio emblematico dell’intima correlazione tra reologia e processo. Si tratta dell’istante finale del riempimento di uno stampo per la produzione del backcover di un televisore a tubo catodico. Nel caso reale si ha, con una pressa ad iniezione Bollettino Panta Rei (2016) 15:20-29 29 Figura 11 - Simulazione del riempimento dello stampo del backcover di un televisore “vecchio stampo” (28’’) ottenuto con la curva di flusso di un polistirene commerciale e short shot ottenuto con una curva non realistica priva di shear thinning. convenzionale, il completo riempimento dello stampo. Se non esistesse il fenomeno di shear thinning a cui si è accennato in precedenza, lo stampo non riuscirebbe ad essere riempito completamente a causa dei valori elevatissimi di pressione che si svilupperebbero e si otterrebbe il classico short shot. Ancora un esempio di come la reologia dei fluidi complessi abbia un impatto formidabile sulla tecnologia di lavorazione! 8. Conclusioni Sono stati presentati alcuni aspetti della reologia dei polimeri fusi che hanno implicazioni importanti e diretto impatto dal punto di vista industriale e tecnologico. Non si è inteso dare una descrizione esaustiva delle deviazioni dall’idealità dei fluidi non newtoniani. Sicuramente si potrebbero produrre molti più esempi di quelli citati e non meno importanti. Lo spirito che ha animato la stesura di questo approfondimento è quello di fornire, specialmente a chi non conosce la reologia dei polimeri, un quadro che aiuti a convincersi dell’importanza di un approccio scientifico a questa branca interdisciplinare della fluidodinamica che sta ormai diventando parte indispensabile del bagaglio culturale di ingegneri, fisici e chimici che lavorano nel campo dell’industria dei polimeri. Bibliografia Boger DV, Walters K (1993) Rheological phenomena in focus. 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