Il segreto delle «pulizie cellulari»
Assegnato a Yoshimori Ohsumi il Nobel per la Medicina per i suoi studi
sull’autofagìa, il sistema usato dalle cellule per raccogliere e riciclare i «rifiuti
cellulari»
/ 07.11.2016
di Sergio Sciancalepore
Anche le cellule che costituiscono un organismo – non solo quello umano ma di tutte le forme di vita,
dalle più semplici alle più complesse – hanno il loro contenitore dei rifiuti nel quale gettare tutto
quello che non serve più o che è logorato dall’uso o dal tempo: non solo, in anticipo rispetto a noi
umani (praticamente da quando esiste la vita sulla Terra), le cellule differenziano i «rifiuti» che si
formano al loro interno e li riciclano.
La raccolta e il riciclaggio praticati a livello cellulare costituiscono la cosiddetta «autofagìa», dai
termini greci «autòs = da sé» e «phagèin = mangiare».
Schematicamente, una cellula è formata da un involucro esterno – la membrana cellulare – che isola,
delimita la cellula ma al tempo stesso permette lo scambio di sostanze di vario genere con
l’ambiente circostante. All’interno della cellula si trovano una gran quantità di strutture (gli
organelli cellulari) organizzate e delimitate da altre membrane, ciascuna con una funzione specifica:
nel nucleo si trovano i cromosomi formati da geni e DNA, con il compito di «dirigere» le funzioni
della cellula; le strutture che assemblano le proteine e quelle che producono sostanze da emettere
all’esterno, per esempio gli ormoni; le «centrali» (i mitocondri) per la produzione dell’energia
necessaria alle migliaia di reazioni chimiche che avvengono dentro la cellula; e vari altri organelli.
Tutte queste strutture – e le sostanze che le costituiscono, come le proteine – col tempo si logorano,
si danneggiano oppure sono fabbricate con dei difetti e sono quindi inutili o potenzialmente
pericolose, non solo per la cellula ma anche per tutto l’organismo: in ogni caso, la cellula deve
«mangiarle», «digerirle» e riciclarle (per quanto possibile) mediante l’autofagìa.
Questo fenomeno – che si è mantenuto praticamente invariato nel corso dei milioni di anni
dell’evoluzione – era noto dal 1963 ma per quasi un trentennio il suo funzionamento è rimasto un
mistero biologico, che ha cominciato a svelarsi e diventare più comprensibile grazie alle ricerche di
un tenace scienziato giapponese, Yoshinori Ohsumi (nella foto), e della sua équipe dell’Università di
Yokohama; ricerche condotte a partire dal 1988 e per le quali è stato insignito del Premio Nobel
2016 per la Medicina.
L’autofagìa ha un ruolo essenziale per il buon funzionamento della cellula. Pensate cosa sarebbero le
nostre case e le nostre città se non mettessimo i rifiuti domestici nel sacco della spazzatura e nessun
Comune provvedesse a raccogliere i sacchi e a smaltire il tutto correttamente: analogamente, se non
ci fosse l’autofagìa, l’interno della cellula si riempirebbe di inutile e pericolosa «spazzatura»
cellulare. A tale scopo, le strutture cellulari responsabili dell’autofagìa devono agire in modo preciso
ed efficiente: per fare un esempio, devono identificare, raccogliere e trattare solo quelle strutture e
sostanze (in special modo le proteine) che sono danneggiate o logorate non toccando tutto quello
che è ancora intatto ed efficiente.
Per risolvere il mistero dell’autofagìa, Ohsumi ha scelto di studiare il fenomeno usando cellule dalla
struttura piuttosto semplice, quelle del comune lievito usato per fare il pane e la birra. In anni di
studi, il gruppo dello scienziato giapponese è riuscito a ricostruire le tappe dell’autofagìa: in primo
luogo, la cellula costruisce un contenitore (l’autofagosoma) adatto per racchiudere le strutture
deteriorate, precedentemente identificate grazie a un particolare sistema di «etichettatura» di
riconoscimento; successivamente, questi contenitori sono trasferiti – sempre nello spazio interno
cellulare – verso altri contenitori, i lisosomi, pieni di enzimi che degraderanno, «smonteranno» le
sostanze presenti nell’autofagosoma. A tale scopo, i lisosomi e gli autofagosomi si fondono in un
unico contenitore: al termine della degradazione, quel che è possibile riciclare sarà riutilizzato, il
resto espulso fuori della cellula.
Ohsumi è riuscito anche a identificare 15 geni che dirigono queste complesse operazioni – le quali
richiedono un coordinamento dei meccanismi e dei tempi di esecuzione – e ha dimostrato che quanto
osservato nelle cellule del lievito accade anche nelle cellule degli altri organismi, uomo compreso.
Quando la cellula usa l’autofagìa? Praticamente in continuazione, nella normalità e nella malattia.
C’è infatti un’autofagìa basale, continua che permette di mantenere «pulita» la cellula, fenomeno
che si accentua in modo particolare durante la fase di sviluppo dell’embrione, quando in tempi
relativamente brevi si formano gli organi e si differenziano i vari tipi di cellule che li costituiscono.
L’autofagìa ha poi un ruolo importante – la protezione della cellula – nello stress indotto da situazioni
di malattia, per esempio nell’infiammazione, quando si verificano modificazioni e danni all’interno
della cellula e l’eliminazione dei «rifiuti» che si formano è essenziale: lo stesso accade durante le
malattie infettive, altra causa di notevole stress e danno cellulare.
Un’interessante prospettiva delineata dalle ricerche di Oshumi è anche quella riguardante le
malattie degenerative del sistema nervoso, nelle quali spesso – a causa forse di un
malfunzionamento dei meccanismi dell’autofagìa – le cellule nervose non riescono a smaltire in modo
efficiente le sostanze degradate che quindi si accumulano al loro interno: è quello che accade, per
esempio, nella malattia di Parkinson e di Alzheimer. Ancora, il malfunzionamento dell’autofagìa
potrebbe avere un ruolo importante nei meccanismi alla base dello sviluppo dei tumori. Un gene,
denominato BECN1, è mutato (difettoso) in molte donne con tumore della mammella e dell’ovaio:
ebbene, questo gene è presente anche nel lievito (è denominato ATG6) dove svolge una funzione
fondamentale nel corretto avvio dell’autofagìa. Forse, la mutazione del gene umano analogo a quello
del lievito, potrebbe influenzare negativamente l’autofagìa della cellula normale ed essere una delle
cause del tumore e anche uno dei possibili bersagli sui quali intervenire per curare queste e altre
forme di tumori.