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Storia Medievale
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Sommario
Le strutture del mondo antico........................................................................................................................... 4
L’impero fra III e IV secolo ................................................................................................................................. 5
Ai confini dell’impero: il mondo delle popolazioni a struttura tribale .............................................................. 8
L’Occidente nel V e nel VI secolo: i regni romano-germanici .......................................................................... 10
L’impero restaurato di Giustiniano.................................................................................................................. 13
Il sorgere della potenza araba e le trasformazioni dell’impero bizantino ...................................................... 15
Sintesi romano-germaniche nell’Europa del VII e VIII secolo.......................................................................... 18
Economia e società in Europa occidentale dal VI al X secolo .......................................................................... 21
Le dimensioni essenziali e quotidiane dell’esistenza ...................................................................................... 23
La sintesi romano-germanica più compiuta: l’impero carolingio .................................................................... 25
Il dissolversi dell’impero e le origini dello sviluppo signorile .......................................................................... 27
Lo sviluppo delle campagne ............................................................................................................................ 30
Lo sviluppo commerciale e urbano e il movimento comunale ....................................................................... 31
Il risveglio della cultura .................................................................................................................................... 34
Nuove dimensioni dell’esistenza ..................................................................................................................... 36
Il movimento per la riforma ecclesiastica e la crociata ................................................................................... 38
Le origini della ricostruzione politica ............................................................................................................... 40
L’ambizioso progetto ierocratico di papa Innocenzo III .................................................................................. 43
Processi di costruzione statale nell’Europa del XIII secolo .............................................................................. 44
Le difficoltà economiche e sociali delle campagne ......................................................................................... 47
La vita economica e sociale delle città, l’artigianato e il commercio .............................................................. 49
Crisi e tentativi di riforma delle istituzioni ecclesiastiche ............................................................................... 51
L’Italia del Trecento e del Quattrocento ......................................................................................................... 53
Il primo Rinascimento...................................................................................................................................... 56
L’Europa del Trecento e del Quattrocento ...................................................................................................... 57
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Le strutture del mondo antico
Nel continente euroasiatico una limitata fascia a clima temperato caldo è occupata da popolazione
sedentarie dedite prevalentemente all’agricoltura. (Si estende dalla penisola iberica e le coste bretoni sino
alla Cina). Le città si estendono per tutta quest’area e accompagnano i popoli sedentari. A sud e a nord,
oltre i confini del mondo civilizzato vivevano i cosiddetti popoli “barbari”, nomadi o seminomadi e dediti
soprattutto alla pastorizia. Le conquiste dell’impero romano introducono ovunque le città, cardini del loro
Stato. I traffici sul mediterraneo, fulcro delle attività commerciali romane, fanno capo alle città e ai loro
mercati.
Quello romano è un impero esteso e densamente popolato, per le possibilità agricole del tempo (la poca
pianura e il clima asciutto rendono difficili grandi coltivazioni). Vi era generalmente una rigida separazione
fra le colture (ager) e l’allevamento (saltus). Fondamentale per la produzione era il campo permanente
dove si praticava la rotazione biennale delle colture. L’allevamento giocava un ruolo solamente secondario,
primaria importanza avevano invece prodotti come cereali, vino ed olio di oliva. Dato il non facile clima,
risultavano importanti le tecniche di aridocoltura; grande importanza aveva l’aratro romano, piccolo e
leggero ma ottimo per i terreni secchi (l’aratura incrociata evitava un’eccessiva evaporazione dell’acqua).
Infine un grande numero di schivi rendeva disponibile la forza-lavoro necessaria nei campi ed era tale,
forse, da impedire addirittura lo sviluppo di nuove tecnologie.
Ordine, pace ed efficienza dell’impero romano permisero lo sviluppo economico. Viticoltura e cerealicoltura
si diffondono, aumentano i commerci e la produzione benché tutto lo sviluppo economico risulti
subordinato alle esigenze di Roma. Fu notevole e duratura l’influenza sul paesaggio, dovuta alle tecniche
agricole impiegate in questo tempo (vd campi a scacchiera). Si diffondono le “villae” rustiche romane,
centri di conduzione delle grandi aziende agrarie che assunsero un ruolo molto importante nella
commercializzazione dei prodotti agricoli. Inizialmente vi lavoravano soprattutto schiavi, col loro diminuire
per via della pace le aziende si frazionano, vengono divise e i terreni sono spesso dati in concessione a
contadini liberi, liberti o a servi casati. Ne derivò un sistema misto: una parte della grande proprietà era
divisa in aziende minori che dovevano consegnare al padrone una parte dei prodotti e piccole somme in
denaro. Ai contadini che coltivavano queste ultime erano sempre più spesso richiesti un certo numero di
giorni di lavoro sulle terre padronali.
Le città, oltre che centrali per il loro ruolo economico, costituivano il fondamento stesso della dominazione
romana. Esse erano un polo di sviluppo per le campagne circostanti e stimolarono anche una diffusione
delle attività artigianali. Oltre a ciò esse erano un centro di coordinamento e di organizzazione politicoamministrativa della rispettiva area imperiale. Infine, avevano un’importante funzione militare (specie a
partire dal III secolo (vd cinta murarie) ed una religiosa (vd edifici di culto, classe sacerdotale e poi sede
vescovile per i cristiani). Risiedeva in città la parte della popolazione che dirigeva la vita amministrativa,
sociale ed economica dell’impero.
In particolare, fra coloro che godevano della cittadinanza romana, emergevano due ceti importanti:
senatori e cavalieri.
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Facevano normalmente parte del senato i figli di senatori, si trattava dunque di un’aristocrazia in
gran parte ereditaria e dotata di vaste ricchezze fondiarie. E’ un ceto ricco e colto, che partecipa
dell’amministrazione civile e del governo militare.
Al ceto dei cavalieri si accedeva invece solamente per volontà dell’imperatore, che li sceglieva fra i
“curiales”, membri delle aristocrazie municipali dei centri cittadini. Questo ceto scomparve nel IV
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secolo, quando Costantino permise alle aristocrazie cittadine (e quindi a molti cavalieri) di accedere
all’ordine senatorio.
Si assiste così ad una divisione all’interno dell’ordine senatorio in tre ranghi di differente prestigio; vi erano
-in ordine decrescente- i Clarissimi, gli Spectabiles e gli Illustres. Il ceto senatorio deteneva l’egemonia
completa della vita politica, economica e culturale del mondo romano.
L’istruzione di questa colta aristocrazia avveniva in tre tipi di scuole: quella elementare, quella del
grammatico e quella del retore. I prima gradi delle scuole erano diffusi in molte città, gli ultimi soltanto
nelle maggiori. Esse preparavano soprattutto funzionari e impiegati che facevano parte dell’aristocrazia
urbana; i ceti più alti si avvalevano di precettori e maestri privati. Roma permise inoltre la diffusione della
cultura scritta nei paesi del suo impero, questa, tuttavia, rimase un privilegio dei ceti superiori. Le scuole di
campagna non portarono ad alfabetizzare la popolazione. Infine, occorre precisare che si trattava di una
cultura di stampo fortemente ellenistico e in continuità con quella del mondo greco.
Rispetto alla religione si assistette ad una forte diffusione dei culti orientale o greco-orientali, non legati ad
alcuna città, regione o nazione. L’idea di un Dio universale scalza progressivamente le credenze
politeistiche. Inoltre si diffondono i culti misterici, il mitraismo e il culto di Giove Dolicheno. Tali religioni si
diffondevano presso tutti i ceti, permettendo così di superare le differenze culturali che li separavano e di
consolidare l’ordine sociale esistente.
Anche il cristianesimo subì nel tempo l’influenza della cultura ellenistico-romana. Le prime comunità erano
guidate da persone dette “apostoli” o “profeti”. Si predicava la distruzione e la rigenerazione del mondo in
un regno di giustizia dopo il secondo avvento di Cristo, ma queste idee non portavano ad alcun tipo di
ribellione rispetto all’ordine sociale esistente. La predicazione cristiana ebbe grande risonanza, anche per
via delle diverse comunità ebraiche, dove spesso si svolgeva la predicazione, disseminate nell’impero a
seguito della diaspora. Dopo le campagne il cristianesimo raggiunse anche le città; venivano così convertiti
membri delle colte aristocrazie che avrebbero presto ricoperto ruoli di spicco e importanti funzioni direttive
e sacerdotali nelle prime chiese.
Infine, i testi sacri iniziarono ad essere interpretati alla luce della riflessione filosofica: nasceva il
cattolicesimo, apparato di idee ed atteggiamenti ispirati dall’idea di universalità. Nelle comunità emergono
“sorveglianti” o “anziani” dediti al culto e alla predicazione, presto affiancati da assistenti (diaconi). Le
comunità si organizzano gerarchicamente ponendo al loro vertice i vescovi (spesso di origini aristocratiche).
Proprio questa organizzazione, oltre che il legame col popolo ebraico portarono all’ostilità da parte degli
imperatori, perdurante sino al tempo di Diocleziano.
L’impero fra III e IV secolo
Il terzo secolo è un periodo di profonda crisi per l’impero romano:
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Regnano disordine e guerre civili
Le popolazioni nomadi e seminomadi premono ai confini
Le strutture su cui lo stato si basa danno segni di cedimento
Due imperatori: Diocleziano e Costantino corrono ai ripari. Essi riformano le strutture amministrative,
l’esercito e l’organizzazione fiscale che costituiva ora il vero pilastro su cui lo Stato si fondava,
fondamentale per affrontare le spese legate a burocrazia, amministrazione, esercito e difesa. Segue un
impoverimento dei piccoli contadini, costretti a indebitarsi o abbandonare i campi. Il latifondo ne approfitta
e molti contadini diventano servi legati ai campi: i figli devono continuare il mestiere dei padri (coloni).
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Diocleziano: una nuova struttura amministrativa dello Stato Al contempo muta il rapporto con il
cristianesimo, che inizia ad essere visto come un potenziale sostegno del potere politico. Nel 313 l’editto di
Costantino stabilisce piena libertà di culto per tutti. A fine secolo il cristianesimo è oramai una religione di
Stato (vd editto di Teodosio). Inoltre l’impero tende a intervenire su questioni dottrinali con lo scopo di
difendere l’unità delle chiese cristiane e di assestare l’organizzazione della nuova religione, che tende
sempre più a coincidere con le ripartizioni amministrative dell’Impero.
Fondamentale per comprendere i cambiamenti nel periodo del basso impero è la fase dell’anarchia
militare. Si definisce così il periodo che intercorre fra il 235 e il 284 caratterizzato da continue ribellioni di
capi militari. Salito al potere alla fine di questa fase, Diocleziano affronta con decisione questo problema
per impedire il ripetersi di nuove lotte di successione. Crea così un nuovo sistema di governo e istituisce la
Tetrarchia. E’ il governo a quattro: il potere imperiale fu diviso fra due imperatori (augusti), uno d’Oriente
ed uno d’Occidente, ciascuno dei quali associò al proprio potere un rispettivo “cesare” che lo avrebbe
succeduto al trono. Si spezzò così l’unità amministrativa dell’impero, che comunque resto uno soltanto. I
problemi dinastici tuttavia rimasero e nel 305, quando Diocleziano si ritirò, scoppiarono nuovi contrasti per
la successione. Infine il potere passo a Licinio e Costantino e poi, dal 324, Costantino vinse l’avversario e
rimase sino alla morte unico imperatore.
Una seconda riforma di Diocleziano mirò a rafforzare la struttura amministrativa dello Stato. L’impero fu
diviso in quattro prefetture: Gallie, Italia, Illirico ed Oriente, a loro volta suddivise per un totale di dodici
diocesi governate da vicarii dell’imperatore. Ogni diocesi comprendeva poi un certo numero di provincie; in
ognuna di queste il potere militare fu affidato a un dux dipendente dai tetrarchi e separato dal potere civile
dei praeses. In questo modo potere civile e militare risultavano separati e l’esercito risultava subordinato
direttamente all’imperatore.
Riorganizzazione dell’esercito e riforma fiscale Le difficoltà dell’impero resero necessarie altre due riforme:
una dell’apparato militare e una di quello fiscale:
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Al posto dell’esercito di frontiera precedente, troppo dispersivo, le riforme militari crearono un
grosso esercito di manovra stanziato nelle città maggiori e pronto a intervenire ovunque in caso di
necessità (comitatenses). Sui confini venne istituita una milizia territoriale i cui soldati (limitanei)
dovevano essere procurati dai proprietari fondiari, che potevano sottrarsi a tale obbligo pagando
una tassa. Col tempo pertanto entrarono nell’esercito di Roma sempre più elementi germanici, più
facili da assoldare.
La riforma fiscale era indispensabile per garantire reclutamento e risorse all’esercito. Diocleziano
ordinò di fare un inventario di tutte le risorse economiche dell’impero e basò il suo sistema di
riscossione su due imposte: quella fondiaria (annona) e quella personale. L’annona era riscossa in
natura, per garantire risorse all’esercito nonostante la svalutazione monetaria. La revisione della
tassazione avveniva generalmente ogni 15 anni (indizione).
Coloni e latifondisti – I rapporti sociali nelle campagne Forte pressione fiscale e insicurezza dovuta alle
guerre provocarono forti cambiamenti nella distribuzione della proprietà e nei rapporti sociali. Peggiora la
sorte dei coloni, terre e potere sono sempre più concentrati nelle mani dei grandi proprietari fondiari, si
instaurano rapporti di solidarietà fra piccoli contadini e latifondisti che impedisce alle rivolte di avere
successo. Per bloccare l’esodo dalle campagne dei piccoli proprietari gli imperatori avevano legato i coloni
alla terra. Questi erano liberi di fronte al proprietario, ma non potevano cambiare lavoro, erano “servi della
terra”. La grande proprietà crebbe notevolmente e divenne un’importante struttura di inquadramento
della società; il padrone dominava, oltre che gli schiavi, i coloni che coltivavano le terre loro assegnate. Gli
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agricoltori liberi dei dintorni si commendavano a lui, entravano a far parte della sua clientela. Si tratta del
cosiddetto rapporto di accomandazione (commendatio) molto diffuso, specialmente fra grandi e piccoli
proprietari. Inoltre spesso i latifondi erano esonerati dal pagamento di imposte, ossia godevano di
immunità (immunitas), di solito applicate alle proprietà fiscali dello Stato. Tuttavia l’immunità riguardava la
terra: in caso di vendita o donazione continuava a essere immune. Col tempo i grandi proprietari si
circondarono di armati (buccellarii) e amministrarono la giustizia sui propri dipendenti. Alla crisi della
piccola proprietà e all’oppressione fiscale sono dovuti molti dei frequenti moti di ribellione nelle campagne.
Essi in genere fallirono, poiché parte dei coloni fu sempre solidale con l’aristocrazia senatoria.
Oriente e Occidente Agli inizi del IV secolo l’impero esigeva ormai un governo separato di Oriente ed
Occidente. Costantino fondò sulle rive del Bosforo una nuova capitale che prese il suo nome
(Costantinopoli) e che presto divenne una “nuova Roma”. Erano evidenti le diversità sociali, politiche,
economiche e culturali delle due parti dell’impero, cui si aggiungevano alcune controversie religiose sorte
perlopiù in Oriente. La separazione fra le due parti dell’impero divenne più profonda alla morte di Teodosio
(395), che al figlio Onorio destinò l’Occidente con capitale Milano, al figlio Arcadio l’Oriente con capitale
Costantinopoli. Questa volta la spartizione si inseriva in un contrasto profondo e determinò la rottura
definitiva dell’unità imperiale, dando luogo a due diverse dinastie. Costantinopoli inviò come alleati
(foederati) i Visigoti nell’Illirico rivendicato da Onorio. Si apriva così uno schema d’azione destinato a
ripetersi: l’impero d’Oriente deviava le popolazioni germaniche verso l’Occidente per alleggerire la
pressione barbarica. L’impero d’Occidente era ormai debole di fronte all’irrompere di questi popoli.
Il legame fra cristianesimo e impero Dopo la fase di Diocleziano, attivo nel tentativo di eliminare le
organizzazioni cristiane, si aprì un nuovo periodo. Nel 313 viene emanato a Milano un importante editto di
tolleranza da parte degli imperatori Costantino e Licinio. Questo segna la fine delle persecuzioni ed una
nuova politica imperiale nei confronti del cristianesimo, ancora religione di poche minoranze. Questo
poteva essere di grande aiuto all’imperatore, per il suo interesse a soccorrere i poveri e ad occuparsi dei
problemi interiori delle persone.
L’avvicinamento fra cattolicesimo e potere imperiale avvenne a tre differenti livelli:
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Riconoscimento della piena libertà di culto per tutti (Editto di Milano)
Concessione di numerosi privilegi al clero e alle comunità cristiane
Intervento nelle controversie dottrinali, per mantenere l’unità dell’episcopato
Nel 325 Costantino convocò a Nicea un concilio ecumenico (assemblea generale dei vescovi della
cristianità) per risolvere la controversia trinitaria che turbava l’impero. Ario, che attribuiva al padre una
natura superiore, fu condannato all’esilio e si impose come dottrina ufficiale quella di Atanasio, che
attribuiva al figlio la stessa natura del padre (vd credo niceno).
Successivamente a Nicea, sono due gli aspetti importanti della politica imperiale rispetto al cristianesimo: i
frequenti cambiamenti di orientamento degli imperatori nelle questioni teologiche e il sostegno totale
offerto alla nuova religione a partire dalla fine del IV secolo. Costanzo II (337-361) favorì l’arianesimo che,
con la predicazione del vescovo Ulfila, si diffuse fra i germani e favorì la separazione fra barbari e romani.
Con Giuliano (361-363) si ha una breve parentesi politeista: egli rinnegò la fede cristiana, abrogò le
concessioni elargite ai cristiani e allontanò molti cristiani dai posti di responsabilità. Fece riaprire templi
pagani, e favorì la dissidenza religione, ma il tentativo non ebbe successo. Infine, nel 381 Teodosio (361363) ribadì in un nuovo concilio a Costantinopoli le decisioni di Nicea. Con un editto del nuovo imperatore
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(380) il cristianesimo diventava religione di stato, l’unica riconosciuta dall’impero. Il politeismo venne
perseguitato dal potere civile ed era ormai praticato solo nei villaggi.
Continuavano però ad emergere nuovi conflitti dottrinali: nel 431 venne rifiutato nel concilio di Efeso il
nestorianesimo, che riteneva in Cristo presenti due persone distinte, legate alle sue due nature di Dio e di
Uomo. Si affermò che in Cristo la natura umana e quella divina si incontravano e coesistevano in una sola
persona. Si diffuse successivamente il monofisismo in Oriente, che attribuiva a Cristo una sola natura
(quella divina) oltre che una sola persona e che fu condannato nel 451 dal Concilio di Calcedonia. Venivano
inoltre riconosciuti al patriarca di Costantionopoli il primato delle chiese d’Oriente e al vescovo di Roma una
supremazia onorifica sugli altri vescovi.
Gli interventi del potere politico portarono importanti cambiamenti nell’organizzazione ecclesiastica.
L’ordinamento delle chiese cristiane si adeguò alle ripartizioni amministrative dell’impero e le sedi
episcopali si raggrupparono sotto i metropoliti, i vescovi che presiedevano le provincie dove l’impero aveva
le sue sedi amministrative. Inoltre, soprattutto in Occidente, i vescovi si coordinarono attorno alla Chiesa di
Roma. Valentiano III (425-455) aveva riconosciuto ufficialmente alla chiesa romana la superiorità nelle
questioni di giurisdizione ecclesiastica. Il papato stava per diventare una forza fondamentale per il mondo
politico medievale.
Fra IV e V secolo le donazioni dei numerosi fedeli favoriscono l’espansione dei patrimoni ecclesiastici.
Titolari di questi beni erano i vescovi, che gestivano il patrimonio, organizzavano il clero e
l’evangelizzazione delle campagne. In questo periodo la potenza fondiaria delle chiese metropolitiche era
ormai paragonabile a quella delle grandi famiglie senatorie. Con la fine dell’impero, la potenza ecclesiastica
aveva ormai posto le solide base economiche che l’avrebbero resa centrale nel periodo medievale
Ai confini dell’impero: il mondo delle popolazioni a struttura tribale
Oltre alle difficoltà interne, fin dal II secolo, l’impero romano era minacciato dalla pressione crescente dei
popoli barbari sul confine settentrionale (limes). A seguito della migrazione degli Unni verso Occidente la
pressione crebbe molto verso l’ultimo trentennio del IV secolo finendo per causare la definitiva caduta
dell’impero. I popoli cosiddetti “barbari” erano molto diversi dalle popolazioni greco-romane; essi erano
nomadi (vd Unni) o seminomadi che praticavano in misura minore l’agricoltura (vd Germani), ma la loro
economia fragile li portava spesso a razziare le regioni occupate da sedentari. La loro organizzazione sociale
si basava essenzialmente sulla tribù. Gli antichi Germani erano divisi in numerose tribù e retti da tre
importanti organismi: il consiglio dei capi delle tribù, quello dei capi di guerra e l’assemblea dei guerrieri.
Questo sistema verrà scardinato per via di una crescente differenziazione sociale, della nascita della figura
del re e per lo sviluppo di un’aristocrazia guerriera dotata di proprie clientele armate.
Il contatto col mondo romano portò i primi mutamenti presso i Germani. L’aumento degli scambi
commerciali aumentò le differenze sociali e le esigenze difensive dell’impero spinsero a reclutare sempre
più gruppi militari barbari entro l’esercito imperiale. Inoltre, a partire dal IV secolo, intere popolazioni come
i Goti, si convertirono al cristianesimo ariano. Questo avvicinò considerevolmente i due mondi e avvicinò la
cultura orale barbara a quella raffinata greco-latina.
Dopo l’era delle grandi migrazioni, il mondo era andato generalmente sedentarizzandosi. I popoli nomadi
avevano trovato un loro spazio di relativa stabilità: in Cina erano stati arginati dalla costruzione della
“grande muraglia”, a Roma dal “limes”. La situazione cambiò a partire da IV-V secolo: le pianure della Cina
settentrionale caddero sotto il controllo di barbari provenienti dal nord mentre l’impero gupta crollò sotto
gli attacchi degli Unni. Gli Unni migravano verso Occidente verso l’Asia centrale, causando una serie di
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spostamenti a catena nel mondo barbarico. Si spostarono gli Alani fino a incontrare Vandali e Svevi,
dannose per l’imperò furono però le migrazioni dei Visigoti, che nel 378 sconfissero ad Adrianopoli
l’imperatore Valente e che nel 410 arrivarono a saccheggiare Roma. Tale pressione verso Occidente aveva
ormai portato a cedere le difese romane; iniziava così il periodo delle “invasioni barbariche” o delle “grandi
migrazioni di popoli”.
E’ dall’incontro fra il mondo latino e quello germanico, realizzatosi con le invasioni, che nacque la civiltà
medievale. Le popolazioni nomadi erano dedite perlopiù all’allevamento, avevano superato lo stadio delle
società più primitive, benché la loro esistenza dipendesse ancora quasi totalmente dalla distribuzione delle
risorse spontanee. Essi si spostavano stagionalmente col bestiame per sfuggire alla stagione arida. In
genere è dall’ambiente circostante che ottenevano riparo, indumenti e nutrimento; vivevano perlopiù di
armenti (carne e latte) che integravano con la caccia e con la raccolta di piante selvatiche. Vivevano in
abitazione offerte dall’ambiente, gli Unni e gli Alani avevano abitazioni mobili su carri protette da tende di
pelli o da corteccia (casa su ruote). Problema principale per questi popoli era soprattutto quello di trovare
un equilibrio fra la scarsità di risorse e la loro notevole consistenza numerica. Uno dei modi per ovviare a
questo problema era la razzia: non solo rimedio per le situazioni più difficile, ma vera e propria attività
economica che integrava l’allevamento. Essa permetteva di procurare quei prodotti che essi altrimenti
ottenevano solo con gli scambi commerciali.
La società di questi popoli, e degli Unni in particolare, era organizzata in tribù. Ognuna di queste era
organizzata in vari clan (gruppi di famiglie con un antenato comune) e il loro insieme costituiva l’intera
popolazione. Nucleo di questa società era la famiglia, che viveva in una singola kibitka (casa su ruote).
Inizialmente gli Unni non avevano un monarca, eleggevano un numero vario di condottieri (capi di guerra),
scelti in assemblee, soltanto in tempo di guerra. Se questo popolo poco sviluppato mise in crisi l’impero
romano, ciò è dovuto alla conquista che essi riportarono nel 376 quando, con l’aiuto degli Alani,
sottomisero gli Ostrogoti. Poterono così sfruttare questo popolo, che da tempo praticava un’agricoltura di
tipo sedentario, e sfruttare queste risorse per sostentare un gran numero di guerrieri.
Ben maggiore però fu l’importanza assunta dalle popolazioni barbariche di origine germanica, spinte dagli
Unni all’interno dei confini dell’impero romano. Con il termine “Germani” si intendono numerose
popolazioni, che a metà del IV secolo occupavano l’area a nord dell’impero, fra il mar Nero e il mare del
Nord. Erano popolazioni fra loro anche molto diverse, ma con alcune caratteristiche comuni. Non si trattava
propriamente di popoli nomadi: la loro agricoltura, benché poco sviluppata, costituiva una parte
importante della loro economia. Conoscevano le tecniche della tessitura, della lavorazione del metallo e
della ceramica; frequenti erano gli scambi commerciali col popolo romano, basati di solito sul baratto. Si
trattava però di un’economia piuttosto fragile, gli arativi erano in genere bassi e questo portava a fare della
razzia e della guerra delle attività economiche per loro di primaria importanza. Tendevano quindi ad avere
una certa stabilità territoriale, benché, in certe situazioni, alcuni popoli abbandonassero del tutto i loro
territori per traferirsi a grande distanza. Era la migrazione vera e propria (Wanderung) che poteva portare a
suddivisioni o aggregazioni di popoli (vd etnogenesi).
Nel I a.C. l’organizzazione, gli usi e i costumi dei Germani, non erano molto distanti da quelli delle tribù
Unne del IV d.C. Non vi era proprietà privata della terra ed esisteva il possesso privato solamente di schiavi
e bestiame. Ogni anno il consiglio dei capi tribù distribuiva ai vari clan le terre che dovevano essere arate,
lasciando a maggese i campi coltivati l’anno precedente (rotazione biennale). L’entità economica di base
non era dunque la famiglia ma il clan: aratura, mietitura e raccolto erano in comune e ciò evitava
l’emergere di forti diseguaglianze sociali. Non vi era in tempo di pace alcuna autorità che si estendesse
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sull’insieme dei clan e non vi erano istituzioni con carattere coercitivo. In caso di guerra il consiglio dei capi
clan convocava l’assemblea dei guerrieri che eleggeva un certo numero di condottieri (capi di guerra).
Già alla fine del I d.C. erano avvenute trasformazioni profonde. Il clan non era più l’entità basilare ed era
scomparsa l’abitudine di lavorare la terra in comune. La distribuzione delle terra avveniva ora secondo il
rango; esse erano distribuite fra individui singoli e non fra i clan. Si andavano così affermando
differenziazioni economiche e sociali. Le cause non sono certe, esse furono probabilmente dovute
all’incremento del baratto privato con le regioni dell’impero e poi dal passaggio ereditario da un uomo ai
suoi figli e non all’intero clan. La famiglia monogamica si andava rafforzando ai danni del clan.
Si ruppe inoltre l’equilibrio istituzionale dei tre organi amministrativi. In primo luogo emerse lentamente la
figura di un re elettivo al posto dei capi di guerra; l’assemblea dei guerrieri tendeva oramai a eleggere un
unico capo che restava in carica per la durata di una sola guerra. Non aveva però alcun potere coercitivo e il
suo peso dipendeva soprattutto della sua persona e dalle sue qualità. Le tradizionali strutture di governo
delle società tribali erano in crisi; fu di grande importanza la nascita della clientela armata (comitatus). Ogni
capo equipaggiava militarmente e sfamava, anche in tempo di pace, la propria clientela militare. Lo
sviluppo delle clientele armate portò a due importante trasformazioni sociali: il bottino veniva diviso fra i
comitati e ciò incrementò le disparità economiche facendo di queste clientele una classe privilegiata.
Inoltre il potere militare iniziava ad essere indipendente dal controllo dell’assemblea degli armati.
Più tardi, fra IV e V secolo, le diverse popolazioni germaniche hanno in comune una forte importanza data a
due istituzioni: il re e l’assemblea del popolo in armi. Sopravvive, per il resto, una pluralità di orientamenti
istituzionali. Ora però, le clientele non si finanziano più sulle loro razzie, bensì sull’esercizio del potere
militare in favore dell’impero romano.
Per ciò che riguarda la cultura invece, presso i Germani, i giovani ricevevano una rude educazione di
contadini e guerrieri (vd esercizi fisici). Non esistevano scuole: la cultura intellettuale era completamente
estranea al mondo germanico, benché esistesse una loro scrittura, quella runica, legata alle pratiche
magiche e conosciuta solamente dai sacerdoti. Avevano subito un processo di acculturazione a contatto col
mondo romano, i Goti aderirono all’Arianesimo spinti dalla predicazione di Ulfila che aveva tradotto la
Bibbia nella loro lingua (il gotico assume dignità letteraria). La religione germanica era di tipo politeistico,
ma si mostrava più debole nelle aree confinanti esposte alla influenza culturale romano-cristiana.
Ma la pressione germanica all’impero non avveniva soltanto dall’esterno, crebbe nel corso nel IV secolo il
numero di elementi germanici nell’esercito imperiale. Vi erano anche importanti ufficiali, che presto
salirono fino ai gradi più alti, diventando così anche senatori. Si formò così, all’interno dello Stato romano,
un antagonismo fra gli ufficiali militari e quelli civili, separati sin dal tempo di Diocleziano. Vi erano però
anche occasioni di convergenza in vista di interessi comuni. Un caso di questo tipo è quello di Stilicone,
figlio di un generale vandalo, aveva fatto la carriera militare fino a diventare stretto collaboratore di
Teodosio. Alla sua morte tentò una politica conciliante verso i Visigoti di Alarico, dopo averli battuti a
Pollenzo tentò di legarli all’impero come alleati. Venne però osteggiato anche da Onorio e successivamente
ucciso. Tuttavia la debolezza militare non permise alla reazione antigermanica di svilupparsi in Occidente,
mentre l’Oriente non tollerò più la presenza di foederati entro i confini dell’impero. La crisi seguita alla
morte di Stilicone lasciò aperta la strada ai Visigoti di Alarico che, nel 410, arrivarono a saccheggiare Roma.
L’Occidente nel V e nel VI secolo: i regni romano-germanici
La marea di popolazioni germaniche riversatasi verso ovest cambiò profondamente la storia di quest’area, a
Oriente invece l’impero riuscì a conservarsi e divenne sempre più antigermanico. Dopo il crollo dell’impero
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romano d’Occidente si sviluppano i cosiddetti regni romano-germanici. E’ dall’incontro fra le popolazioni
germaniche e quelle locali che nacque il mondo medievale. Vi sono alcuni punti fondamentali per
comprendere questo periodo:
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La storia di questi regni è strettamente connessa al problema dei rapporti fra i Germani e le
popolazioni locali, in particolare con l’aristocrazia senatoria e l’episcopato cattolico. Assume grande
importanza il problema religioso, la fede ariana diventa un modo per distinguersi dei popoli barbari.
L’episcopato cattolico si sforzò di assimilare questi popoli culturalmente e di convertirli; il primo di
questi a convertirsi al cattolicesimo fu quello dei Franchi col re Clodoveo. Il regno franco diventava,
grazie agli stretti rapporti fra le aristocrazie dei due popoli, il più solido dei regni latino-germanici.
Insediandosi nell’impero i Germani tendevano ad imitare i modi di vita delle popolazioni locali e si
trasformarono. I contadini guerrieri divennero proprietari terrieri e le aristocrazie militari divennero
aristocrazie fondiarie. Si andavano inoltre formando veri e propri regni, territorialmente compatti e
con solide strutture amministrative.
Tuttavia la guida di questi nuovi regni pose ai capi militari germanici nuovi problemi. Sopravvisse la
imponente struttura amministrativa romana, indispensabile alle gestione del governo. Le città
rimangono il punto di riferimento delle strutture amministrative pubbliche ed ecclesiastiche
mentre scompaiono lentamente la scuola pubblica e l’organizzazione fiscale.
Già nella prima metà del V secolo le invasioni diedero vita ai primi regni romano-germanici nelle aree delle
vecchie provincie imperiali. Il primo di questi fu il regno dei Visigoti; essi nel 418 si stanziarono nella Gallia
sud-occidentale secondo il regime della hospitalitas che prevedeva la loro sistemazione su terre tolte ai
precedenti proprietari romani ma che faceva sopravvivere le precedenti strutture amministrative.
Successivo è il regno dei Suebi, che a metà del V secolo controllavano ormai la Galizia, la Lusitania e la
Betica nella penisola iberica. I Vandali abbandonarono la Spagna e vennero accettati in Africa come
federati. Nella Gallia settentrionale ed orientale stava invece nascendo il nuovo regno dei Burgundi, che
vennero però sconfitti e quindi traferiti come federati nell’odierna Savoia. Sono questi i cosiddetti regni
romano-germanici della “prima generazione” (prima metà del V secolo).
La corte imperiale, ora stabilita a Ravenna, cercava di salvare il salvabile, opponendo ora questi popoli fra
loro, legandoli ora come federati (conservavano il loro diritto e le loro organizzazioni, solo i re trattavano
con Roma). Per sostenere questi popoli si ricorreva al sistema dell’hospitalitas: funzionari e militari
godevano di buoni alimentari e di carte d’alloggio. Questa inizialmente prevedeva una requisizione
temporanea di un terzo delle abitazioni romane, successivamente però divenne definitivo e portò
all’insediamento duraturo dei soldati germanici su una parte delle terre dei proprietari romani.
La politica di convergenza fra barbari e romani fu in generale fruttuosa: essa fece stanziare le popolazioni
barbare in alcune aree spesso distanti dalla penisola italica e permise di ottenere dai barbari un
importantissimo sostegno militare. Il generale Ezio si avvalse dei Germani contro gli Unni e riuscì nel 451 a
sconfiggere Attila in Gallia. L’anno successivo essi però misero in pericolo l’Italia, ma, temendo un attacco
da Bisanzio, si ritirarono. Il fragile impero unno si dissolse però poco dopo la morte di Attila (453), anche
per via delle rivolte di Ostrogoti e Gepidi.
Non finirono però le difficoltà per l’impero (ormai ridotto alla sola Italia), nel 455 Roma fu saccheggiata dai
Vandali di Gianserico stabiliti a Cartagine. Gli imperatori venivano eletti o destituiti dalle forze romanobarbariche o romano-bizantine ed erano ormai tali solo di nome. Nel 476 Romolo Augustolo fu deposto da
Odoacre, un ufficiale di origine scira eletto re dalle genti germaniche in Italia che volevano gli stessi privilegi
dei federati. Con Odoacre le insegne imperiali furono rimandate a Bisanzio, per indicare le ricostituzione
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dell’unità imperiale. Oramai però si era in realtà di fronte al tramonto definitivo dell’autorità imperiale in
occidente; per questo il 476 è generalmente adottato come data di inizio per il Medioevo. Odoacre stabilì
buoni rapporti con l’aristocrazia senatoria, che, grazie ai suoi latifondi, esercitava una completa egemonia
rispetto ai piccoli possessori e all’intera popolazione rurale. Egli riconobbe l’impero di oriente, esercitando
in Italia la dittatura militare. Il suo non fu affatto un regime sovvertitore dell’ordine presente, seguì invece il
modello di convivenza fra il potere militare germanico e il predominio economico del ceto senatorio.
Verso il 480, durante il regno di Odoacre in Italia, sopravvivevano tutti i regni romano-germanici della prima
generazione:
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Il regno dei Vandali, col suo centro in Africa
Il regno dei Visigoti, stanziati nelle regioni orientali e centromeridionali della Spagna e nella Gallia
meridionale
Il regno dei Suebi nelle regioni nord-occidentali della penisola iberica
Il regno dei Burgundi nel bacino del Rodano
Vi erano inoltre, molte altre entità minori, il cui equilibrio fu rotto dall’entrata in scena di Franchi e
Ostrogoti che costituirono il loro regno rispettivamente su Gallia e Italia. Il problema fondamentale per
questi regni era il rapporto dei Germani con le popolazioni locali, in particolare con il ceto senatorio e
l’episcopato cattolico. Ad aver maggiore stabilità furono quei regni in cui si attuò una politica di
compromesso con i latifondisti romani e in cui i Germani si convertirono al cattolicesimo (vd rapida fine del
regno Vandalo e l’opposto esempio Franco). L’incontro con le istituzioni romane innalzò i re germanici a
nuove funzioni; egli non era più solamente un capo militare ma esercitava la propria autorità su regioni
definite che conservavano le strutture amministrative del passato impero romano. Tuttavia la situazione
era complicata dal fatto che si applicava il regime di personalità delle leggi, per cui su un territorio non
vigeva un'unica legislazione, ma ogni popolo seguiva la propria. Vi erano così, in ogni regno, due diritti
nazionali: romano e germanico, ed ogni popolo seguiva il proprio. L’esistenza di questi regni portò a
profondi cambiamenti presso i popoli germanici: da contadini guerrieri essi diventarono popoli di
proprietari terrieri, le aristocrazie militarie divennero aristocrazie fondiarie. L’antica bipolarità regnopopolo (il re era eletto in assemblee) divenne una bipolarità fra re e nobiltà.
Il regno dove la convergenza fra capi militari germanici e latifondisti gallo-romano fu più profonda, fu quello
franco. Questo assunse una fisionomia unitaria a partire del 482, quando Clodoveo (dinastia Merovingia)
divenne re del loro principale regno, quello di Tournai. Egli ampliò i propri domini occupando la Gallia,
eccetto le sue coste mediterranee. Alla sua morte i Franchi controllavano un vasto territorio dall’Atlantico e
i Pirenei fino al di là del Reno che tuttavia non coincideva con l’antica Gallia. A favorire questa repentina
espansione furono soprattutto i buoni rapporti con l’aristocrazia gallo-romana e con l’episcopato cattolico
(Clodoveo si era convertito, con tutto il suo popolo, al cattolicesimo). Il re assunse a grandi responsabilità,
ignote al mondo germanico e il regno sviluppò forme accentrate di potere statale. Nel VI secolo i sovrani
franchi erano ormai molto diversi dai capi militari dei primitivi regni germanici; per governare essi
imitarono le istituzioni romane, si circondarono di una corte e di una guardia, mantennero l’ordinamento
pubblico per circoscrizioni.
In Italia nel 489 gli Ostrogoti di Teodorico entrarono in Italia per stanziarsi qui stabilmente, secondo il
sistema dell’ospitalità. Odoacre fu abbandonato dall’aristocrazia e dall’episcopato, che ritennero il re
ostrogoto più disponibile all’incontro fra latifondisti e potere militare. Sconfitto il vecchio re, nel 493
Teodorico divenne sovrano. Gli Ostrogoti erano una minoranza rispetto al ceto dei possessori, ma erano
una minoranza armata e con una sua forte identità. Si creò un parallelismo fra due società fra loro distanti e
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ne derivarono due sistemi amministrativi paralleli. Il reciproco legame fra questi era costituito dalla figura
del principe, re per gli uni, rappresentante dell’impero per gli altri. Inizialmente i rapporti fra le due
popolazioni furono caratterizzate da un grande equilibrio; più tardi però la politica di Teodorico entrò in
crisi sul terreno religioso. Egli abbondonò quindi la vecchia politica conciliante e colpì i senatori che erano
più vicini alla politica di Bisanzio. L’incarcerazione di Papa Giovanni I fu però un grave errore politico che
portò forti tensioni fra la popolazione gota e quella romano-cattolica. Alla sua morte di Teodorico lasciava
un regno in grave crisi su cui l’Oriente rivolgeva le sue ambizioni. Il nuovo imperatore Giustiniano avviò
quindi la riconquista dell’Italia, che diede inizio alla durissima guerra greco-gotica.
Che cosa restava di Roma? L’arrivo dei germani non sommerse le strutture organizzative e la cultura su cui
si reggeva la complessa civiltà del mondo antico. Anzitutto le popolazioni barbare erano molto meno
numerose di quelle romanizzate che vivevano da secoli nei territori dell’impero. La sopravvivenza della
romanità fu inoltre possibile grazie al regime di ospitalità, che permetteva la conservazione delle
precedenti strutture amministrative, agrarie, politiche e sociali. I nuovi re utilizzarono largamente i metodi
romani per governare e ovunque essi conservarono l’imposta fondiaria (dai cui però clero e germani erano
esonerati). Furono però molte le rivolte antifiscali e, alla lunga, i tentativi di far funzionare l’antica
organizzazione fiscale si rivelarono fallimentari. Così come si indeboliscono le grandi strutture del mondo
romano, allo stesso modo perdono di importanza e scompaiono come centri di consumo le città. Esse
vedono diminuire molto la loro consistenza demografica ma rimangono un punto di riferimento
amministrativo, commerciale e religioso (qui risiedono i conti, rappresentanti del re, e i vescovi).
Nell’Italia ostrogota e nell’Africa vandala sopravvivono anche le scuole cittadine, in Gallia e Spagna esse
scompaiono ma la conoscenza delle opere dell’antichità rimane viva sino al VII secolo grazie alla aristocrazia
gallo-romano o ispano-romana. Cresce sempre di più però l’importanza data all’educazione militare, la
scuola antica scompare via via che procede l’assimilazione dell’aristocrazia romana da parte della
componente germanica, finché non tramonta definitivamente nel VII secolo. La cultura classica non muore,
ma viene trasmessa grazie ai letterati cristiani che la utilizzano per ampliare le proprie conoscenze.
Personaggi di spicco della cultura di questo periodo sono generalmente vescovi (vd Isidoro), la cultura
antica si trasforma col tempo in una cultura cristiana ecclesiastica.
L’impero restaurato di Giustiniano
L’Impero d’Oriente riesce definitivamente a liberarsi dalla pressione dei Germani e a sopravvivere fino al
1453, quando Costantinopoli verrà presa dai Turchi. Questo impero è però sempre più diverso dall’antico
stato romano e mostra di costituire una civiltà specifica, quella bizantina. Questo mondo ha le sue origini
nell’età di Diocleziano e Costantino, per tre motivi:
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Le riforme di questi imperatori mutano profondamente la struttura della società romana
La religione cristiana diventa una componente fondamentale dell’impero
Si gettano le basi del profondo legame fra Stato e Chiesa che caratterizzerà Bisanzio
La Chiesa, nel mondo bizantino, viene sempre più subordinata al potere imperiale; è il cosiddetto
cesaropapismo, per cui l’imperatore assume potere anche in campo spirituale. Il mondo bizantino prosegue
dunque quello romano, ma su basi parzialmente nuove. Questo era uno stato ben organizzato, con una
solida burocrazia, un efficiente sistema fiscale, un esercito permanente, scuole ed una forte flotta. Esso
inoltre aveva al suo interno diversi popoli, ma forti di una comune identità.
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L’eredità romana portava con se anche alcuni problemi, in particolare quello germanico e quello religioso:
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Soprattutto nella seconda metà del V secolo preoccupò la pressione degli Ostrogoti stanziati in
Pannonia che vennero però diretti verso occidente. Furono invece deportati gli Isauri, chiudendo
così le crisi etniche che fino ad allora avevano travagliato l’impero.
Le dispute di carattere religioso mettevano in pericolo la pace sociale e si legavano talvolta a
tendenze autonomistiche locali. Il monofisismo era infatti forte in Egitto e Siria, ma l’atteggiamento
imperiale nei suoi confronti fu altalenante. Vennero inoltre evangelizzati i popoli non cristiani: il
cristianesimo avanzò sulle rive del Danubio, del Mar Nero e in Africa.
Giustiniano divenne non solo un protettore di Roma, ma anche un capo fermo e potente. Tuttavia la sua
politica religiosa di conciliazione col monofisismo fallì e la tensione aumentò. Ebbe inizio lo “scisma di
Aquilea”, destinato a durare 150 anni circa, quando alcuni vescovi del nord non riconobbero papa Pelagio
(556-560), allineato alla politica imperiale.
Nella vita religiosa di quei secoli ebbe grande importanza il monachesimo, che all’epoca di Giustiniano
conobbe una delle sue esperienze più significative con Benedetto da Norcia (480-543), fondatore del
monastero di Montecassino. Esisteva già tuttavia una preesistente tradizione: il monachesimo ebbe origine
dalle esperienze religiose degli eremiti che fra III e IV secolo praticavano una vita ascetica di isolamento,
rinunce e meditazione nei deserti d’Egitto, nel desiderio di realizzare un ideale di martirio (=testimonianza).
Un secondo grande momento fu lo sviluppo e la diffusione dei cenobi, comunità monastiche desiderose di
incarnare l’ideale evangelico di perfezione e penitenza (Pacomio a fine III secolo stila la prima regola
comunitaria). In Occidente queste comunità si diffusero sulle coste della Provenza prima e successivamente
anche oltre i confini dell’impero, nel mondo celtico dell’Irlanda. Qui la sua diffusione fece tutt’uno con
l’evangelizzazione dell’isola, iniziata da San Patrizio nel 432.
La nuova forma di vita monastica, proposta da Benedetto con la sua Regola, nei primi decenni del VI secolo,
fu estremamente importante. Essa ha tre caratteristiche essenziali:
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Il senso della misura: la forma di vita proposta è vicina al costume quotidiano del tempo. Benedetto
attinse da altre regole e il suo forte senso di moderazione e misura permise la diffusione della sua.
L’importanza attribuita alla lettura e allo studio. I monasteri hanno una loro biblioteca e
successivamente anche una scuola, i monaci si dedicano a ricopiare i loro manoscritti permettendo
la conservazione e la trasmissione della cultura.
L’importanza attribuita al lavoro manuale. Oltre che alla preghiera, la vita quotidiana doveva essere
consacrata al lavoro manuale, interpretato come una forma di ascesi. Le abbazie possedevano una
loro proprietà che permettesse loro di mantenerla indipendente dall’esterno.
Solo in un secondo momento, a partire dalla fine del VI secolo, i monaci si dedicarono ad attività di
evangelizzazione.
L’alleanza di Giustiniano col papa e la ricerca di unità del mondo cattolico non erano che la premessa
dell’ampio progetto di riconquista dell’Occidente. Le condizioni erano favorevoli e le guerre di riconquista
furono effettuate appoggiandosi ai latifondisti e ai gruppi di mercanti interessati al commercio
internazionale. Anzitutto fu riconquistato il regno vandalo, fra il 533 e 534, dove furono restaurati i rapporti
sociali anteriori alla loro occupazione. Il recupero dell’Italia fu avviato nel 535 dal generale Belisario, ne
derivò l’estenuante e difficile guerra greco-gotica. Dopo vent’anni di battaglie l’Italia fu recuperata e
vennero restaurati gli antichi rapporti sociali. Il dominio bizantino durò però poco: poco dopo i Longobardi
avrebbero conquistato larga parte della penisola. Infine Giustiniano riprese la parte meridionale della
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penisola iberica dai Visigoti. Il Mediterraneo tornò ad essere un mare interno dell’impero; Bisanzio poteva
così garantire la sicurezza delle comunicazioni navali, favorendo le attività commerciali. Se queste
riconquiste erano state possibile, ciò era però dovuto all’imponente macchina statale di Giustiniano, la cui
opera si articolò su tre livelli:
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Riscossione regolare delle imposte L’alta pressione fiscale sfavorì però i piccoli proprietari e portò
all’estensione dei latifondi.
Centralizzazione e potenziamento della burocrazie Non ci furono grandi rinnovamenti e persistette
la suddivisione fra potere civile e militare.
Riorganizzazione della legislazione Questa diede un fondamento autocratico all’imperatore la cui
volontà era dichiarata legge suprema. Il risultato finale di questo lavoro fu il “Corpus iuris civilis”
comprendente: le “istituzioni”, il “codice giustinianeo” (raccolta editti imperiali in vigore da
Adriano), il Digesto (raccolta dei pareri dei più autorevoli giuristi) e le Novelle (leggi promulgate da
Giustiniano stesso). Tale opera ebbe un’importanza fondamentale, fu alla base di tutta la
legislazione bizantina e influenzò moltissimo quella europea, a partire però dal XII secolo.
Su Giustiniano i pareri sono discordanti ma perlopiù negativi. Fra i contemporanei ha generalmente
prevalso un atteggiamento critico. Benché ottenne alcuni risultati sul piano commerciale e legislativo, non
riuscì infatti a rigenerare il vecchio stato romano. Fallì nei suoi tentativi di riportare l’unità religiosa e le
difficili campagne militari ebbero risultati effimeri e lasciarono l’impero esausto. Presto questo avrebbe
subito gravissime perdite territoriali.
Tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo l’impero fu attraversato da due fenomeni di rilievo: una crisi interna
provocata da guerre civile e rivolte e l’incapacità di difendere le frontiere dalle minacce dei popoli
confinanti. L’Italia fu in gran parte conquistata dai Longobardi (568), la Spagna invece tornò sotto il dominio
visigoto (584). Nei Balcani si riversarono alcune tribù slave che ne presero stabilmente il possesso. Queste
enormi perdite territoriali spostarono definitivamente il baricentro dell’impero verso Oriente.
Se i bizantini riuscirono a conservare parte dei loro possedimenti in Occidente, questo fu grazie alle riforme
dell’imperatore Maurizio che non rispettò più la separazione fra potere civile e militare fino ad allora
seguita. Istituì due luogotenenze militari (Ravenna e Cartagine) con a capo due esarchi (comandanti) per
amministrare quanto rimaneva dei possedimenti in Italia e Africa. Successivamente con Eraclio si impose il
sistema dei “temi”. Un tema era un’unità amministrativa a carattere militare al cui vertice c’era uno
stratega che esercitava il potere massimo sia nell’ambito civile che in quello militare; ai soldati fu data la
proprietà privata dei fondi in cambio del servizio militare ereditario. Ci vollero però circa tre secoli prima
che tutto l’impero passasse completamente alla nuova organizzazione. In questo modo l’impero non
doveva più assoldare mercenari, ma aveva a disposizione truppe più economiche e “motivate”, inoltre si
rafforzò la piccola proprietà. L’impero inoltre riuscì, anche grazie al sostegno della Chiesa greca, a
sconfiggere i Persiani e a riconquistare i territori persi. Il grande lascito di Eraclio sta però nella sua riforma
militare e amministrativa che pose le basi dello Stato bizantino medievale.
Il sorgere della potenza araba e le trasformazioni dell’impero bizantino
Nella prima metà del VII secolo la predicazione di Maometto diede origine ad una nuova religione, l’Islam.
Si possono individuare alcuni punti importanti per la sua diffusione e le sue conseguenze:
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L’islam riuscì a trasformare le bellicose tribù beduine del deserto in un popolo unito dalla fede in un
unico Dio e guidato da un solo capo.
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Questo popolo si trasformò presto in un popolo di conquistatori: gli Arabi, in meno di un secolo,
costruirono un impero vastissimo.
L’espansione araba fu un fatto di fondamentale importanza: il Mediterraneo, pur restando un area
di traffici relativamente importante, decadde (vd Pirenne). Il fulcro politico-economico della
cristianità si spostava quindi a settentrione.
Se questa rapida espansione fu possibile ciò è dovuto sia alla volontà araba che alla fragilità delle
dominazione confinanti dove le popolazioni locali erano insoddisfatte per l’altra pressione fiscale e le
persecuzioni religiose (vd monofisiti in Siria ed Egitto). L’impero arabo si mostrò inoltre solido e duraturo,
grazie all’efficiente amministrazione centrale dei califfi, modellata sull’esempio dello Stato bizantino
(eredità romana ed orientale). Dalla metà del VII secolo i califfi non sono più elettivi, ma si trasmettono il
potere in via ereditaria. Nello stesso tempo l’impero d’Oriente subisce gravi amputazione territoriali e si
avvia a diventare uno stato greco. Solo più tardi, fra IX e X secolo, riuscirà ad avviare una fase di riconquista.
Importante, in questo periodo, è soprattutto lo sviluppo e l’ascesa delle città.
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Tra la fine del VI secolo e gli inizi del VII l’Arabi preislamica era perlopiù arida e popolata da nomadi (beduini
arabi) mentre a sud vi erano alcuni sedentari dediti all’agricoltura. Società ed economia dei beduini
avevano alcuni caratteri importanti:
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L’organizzazione sociale e politica non andava generalmente oltre la tribù.
Rispetto alla religione vi era un complessa politeismo: ogni tribù era dotata di propri dei e di
modesti santuari. Vi erano anche alcune comunità di ebrei e cristiani e alla Mecca emergevano le
prime tendenze ascetiche e monoteiste.
I santuari erano un importante punto di incontro fra le varie tribù, oltre che fra sedentari e nomadi.
Oltre a essere un importante centro religioso erano dunque centrali anche nella sfera economica
(vd alla Mecca il santuario della Kaaba).
L’Arabia mostrava segni di trasformazione, si attenuavano le chiusure sociali e si sviluppavano scambi e
commercio. Iniziavano ad emergere tendenze verso quell’unità religiosa e politica poi tradotta in realtà da
Maometto. La predicazione di questi iniziò verso il 610 alla Mecca, egli diceva di parlare in nome di Allah,
divinità meccana, che egli presentava come il Dio unico. Il fulcro del suo messaggio consisteva proprio nella
perentoria affermazione dell’unicità di Dio. La sua predicazione non voleva però scardinare gli assetti sociali
del tempo; i riti del popolo erano rispettati e la ricchezza considerata legittima (purché usata a buon fine e
non ottenuta tramite usura). L’Islam però trovò riscontro nelle aspettative della classi più umili e fu per
questo osteggiato dai Quraysh (tribù molto potente alla Mecca) che perseguitò la comunità maomettana.
Nel 622 avvenne una svolta fondamentale: Maometto e la sua comunità abbandonarono La Mecca e si
trasferirono a Medina (prima Yatrib). Si trattava della egira, che segnò l’inizio dell’era musulmana. Questa
segnava la scissione dal vecchio stato ed apriva una fase nuova per la predicazione maomettana. Furono
fondamentali i dieci anni che vanno dall’egira alla morte di Maometto (632), nei quali la nuova religione si
legò profondamente al mondo arabo attraverso tre progressivi momenti.
1. Il primo fu la rottura definitiva della nuova religione con il giudaismo ed il cristianesimo. Le
preghiere non sarebbero più state rivolte verso Gerusalemme bensì verso la Kaaba, venne
introdotto il venerdì al posto del sabato, abbandonato il divieto di poligamia e il ramadan divenne il
mese del digiuno.
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2. La nuova religione si legò alla precedente tradizione beduina della razzia. Questa fu elevata
lentamente al ruolo di guerra santa (gihad) contro i nemici dell’Islam e divenne un importante nodo
di raccordo col vecchio mondo dei beduini.
3. Infine nel 630 le truppe del profeta rientrarono armate alla Mecca e si impadronirono della città. Fu
recuperata la Kaaba dove vennero distrutti numerosi idoli. I mercanti si convertirono
progressivamente alla nuova religione.
Nel 632 l’Arabia risultava per la prima volta unita ed in uno stadio politico ormai superiore a quello tribale.
La nuova società si fondava su basi religiose e non più sugli antichi legami di sangue: benché il
particolarismo non fosse del tutto superato il profeta aveva affermato la propria autorità sulle diverse tribù.
Le leggi essenziali dell’Islam si fondavano sugli insegnamenti di Maometto, prima tramandati oralmente e
poi raccolti dai suoi immediati successori nel Corano. Più tardi venne aggiunto un supplemento alla
rivelazione, la Sunna, per definire una regola di governo. La nuova fede si basava su due semplici dogmi: “il
solo Dio è Allah” e “Maometto è il suo messaggero, l’ultimo e il più grande dei profeti”. Era un monoteismo
semplice, rigoroso e senza compromessi che prevedeva “cinque precetti fondamentali” (i cosiddetti
“pilastri dell’Islam” per poter accedere al paradiso. Essi erano quelli di:
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Credere nei due dogmi fondamentali
Pregare cinque volte al giorno rivolti verso La Mecca
Digiunare dall’alba al tramonto nel mese di Ramadan
Andare in pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita
Pagare l’elemosina legale (zakat)
Il fatto che molte di queste pratiche prevedessero un’osservanza collettiva stimolò il senso di fratellanza e
di solidarietà. Il messaggio maomettano si adattava al vecchio mondo beduino ma lo organizzò in modi
nuovi. Infine Maometto non riteneva che l’Islam si dovesse propagandare attraverso la guerra, solo più
tardi la gihad fu innalzata dai Khargiriti a sesto pilastro della fede.
La prima fase dell’espansionismo araba è quella immediatamente successiva alla morte di Maometto.
Rispetto al problema della sua successione emersero tre fazioni: i compagni del profeta volevano scegliere
uno dei suoi primi e più fedeli seguaci, i “legittimisti” (o Sciiti) volevano applicare un criterio dinastico ed
eleggere il genero del profeta Alì, i Sunniti si ritenevano una comunità unita dalla tradizione e sostenevano
la potente famiglia degli Omayyadi. Nei trent’anni successivi (periodo del califfato elettivo) ogni fazione
riuscì a eleggere almeno un successore di Maometto. I quattro califfi furono Abu Bakr, Omar (eletti con
l’aiuto dei “Compagni”), Othman (sostenuto dagli Omayyadi) e infine Alì. Per evitare l’emergere di
particolarismi territoriali si avviarono numerose conquiste esterne destinate ad un enorme e rapido
successo a danno dell’impero Bizantino e di quello Persiano. Furono conquistati l’Iraq, il nord-ovest africano
e la Siria; cause di quest’espansione furono l’entusiasmo religioso e la debolezza degli avversari.
Furono tre i fattori che permisero agli Arabi di rendere stabili le loro conquiste:
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L’organizzazione di un’efficiente amministrazione statale, costruita sul modello romano-bizantino e
su quello persiano.
Il califfato divenne col tempo erede di un potere monarchico e assoluto. Si crea una classe di
proprietari terrieri arabi, esenti dall’imposta fondiari, che avrebbe costituito la clientela degli
Omayyadi.
I soldati arabi si radicano nelle provincie del loro impero e diventano proprietari fondiari, favorendo
così il loro radicamento. Esisteva poi una classe protetta, dei “dhimmi”, protetti dagli arabi ma
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soggetti al pagamento di imposte; più avanti emerse anche quella dei “mawàli”, dei non arabi
convertiti all’islamismo.
Quando nel 660 andò al potere Muawija, iniziò la fase del califfato ereditario e della dinastia degli
Omayyadi. Si aprì così una seconda fase di espansione per l’impero arabo, che a est giunse a confinare con
la Cina, si impadronì di tutto il nord-Africa e della Spagna, dove abbatté il regno visigoto. Queste conquiste
posero fine al dominio della cristianità sul Mediterraneo, che ne divenne la frontiera meridionale. L’impero
risultò però presto diviso da lotte politico-religiose, nel 750 una rivolta armata fece cadere gli Omayyadi e
pose al potere la famiglia degli Abbasidi, che avrebbe governato l’impero fino alla sua caduta nel 1258. In
Spagna nacque un emirato indipendente retto dagli Omayyadi, in Marocco, Tunisia ed Egitto ne sorsero
altri che caddero presto sotto il controllo della famiglia sciita dei Fatimidi. Si andava rompendo l’unità
islamica.
Per ciò che riguarda l’organizzazione e l’amministrazione nel VII secolo non era cambiato molto nei territori
conquistati. All’inizio dell’VII il califfo omayyade Abd-al-Malik avviò l’arabizzazione dell’amministrazione
pubblica: l’arabo divenne la lingua ufficiale e furono immessi negli uffici funzionari arabo-musulmani.
Quest’organizzazione avrebbe caratterizzato anche nei secoli successivi il mondo musulmano. Inoltre
l’unificazione di questi immensi territori favorì fortemente lo sviluppo e la crescita delle città, che
favorirono notevoli trasformazioni culturali. La cultura araba si unì a quella bizantina e continuò la
tradizione ellenistica: vennero tradotte e diffuse numerose opere dei grandi filosofi e medici del mondo
antico. Gli arabi diedero grande sviluppo alla matematica, all’astronomia ed alla filosofia (vd più tardi
Avicenna ed Averroè).
Per quanto riguarda l’impero bizantino, fra VIII e XI secolo esso perse numerosi possedimenti a causa
dell’espansione araba e si ridusse alla sola zona periferica del mar Egeo. Vennero avviati alcuni importanti
cambiamenti amministrativi: le vecchie prefetture furono sostituite dalle quattro logotesie (ministeri) di
affari interni ed esteri, dell’esercito, delle finanze e degli affari imperiali. Fu centralizzata l’amministrazione
dei temi e gli strateghi furono posti alle dipendenze dirette dell’imperatore. Le perdite territoriali
portarono alla crisi le grandi proprietà, si rafforzò invece la classe dei contadini liberi e dei soldati-contadini
(stratioti). Infine era molto florida la chiesa orientale, che ebbe in certe fasi forti dissensi con l’impero. La
tensione più acuta si ebbe durante l’iconoclastia, la dura lotto contro il culto delle icone, molto diffuso
presso il popolo, ma osteggiato nelle regioni più orientali. L’iconoclastia venne meno col finire del pericolo
arabo, ma causò un ulteriore allontanamento del papato e la perdita dei possedimenti bizantini in Italia. Fra
IX e X secolo, finita l’iconoclastia, si capovolsero alcune linee di tendenza: la nuova dinastia macedone
espanse i confini fino al Danubio e riprese Creta. L’impero tornava una potenza mediterranea e ridiede vita
alle sue città.
Sintesi romano-germaniche nell’Europa del VII e VIII secolo
Fra VII e VIII secolo il baricentro della cristianità cessa di essere il Mediterraneo e si sposta a nord, nel
nuovo regno dei Franchi. In Occidente si assiste a un periodo di crisi: diminuiscono i traffici e la circolazione
monetaria, si svuotano le città e le strutture economiche diventano quasi esclusivamente rurali. In questo
periodo si assiste ad alcune importanti trasformazioni nei principali regni romano-germanici:
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In Gallia si fondono i due elementi: romano e germanico.
Va maturando un processo analogo anche in altri regni (vd Longobardi).
Nel regno franco nasce il fenomeno del vassallaggio, obbligo di fedeltà verso un potente che
assicura il reclutamento di cavalieri.
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La sintesi fra i due mondi è favorita dalle conversione al cattolicesimo delle popolazioni germaniche e della
fusione della loro aristocrazia con quella fondiaria dei popoli romanizzati. Il vassallaggio inoltre consente
alla potente famiglia dei Pipinidi, che ricopre nel regno franco la carica di “maestri di palazzo”, di disporre di
un’ampia clientela militare che la porta infine ad impadronirsi dell’autorità regia a scapito della dinastia
merovingia.
Oltre che all’espansionismo arabo, lo spostamento a nord della cristianità fu dovuto anche alla conversione
delle popolazioni delle isole britanniche e delle aree germaniche oltre che dal ruolo guida assunto sempre
più dal regno franco. L’evangelizzazione dell’Irlanda avvenne soprattutto nel VI secolo ad opera dei monaci
celtico-irlandesi che convertirono poi le aree occidentali della Britannia. Per evangelizzare i territori più
centrali dell’isola papa Gregorio Magno inviò nel 596 un gruppo di monaci benedettini. Vi sono alcuni
aspetti importanti nel processo di evangelizzazione avviato da papa Gregorio:
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Il monachesimo benedettino diventava ora anche uno strumento di evangelizzazione.
Fu una conversione rapida, dovuta alla abilità dei monaci nell’evangelizzare anche le campagne
politeiste.
Nel VII secolo si fondono le missioni di origine benedettina con quelle promosse dai monaci
irlandesi.
Il territorio anglosassone fu suddiviso in diocesi al capo di ognuna delle quali fu posto un vescovo,
che era anche abate di qualche monastero.
Questa esperienza portò alla formazione di molti grandi monaci (vd Beda il venerabile) e dei drappelli che
portarono più avanti alla conversione dei popoli germanici confinanti coi Franchi (vd San Bonifacio). Già
dalla fine del VI secolo il cattolicesimo era una componente sempre più caratterizzante dell’Occidente
europeo.
Anche presso i Visigoti, la superiorità culturale del mondo di tradizione romana, portò alla conversione del
re Recaredo (586-601) con tutto il suo popolo dall’arianesimo al cattolicesimo. Nel regno dei visigoti
assunsero inoltre grande importanza i Concili di Toledo: i vescovi emanavano norme che influenzavano sia
la vita religiosa che quella politica, disciplinando chierici e laici. Andarono fondendosi l’aristocrazia visigota
e quella romano-iberica di cui è chiara espressione l’unità giuridica del regno, che superava la personalità
della legge e realizzava la fusione fra Germani e Romani.
Nella Gallia fra VI ed VIII secolo si verificano invece due importanti fenomeni: la crescente concentrazione
di potere presso i capi dell’aristocrazia, i “maestri di palazzo” e la fusione dell’aristocrazia militare franca
con il vecchio ceto senatorio. Nacque così una nuova aristocrazia profondamente legata alla terra e decisa
ad approfittare della debolezza del potere centrale. Emerge così la dinastia pipinide, dei maestri di palazzo
della regione dell’Austrasia; Pipino di Heristal prese il potere su Neustria, Austrasia e Burgundia, suo figlio
Carlo Martello sconfisse nel 732 i Musulmani a Poitiers assicurando alla dinastia prestigio ed autorità. Solo
più tardi, Pipino il Breve, figlio di Carlo, ottenne effettivamente la corona. Fu eletto re da un’assemblea di
grandi e grazie all’appoggio del papato nel 751. La monarchia franca si rifondava su basi nuove: all’antica
concezione patrimoniale del regno, si aggiungeva un carattere sacrale attribuito al potere regio.
Nel frattempo si era avviata nel regno Franco una riforma dell’episcopato, la cui organizzazione si stava
sfaldando. A partire dal 742 furono convocati numerosi concili per riformare la chiesa franca e restaurare
disciplina e cultura ecclesiastica. Le diocesi furono sottoposte all’autorità di un metropolita e si ribadì la
centralità del ruolo dei vescovi. Venne posta più attenzione all’istruzione da impartire a monaci e chierici e
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si stabilì uno stretto legame fra l’episcopato franco e la chiesa di Roma, che spiega in parte il connubio fra
Carolingi e papato.
Per restaurare il potere regio, i Pipinidi riuscirono a legare a sé un gran numero di vassalli. Il vecchio
esercito di popolo era in crisi e il vassallaggio permetteva di reclutare cavalieri legati al potere politico da un
rapporto di fedeltà militare (vd accomandazione). Il vassallo si obbligava con un giuramento a prestare
servizio in armi ad un re o a un potente e in cambio riceveva un beneficio, cioè una concessione di terre per
tutta la durata del servizio prestato. Gli immensi patrimoni ecclesiastici permisero ai Pipinidi di distribuire
moltissime terre e di avere così una foltissima clientela militare. Grazie al vassallaggio poterono avviare un
grande progetto di espansione militare in Europa.
Nel 568 l’Italia fu travolta da una nuova ondata di Germani, si trattava dei Longobardi guidati da Alboino. Fu
una conquista dura che colpì la penisola già stremata dalla guerra greco-gotica. Tre sono gli aspetti
importanti:
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La conquista longobarda dell’Italia sconvolse completamente i rapporti sociali e distrusse
completamente il vecchio ceto senatoriale. Si ha così una netta frattura nella storia della penisola;
le terre passarono ai germani liberi ed armati, la popolazione romana fu ridotta ai margini del
potere e coincideva perlopiù con la classe dei coloni. I Longobardi si sostituirono agli antichi
latifondisti e trovarono il modo di sfruttare stabilmente i contadini.
L’insediamento longobardo non fu omogeneo a livello territoriale e questo causò altre fratture.
Rimasero bizantine il sud Italia e un striscia centrale (Pentapoli); sorgeva in questo periodo Venezia
nelle lagune nord orientali.
Lo stanziamento longobardo fu caotico e non sistematico, attuato da gruppi di guerrieri (farae) che
si richiamavano ad un antenato comune. Le varie regioni conquistate venivano così rette dai
comandanti dei singoli corpi.
Alboino infatti condivideva con i duchi il suo potere militare, a conquista avvenuta le fare irrobustirono le
tendenze autonomistiche dei guerrieri longobardi. Alboino e il suo successore furono uccisi e il potere si
frantumò a lungo fra i vari capi militari. La monarchia tentò però di frenare queste tendenza
autonomistiche, i re cercarono di affermare il proprio potere su quello dei duchi e di costruire uno stato di
carattere romano. Autari e Agilulfo sono i veri fondatori dello stato longobardo: Pavia divenne capitale del
regno e con l’editto di Rotari del 643 si cercò di assoggettare i duchi. Venivano scritte le tradizione
giuridiche dei longobardi, si fece spazio ad elementi del diritto romano e venne abolita la faida. Si intendeva
sostituire alla giustizia privata una giustizia amministrata dallo Stato, gestita del re, e applicabile sia ai
Longobardi che ai Romani. Tuttavia il potere regio non riuscì ad affermarsi se non nel nord della penisola, il
riconoscimento dei duchi del sud fu sempre solamente formale. I Longobardi inoltre subirono l’influenza
del mondo romano-cattolico, ma solo a metà dell’ VIII secolo vi fu il primo re cattolico, Ariperto I (653-661).
Nella prima metà di questo secolo entrarono nell’esercito romano i primi possessori di stirpe romana; esso
era legato alla classe dei possessori di terre (esercito di popolo) e non fu modificato dalla presenza di
vassalli armati del re.
Quella longobarda fu una vera e propria frattura: le aristocrazie dei due popoli non si integrarono come era
successo altrove. Nelle regioni bizantine si verificarono due cambiamenti: funzionari e mercenari
diventavano piccoli e grandi possessori di terre, questi territori acquisirono una sempre maggiore
autonomia dall’impero (spesso erano difesi dal papa e non dall’esarca). Risulta significativa la figura di papa
Gregorio Magno (590-604) che assicurò la difesa di Roma e riorganizzò la sua amministrazione, evangelizzò
la Britannia e migliorò la gestione delle estese proprietà fondiarie della Chiesa di Roma (patrimonio di San
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Pietro). Nell’Italia bizantina il potere sfuggiva così al controllo imperiale e si andava affermando l’influenza
del papato su queste regioni, grazie al suo apparato e alla sua organizzazione.
Nonostante la conversione Ariperto fu visto con diffidenza, il suo successore Liutprando ricercò inutilmente
una politica distensiva col papa e si presentò anche come suo difensore dall’impero. Le conquiste di Astolfo
minacciarono Roma e spinsero papa Stefano II (752-757) a chiedere l’aiuto di Pipino il Breve. Questi
condusse due successive spedizioni in Italia, costrinse Astolfo a rinunciare ad alcuni territori di cui poi fece
donazione al papato. Nasceva così, in funzione antilongobarda, la dominazione polito-territoriale pontificia,
che aveva le sue origini nel patrimonio fondiario papale, ora notevolmente potenziato.
Economia e società in Europa occidentale dal VI al X secolo
La vita economica e sociale europea fra il VI e il X secolo fu caratterizzata da alcuni aspetti fondamentali:
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L’incontro culturale fra Romani e Germani lasciò impronte anche sul paesaggio. I due sistemi agrari
si fusero: sparì la separazione fra saltus e ager e si creò una più stretta dipendenza fra attività
agricole e pastorali. Si fondono anche le abitudini alimentari, cresce l’importanza della foresta, della
caccia, della pesca e dell’allevamento.
C’era un scarsa densità demografica: gli uomini erano poco numerosi e vivevano in gruppi ineguali,
separati fra loro ed esposti a epidemie e carestie.
Alcune città scomparvero e la popolazione di molte altre si ridusse notevolmente; spesso non si
distinguevano dalla campagna. Solo a partire dal IX-X secolo si verificò una certa ripresa
demografica col miglioramento delle tecniche agricole.
Il commercio mediterraneo divenne meno importante, si ridussero gli scambi internazionali e il
denaro circolante. Perno dell’attività economica erano le grandi aziende agrarie (ville/corti) dove
una parte era gestita direttamente e l’altra indirettamente (questa “economia curtense” non è
però del tutto chiusa al commercio: ci sono scambi locali e regionali).
La corte emerge anche come un gruppo sociale comandato da un signore che costringe al lavoro i
suoi dipendenti. Nasce così la “signoria fondiaria”, più tardi i signori cercarono anche di allargare il
loro potere agli abitanti del villaggio dove la corte era situata.
Nel corso del VII e dell’VIII secolo si riduce progressivamente la distinzione fra le tecniche produttive
romane e quelle germaniche. Si assiste ad una fusione dei sistemi agrari e dei consumi alimentari; in
particolare il saltus viene integrato nel sistema produttivo romano. In questo periodo svolge un ruolo
fondamentale anche lo sfruttamento delle aree forestali (colonizzate e selvagge), dove si cacciava, pescava,
si recuperava legname (quercia, faggio, castagno) e si raccoglievano frutti. I nuclei dei villaggi erano
normalmente costituiti da mansi, cioè appezzamenti cinti da una palazzata o da una siepe, vicini fra loro.
Qui v’erano orti e giardini, pascoli e foresta; i mansi risultavano così un’imperfetta integrazione di
agricoltura ed allevamento, tipica dell’economia rurale per tutto il medioevo.
Una serie di innovazioni tecniche permise di sfruttare meglio l’energia idraulica e quella animale:
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Si diffonde l’aratro a versoio (noto sin dal VII secolo), pesante e capace di scavare a fondo nella
terra, così da aumentare la produttività dei terreni. L’aratro semplice rimase invece in uso perlopiù
nei più secchi paesi mediterranei.
Si diffonde dal IX secolo il mulino ad acqua.
Viene applicato ai cavalli un collare rigido imbottito poggiante sulla spalla, che non soffocava la
bestia. Dal X secolo si diffonde anche l’uso di ferrare gli zoccoli.
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La rotazione biennale viene progressivamente sostituita da quella triennale. Questo presupponeva
accurate distinzioni fra le piante: sullo stesso appezzamento si seminavano, nel primo anno, cereali
d’inverno, nel secondo cereali di primavera e il terzo anno veniva lasciato a maggese. In questo
modo solo un terzo del terreno era a maggese ogni anno.
Non si deve però eccessivamente sopravvalutare l’introduzione di queste nuove tecniche agricole: tutto ciò
serviva a poco se non si aveva un’adeguata tecnica di semina, un lavoro intensivo di ripulitura delle erbacce
e un’abbondante concimazione (generalmente povera). Solo nelle piccole proprietà probabilmente questi
elementi erano soddisfatti mentre era piuttosto bassa la produttività nelle grandi aziende.
Nel Medioevo la densità abitativa era piuttosto bassa: ciò è probabilmente dovuto al fatto che era breve la
durata della vita media, diffusa la limitazione delle nascite ed elevatissima la mortalità infantile. Tutto ciò è
legato alle guerre ed ai disordini che ricorrono in questo periodo; guerre e flagelli naturali provocavano
gravi crisi cereagricole e carestie, che a loro volta portava scarsa nutrizione ed altre epidemie. In questo
periodo l’Europa vive un forte sottopopolamento, solo fra VIII e X secolo si assiste ad un certo sviluppo
demografico (tranne che per le aree colpite da invasioni). Le prime riprese avvennero in particolare col
miglioramento nelle forme di coltivazione e nell’attrezzatura agricola.
Le dimensioni di un manso erano molto variabili, tuttavia esso era generalmente un’unità di conduzione
agricola adeguata alle forze produttive e ai bisogni di una famiglia. Molti mansi erano incorporati nelle
grandi proprietà; si andava diffondendo sempre più la grande proprietà e il latifondo . Era una società con
grosse differenze sociali dove un piccolo gruppo di potenti dominava la massa di contadini che coltivavano
le sue terre. Le ville si dividevano in due parti complementari: il “dominicum” e il “massaricium”. La prima
era gestita direttamente dal proprietario mentre la seconda era frazionata in mansi dati in concessione a
contadini. Ogni villa infine si presentava come un insieme sparso di appezzamenti dove il dominicum era un
manso enorme al cui interno si trovavano delle costruzioni recintate. Era la cosiddetta “corte”, centro di
conduzione delle terre gestite direttamente dal signore.
Per gli amministratori di una corte il problema principale era quello della manodopera; in generale essa
veniva dagli schiavi. Gli schiavi domestici vivevano nella corte dove il signore offriva loro vettovagliamento;
quando il lavoro era troppo allora si ricorreva agli schiavi casati o ai contadini liberi. Ai concessionari dei
mansi erano richiesti quattro tipi di impieghi: fornitura periodica dei prodotti lavorati, prestazione di
corvées, incombenze chiamate “notti”, canoni annui in denaro o natura. Il vero perno fra il dominio e le
aziende in concessione erano quindi i servizi in lavoro, come le corvées per cui le famiglie dei concessionari
dovevano in parte lavorare le terre della pars dominica. La villa però non era un sistema economicamente
del tutto chiuso, vi erano alcuni scambi, talvolta con aziende contadine satelliti, talvolta con l’esterno. Vi
erano numerosissimi mercati settimanali che si svolgevano in tutti i villaggi e che si diffusero molto fra IX e
X secolo. Parte della produzione agricola e artigianale delle ville era sicuramente destinata al commercio sui
mercati cittadini.
Vanno chiariti inoltre alcuni aspetti ulteriori sul sistema delle ville:
•
La villa non era soltanto un gruppo di produzione, ma anche un gruppo sociale dipendente da un
padrone; era un organismo di comando o signoria con una sua amministrazione. Il grande
proprietario non era solo un proprietario di terre, ma anche un signore fondiario (dominus): un
capo che costringeva i dipendenti all’obbedienza e che estendeva la sua autorità anche sui liberi
contadini concessionari. Da qui il nome di “signoria fondiaria”.
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•
A partire dal IX secolo si estende la tutela del signore sui contadini, grazie a conti e funzionari
pubblici ai suoi ordini o per via della necessità di difesa dei piccoli proprietari.
Nell’Occidente del periodo carolingio prevalevano due tipi di scambi: quelli locali e il commercio fra regioni
con risorse complementari. Il commercio del primo tipo viveva grazie a fiere e piccole mercati, ai quali era
legata una produzione di monete argentee. Base degli scambi interregionali erano invece cereali, vino,
prodotti dell’allevamento e della pesca. Erano invece molto poco intensi gli scambi a lunga distanza, si
allentarono i rapporti fra Occidente ed Oriente. Da qui venivano ormai solo alcuni prodotti ricercati dalle
ricche aristocrazie; l’Occidente si stava sempre più ruralizzando. Riflesso del piccolo commercio è la
diffusione crescente della monetazione argentea, adatta alle esigenze dell’economia curtense, percorsa da
Pipino il Breve e poi da Carlo Magno.
Tre erano le principali aree degli scambi: il Mediterraneo, l’Europa continentale dalla Spagna a Kiev e
l’Europa settentrionale ed orientale. Benché estremamente ridimensionato, il Mediterraneo rimaneva
infatti un’area di scambi relativamente importante e l’Italia bizantina era un centro di scambi relativamente
importante. Fu molto significativo lo sviluppo di Venezia, che nel IX secolo aveva ormai una flotta
importante e molti contatti commerciali. Fuori dall’area mediterranea la maggior parte degli scambi
avveniva per terre o per vie fluviali e cresceva l’importanza egli itinerari nell’Europa continentale; molto
importanti furono quelli tracciati dalle popolazioni scandinave. Gli scambi a lunga distanza erano però
limitati e coinvolgevano una piccola parte della popolazione. Dopo l’VIII secolo alcune città iniziarono ad
assumere un aspetto originale e diverso dalla loro struttura antica: nascono sobborghi con porto,
magazzini, mercato e popolati da mercanti. Gli scambi rimanevano però strettamente locali: c’è un risveglio
commerciale ma comunque limitato. Il Medioevo occidentale resta caratterizzato dalla modesta
importanza dei mercati e delle città.
Le dimensioni essenziali e quotidiane dell’esistenza
Il Medioevo è molto lontano da noi ed è per questo importante conoscere alcune dimensioni essenziali,
culturali e materiali dell’esistenza umana nell’età medievale: modi di percepire il tempo e lo spazio, modi di
vivere col proprio nucleo familiare.
Per quanto riguarda la percezione del tempo si possono fissare alcuni punti:
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Per tutto il Medioevo i mezzi per misurare il tempo erano piuttosto rudimentali ed erano in
sostanza quelli del mondo greco-latino (meridiane solari, candele, orologi a sabbia, clessidre).
I sistemi di calcolo del tempo erano variabili e cambiavano di regione in regione.
Le conoscenze temporali della gente comune erano limitate e riferite perlopiù al presente, ai propri
ricordi e al passato più prossimo. Anche la storia religiosa più remota trasmessa dai sacerdoti nelle
prediche era percepita come appena trascorsa.
Il tempo medievale era perlopiù legato alla sfera agricola e scandito da ritmi naturali. Il calendario
era scandito dall’avvicendarsi delle stagioni e i mesi, presso gli antichi Germani, portavano i nomi
delle attività legate ai lavori svolti nei diversi periodi dell’anno. Il ciclo delle stagioni era al centro
della vita spirituale delle popolazioni; il calendario rurale era così costellato da numerose feste che
si tenevano in periodi importanti (semina, mietitura, solstizi, ecc).
La conversione dell’Occidente medievale al cristianesimo fu accompagnato da due fenomeni: il calendario
basato sui precedenti riti stagionali fu adattato alla nuova religione e cambiarono alcune idee temporali.
L’anno fu scandito da feste che ricordavano la vita di Cristo e che spesso segnavano momenti importanti
del calendario agricolo, a cui si sovrapposero. Il cristianesimo inaugurò soprattutto una nuova visione del
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tempo e della storia che fu vista come il tempo in cui si realizzava la “storia della salvezza” dell’umanità.
Alla percezione ciclica del tempo che avevano i politeisti, il cristianesimo sostituì la concezione di matrice
ebraica di un tempo lineare, visto come attesa del ritorno del Messia e della fine del mondo. Il tempo
storico assumeva così una funzione precisa e si divideva in due grandi epoche: prima e dopo la venuta di
Cristo. Non fu però del tutto abbandonata la concezione ciclica del tempo che permaneva nel ciclo delle
feste cristiane e nella vita di ogni uomo, intesa come un ritorno al creatore. Il tempo era così percepito in
maniera “drammatica”, dalle libere scelte in Terra di ogni uomo sarebbe infatti dipeso il suo destino
ultraterreno. Così come venne cristianizzato il tempo, venne cristianizzato lo spazio. Vennero erette nuove
chiese e cristianizzati gli antichi luoghi sacri. Tuttavia sia la cristianizzazione dello spazio che quella del
tempo furono solo parziali: la concezioni temporali precristiane, le antiche tradizioni religiose erano solo
stati spostati in secondo piano. Spesso riaffioravano infatti riti agrari e feste di origine antichissima che la
Chiesa si trovò ad osteggiare.
Nel rapporto con lo spazio era certamente fondamentale il legame col mondo animale e vegetale: lo spazio
era misurato con l’aiuto del corpo umano e della sua attività, le distanza misurate in passi o giorni di
cammino o navigazione. I calcoli si effettuavano sulle base della quantità di terreno che in una regione si
riteneva coltivabile ogni anno mentre per le misure lineari ci si riferiva ad alcune parti del corpo. Erano
dunque misure approssimative e variabili di regione in regione. Era inoltre fondamentale la presenza del
paesaggio forestale nella coscienza popolare, che dipendeva sia dall’estensione dei boschi, sia dalla loro
importanza economica (vd fiabe). Importante, infine, era l’osservazione, spesso timorosa, del mondo
naturale e del cielo in particolare. Resistevano spesso credenze astrologiche e pratiche precristiane che la
cultura ecclesiastica combatteva in quanto superstiziose.
Vi era un forte legame che univa sia i contadini che i latifondisti alla propria abitazione: il manso era il
possesso ereditario di una famiglia contadina e proprio lo spazio domestico era quello vissuto con più
intensità. A definire i tempi della giornata era il lavoro che accompagnava la maggior parte del tempo delle
persone. Proprio la larga diffusione del manso è dimostrazione del fatto che la cellula fondamentale della
società alto-medievale non era la famiglia “larga”, bensì quella “coniugale” o “ristretta” costituita da padre,
madre e figli. Si possono chiarire alcune caratteristiche di quest’ultima e del suo sviluppo:
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In primo luogo la grande importanza assunta dalla famiglia coniugale nell’VIII-X secolo rese le
strutture familiari molto diverse da quelle precedenti del mondo barbarico e romano. Ai diversi
livelli sociali le famiglie furono caratterizzate da una certa uniformità, mai riscontrata in
precedenza.
Sempre nello stesso periodo fu decisiva l’imposizione del matrimonio cristiano al mondo rurale.
Esso era considerato l’atto costitutivo di una nuova famiglia e si basava su tre principi: il divieto di
contrarre nozze fra consanguinei, l’indissolubilità del vincolo e la monogamia. Fu soprattutto il
carattere di indissolubilità a incontrare difficoltà.
La diffusione del matrimonio cristiano nel mondo rurale fu favorita dai Pipinidi.
Questo nuovo tipo di matrimonio e la diffusione di unità familiari più uniformi riguardavano però
prevalentemente il mondo contadino; le strutture familiari aristocratiche avevano un loro proprio
carattere. Alle origini del medioevo erano molto diffusi poligamia e concubinato e non erano scandalose le
nascite illecite; con la diffusione della famiglia coniugale diminuì il numero di donne che vivevano presso i
potenti e questo permise ai meno abbienti di trovare più facilmente una moglie. Importante per capire la
famiglia aristocratica di questo periodo è considerare il fatto che essa non ha lignaggio, manca di una
“dinastia”, di una memoria degli antenati organizzata attorno a genealogie coerenti. Essa è invece un
insieme ampio e vago di parenti vicini ai due sposi: i parenti si aggregano attorno a chi di volta in volta gode
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di grande potere politico o ecclesiastico. Il legame parentale con la famiglia reale era un modo sicuro di
promozione sociale.
Infine, per quanto riguarda la condizione della donna, la scarsità di giovani spose (dovute a poligamia e
concubinato preso gli aristocratici) assicurava buoni contratti matrimoniali ma causava anche molti
rapimenti. Si diffuse molto la “contro-dote” di origine germanica: era la donna a ricevere una donazione al
momento del matrimonio. Esse potevano quindi avere proprietà, ma rimanevano in un ruolo subordinato e
restavano sotto la tutela di un uomo. Fra le famiglie aristocratiche molte erano colte e talvolta dedicate allo
studio delle lettere; non era però neppure ammissibile che esse potessero combattere o portare armi.
Anche all’interno della famiglia contadina la donna ricopriva un ruolo di inferiorità rispetto all’uomo; qui si
dedicava perlopiù alla “economia interna” della casa, puliva, tesseva, ecc.
La sintesi romano-germanica più compiuta: l’impero carolingio
La storia dell’Occidente europeo fra la metà dell’VIII secolo e la metà del IX è caratterizzata dalla creazione
del grande impero di Carlo Magno. In questo periodo si possono individuare alcuni tratti distintivi:
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Fu importante l’alleanza stretta alla metà dell’VIII secolo fra il papato e Pipino il Breve. La Chiesa
riuscì in questo modo a difendersi dai Longobardi e a estendere il cristianesimo. I re carolingi
riuscirono invece ad assimilare un grande impero conquistato militarmente.
Benché fu presentato come il rinato impero romano d’Occidente, quello di Carlo Magno era un
impero Franco-cattolico, che gravitava attorno alla valle del Reno e il cui baricentro era spostato a
nord.
Esso era inoltre una struttura politica fragile, ben lontana dall’efficiente organizzazione di Roma.
L’impero carolingio fu però l’esempio meglio riuscito della sintesi romano-germanica che si andava
delineando in molte zone dell’Europa occidentale. Questo impero divenne il grande protettore del
papato e gli venne attribuito così un significato universale.
Alla morte di Pipino il Breve nel 768 ciascuno dei suoi figli: Carlo e Carlomanno ebbe un regno e il titolo di
“rex francorum”, solo con la morte di Carlomanno nel 771 Carlo poté ricostituire l’unità del regno. Col
nuovo re le guerre non furono più guerre di difesa, bensì prevalentemente di conquista; i franchi attuavano
ora una potente politica espansionistica dopo la riorganizzazione del loro esercito. E’ possibile individuare
le principali direttrici dell’espansione franca:
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Frontiere della Gallia meridionale: qui il re protesse i territori di confine minacciati dai Musulmani
di Spagna e conquistò Navarra e Catalogna dove istituì la marca Hispanica.
Penisola italiana: quando il re Desiderio attaccò il ducato di Roma, Papa Adriano I fece appello ai
Franchi, che assediarono Pavia. Nel 774 questa cadde definitivamente e fu posta fine alla dinastia
longobarda. Carlo assunse così anche il titolo di “rex longobardorum” indicando la continuità fra il
vecchio e il nuovo regno longobardo, distinto dal resto dei possedimenti del re. Non scomparvero
gli ordinamenti anteriori e non fu distrutta alcuna classe sociale, il gasindiato divenne però
l’equivalente del vassallaggio fra i carolingi (si trasforma l’esercito).
Frontiere settentrionali: qui Carlo lottò soprattutto contro la minaccia sassone (772-804), a loro
furono imposti il matrimonio cristiano, la “civiltà” franca e la religione cattolica con la forza.
Frontiere orientali: importanti sono le campagne per la riconquista della Baviera e contro gli Avari
che cedettero definitivamente nel 795-796.
Ai limiti del suo impero, Carlo aveva la supremazia anche sulla Navarra, sui regni slavi, sulla dominazione
papale e sul ducato longobardo di Benevento. L’impero era quindi artificioso e teneva insieme popoli molto
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diversi fra loro, accomunati solamente dalla stessa fede religiosa e da un unico re. Non si trattava infatti di
un regno indivisibile.
I Franchi si trovarono presto, grazie ai loro interventi militari ad entrare in competizione con l’impero
Bizantino che aveva ancora mire sull’Italia. Questo però non fece che rafforzare il nuovo legame fra i
Franchi ed il papato; nel Natale dell’800 Carlo fu incoronato imperatore in una solenne cerimonia soltasi a
San Pietro a Roma. Carlo ottenne dignità imperiale e fu presentato come l’erede dell’antico potere
imperiale romano. Tuttavia egli non ricostituiva affatto il vecchio organismo politico romano ma instaurava
un nuovo impero franco-germanico e romano-cattolico che aveva come centri Roma ed Aquisgrana. Il
“cuore” dell’impero non era più il Mediterraneo ma la valle del Reno. La restaurazione del potere imperiale
non fu ben vista da Bisanzio e solo nell’812 Carlo fu riconosciuto imperatore in cambio della rinuncia alle
pretese franche su Venezia.
La politica ecclesiastica di Carlo fu tutta ispirata dalla sua alleanza col papato e si articolò su due importanti
punti:
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Il disciplinamento di chiese e monasteri attraverso l’estensione della riforma franca avviata da San
Bonifacio. Tale riforma veniva infatti applicata a tutti i territori conquistati da Carlo, fu imposta a
tutti i monasteri la Regola benedettina, fu reso obbligatorio il pagamento delle decime alle pievi e
rafforzata la gestione gerarchica del clero, sottoposto al controllo imperiale. Non fu però messo in
dubbio il sistema delle chiese private, fondate sulla terra di un grande proprietario e appartenenti
alla famiglia del fondatore che aveva anche il diritto di scegliere il chierico che vi officiava. Tutta la
società carolingia era così perfettamente cristianizzata; la gerarchia ecclesiastica risultava presente
ovunque.
La seconda importante linea d’azione di Carlo fu il sostegno dato ai missionari cattolici che
operavano oltre le frontiere (vd sassoni). La propaganda cattolica arrivava anche a scontrarsi con
quella ortodossa, appoggiata da Bisanzio: la Moravia subiva l’influenza cattolica, la Bulgaria quella
ortodossa grazie all’opera dei missionari slavi Cirillo e Metodio. Tale “concorrenza” e la pretesa
universalità di Roma portarono anche ad un violento conflitto fra il papato e il patriarca di
Costantinopoli Fozio; ci si avviava ad uno scisma definitivo.
Non era facile per Carlo Magno far eseguire i suoi ordini in questo complesso impero: egli interveniva nei
vari settori della vita pubblica attraverso leggi, chiamate “capitolari”. Non riuscì però a dare un’unità
legislativa all’impero: i popoli continuavano a regolarsi secondo le loro consuetudini. Il governo centrale era
costituito dal “palatium” ossia dall’imperatore e dal suo seguito; non vi era però un capitale fissa, spesso
Carlo risiedeva ad Aquisgrana ma frequentava anche residenze secondarie. Ormai l’organizzazione fiscale
romana era sparita e il potere regio si manteneva grazie ai redditi fondiari di numerosissime ville
appartenenti al re stesso, per le quali doveva continuamente spostarsi. Rispetto all’amministrazione locale,
Carlo estese ai paesi conquistati la suddivisione amministrativa per comitati già di epoca merovingia;
questi, e le marche ai confini, furono affidati a funzionari regi (conti e marchesi) col compito principale di
amministrare la giustizia. Vi erano poi i “missi”, inviati del re che esercitavano funzioni ispettive nelle
provincie civili o ecclesiastiche. Queste strutture amministrative erano però troppo fragili per garantire il
rispetto della volontà imperiale in tutte le zone delle impero; egli dovette così scegliere i funzionari pubblici
fra i capi militari che erano già suoi vassalli. Il giuramento di fedeltà ne rafforzava la subordinazione, il
vassallaggio permise così di garantire, in questo periodo, la coesione del regno. Fu utilizzata come
strumento di governo anche l’immunità (privilegio che vietava ai funzionari regi di entrare in una terra) di
cui godevano soprattutto le chiese vescovili e le abbazie più potenti. Carlo le sottomise al controllo di
advocati col potere di banno (ossia di comandare, costringere e punire) che sceglieva fra persone di sua
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fiducia. Nel tempo però l’immunità costituì un forte impedimento al potere regio e preparò la
disgregazione dei comitati. Il grande problema di Carlo fu quello di instaurare un vita statale e di
trasformare i suoi vassalli in una classe dirigente. Cercò di migliorare la gestione dei latifondi appartenenti
al fisco regio (vd Capitulare de villis) e cercò di limitare il potere dei prezzi delle derrate agricole.
Sul lungo periodo la sua politica si rivelò un fallimento, tuttavia gli aspetti positivi della sua opera emergono
col confronto con le epoche passate, tanto che alle generazioni successive quella di Carlo apparve come
un’età d’oro. Importante sul piano culturale è la cosiddetta “rinascita carolingia”: a corte fu istituita
un’accademia (scuola palatina) presieduta da Alcuino e fu migliorata l’istruzione che doveva creare buoni
funzionari e buoni preti (scuole monastiche, episcopali e presbiterali).
Nell’814 Carlo Magno morì e il potere passò al figlio Ludovico il Pio; al tempo non si sapeva se l’impero
sarebbe rimasto o meno unito. Nell’Ordinatio Imperii dell’817 Ludovico proclamò l’unità dell’imperò e
designò il primogenito Lotario come suo successore, mentre agli altri figli lasciò solo un regno. Cambiò però
più volte questa decisione dando luogo a lunghi scontri dinastici. Alla sua morte nell’840 si definirono
alcune grandi aree geografiche dell’impero che avrebbero più tardi avuto molta importanza. I tre figli
Lotario, Ludovico e Carlo si disputarono l’eredità, Ludovico e Carlo si allearono e vinsero Lotario.
Stipularono quindi un’alleanza difensiva: era il giuramento di Strasburgo dell’842, che attesta l’esistenza di
due aree linguistiche e culturali, quella tedesca e quella francese (giurano nei rispettivi volgari). Lotario
dovette accettare il trattato di Verdun (843) e spartire con gli altri il potere. Egli manteneva il trono
imperiale e la parte mediana dell’impero (Italia e una fascia che andava dalle Alpi ai Paesi Bassi), a Ludovico
andò la parte orientale e a Carlo (detto il Calvo) quella occidentale. La carica imperiale assumeva quindi
solamente un’importanza teorica, solo più tardi con Carlo il Grosso (881-887) si ripristinò l’unità dell’impero
ma fu casuale e durò per poco. Il potere centrale era estremamente debole, lo dimostra il fatto che Carlo il
Grosso preferì nell’886 pagare una grossa somma ai Normanni piuttosto che combatterli. Si era ormai
definita una profonda spaccatura fra l’area francese e quella tedesca, sempre più preponderante, che
aveva acquisito la cosiddetta Lotaringia (parte settentrionale dell’eredità di Lotario). Infine erano emersi
anche due regni di Borgogna, lungo il bacino del Rodano.
Il dissolversi dell’impero e le origini dello sviluppo signorile
Dal dissolversi dell’impero carolingio nasce un nuovo mondo:
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•
A partire dalla metà del IX secolo le aristocrazie sono sempre meno interessate all’unità: nascono
organismi politici regionali e nascono sempre più signorie territoriali.
La fine dell’ordinamento pubblico carolingio, più che allo smembramento dell’impero e alle lotte
dinastiche, è dovuta alle numerose incursioni ed invasioni di Normanni, Ungari e Saraceni. Queste
portano ad un crescente incastellamento favorendo così il disfacimento dell’organizzazione
pubblica e l’emergere di poteri locali.
Fra IX e XI secolo si assiste così a due fenomeni tra loro correlati: lo sviluppo signorile e il dissolversi
dell’autorità statale. Si afferma l’eredità dei benefici e si sfaldano le circoscrizioni pubbliche
(comitati).
L’impero rinasce solo ai tempi di Ottone I (962) ma si tratta di un organismo politico essenzialmente
germanico e che trova difficoltà ad imporsi sui poteri regionali.
Per quanto riguarda gli attacchi musulmani, a partire dal IX secolo la minaccia non viene più dagli eserciti
regolari degli stati arabi ma dalle bande armate di Saraceni. Queste si dedicano alla guerra di corsa e
sbarcano sulle coste per fare razzie; subiscono attacchi ed incursioni le zone costiere del Mediterraneo,
nell’890 si insediano a Frassineto, in Provenza, che diventa la loro base per attacchi e razzie. Frassineto
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cade solo nel 973 sotto l’attacco del conte di Provenza e del marchese di Torino, nel centro e nel meridione
italiano sono sconfitti definitamente solo agli inizi dell’XI secolo. L’impero non è più in grado di assicurare
una difesa e a fornire questa sono gli organismi politici, fra cui emergono le città marinare.
L’Europa centrale è minacciata dalle ben più gravi scorrerie a scopo di bottino degli Ungari, che fra l’898 e il
955 attaccano più di trentacinque città. Queste solitamente resistono, ma alcune come Pavia e Strasburgo
caddero. A fermare il loro slancio è il regno tedesco consolidato da Ottone I il Grande (936-973) che li
sconfigge definitivamente nella battaglia di Lechfeld (955). Le incursioni a questo punto si fermano e molti
cavalieri ungari sono oramai sedentarizzati. La lenta conversione al cristianesimo li avvicina all’Occidente e
nel 1000 il loro re Stefano riceve dal papa la corona di re d’Ungheria.
La terza grande minaccia era costituita dal popolo dei Normanni (o Vichinghi), un complesso di popolazioni
scandinave di origine germaniche che conosce una grande espansione fra IX e X secolo. Le loro migrazioni
seguono spesso le vie del commercio internazionale; essi superano però presto la fase delle razzie e dei
saccheggi e iniziano a richiedere tributi dalle regioni sottomesse. Si avviano così alla sedentarizzazione, fra
le aree da loro sottomesse spiccano due aree:
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•
La Normandia in Francia, il cui regno ha origine dalle incursioni nella Francia nord-occidentale. A
queste segue uno stanziamento presso le foci della Senna. Successivamente il capo normanno
Rollone ottiene parte di quella zona (911) e i suoi discendenti anni dopo controllavano ormai
l’intera regione.
Il Danelaw in Inghilterra. Nella seconda metà del IX secolo i normanni occupano aree sempre più
vaste finché verso la fine del secolo controllano gran parte dell’isola: è il Danelaw. Qui però danesi
e norvegesi vivono nella completa anarchia, i successori del re Alfredo non hanno difficoltà quindi
a riconquistare l’isola. Si ribalta però nuovamente la situazione con il danese Sven che arriva a
controllare Danimarca, Norvegia e Inghilterra che poi trasmette al figlio Canuto. E’ un impero col
suo centro nel mare nel Nord, ma manca di coesione e si sfascia presto.
Agli inizi del XI secolo le incursione erano ormai finite, lasciando il posto a vere e proprie guerre fra grosse
formazioni politico-militari. I conflitti interni e le incursioni normanne, ungare e saracene avevano però
favorito il processo di disgregazione territoriale e politica nell’Occidente europeo:
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•
•
Si assiste alla moltiplicazione spontanea dei castelli che permettono all’aristocrazia di esercitare un
dominio locale, anche esercitando poteri sostitutivi di quelli degli ufficiali pubblici.
Nascono isole di giurisdizione signorile, sia intorno alle fortezze private, sia lì dove era stato
concesso un privilegio di immunità.
Si diffonde la prassi di ereditare benefici e cariche pubbliche che dà sempre più autonomia ai
funzionari. I vassalli sentono sempre meno il vincolo del potere centrale e si dotato anch’essi di
clientele. Col Capitolare di Quierzy di Carlo il Calvo è riconosciuta l’ereditarietà dei benefici
maggiori.
Si sfaldano le grandi circoscrizioni pubbliche a vantaggio dei poteri locali, nati dal possesso di castelli o di
grandi complessi fondiari. Cambia il tessuto territoriale: le circoscrizioni amministrative d’epoca carolingia
tendono a diventare principati territoriali. Re e imperatori conservano la disponibilità di corti fiscali, di
clientele vassallatiche e abbazie ma la loro è oramai una presenza discontinua, irregolare e poco efficace.
Non hanno una forza tale da esercitare il loro potere anche a distanza.
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Per quanto riguarda la storia dell’impero, fra la fine del IX secolo e gli inizi dell’XI, si possono individuare
due periodi:
1. In un primo momento il titolo imperiale fu attribuito, per regioni geografiche, ad alcuni re d’Italia,
dal momento che si vedeva nell’imperatore il difensore della Chiesa di Roma (Guido di Spoleto,
Berengario I del Friuli e Ugo di Provenza). Nessuno però riuscì ad imporsi in modo duraturo e ad
affermarsi sopra i vari poteri locali.
2. In un secondo momento invece il titolo imperiale pervenne ai re di Germania che godevano di un
grande prestigio. Nel 951 Ottone I di Sassonia scese nella penisola e fu incoronato re a Pavia, nel
962 ottenne anche il titolo imperiale. Ora i re di Germania erano anche signori della penisola e
potevano legittimamente ambire al titolo imperiale, essi inoltre rilanciarono l’idea di universalità
che questo portava con sé.
L’impero rinato nel 962 era innanzitutto un impero germanico, la cui forza si basava sulla capacità e sulla
solidità militare del regno tedesco. Qui infatti erano meno diffuse le signorie territoriali e Ottone poteva
godere dell’importante supporto ecclesiastico alla sua politica. Aveva infatti sostituito l’alta aristocrazia
ribelle con membri della sua famiglia ed aveva associato l’episcopato al governo del paese. I vescovi
divennero signori territoriali e disposero di non trascurabili introiti e forze militari. Tale impero non si
basava dunque su un ordinamento pubblico per comitati bensì su un’egemonia politica basata sull’alleanze
con le chiese potenti e su rapporti di parentela. Tuttavia Ottone non riuscì a pacificare l’Italia né a
conquistarla interamente e qui il suo potere faticò ad affermarsi. Furono più significativi i suo interventi
come protettore della Chiesa di Roma: Ottone sottrasse l’elezione del pontefice alle fazione
dell’aristocrazia romana e lo pose sotto il suo controllo. Col Privilegium Othonis (962) stabilì inoltre che
nessun papa avrebbe potuto essere consacrato senza la preventiva approvazione imperiale.
Né Ottone I, né suo figlio Ottone II riuscirono però a contrastare il processo di disintegrazione dello Stato.
Quest’ultimo dovette scontrarsi con una ripresa dell’aristocrazia in Italia e ebbe difficoltà notevoli ad
affermarsi nel Sud. Ottone II fu sconfitto nel 982 in Calabria e morì l’anno successivo. Suo figlio Ottone III
era ancora giovane e la reggenza fu assunta dalla madre Teofano. Ottone III appena maggiorenne cercò di
attuare un programma di Renovatio Imperii, ossia di restaurare l’impero cristiano che voleva guidato da
papa e imperatore. Nel 999 sostenne l’elezione papale del suo precettore Gerberto di Aurillac che prese il
nome di Silvestro II, ma il suo progettò falli scontrandosi con la disgregazione politica dell’impero. Egli
moriva nel 1002 senza eredi. In Italia parte dell’aristocrazie tentò di spezzare il legame col regno germanico,
Arduino fu incoronato re a Pavia ma sconfitto dall’imperatore tedesco Enrico II. Si era ormai stabilito un
nesso, seppur molto problematico, fra il regno tedesco e quello italico.
Fra IX e X secolo le immunità e i privilegi trasformarono monasteri e grandi chiese in potenti organismi
territoriali. Aumentava nel frattempo però l’invadenza dell’aristocrazia laica nella vita ecclesiastica: si
moltiplicavano le chiese private, patrimonio di famiglie potenti per le quali erano segni di prestigio sociale e
strumenti della potenza signorile. Fiorì nel frattempo una pluralità di orientamenti religioso-culturali,
importante è nel 910 la fondazione dell’abbazia di Cluny in Borgogna che portò all’istituzione dell’ordine
cluniacense.
Fra IX e X secolo si definiscono alcune formazioni politico-territoriali: a nord dell’impero bizantino si
afferma l’impero ungaro grazie all’opera di Stefano I mentre alcune aree sono occupate dagli slavi: a sud la
Croazia mentre a nord si forma il regno polacco con Miesko I che unifica fra il 965 e il 970 il paese. A est
nella pianura russa e ucraina sono nati molti nuclei urbani; Rjurik, signore di Novgorod si impadronisce di
Kiev che diviene sede della nuova dinastia. Con Valdimiro il Grande (980-1015) avviene la conversione al
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cristianesimo dell’intero popolo sotto l’influenza bizantina, fatto che segnerà a lungo la distanza fra la zona
russa e l’Occidente.
La Gallia era invece suddivisa fra Borgogna e regno Franco, dove continua la crisi dell’ordinamento
pubblico. Dopo anni li lotte e di crisi, nel 987 diventa re Ugo Capeto, capostipite dei capetingi (dinastia regia
fino alla rivoluzione francese), che però controlla solo una piccola zona vicino Parigi. In Italia si ha
un’estrema pluralità di dominazioni: a nord il Regno d’Italia, Venezia era legata a Bisanzio, nel centro alcune
famiglie aristocratiche romane controllano il dominio pontificio mentre il sud è nominalmente bizantino ma
in gran parte autonomo, infine la Sicilia era sotto il dominio arabo. In Spagna all’inizio dell’XI secolo i
musulmani occupano Barcellona e Santiago de Compostela e dal regno di Lèon (prima Asturie) si stacca la
Castiglia. Più tardi Sancho il Grande impone la supremazia del regno di Navarra su Lèon, Castiglia e
Aragona. Sulle coste del mare del Nord si ha il grande impero di Canuto il Grande (Inghilterra, Danimarca e
Norvegia) che però si sfascia presto: nel 1035 la Norvegia acquista l’indipendenza mentre nel 1042 il re
anglosassone Edoardo III riprende il potere in Inghilterra. In generale il potere politico è frammentato e
debole ovunque, si sono comunque estesi però i confini della cristianità a nord e ad est (Scandinavia,
Ungheria, Polonia e Boemia); infine sono distinguibili alcuni aspetti che contraddistingueranno a lungo la
storia europea (indipendenza Inghilterra, frammentazione Italia, ecc). Alcuni di questi fragili regni è
destinata a un florido avvenire.
Lo sviluppo delle campagne
Per l’Europa i secoli XI, XII e XIII sono caratterizzati da una grandiosa espansione economica resa possibile
da una larga disponibilità di terre e dalla diffusione di alcuni miglioramenti tecnici. Procedono i
dissodamenti, arretra l’incolto e migliora l’irrigazione. Aumenta così sia la produzione che la
commercializzazione di derrate agricole: l’agricoltura resta la base dell’intera economia, permette la
sussistenza delle popolazioni ed è fonte di ricchezza e potenza. Questa crescita si spiega in primo luogo con
il notevole sviluppo demografico che si arresterà soltanto nei primi decenni del Trecento. L’aumento
demografico è favorito dalla ripresa economica e la stimola a sua volta. Nello stesso periodo nascono le
signorie locali e crescono le comunità rurali che resistono alle esazioni signorili e prendono coscienza dei
propri diritti. Generalmente però peggiorano le condizioni contadine e cresce la distanza economica e
sociale fra ricchi e poveri.
Ben più importante delle nuove tecniche agricole è la grandiosa opera di dissodamento delle terre incolte
che caratterizza tutto il periodo a permettere una robusta crescita economica. I signori, per aumentare le
loro rendite, esortano i loro contadini a estendere le coltivazioni e offrono terre incolte agli immigranti
perché vi costruiscano dei mansi. Rimangono comunque boschi e pascoli destinati all’uso comune e che
grande importanza hanno nell’economia delle famiglie contadine. Si assiste al contempo a un grande
processo di creazione di nuovi villaggi, frutto usualmente di imprese collettive (spesso si chiamano
“villenove”). Un grande processo di creazione di villaggi è connesso alla colonizzazione della Germania
orientale, le cui terre sono occupate dai popoli slavi dediti ad una economia estensiva basata soprattutto su
caccia e pesca. Qui un grande flusso migratorio porta alla conquista di vasti territori e alla creazione,
secondo un piano preordinato, di villaggi e città (vd anche cavalieri teutonici). Molti centri inoltre nascono
da contratti di associazione (pariage) fra un signore laico ed un istituto ecclesiastico. La conquista di vasti
spazi agricoli porta anche ad una certa diffusione nelle campagne di isolate dimore rurali (grange, torri,
dimore fortificate). Nell’Italia centro-settentrionale la dispersione delle case nelle campagne è legata al
passaggio delle terre nelle mani dei cittadini e alla nascita del podere, ossia dell’azienda rurale isolata nei
campi e corredata di terre dipendenti. La vicinanza dei terreni evita perdite di tempo e incrementa la
redditività delle aziende. Tuttavia questo processo di dispersione si afferma solo in parte e non ovunque,
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anche perché le campagne non sono sicure per via delle guerre fra nobili. Non si tratta inoltre di uno
sviluppo lineare, spesso le grange non sono create ex novo ma prendono il posto di villaggi preesistenti.
Alla base del dissodamento di nuove terre e della creazione di nuovi insediamenti c’è un durevole e
prolungato incremento demografico che stimola produzione e commercializzazione di prodotti agricoli.
Questo aumento era a sua volta dovuto alla ripresa economica verificatasi nell’XI secolo e fu ineguale nelle
diverse aree geografiche. Le zone europee erano fra XIII e XIV secolo generalmente sovrappopolate, ossia
più abitate di quanto consentissero economia e produzione del tempo. Le diseguaglianze del tempo inoltre
aggravavano ulteriormente le condizioni dei ceti più poveri.
Nasce in questo periodo la signoria locale o “di banno”; nel corso del XII secolo molte corvées furono
progressivamente sostituite da pagamenti in denaro anche perché le nuove tecniche agricole rendevano
necessario un minor numero di contadini. A questo alleggerimento corrispose l’aumento degli obblighi che
il signore imponeva come signore locale. Questi signori approfittarono dell’impoverimento del potere regio
fra X e XII secolo per usurpare i diritti pubblici, imposero la loro protezione e il loro dominio ai villaggi rurali
impadronendosi delle prerogative del potere pubblico. Il potere di coercizione gli procurava una
sfruttamento sia giudiziario che economico: obbligavano all’uso di mulini, frantoi e forni propri dietro
pagamento. I proventi derivati dall’esercizio del potere di banno erano spesso superiori a quelli derivanti
dallo sfruttamento del patrimonio fondiario. I contadini però reagirono e fecero fronte comune
organizzandosi in comunità rurali parzialmente autonome. Si assistette a un grande fenomeno di
affrancamento: i signori, messi alle strette dalle lotte contadine dovettero concedere numerose “carte di
franchigia” che definivano e limitavano certi poteri signorili. In questo modo, le comunità rurali, antiche
presenza nella storia delle campagne, ricevettero un riconoscimento ufficiale. Fu importante soprattutto il
riconoscimento del diritto dei contadini di vendere le terre avute soltanto in concessione; ora i “rustici”
avevano più libertà d’azione mentre i signori acquisivano una nuova fonte di retto derivante da questi
scambi. Inoltre a partire dall’XI secolo le terre soggette al pagamento di un censo, considerate prima
ereditarie e poi alienabili, si avvicinarono sempre più all’allodio, ossia alla forma di piena proprietà.
E’ bene sottolineare tuttavia l’assoluto predominio economico delle città sulle campagne: era la crescita
della domanda cittadina a stimolare la produzione agricola e parte della ricchezza acquisita dai mercanti era
rimpiegata nell’acquisto di terre. Aumentò la circolazione del denaro e il numero di crediti delle campagne;
la Chiesa vietava di ricevere interessi sul denaro prestato, esso era quindi spesso presentato come una
vendita (il debitore vendeva dei campi che gli venivano concessi per un affitto che costituiva l’interesse). Si
assistette così a una crescente polarizzazione sociale; benché fosse migliorata la condizione giuridica dei
contadini nelle campagne, non migliorò altrettanto la loro condizione economica. La condizione contadina
si avviava verso una “proletarizzazione” e peggiorava ulteriormente lì dove l’espansione della grande
proprietà metteva in rischio l’uso delle terre comuni.
Lo sviluppo commerciale e urbano e il movimento comunale
Il risorgere delle città nell’XI-XIII secolo è un fenomeno centrale per l’intera storia europea. In città infatti si
trovano i settori più incisivi e dinamici dell’economia medievale e in città si verificano alcuni cambiamenti
sociali e culturali di estrema importanza. Si assiste inoltre ad un rapporto sempre più stretto fra città e
campagna: le prime consumano le eccedenze agricole e richiedono una quantità di prodotti e di materie
prime necessarie allo sviluppo di artigianato e commercio. A favorire lo sviluppo delle città contribuiscono
alcuni fattori:
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L’aumento nella produzione di derrate alimentari e materie prime.
La crescita demografica che popola le città senza svuotare le campagne.
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La crescente specializzazione nelle lavorazioni artigianali.
L’incremento di traffici commerciali (vd fiere e mercati).
I progressi dell’economia monetaria (vd banche e coniazione monete d’oro).
Dal convergere dei diversi gruppi sociali ha origine il comune medievale, un’associazione che rivendica il
riconoscimento di consuetudini cittadini e il diritto di scegliere i propri magistrati per svolgere funzioni di
primaria importanza (difesa, amministrazione, sfera finanziaria e giudiziaria). Tra XI e XIII secolo le città
furono essenzialmente centri di produzione artigianale e di scambi; questo sviluppo urbano si accompagnò
a tre fattori rilevanti:
•
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Un incremento e una crescente specializzazione nel settore artigianale, soprattutto nell’industria
tessile.
L’utilizzazione crescente dell’energia idraulica sollecitata dall’incremento nel settore artigianale.
L’aumento della popolazione urbana favorito dalla concentrazione in città di importanti attività
economiche e commerciali (vd immigrazioni di manodopera specializzata e di nobili e contadini
delle campagne).
Le città divennero anche importanti centri di consumo ed esercitavano un predominio economico sulle
campagne vicine. La crescita urbana inoltre fu accompagnata da un progressivo sviluppo delle attività
economiche e delle relazioni commerciali. Nel XIII secolo una fitta rete di scambi commerciali collegava le
maggiori città europee; si possono distinguere tre grandi aree commerciali:
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Il commercio attraverso il Mediterraneo occidentale, passato nelle mani di Genovesi, Pisani e
Catalani. Amalfi invece decadde, verso oriente i traffici era ormai controllati da Genova e
soprattutto da Venezia.
Un bacino commerciale importante era quello costituito dai mari del Nord, dove si andava
affermando la lega anseatica (Hansa), associazione economica di numerose città costituitasi alla
fine del ‘200.
Sul continente l’asse principale dell’Occidente univa le citta dell’Italia del nord a quelle della
Fiandra. Avevano grande importanza le fiere di Champagne, che iniziarono a declinare solo a partire
dalla meta del XIII secolo quando il commercio si andava ormai sedentarizzando . I mercanti non
erano più itineranti ma stabili e avevano soci nelle principali piazze d’affari.
Crebbe notevolmente anche la richiesta di denaro e ciò ebbe importanti conseguenze: richiese l’aumento
del volume dei prezzi di pagamento e questo portò alla coniazione di nuove monete d’oro (il primo è nel
1231 Federico II con gli augustale). Inoltre si ricorse sempre più ad operazioni di credito e di cambio il cui
sviluppo segnò l’origine delle banche; si diffondono anche i prestiti ad interesse (vietati dalla Chiesa che li
considerava usura). Infine migliorarono le condizioni tecniche e materiali in cui il commercio si svolgeva:
migliorò la manutenzione delle strade e il commercio via mare fu reso più sicuro da alcune innovazioni
tecniche (bussole, carte nautiche, portolani, Tolete de Martolejo e timone di poppa). I traffici tuttavia,
nonostante l’incremento, restarono perlopiù limitati al soddisfacimento delle richieste de i ceti più elevati.
Nascono però società commerciali e finanziarie che potevano disporre di capitali più cospicui rispetto a
quelli di un solo mercante. In Italia mercanti e banchieri misero a punto due diversi sistemi:
•
La commenda nacque nelle città marinare e riguardava il commercio marittimo, si diffuse molto fra
XII e XIII secolo. Era di solito limitata a un solo viaggio e riuniva dei finanziatori ad un mercante
viaggiatore; i capitali investiti dai primi erano fatti fruttare dal secondo in attività commerciali
32
•
all’estero. Generalmente, degli utili, un quarto andava al mercante e il resto ai finanziatori (simile
era la societa/collegantia).
La compagnia sorse invece nei maggiori centri commerciali dell’interno (Milano, Firenze, Siena)
dediti ai traffici sul continente. Essa stringeva i membri di una famiglia in accordi commerciali di
lunga durata: i soci fornivano il capitale e lavoravano per la società, percependo un dividendo al suo
scioglimento (vd Tolomei, Bardi, Peruzzi). La loro struttura rigida però le rendeva fragili poiché i
cattivi affari di una filiale si ripercuotevano su tutta la società e portava al fallimento.
Questo sviluppo urbano e commerciale portò ad una crescente differenziazione sociale. A partire dall’XI
secolo si va formando la borghesia, una classe sociale dedita soprattutto a commercio e artigianato e
spesso dominante l’economia urbana. Essa riduceva spesso gli artigiani al ruolo di veri e propri proletari che
lavoravano a domicilio, si verifica una dissociazione tra capitale e lavoro: la vita dei lavoratori dipendeva
totalmente dagli uomini di affari. Il controllo della borghesia sulla vita economica era spesso consolidata da
disposizioni giuridiche, a partire dal XII secolo i grandi commercianti si associano in leghe o gilde. Anche gli
artigiani ne formarono di loro, sono le cosiddette “corporazioni delle arti e dei mestieri” controllate dai
grandi uomini d’affari. I rapporti fra maestri e lavoranti e gli altri aspetti del lavoro sono severamente
regolamentati. Dove poteva, la nuova classe borghese tendeva ad impadronirsi del potere cittadino
entrando in conflittualità con la aristocrazia militare .
Sin dalla fine dell’XI secolo nascono i primi comuni, associazioni di capifamiglia del nucleo urbano per
garantirne la pace interna, l’autonomia di fronte al signore e la sua difesa. Ebbero caratteristiche molto
diverse al di qua e al di là delle Alpi. I comuni transalpini hanno alcune peculiari caratteristiche:
•
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Si trattava di associazioni fondate sul mutuo giuramento dei partecipanti e guidate dai membri più
influenti del gruppo socialmente egemone in città, generalmente quello dei mercanti (carattere
tipicamente borghese).
Il sorgere dei comuni transalpini ebbe talvolta carattere violento, ma generalmente si trattava di un
processo graduale ed occasionale. Le libertà comunali convivevano quindi spesso con le
consuetudini signorili.
Anche l’evoluzione dei comuni non fu omogenea: in alcune città della Francia i comuni furono
appoggiati dai sovrani, per limitare il potere signorile, poi però furono presto inquadrati entro le
strutture amministrative dello stato.
Nell’Italia centro-settentrionale invece i comuni italiani avevano loro particolari caratteristiche:
•
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In primo luogo i comuni urbani italiani non nacquero per iniziativa della sola borghesia. Vi era anche
una forte presenza di milites (cavalieri e signori immigrati dalle campagne) che nel comune
riuscirono a convivere politicamente col popolus (collettività di varie famiglie in cui primeggiavano
potenti famiglie di mercanti).
La classe aristocratica tuttavia ebbe un ruolo importanti soprattutto agli inizi della vita comunale;
essa era inoltre molto bellicosa al suo interno e solo a partire dalla fine del XII secolo iniziarono a
strutturarsi società di milites dotate di consoli e podestà.
Il comune italiano inoltre si sforzò di costruire una propria dominazione territoriale, spesso molto
ampia. I gruppi dirigenti comunali iniziarono presto a sottomettere le signorie locali circostanti e ad
avviare la conquista del contado
Infine le istituzioni di questi comuni furono contraddistinte da una grande instabilità, destinata a
durare due secoli.
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Si possono però individuare alcune linee di sviluppo nella vita istituzionale dei comuni italiani:
1. Fase consolare - La prima fase di questi comuni è quella “consolare” (XII secolo) quando i comuni
erano retti da un gruppo di consoli, spesso reclutati tra i vassalli del vescovo locale. Vi era però
un’eccessiva mobilità che favoriva i contrasti fra famiglie e fazioni per la conquista del potere.
2. Fase podestarile - Nei primi anni del XIII secolo il collegio dei consoli fu sostituito da un magistrato
unico, il “podestà”. Questi fu dapprima di estrazione locale e poi un forestiero in quanto estraneo
alle lotte cittadine per il potere e garante di una maggior stabilità.
3. Fase popolare - Infine, nella seconda metà del XIII secolo, si assistette ad una egemonia della
borghesia cittadina (il “popolo” ossia mercanti e artigiani; era un “governo di classe”). Era una fase
più efficace ma non evitava nuovi scontri, soprattutto fra popolo e nobili. In questa fase
l’ordinamento comunale convive comunque con le “società dei milites” e con le parallele “società
del popolo” nate dalle corporazioni per contrastare la nobiltà. In certe città il potere fu diviso fra
podestà e “anziani”, rappresentanti delle società del popolo, ma questo regime dualistico non ebbe
stabilità. Il rapporto fra milites e popolo rimase sempre complesso e ambiguo; rimaneva il
problema della pacificazione politica all’interno delle città.
Il risveglio della cultura
Il rifiorire delle città dopo il Mille assume un’ulteriore importanza poiché queste diventano anche i centri
della formazione di idee e cultura. Fra 1150 e 1300 un grande movimento culturale trasferisce i centri del
sapere dai monasteri alle città, si sviluppano le scuole urbane e nascono le prime università. L’ambiente
urbano è ora il luogo privilegiato per la trasmissione di idee e cultura. Emerge così anche una nuova figura
dell’intellettuale, questo non è più per forza un uomo di chiesa ma anche un laico che si guadagna da vivere
esercitando la propria professione (maestro, notaio, funzionario, ecc). Sulla popolazione in genere hanno
certamente una loro importanza le idee prodotte dai giuristi, il cui lavoro esegetico contribuisce a precisare
la struttura delle istituzioni e i loro rapporti.
Fra XII e XIII secolo aumenta notevolmente la produzione e la circolazione delle idee, si diffonde di più
l’istruzione e assume grande importanza la scuola, nella cui storia è possibile individuare due distinti
momenti:
•
•
In un primo tempo (sino all’XI secolo) le grandi scuole erano soprattutto presso i grandi monasteri,
nelle città rifulgevano alcune scuole episcopali o cattedrali, mentre scarsa importanza avevano le
scuole presbiterali dove si insegnava a leggere e scrivere e si impartivano le nozioni basilari di
grammatica. L’insegnamento si basava sulle sette arti del trivio (grammatica, retorica, dialettica) e
del quadrivio (aritmetica, geometria, musica, astronomia), il loro studio era coronato da quello
della Bibbia.
Lontane dalle città, le scuole monastiche declinarono nel corso del XII secolo. I giovani
frequentavano sempre più le scuole private in cui insegnavano maestri anche celebri: le città
stavano sempre più sostituendo i monasteri come luoghi di cultura. Cambiano anche contenuti e
metodi dell’insegnamento, si sviluppa molto la dialettica e divenne sempre più importante la
riflessione e il confronto sui testi.
Fu una vera e propria “rivoluzione scolastica” che pose gravi problemi alle autorità ecclesiastiche, che fino
ad allora avevano avuto il monopolio dell’insegnamento. Nasceva così la “licentia docendi”, un permesso di
insegnare nell’ambito di una diocesi: le gerarchie ecclesiastiche riconobbero l’esistenza di scuole private ma
trattennero il diritto di concedere la licentia e quindi mantennero il controllo dell’attività di insegnamento.
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Un’istituzione scolastica del tutto nuova era invece quella dell’università
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Queste nacquero come associazioni spontanee di maestri e scolari, analoghe a quelle di altre
categorie professionali. Tra le prime vi furono quella di Bologna e quella di Parigi, la prima nata da
un’associazioni di scolari e famosa per i suoi studi di diritto, la seconda invece nata da
un’associazione di maestri e importante soprattutto in ambito teologico.
L’università fu il grande punto di riferimento culturale per i laici che voleva migliorare le proprie
conoscenze, andava cadendo il monopolio ecclesiastico sulla cultura.
L’istituzione universitaria fu tuttavia attentamente sorvegliata dal papato. Creò delle licenze per
insegnare in tutte le università e obbligò alcune università ad accettare fra gli insegnanti un numero
crescente di Dominicani e Francescani.
Nelle università si ritrovano quattro tipi di facoltà: arti liberali, teologia, diritto e medicina. E’ interessante
soprattutto l’evoluzione della facoltà delle arti, inizialmente avente soltanto la funzione di preparare agli
studi teologici, essa assunse una progressiva autonomia nel corso del XIII secolo. L’insegnamento avveniva
essenzialmente in tre importanti momenti: la lectio (lettura del testo per comprenderlo e commentarlo), la
disputatio (discussione per approfondire alcuni argomenti) e la determinatio (ossia la risoluzione, che
avveniva il giorno dopo una discussione quando il professore stabiliva la risposta a suo parere corretta
rispetto ai problemi posti). Era quindi una scuola estremamente in grado di stimolare la discussione e
l’attitudine al ragionamento degli studenti. Si trattava di un insegnamento essenzialmente orale, ma
comunque l’università contribuì ad aumentare il numero di libri in circolazione, il cui alto prezzo tuttavia ne
ostacolava la diffusione.
Due questioni cruciali per gli intellettuali di questo periodo erano il rapporto fra fede e ragione e quello fra
papato impero, in qualche modo connessi, e che vengono chiaramente identificati sin dal XI secolo. La
riflessione sui vari problemi filosofici e religiosi ha una grande importanza: essa incide infatti sulla creazione
di sistemi di idee con cui ci si regola nella vita individuale, sociale e politica. A partire dall’XI secolo prende
piede l’arte dialettica e la logica viene sempre più applicata a i problemi teologici. C’è chi rifiuta questa
impostazione, come Pier Damiani, ed altri che invece l’accolgono, come Anselmo d’Aosta. Sulla via aperta
da quest’ultimo si inserirà più tardi la grande riflessione teologica di Tommaso d’Aquino che tentò di
conciliare fede e ragione, ossia verità rivelata e pensiero aristotelico. L’uso spregiudicato della dialettica
preoccupa però le gerarchie ecclesiastiche e porta alla censura di alcune opere, come a quella di Abelardo,
e alla condanna di alcuni autori, come accadde nel 1277 a Sigieri di Brabante. Va quindi scemando la fiducia
nella possibilità di effettuare grandi opere di sintesi e le risposte alla possibile conciliazione fra fede e
ragione è sempre più scettica.
Fece inoltri grandi progressi la cultura giuridica, stimolata dal bisogno di definire meglio i rapporti fra il
papato e l’impero. Lo studio di questa disciplina si oriento in due direzioni:
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Da un lato fu approfondito lo studio del diritto romano, anche grazie al ritrovamento del Corpus
iuris civilis. A Bologna Irnerio diede origine ad un’importante scuola di “glossatori” che spiegavano
con glosse (note a margine) la raccolta giuridica di Giustiniano.
Dall’altro fu precisato il diritto canonico, di cui è rimasto soprattutto il “Decretum” del XII secolo,
dove il canonista Graziano raccolse i canoni emanati da chiese e concili e che divenne la base del
diritto canonico.
Il contatto con il mondo islamico ebbe particolare importanza nel risveglio della medicina e permise di
studiare alcuni classici della medicina antica. Questa disciplina però aveva un carattere ancora fortemente
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teorico, molti infatti erano i pregiudizi verso le “arti meccaniche” che pure suscitavano più attenzioni che in
passato. Si andava però affermando un tendenza all’osservazione concreta e allo studio della natura, anche
gli studiosi iniziarono a “fare” e a raccogliere in maniera scritta i risultati dei loro esperimenti. I “pionieri” di
questa nuova scienza naturale furono Ruggero Bacone, Vitellione e Teodorico di Freiberg e soprattutto
Ruggero Bacone intuì l’importanza dell’osservazione diretta e del metodo sperimentale aprendo la strada
alla moderna concezione di scienza.
Fra XI e XII secolo mutava inoltre in modo profondo la figura dell’intellettuale; era sempre meno
frequentemente un uomo di chiesa e non insegnava presso monasteri o Chiese. Era un intellettuale di
professione che trovava occupazione grazie alla domanda culturale che nasceva dalla società urbana e
grazie alla richiesta di funzionari preparati da parte degli stati. Questi intellettuali erano, accanto ai ricchi
borghesi e alla nobiltà, una sorta di aristocrazia. Le idee lontane da quelle ecclesiastiche portarono alle
prime censure e provvedimenti volti a controllare l’istruzione su discipline delicate come la teologia.
Tuttavia la libertà d’azione degli intellettuali fra XII e XIII secolo fu generalmente ampia e il loro contributo
incise profondamente sulla soluzione dei problemi della società. Ciò è dovuto soprattutto alla
frammentazione dei poteri che favoriva la libertà di pensare e di agire degli intellettuali medievali.
La cultura scritta si diffuse in questo periodo essenzialmente presso due ceti: quello cavalleresco e quello
borgese. Leggere e scrivere diventò una necessità e una migliore istruzione era necessaria sia per la vita di
corte che per svolgere le complesse funzioni amministrative. Aumentò così il numero di bambini e ragazzi
che frequentavano le scuole cittadine. L’istruzione faceva invece fatica a penetrare nel mondo contadino
dove la diffusione era limitata e la stessa preparazione religiosa superficiale e derivata soprattutto dalle
prediche dominicali degli ecclesiastici. Tuttavia fra XI e XIII secolo la cultura scritta uscì dai monasteri nelle
città e passò nella mani dei laici; inoltre grazie alla “rivoluzione” scolastica toccò un numero sempre più
vasto di persone benché rimanesse comunque diffusa soltanto presso i ceti più elevati della popolazione
(aristocratici e borghesi).
Nuove dimensioni dell’esistenza
Fra XI e XIV secolo alcune grandi trasformazioni “investono” le concrete dimensioni dell’esistenza umana. Si
tratta soprattutto dei modi di concepire e percepire lo spazio, la famiglia e i rapporti con la donna; nasce
una nuova organizzazione familiare e parentale. Avanza il processo di “cristianizzazione” del tempo e,
soprattutto a partire dal Mille, si ripresenta il problema della fine del mondo e del ritorno di Cristo. Il
calendario invece è ormai completamente conquistato dalla chiesa (ogni giorno è contraddistinto da un
santo o da una festività) e la gerarchia ecclesiastica esercita un capillare controllo sull’uso individuale del
tempo (vd divieto di lavorare nei giorni festivi, indicazione dei giorni di digiuno ecc). Tuttavia il processo di
cristianizzazione non è completo, ancora nel Trecento sopravvivono resti di culture precristiane,
soprattutto sotto forma di superstizioni. Un caso emblematico è quello dell’idea di Fortuna, cristianizzata e
sottomessa a Dio, ma comunque di origine estranea al pensiero cristiano. Essa era però accettata in quanto
segno del fatto che il tempo non appartiene all’uomo ma a una forza a lui superiore.
A partire dalla fine del X secolo acquisisce importanza crescente il fenomeno del millenarismo. Con questo
termine si indica l’attesa dell’anno Mille, o più in generale, l’attesa di un regno di pace e felicità terrena che
Cristo instaurerà dopo la fine del mondo e la sua seconda venuta (tema sia messianico che escatologico). La
Chiesa si era progressivamente allontanata da tali concezioni, tanto da condannarle nel 431 nel Concilio di
Efeso. Nasce più tardi però, tra XII e XIII secolo, una nuova forma di escatologia che confluisce poi nelle
credenze millenariste. Essa si alimenta a partire dagli scritti di Gioacchino da Fiore per cui la storia si
suddivideva in tre epoche anziché in due; in ognuna delle quali si manifesterebbe una persona della trinità
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divina. Le sue teorie trovano una grande diffusione tra XIII e XIV secolo tra quei religiosi che richiedono la
liberazione della Chiesa dalla corruzione.
Nel periodo tra il Mille e la fine del Medioevo cambia profondamente anche il modo con cui gli uomini
intendono lo spazio e il loro rapporto col territorio e i luoghi quotidiani della loro esistenza. Permangono
alcuni modi di misurare e di intendere lo spazio, tuttavia il territorio è più precisamente misurato e meglio
conosciuto che nei secoli precedenti. La valorizzazione del suolo è senz’altro legata ai processi di
agrarizzazione del suolo in corso in questo periodo. Cambia così il rapporto che l’uomo ha con le aree
boschive e forestali, prima viste come aree da dissodare, poi invece intese come elementi da tutelare per la
loro importanza. Si avverte così l’esigenza di una misurazione più esatta e standardizzata delle superfici,
talvolta imposta dal potere politico per esigenze fiscali. Si assiste così ad un miglioramento nelle
conoscenze matematiche, geometriche e di agrimensura spinte proprio da una più dettagliata conoscenza
dello spazio. Alcuni profondi cambiamenti riguardano anche lo spazio concretamente vissuto dagli uomini:
la casa e l’ambiente domestico continuano ad essere i luoghi fondamentali per la vita delle persone. Le case
col tempo sono più spesso in muratura, nascono i castelli signorili vicino ai quali si vengono a trovare molte
case ed un villaggio, anch’esso cinto da mura; i nuovi punti d’orientamento nelle campagne sono le aziende
agrarie. Cambia lentamente l’intero modo di intendere il rapporto con la natura: permangono superstizioni
e riti volti a ottenere guarigioni o ad allontanare disastri (vd anche santi), i contadini però sono anch’essi in
grado di distinguere le pratiche precisamente religiose dalle formule divinatorie e superstiziose. Si va invece
differenziando sempre più lo spazio cittadino da quello contadino: lo spazio urbano è sempre più
caratterizzato da attività economiche sue peculiari (artigianato, commercio, finanza), le città sono sempre
più spesso luogo di residenza per i nobili e diventano il luogo dove si confrontano giornalmente abitudini e
stili di vita diversissimi. Lo spazio domestico tende a diversificarsi a seconda dei ceti sociali e l’intera città è
una spazio “gerarchizzato” suddiviso in una serie di aree destinate a funzioni specifiche. Sorgono piazze,
palazzi, monumenti e torre nobiliari, sia strumenti di lotta fra fazioni, che, soprattutto, simboli di prestigio e
di un’alta condizione sociale. La processione del santo patrono di ogni città è un importante occasione per
riaffermare la coesione sociale del comune e la diversa importanza politica dei membri che vi partecipano.
Avvengono importanti trasformazioni anche per ciò che riguarda la famiglia: si affermano definitivamente
la monogamia e il matrimonio cristiano anche presso i ceti aristocratici. Rimangono fenomeni come il
concubinato e forme di relazioni extramatrimoniali ma sono ormai visti come trasgressioni ad un codice. Si
impone l’idea di coppia a tutti i livelli della scala sociale; nel XIV secolo la famiglia è oramai caratterizzata da
una struttura coniugale dove il matrimonio dei figli indica la rottura di tale nucleo e la nascita di uno nuovo.
A partire dall’XI secolo emerge inoltre un nuovo e importantissimo fenomeno: si va organizzando la
parentela intorno alla linea della discendenza paterna o maschile (patrilignaggio), le famiglie aristocratiche
danno origine a dinastie discendenti da un antenato comune in linea paterna. Per queste casate familiari il
lignaggio assumeva anche un importante ruolo politico: il senso di appartenere a una precisa dinastia
rafforzava la coesione e diventava uno strumento di lotta politica. L’affermazione della discendenza
patrilineare avviene anche grazie le norme emanate a riguardo via via dai comuni, che rafforzano questa
tendenza. Parallelamente all’affermarsi della discendenza maschile, peggiora la condizione della donna, le
mogli non possono richiedere l’eredità del marito, che tende a passare al figlio. Scompare la dote, ora è la
moglie a portare dei doni al marito al momento delle nozze. Viene però attenuato l’antico diritto del marito
di punire, anche con la morte, la proprie moglie, mentre per ciò che riguarda il lavoro la situazione è
relativamente stabile. Essa lavora sempre entro le mura domestiche mentre diminuisce il suo ruolo nella
produzione economica per via controllo delle corporazioni su molti aspetti della vita economica urbana (vd
tessuti).
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Il movimento per la riforma ecclesiastica e la crociata
Nell’XI vengono sempre più alla luce i difetti del sistema delle chiese private, ormai strumento per le
ambizioni dell’aristocrazia laica. Si sviluppa così un potente movimento per la riforma della chiesa che
presenta tre caratteristiche fondamentali:
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Mira anzitutto a moralizzare la vita del clero (eliminare concubinato, e simonia).
Implica un urto contro l’impero per escludere i laici dal governo delle chiese.
Si svolge parallelamente alla trasformazione del papato in una monarchia che governa tutto il
mondo ecclesiastico.
Con la riforma si afferma perentoriamente la monarchia papale, le comunità dei laici sono sempre più
subalterne e ridotte alla cieca obbedienza religiosa. Incominciano ad esserci momenti di aspre rivolte e
tensioni, si apre il periodo della repressione antiereticale. Dalla tensione spirituale per la riforma si
sviluppano anche nuove esperienze monastiche e il grande fenomeno delle crociate (l’unico aperto ai laici).
Il disordine dovuto al commercio delle chiese e dei patrimoni ecclesiastici era peggiorato da tre fattori:
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“Clericalizzazione delle ricchezze”: i singoli membri del clero tendono a disporre in proprio dei beni
delle chiese.
Poiché gli ecclesiastici pagavano per la carica (simonia) era automatico che dovessero vendere
funzioni e sfruttare sacramenti per ripagarla.
Mancavano norme tassative sul celibato del clero.
Molti erano quindi i fermenti e le istanze rinnovatrici, sostenute soprattutto da tre grandi gruppi:
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In primo luogo vi erano i monaci e i prelati che avevano subito l’influenza del monastero di Cluny, le
cui dipendenze erano ormai diventate veri e propri centri di azione pastorale.
In Italia operavano in senso riformatore anche eremiti e cenobiti particolarmente austeri (vd Pier
Damiani).
Infine ebbe ruolo decisivo l’iniziativa popolare, delineatasi chiaramente verso la metà dell’XI secolo.
In Toscana erano importanti i monaci di Vallombrosa, in Lombardia si verifica il fenomeno laicale
della pataria (capeggiata però dal diacono Arialdo).
Le prime applicazioni delle richieste dei riformatori avvennero nel 1039 con l’imperatore Enrico III. Questi
sottrasse il papato dall’influenza dell’aristocrazia laziale e insediò come papi alcuni importanti vescovi
tedeschi (Clemente II e Leone IX), lottò contro la simonia e per ripristinare severe comportamenti
ecclesiastici. Da allora furono i papi il punto di riferimento dei riformatori e furono importanti alcuni concili
tenutisi in Occidente in questo periodo, si combatterono i comportamenti ecclesiastici negativi (simonia e
concubinato) si impedì l’influenza laicale e sul clero e si affermò di pari passo l’assoluto primato del papa e
della Chiesa di Roma. Frutto dell’azione di questi anni furono non solo alcuni grandi successi ma anche lo
scisma del 1054 che segnò definitamente la rottura tra Roma e la Chiesa orientale a causa dell’intransigente
affermazione del primato della sede romana. Non sembrò una frattura più grave delle precedenti, ma per
via di circostanze successive e della grossa separazione ormai presente fra Oriente e Occidente, essa
perdurò nel tempo e fu definitiva.
Si interruppe però la collaborazione fra papato e impero per l’azione riformatrice; il clero cercava sempre
più di imporre un primato assoluto del papa sulla chiesa e sul mondo. Nel 1059 Niccolò II decretò che la
designazione del papa doveva avvenire Roma ed essere riservata ai cardinali. Clero e popolo conservavano
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il diritto di approvare per acclamazione il nuovo eletto, all’imperatore erano dovuti onore e riverenza ma
egli non poteva avere un ruolo nelle faccende papali. Tali decisioni determinarono la reazione della corte
tedesca; la curia cercò quindi un nuovo sostegno nei Normanni, stanziatisi nella prima metà dell’XI secolo in
Italia Meridionale. Con loro Niccolò II si accordo a Melfi (1059), ne riconobbe la dominazione sul Meridione
e diede loro alcuni principati in cambio dell’impegno a sostenere con le armi il decreto sull’elezione papale.
La Chiesa si andava strutturando in forma monarchica e il primato papale diventava un mezzo per imporre
la riforma. Gregorio VII con il “Dictatus papae” (1075) esaltava ulteriormente il ruolo del vescovo di Roma
ma fu osteggiato dal clero più antiriformista e si scontrò con parte dell’episcopato. Diventavano sempre più
aspri anche i contrasti con l’impero; nel 1075 Gregorio VII non si limitò a proibire la simonia e giunse a
impedire di consacrare vescovo chi avesse ricevuto un vescovado da un laico. Enrico IV non poteva
accettare tale decreto e replicò con le assemblee di Worms e Piacenza dove l’episcopato tedesco e quello
lombardo decretarono la deposizione del papa. Gregorio VII allora decretò la deposizione dell’imperatore,
lo scomunicò e sciolse i suoi sudditi dal giuramento di fedeltà; era la prima volta che un papa si arrogava il
diritto di scomunicare un imperatore. Parte dell’aristocrazia laica tedesca sostenne il papa, Enrico IV
dovette così recarsi a Canossa in Italia e si umiliò di fronte al pontefice, che quindi revocò la scomunica. Egli
però riprese la lotta contro il papa che nuovamente lo scomunicò e lo dichiarò deposto, ma parte
dell’episcopato tedesco si avvicinò al re e dichiarò deposto il papa. Venne così eletto un antipapa: Clemente
III, da cui, dopo aver occupato Roma, si fece incoronare imperatore. Gregorio VII fu catturato e poi liberato
dai Normanni, morì nel 1085 a Salerno; dopo la sua morte lo scontro fra papato e impero continuò ma con
toni meno violenti.
Prevaleva ora una tendenza al compromesso tra riformatori e antiriformatori; col “compromesso di Sutri”
(fra papa Pasquale II e Enrico V) del 1111. Il papa avrebbe restituito all’imperatore tutti i beni e le funzioni
pubbliche concessi alla Chiesa da re e imperatori mentre l’imperatore avrebbe rinunciato alle investiture.
Venne però osteggiato dal clero tedesco e l’accordo svanì; veniva così meno ogni prospettiva di riforma
pauperistica della Chiesa e col concilio lateranense del 1116 il Papa rivendicava per questa il diritto di
essere ricca e potente. Tale linea trionfò col concordato di Worms del 1122 che pose fino al conflitto delle
investiture: Enrico V rinunciò all’investitura con anello e pastorale, ma poteva presenziare all’elezione dei
vescovi tedeschi e investirli, una volta eletti, di regalie (beni e funzioni pubbliche). L’investitura sarebbe
avvenuta con lo scettro, poi sarebbe avvenuta la consacrazione a Roma.
La storia della Chiesa ebbe alcuni sviluppi istituzionali nel corso del XII secolo: fu restaurata rigidamente
l’autorità gerarchica, cui si legava l’estromissione completa dei laici. L’elezione del papa, dopo il decreto del
1059, fu sempre più sottratta alle possibilità di intervento sia del potere imperiale che del resto del clero (i
non cardinali) e del popolo. I discorsi più radicali di riforma e le spinte rinnovatrici eremitico-pauperistiche
venivano meno, o dovevano limitarsi ad essere individuali e privi di significato socialmente eversivo. Nel
1098 venne così fondato l’ordine cistercense, di cui uno dei più importanti rappresentanti fu san Bernardo
di Chiaravalle. Si praticava una vita monastica e ascetica, ma al contempo essi praticavano una miglior
gestione della terra e del suo sfruttamento. I monaci cistercensi creavano grange, grandi aziende agrarie a
gestione diretta e con possibilità di sviluppo nella produzione; nel XIII secolo si verificò un’involuzione del
sistema col ricorso all’affitto.
Le spinte monastico-eremitiche furono assorbite dalle istituzioni, queste non riuscirono però a porre sotto
controllo le spinte religiose di cambiamento radicale. Incominciò così il tempo delle eresie, ossia delle
dottrine religiose che la chiesa reputava contrarie ai proprie dogmi. L’esercizio non autorizzato alla
predicazione portò a far ritenere ereticale il movimento dei “Poveri di Lione”, chiamati poi dei Valdesi dal
nome di Valdo, loro fondatore, sorto a Lione verso il 1170 e poi diffusosi nelle Alpi occidentali e in
Lombardia. Forte diffusione ebbero i Catari, specie in Italia, Germania e Francia meridionale; questi
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credevano nell’esistenza di due principi motori dell’universo, Dio e Demonio, spirito e materia, in conflitto
insanabile fra loro. Essi avevano una propria gerarchia: i comuni credentes erano coloro che ancora
ricercavano la perfezione, i perfecti che dovevano praticare l’ascesi e il distacco dal mondo. Vi era un solo
sacramento: il consolamentum (imposizione delle mani da parte di un perfetto) che riconciliava i peccatori
col principio del bene. Di fronte all’espansione della dissidenza e delle eresie la gerarchie ecclesiastica reagì
con forza, soprattutto reprimendo con la violenza questi movimenti, appoggiata dai poteri politici (vd
accordo con Federico Barbarossa nel 1184).
La chiusura ai laici di molti aspetti della vita religiosa lasciò però loro aperto il campo della guerra per
difendere la fede e convertire nuove genti al cristianesimo. A partire da metà dell’XI secolo fu avviata,
soprattutto sotto la spinta di Ferdinando I di Castiglia, la reconquista dei territori musulmani nella penisola
iberica. L’avanzata fu difficoltosa e solo nel 1212 i cristiani ottennero una vittoria decisiva a Las Navas.
Diverso però fu il fenomeno della vera e propria crociata. Questa fu essenzialmente un pellegrinaggio
armato verso i luoghi santi e ai guerrieri furono assicurati privilegi e la remissione dei peccati. In Oriente i
Turchi Selgiuchidi (dalla dinastia che li guidava) avevano assunto la guida del mondo musulmano, avevano
preso Baghdad nel 1055 e si erano impadroniti di tutta l’Asia Minore bizantina minacciando concretamente
la cristianità. Nel 1096 si misero in cammino i primi gruppi guidati da “profeti” come Pietro l’Eremita; si
trattava di una “crociata popolare” che in Renania fece terribili stragi di ebrei. La crociata “ufficiale” e
sostenuta direttamente dal papa partì un anno più tardi nel 1097, nel 1099 Gerusalemme fu espugnata
dopo un difficile assedio e massacrata la popolazione musulmana ed ebraica. Nascono così alcuni principati
in Medioriente, che ricalcavano le strutture feudali dell’Occidente. Erano però formazioni politiche fragili,
sia per la struttura interna che per la loro posizione geografica. Ebbero tuttavia una certa durata, le perdite
territoriali iniziarono con l’emiro Zinki che restituì ai musulmani lo spirito della guerra santa (gihad). Egli
occupò i principati più orientali e nel 1187 Gerusalemme cadde sotto l’assedio del grande sultano d’Egitto
Solimano, resistette invece la zona costiera. Fu grazie al continuo afflusso di soldati che queste dominazioni
poterono resistere così a lungo; benché si enumerino più crociate, essa era in realtà un istituto permanente
che si ripeteva pressoché ogni anno. Nacquero ordini religiosi militari come i Templari, gli Ospitalieri e i
Cavalieri Teutonici. La “seconda” crociata (1147-1149) fu promossa dopo la caduta di Edessa e guidata dal
re di Francia Luigi VII e dall’imperatore Corrado III di Svevia ma fallì di fronte a Damasco. La “terza” invece
(1189-1192) fu organizzata da tre monarchi (Federico Barbarossa, Riccardo Cuor di Leone e Filippo Augusto)
e portò alla ripresa temporanea di Gerusalemme e all’occupazione di Cipro e di una fascia costiera. Si
chiudeva in questo modo, con una ben misera espansione la prima stagione delle crociate. Infine va
sottolineato che molti furono in queste crociate gli eccidi di ebrei; questi erano da tempo stanziati
nell’Europa occidentale e la condanna ecclesiastica dell’usura faceva sì che essi spesso si dedicassero al
prestito ad interesse. Ne nasceva una forte impopolarità per il popolo ebraico che riguardava dapprima i
ceti più popolari e poi anche quelli borghesi e aristocratici. E’ su questi elementi che nacquero le stragi
ebraiche, oltre che all’antisemitismo diffuso dalle crociate che presentavano gli ebrei come un “popolo
deicida”.
Le origini della ricostruzione politica
Dopo l’anno Mille si assiste a notevoli sforzi da parte delle monarchie per imporre la propria autorità sul
mondo signorile e sulle realtà comunali. Ciò avviene in tre modi: inquadrando i signori locali in una solida
rete di legami feudali, utilizzando funzionari amovibili e gestendo attentamente l’amministrazione del
patrimonio regio. E’ difficile soprattutto legare a sé i comuni urbani, questo riesce in Francia e nell’Italia
meridionale ma non nel settentrione dove i grandi comuni lotteranno apertamente contro l’impero. Essi
infatti hanno esautorato ogni potere pubblico e stanno esercitando essi stessi un’autorità che si avvia ad
essere di tipo statale.
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La società del tempo è vista dai chierici contemporanei sempre più come tripartita in tre ordini sociali:
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Laboratores: sono la classe di chi lavora, si tratta soprattutto di contadini, le cui condizioni
giuridiche si vanno uniformando, mentre si diversificano quelle economiche. Al vertice di questo
ceto vi stanno i pochi possessori e i “ministeriales”, agenti di grandi proprietà sottoposti ai signori.
Si andavano poi distinguendo nelle città i lavoratori dediti ad attività commerciali e artigianali. Su
questo ceto gravava sostanzialmente l’onere di mantenere i due strati superiori della società.
Oratores: è la classe di chi prega. Entro questo è possibile distinguere fra il gruppo dei chierici,
destinato all’attività pastorale e inquadrato nell’episcopato, e quello dei monaci, meno unitario ma
sempre più coordinato in vari raggruppamenti. Verso il XII secolo era inoltre possibile distinguere i
monaci dai conversi, i primi destinati all’esercizio delle virtù ascetiche e generalmente di
provenienza aristocratica, i secondi di origine perlopiù contadina.
Milites (o bellatores): si trattava dei “cavalieri” ossia dei possessori di fondi che possedevano il
denaro necessario all’acquisto e al mantenimento di un cavallo, di un’armatura e che non avevano
bisogno di gestire le proprie terre in prima persona, potendosi così dedicare all’esercizio della
guerra.
Fra XI e XIII secolo si verificarono significative trasformazioni all’interno dell’aristocrazia militare; si
avvicinarono ideologicamente i possessori di castelli (detentori del potere di banno) e i cavalieri ad essi
subordinati, di inferiore condizione sociale ed economica. Tale processo è reso evidente dall’importanza
crescente che riveste per i signori l’ingresso nella cavalleria e l’adozione anche da parte dei cavalieri più
umili del titolo di “dominus” di uno stemma di famiglia e della residenza in una casa fortificata. Tale
avvicinamento fu possibile anche grazie alla diffusione di un comportamento cavalleresco condiviso
dall’intera classe che prese forma nell’ambiente ecclesiastico francese nel corso dell’XI secolo, per porre
freno alle violenze esercitate da domini e milites. L’origine di tali codici di comportamento sta nelle
cosiddette “paci di Dio”, impegni presi con giuramento da gruppi di signori in una determinata zona per
porre fine alle continue guerre. Fu allora elaborato l’ideale del cavaliere come difensore dei deboli e come
combattente per la difesa e l’espansione della cristianità. Inoltre verso la fine del XII secolo la cavalleria era
ormai pensata come un gruppo omogeneo e tendenzialmente ereditario, reso tale da una superiorità di
nascita; era un modo per difendersi dai tentativi di scalata sociale dei nuovi ricchi.
In Francia il potere regio subì grandissime amputazioni ed era stato progressivamente esautorato dal suo
ruolo; da questa difficile situazione riuscirono a venirne fuori i capetingi. Questi dedicarono grande
attenzione al loro patrimonio familiare, che estesero nel tempo e si impegnarono per realizzare una vasta
rete di relazioni feudali per imbrigliare le tendenze autonomistiche dei signori. I re appoggiarono spesso la
borghesia e favorirono il sorgere dei comuni, col chiaro intento di limitare il ruolo degli aristocratici.
Verso la fine dell’XI secolo si era ormai costituito un solido stato in Inghilterra ed in Normandia. Nel nord
Europa si era ormai sgretolato il vasto impero di Canuto il Grande dalla cui divisione nacquero Inghilterra,
Svezia, Norvegia e Danimarca, tutti ormai cristianizzati. Dopo la morte di Edoardo III il confessore nel 1066,
il re d’Inghilterra divenne Guglielmo di Normandia (1066-1087) che riorganizzò il regno su basi feudali e
cercò l’appoggio di funzionari posti sotto il suo diretto controllo. Egli rafforzò il potere monarchico (vd
anche Domesday Book); tale politica fu continuata da Enrico I (morto nel 1135) che rese la monarchia
anglo-normanna la più solida in Europa e che riuscì a fare dell’ordinamento feudale un modo per
ricomporre il territorio. Dopo una lunga guerra civile il potere passò, a metà del XII secolo, a Enrico II
Plantageneto, che oltre al regno anglo-normanno deteneva molti possedimenti in Francia. Egli ristabilì
ordine e pace e si adoperò per mettere in atto un riordinamento amministrativo. Il governo centrale
spettava al re e alla sua corte, suddivisa in sezioni specializzate (ministeri) per la giustizia e le finanze, le
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contee furono amministrate da sceriffi (funzionari amovibili) che sorvegliavano aristocrazia e popolazione
locale. Quest’opera di riordinamento suscitò la violenta opposizione dell’episcopato che aveva usurpato
diritti (specialmente giudiziari) che ora il re reclamava. Con le Costituzioni di Calderon del 1164 Enrico II
pose un freno a tali usurpazioni e sottopose il clero inglese al potere monarchico, venne fortemente
osteggiato dall’arcivescovo di Canterbury, che fece uccidere. Enrico II pose inoltre le basi dell’espansione
inglese nel resto delle isole britanniche e sottomise Scozia e molti signori irlandesi. Alla sua morte gli
successe Riccardo Cuor di Leone (1189-1199) che fu sempre impegnato in imprese sul continente e nella
crociata, tuttavia la solida burocrazia permise al regno di funzionare anche in sua assenza.
Verso i primi anni dell’XI secolo iniziarono ad immigrare in Puglia i primi gruppi di soldati normanni; qui si
costituì un loro nucleo quando il mercenario Rainolfo Drengot ottenne come ricompensa la contea
d’Aversa. Da questo momento prese piede l’espansione normanna, che a metà dell’XI secolo trovò un
ostacolo nel papato. Presto però si arrivò all’accordo di Melfi del 1059: in cambio dell’appoggio normanno
al papato, questo riconobbe la dominazione normanna. A questo punto i normanni poterono espandersi a
scapito dei territori bizantini e della Sicilia; alla fine dell’XI secolo tutta l’Italia meridionale (eccetto
Benevento, ora pontificia) era sotto il controllo di alcuni principi normanni. Dopo circa un quarantennio
l’opera di unificazione fu completa e Ruggero II ottenne infine il titolo di “re di Sicilia, di Calabria e delle
Puglie” e fu incoronato nel 1130. Questo nuovo regno non si innestava su una precedente unità politicoculturale, era invece un amalgama di realtà e città anche molto diverse fra loro. I Normanni seppero
mostrarsi tolleranti ma energici, concentrando nelle loro mani molto potere e mostrando una capacità di
legiferare e di organizzare la burocrazia uniche in Europa (vd la creazione di uffici finanziari preposti
all’organizzazione dei beni del fisco e alla riscossione dei proventi del re). Le città furono protette ma
confinate ai margini della vita politica, esse dipendevano direttamente dal re che limitava la loro libertà
d’azione. Infine, l’esistenza del regno normanno, legato alla reconquista spagnola, permise di ridurre
l’attività dei pirati e sbloccò definitivamente il bacino occidentale del Mediterraneo favorendo un più
rapido sviluppo dell’attività mercantile.
L’impero era invece stato profondamente indebolito dallo scontro col papato fra l’XI e il XII secolo e ora
dovette fronteggiare le tendenze autonomiste della grande aristocrazia tedesca e dei maggiori comuni
italiani. Alla morte di Enrico V nel 1125 seguirono alcune difficili lotte dinastiche, gli imperatori avevano
difficoltà a imporre la propria autorità e lasciarono che molti riformatori si insediassero in quasi tutti gli
episcopati. La situazione cambiò nel 1152 con Federico I che volle restaurare l’autorità regia e si sforzò di
controllare il clero tedesco. Si avvalse così di semplici funzionari di modesta origine e i suoi grandi
possedimenti familiari gli permisero di rafforzare il suo potere. Organizzò così una prima discesa in Italia,
per ottenere la corona imperiale e per ripristinarvi la sua autorità.
In Italia infatti la situazione era molto complessa: i vescovi italiani erano sempre più soggetti all’autorità
papale e le città comunali del settentrione erano ormai autonome dall’impero e stavano costruendo
proprie dominazioni territoriali. In Italia centrale la situazione era comunque preoccupante: nel 1143 era
culminata la rottura fra il papa e la città di Roma quando venne istituita una magistratura cittadina di
stampo comunale. In queste vicende si inseriva inoltre la predicazione di Arnaldo da Brescia, che avanzava
radicali ipotesi di rinnovamento religioso. Quando decise di intervenire nella situazione italiana, Federico I
poteva contare su alcuni alleati: le città minori del nord preoccupate dall’espansionismo milanese, la scuola
dei giuristi di Bologna e il papa stesso preoccupato dall’espansione normanna e dalla predicazione di
Arnaldo.
Nel 1154 Federico scese in Italia per la prima volta e sui campi di Roncaglia tenne un’assemblea in cui ribadì
gli obblighi dei vassalli e sostenne le città minori, ripristinò l’autorità del papa a Roma e fu incoronato da
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Adriano IV, Arnaldo fu catturato e impiccato. Per ripristinare il potere imperiale Federico si convinse di
dover sottomettere Milano, scese quindi una seconda volta in Italia e la sconfisse. A questo punto Federico
(ora chiamato il “Barbarossa”) volle organizzare saldamente il regno d’Italia, organizzò una nuova
assemblea a Roncaglia dove si fece riconoscere dai giuristi bolognesi il monopolio del potere pubblico.
Stabilì nella Definitio regalium quali fossero i diritti di pertinenza regia e nella Constitutio pacis proibì le
guerre private, le tasse illecite e le associazioni fra persone o fra città. Queste decisioni furono però
osteggiate sia a Roma che a Milano: papa Alessandro III temeva di veder limitato il proprio potere, allora
Federico elesse Vittore IV e poi Pasquale III come antipapi. Intraprese una nuova campagna contro Milano
che si arrese nel 1162 e che venne incendiata e distrutta. I comuni lombardi però cercarono l’alleanza con
Alessandro II e si organizzarono nella Lega lombarda, Federico intraprese una nuova campagna in Italia ma
Alessandria (da poco fondata) resistette all’assedio e nel 1176 il Barbarossa fu definitivamente sconfitto
dalla Lega lombarda a Legnano. Nel 1177 papa e imperatore si riconciliarono, nel 1183 trovò l’accordo con i
comuni italiani nella pace di Costanza, che segnò un arretramento dell’autorità monarchica rispetto alla
dieta di Roncaglia. Di fatto i comuni mantenevano il loro potere e l’autorità imperiale restava solamente
formale. Il tentativo del Barbarossa era così fallito, riportò però una vittoria diplomatica col matrimonio del
figlio, futuro Enrico VI con Costanza d’Altavilla, ereditiera del regno normanno di Sicilia.
L’ambizioso progetto ierocratico di papa Innocenzo III
Il XII secolo è caratterizzato in Occidente dal rafforzamento delle grandi monarchie; si assiste in questo
periodo anche all’affermarsi della particolare monarchia papale. Innocenzo III riprende alcuni ideali di
Gregorio VII e sostiene la superiorità del potere spirituale del papato su quello temporale dell’impero, re e
imperatore devono accettare la supremazia papale (ierocrazia). E’ però un progetto destinato al fallimento,
per via della crescita delle monarchie, sempre più autonome e indipendenti dal papato. Alla base del potere
di quest’ultimo vi è un’efficientissima organizzazione gerarchico-burocratica e una notevole potenza
finanziaria. Si sviluppano però molti movimenti in dissenso con questo modello di chiesa e sono diversi i
modi con cui la chiesa risponde a diffondersi delle eresie: nuovi strumenti di lotta (vd crociata contro i
dissidenti), ricerca sistematica degli eretici e nascita degli “Ordini Mendicanti”. A fine secolo termina questa
lotta contro le eresie, ormai ridotte a fenomeno clandestino e marginale mentre, anche se le ambizioni di
dominio papale sono ormai ridimensionate, permane la grande organizzazione di questa monarchia.
Enrico VI, nuovo imperatore, portò sebbene con qualche difficoltà, anche il regno di Sicilia sotto il suo
controllo ottenendo così un impero vasto e temibile ma comunque con molti elementi di debolezza. Per
ingraziarsi il papa organizzò una nuova crociata, ma morì prematuramente in Sicilia nel 1197 quando suo
figlio Federico aveva solo tre anni. Questa morte portò al collasso la sua potenza, la Chiesa si lanciò un
ambiziosissimo progetto ierocratico. La madre di Federico Costanza d’Altavilla non poté rivendicare per il
figlio dignità imperiale e dovette riconoscere il dominio papale sugli ex domini normanni, in questo modo
Federico poteva almeno diventare re di Sicilia nel 1198.
A perseguire il progetto ierocratico fu papa Innocenzo III (1198-1216) che intendeva sottoporre l’impero
alla sua autorità, egli riorganizzò l’apparato amministrativo e finanziario della curia papale e prese
contemporaneamente in mano il controllo amministrativo della città di Roma. Si dedicò alla cosiddetta
“politica dei recuperi”, tentando di riottenere quei territori che erano stati bizantini. Il vuoto di potere
imperiale apertosi con la morte di Enrico VI favorì fortemente i progetti del papa, che sostituì con
funzionari pontifici quelli germanici e cercò di imporre la propria autorità sui comuni e i poteri emergenti
nel centro-Italia. Per raggiungere i suoi scopi Innocenzo utilizzò largamente il legame feudale, il suo potere
era tale che per due volte riuscì a imporre come imperatore il proprio candidato, prima Ottone IV e poi
Filippo II di Svevia. Benché quella di Innocenzo III fosse una politica di ampio respiro, egli tuttavia non
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poteva fare a meno della collaborazione subordinata delle monarchie e di Federico. Quando questi
riuscirono a riottenere potere, il progetto papale poteva ormai dirsi completamente fallito.
La crociata promossa a suo tempo da Enrico VI fu successivamente promossa dal papato e vi parteciparono
molti signori occidentali. I crociati si imbarcarono a Venezia e, per pagare il trasporto, conquistarono Zara in
nome della Serenissima. Si diressero poi verso Costantinopoli dove rimisero sul trono l’imperatore
spodestato Isacco II. Dovettero però rinunciare all’impresa in Palestina e a conquistare Gerusalemme, i
crociati istituirono un loro impero latino sulle rovine di quello bizantino eleggendo un loro imperatore.
Venezia ottenne Creta e altre isole dell’Egeo. Le crociate avevano ormai perso del tutto i loro scopi religiosi
ed esistevano esclusivamente come strumento politico, benché a lungo il papato continuò a dare grande
importanza al recupero della Terra Santa. La quinta crociata (1217-1221) combatté per quattro anni senza
alcun risultato pratico.
Per quanto riguarda invece la lotta contro gli eretici, essi furono perseguiti con la repressione e l’isolamento
mentre ci si sforzò di reinserire all’interno dell’istituzione ecclesiastica quelle forze vive che se ne stavano
allontanando (vd Umiliati). Il progetto di Innocenzo III utilizzava due mezzi: la repressione, che si avvalse
della equiparazione della dissidenza religiosa col reato di lesa maestà e la creazione di un nuovo corpo di
predicatori. Un ruolo fondamentale assunsero infatti i cosiddetti “ordini Mendicanti”, in particolare quello
dei Frati Minori (fondato da Francesco di Assisi) e quello dei Predicatori (fondato da Domenico di Gùzman).
La prima regola francescana sarebbe stata approvata nel 1210 e l’ordine crebbe moltissimo e molto
velocemente. Anche l’ordine dominicano ricevette un forte impulso e nel 1235 aveva già più di 300
conventi. Strumento di lotta antiereticale fu anche la crociata, famosa fu quella contro i catari di
Linguadoca (detti Albigesi) che diventò una carneficina. Si aprì una serie di lotte finché Luigi VIII non riportò
alcuni decisivi successi militari benché non riuscì comunque a sradicare ogni dissidenza. Nel 1215 si inasprì
la lotta contro le eresie, si moralizzò la vita del clero e sia arrivò all’istituzionalizzazione della crociata come
strumento di lotta contro le dissidenze. A questa fu affiancata l’inquisizione, termine che dapprima
intendeva la procedura istituita dal papato alla fine del secolo XII per lottare contro la dissidenza religiosa,
poi per traslato andò a indicare i tribunali incaricati di perseguire gli eretici, amministrati usualmente da
membri del nuovo ordine dominicano. La lotta contro le eresie ottenne rapidi successi, queste erano, alla
fine del Duecento, fenomeni ridotti, minoritari e clandestini, incapaci di aver presa sulle masse.
Processi di costruzione statale nell’Europa del XIII secolo
Nel XIII secolo il continente euroasiatico fu sconvolto dalle conquiste dei Mongoli guidati da Gengis-Khan e
dai suoi discendenti. Essi costruirono un impero che andava dal mar del Giappone alle rive del mar Nero e
che a metà secolo mise in serio pericolo l’Europa. Essi imposero ai loro domini una pace duratura, detta
“pace mongola” che favorì i contatti economici e culturali fra Europa ed Asia (vd viaggi di Marco Polo). I
Mongoli seppero far tesoro delle capacità di governo e amministrazione dei popoli sottomessi, ma questo
non bastò loro per mantenere l’unità dell’impero. Questo andò progressivamente a frazionarsi per via
dell’estrema difficoltà nel governare in modo centralizzato questi estesi territori, a causa della scarsità
numerica dei vincitori e per i ricchi possedimenti di tutti i discendenti di Gengis-Khan.
L’Occidente percorreva invece proprio la via opposta a quella del frazionamento: si andavano
ricomponendo sempre più territori e l’autorità statale assumeva maggiori poteri. Ciò avvenne grazie all’uso
del legame feudale come modo di controllo dell’aristocrazia, grazie all’aumento di funzionari amovibili e
con l’incremento degli introiti fiscali. Seguono questo percorso sia i grandi regni che i comuni italiani,
risorge quindi lo Stato in Occidente che deve però sovrapporsi e fare i conti con i numerosi poteri locali vd
assemblee rappresentative dei tre ordini del corpo sociale).
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Per rafforzare il potere si contò sempre di più sull’uso di funzionari amovibili, veri e propri “professionisti”
dell’amministrazione, conoscitori del diritto romano e provenienti dalla nobiltà o anche dall’alta borghesia.
In Francia essi sono i “prevosti” (che gestivano fortezze, beni fondiari e poteri posseduti dal re a titolo
signorile) o i “balivi” (veri e propri funzionari pubblici). Si andava inoltre strutturando la corte in alcune
sezioni: il “Consiglio del re” era composto da grandi vassalli e da borghesi esperti di diritto (legisti) che
coadiuvavano il re, il “Parlamento” che amministrava la giustizia e la “Camera dei Conti” che amministrava
e controllava le entrate. In generale il rafforzamento delle monarchie prevedeva due costanti: l’uso di
funzionari amovibili e una robusta rete di legami feudali. Era necessario però anche un aumento degli
introiti dello Stato, reso possibile, oltre che dallo sfruttamento privato dei terreni regi, dal diritto di battere
moneta, dall’esazione di pedaggi e tasse, dalle confische ecc.
Federico II fu uno dei re che più si dedicò a rafforzare l’autorità statale, che per ottenere l’incoronazione
aveva dovuto riconoscere l’autorità del papato sui domini ex normanni in Italia meridionale e promettere
che non avrebbe mai riunito la corona siciliana e quella imperiale. Le cose però cambiarono dopo la morte
nel 1216 di Innocenzo III quando Federico iniziò a perseguire una politica autonoma che portò al crollo della
politica papale che voleva separare impero e regno di Sicilia. Ottenne ciò attraverso vari mezzi:
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L’elezione in Germania del figlio Enrico (già re di Sicilia) che divenne re dei Romani (1220) e aiutò da
vicino il padre.
L’incoronazione imperiale a Roma nel 1220.
La promessa che l’unione di impero e Sicilia sarebbe rimasta un’unione personale.
L’impegno a sostenere la quinta crociata.
L’appoggio alla politica ecclesiastica di persecuzione degli eretici.
Nel 1227 si ruppe definitivamente l’intesa fra papato e impero e sfociò in una guerra aperta: Gregorio IX
scomunicò Federico che rimandava la crociata, questi allora la riprese e si limitò a negoziare un
compromesso col sultano d’Egitto e si incoronò re di Gerusalemme.
Fu fondamentale l’opera che Federico intraprese in Italia meridionale dove restaurò in maniera inflessibile
l’autorità regia: sconfisse i baroni ribelli e abolì le autonomie cittadine. Promulgò nel 1231 il Liber
Augustalis dove rivendicava ampissimi poteri; il governo dello Stato fu raccolto nelle mani del re,
coadiuvato dalla Magna Curia, assemblea dei principali funzionari del regno. Egli inoltre si assicurò alti
introiti fiscali e aumentò il ruolo del re nell’economia. Infine il suo regno fu molto importante anche
nell’ambito culturale: fondò nel 1224 l’Università di Napoli e accolse alla sua corte grandi uomini di cultura.
Successivamente Federico cerca di imporre la sua autorità anche sui comuni dell’Italia centrosettentrionale, che da tempo godevano di estrema autonomia. Si aprì un periodo di conflitti con questi
comuni, uniti dal 1226 nella rinata Lega lombarda, sconfitta da Federico II nel 1237 a Cortenuova. Lo
scontro si stava “ideologizzando”: da una parte vi erano i ghibellini, sostenitori dell’impero, dall’altra i guelfi
alleati della Chiesa. Federico II però ebbe la peggio: papa Innocenzo IV lo scomunicò e bandì nel 1245 una
crociata contro di lui. Fu infine sconfitto nel 1249 a Fossalta in Emilia e morì improvvisamente nel 1250.
Crollò così definitivamente la potenza imperiale che scomparve dalla primaria scena politica dell’Occidente.
Restava però in piedi la solida struttura statuale che Federico II aveva costruito nel meridione; dopo
qualche anno di crisi questa fu ereditata dal figlio Manfredi di Svevia, incoronato re di Sicilia nel 1258.
Minacciato dal suo potere e dai suoi primi successi (vd battaglia di Montaperti) il papato reagì incoronando
re di Sicilia nel 1263 Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia. Questi attaccò Manfredi e lo sconfisse e uccise
nella battaglia di Benevento (1266); il partito ghibellino e svevo non riuscì più a riprendersi. Carlo cercò di
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estendere la propria influenza e di creare attorno all’Italia meridionale un vasto impero marittimo. La sua
politica tuttavia provocò preoccupazioni in Italia e il nuovo imperatore Rodolfo d’Asburgo (1273) che favorì
la ripresa delle forze antiangioine e una lega sottrasse al re i suoi domini piemontesi. Il duro fiscalismo
causò inoltre in Sicilia la “rivolta del Vespro” del 1282 che si diffuse in tutto il regno e portò alla cacciata
degli angioini. Si formò quindi la “communitas Siciliae”, lega di città pervase da un rinnovato fervore della
vita comunale che accetto l’intervento di Pietro III d’Aragona che riprese il vecchio sistema normanno di
governo basato sulla burocrazia e sulla collaborazione con i baroni. Gli angioini si sforzarono di
riconquistare l’isola: ne nacque la “guerra del vespro” e solo nel 1302 fu stipulata la pace. Si era ormai rotta
l’unità del regno normanno: la Sicilia fu affidata agli Aragonesi e il meridione restava Angioino.
Ben diversa era la situazione in Francia dove la dinastia capetingia riuscì a instaurare una dominazione di
tipo statale. Salito al trono nel 1180 Filippo I Augusto avviò un’opera di ricostruzione territoriale e sottrasse
numerosi territori appartenenti al re d’Inghilterra Enrico II (vd poi la battaglia di Bouvines nel 1211). Inoltre
egli riuscì a imporre il proprio potere sui ducati, i comuni e le altre realtà locali. Riorganizzò esercito e
amministrazione pubblica, per questo dovette aumentare la pressione fiscale e richiedere più spesso il
pagamento di imposte fino ad allora considerate eccezionali (vd “aiuti”). Il bisogno di risorse spinse Filippo
IV il Bello (1285-1314) a obbligare gli ecclesiastici francesi al pagamento delle imposte. Ne nacque un duro
scontro con papa Bonifacio VIII, che riprese alcune dottrine ierocratiche di Innocenzo III e lo ammonì con
una bolla. Alle rivendicazioni ierocratiche di Bonifacio, Filippo rispose facendo sostenere la sua
indipendenza dai propri giuristi, accusò il papa di avere usurpato il titolo al predecessore Celestino V e lo
fece arrestare ad Anagni (1303) con l’aiuto della famiglia romana dei Colonna. Venivano così
ridimensionate del tutto le aspirazioni papali e si apriva un periodo di collaborazione fra i successori di
Bonifacio e Filippo. Questa lotta contro il papato portò allo sviluppo in Francia degli “stati generali”
(convocati nel 1302) e degli “stati provinciali”, assemblee dei tre ordini del popolo che non assunsero mai al
ruolo delle camere inglesi e rimasero sempre uno strumento del potere regio.
Nel XIII secolo il regno inglese fu sconvolto da una serie di crisi. L’autorità di Giovanni Senza Terra (11991216) fu gravemente scossa dalle sconfitte sul continente e dal conflitto con Innocenzo III, di cui dovette
dichiararsi vassallo. Fu così costretto nel 1215 da una coalizione di baroni, prelati e borghesi a firmare la
Magna charta libertatum. Con questa il re confermava le libertà dell’aristocrazia, della Chiesa e dei comuni
inglesi davanti al sovrano; prometteva di far osservare la giustizia ai suoi funzionari e di accordare
riparazioni per i soprusi commessi. Inoltre il pagamento di imposte e sussidi doveva essere subordinato al
“comune consenso del regno” rappresentato da un’assemblea di baroni e prelati. Si andava così limitando
l’autorità del re a vantaggio delle chiese e dell’aristocrazia; non si trattava però di un regresso delle
istituzioni, bensì di un loro sviluppo in senso “costituzionale” e “democratico”. Col regno di Enrico III si
conservarono e svilupparono le strutture istituzionali e amministrative lasciate da Enrico II: il re era
circondato da un proprio “Consiglio” che diventava talvolta un “Gran consiglio o Parlamento” da cui
sarebbe nata la “Camera dei Lord” che ebbe da subito un ruolo politico di primo piano Dopo un
insurrezione di baroni capeggiata da Simone di Monfort vennero emanate le “Provisions of Oxford”, che
diedero i poteri di governo ad una serie di commissioni dell’alta nobiltà. Nacque inoltre il primo nucleo di
quella che sarà la “Camera dei comuni” composta da piccola nobiltà e alta borghesia. Nel 1265 Simone fu
sconfitto da Edoardo che, tuttavia, per mantenere il potere dovette cercare appoggio proprio presso la
piccola nobiltà e la borghesia che entrarono a far parte del parlamento.
Nel XIII secolo l’autorità monarchica progredì anche in Spagna. Qui continuò la reconquista dei territori
musulmani, nel 1212 gli ispanici fecero un’importante vittoria a Las Navas de Tolosa che aprì ad ulteriori
conquiste. A metà secolo la penisola si andava costituendo nei due regni di Castiglia e d’Aragona, cui si
aggiungevano il Portogallo e il piccolo regno di Navarra nel settentrione. Questi regni, anche se piccoli,
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riuscirono comunque a rafforzare il loro potere (vd Libro delle Leggi in Castiglia) e alcuni re riuscirono a
contenere il potere dell’aristocrazia appoggiandosi sulle città. Progredirono inoltre le corti (assemblee dei
tre ordini) che votavano regolarmente la riscossione di certe imposti e facevano da contrappeso al potere
monarchico. Tuttavia i regni della penisola iberica erano comunque lontani dal raggiungere la solidità di
uno Stato feudale come quello francese e furono anche attraversati a partire dalla fine del XIII secolo da un
periodo di scontri e guerre civili.
Lo sviluppo in senso statale caratterizza anche le istituzioni comunali italiane che giungono nel corso del XIII
secolo a una condizione istituzionale più stabile, attraverso alcuni “percorsi”:
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In alcune città la violenza politica e l’instabilità istituzionale aprono la strada all’affermarsi di una
stirpe signorile, potente soprattutto nel contado (vd Verona).
In alcuni comuni, come Milano (vd Visconti), l’affermazione signorile nasce dalla trasformazione
delle cariche più rappresentative degli organismi di popolo in cariche di durata pluriennale o
vitalizie.
In altre città, come Firenze, la situazione è diversa e complessa. L’evoluzione delle strutture
comunali appare più lenta e faticosa e si delinea un governo “delle arti” espressione della borghesia
cittadina. Era però limitato dalla concorrenza politica e militare delle consorterie nobiliari e minato
dalle lotte di fazione. Nel 1282 si instaurò come supremo organo politico quello dei “priori delle
arti” che dava maggior potere alle arti maggiori e medie. Le famiglie di magnati si scontravano però
spesso e nel 1293 Giano della Bella fece promulgare gli “Ordinamenti della giustizia” per disarmare
i violenti e che prevedeva gravi sanzioni per ogni violenza commessa dai magnati, esclusi ora dal
priorato.
Alla fine del ‘200 le istituzioni comunali si stavano ovunque stabilizzando e stava nascendo un assetto
propriamente statale che avrebbe frenato sul piano politico il movimento autonomo delle forze sociali in
lotta armata fra loro.
Le difficoltà economiche e sociali delle campagne
Per la storia economica i primi decenni del XIV sono particolarmente importanti: dopo una congiuntura
favorevole che aveva caratterizzato il periodo dopo il Mille, la situazione si capovolge e si apre un lungo
periodo di difficoltà. Sono sempre più frequenti le crisi nei diversi settori dell’economia, avvengono
fenomeni di carestie, epidemie di peste, spopolamento ed abbandono dei villaggi.
Di questo periodo economico gli storici hanno dato interpretazioni contrastanti:
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Per molti si tratta di un periodo di crisi e di depressione economica, cioè di caduta prolungata di
scambi e produzione. Causa della crisi sarebbe il fattore demografico: il sovrappopolamento crea
uno squilibrio fra popolazione e risorse, aumenta la domanda di derrate alimentari e la gravita delle
carestie. Queste, unite alla peste riportano poi al sottopopolamento.
Altri storici invece ritengono non si possa parlare di una depressione generalizzata e duratura in
quanto non bisognerebbe interrogarsi sul prodotto globale, ma su quello pro capite. Per questi
storici dunque non si tratterebbe di un periodo di estrema depressione, ma di una fase attraversata
da alcune crisi di breve periodo e di portata locale.
Ognuna di queste due spiegazione ha degli aspetti veritieri. La prima permette di capire soprattutto la
storia delle campagne e mette bene in luce il nesso sovrappopolamento-carestie-epidemie, non può però
valere come interpretazione complessiva. Le crisi monetarie, finanziarie e commerciali non possono essere
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tranquillamente ricondotte alla crisi demografica. La seconda invece pone giustamente il problema della
produzione pro capite, ma tiene troppo poco conto della situazione complessiva che indica generalmente
una condizione di declino. Si possono focalizzare alcuni punti per capire questo momento dell’economia
europea:
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•
Il “ribaltamento della congiuntura” è segnato nelle varie regioni da crisi diverse: demografiche,
finanziarie, frumentarie e sociali. Non ha quindi ovunque le stesse conseguenze e non colpisce con
la stessa forza tutti i settori (sono più colpite le campagne delle città).
Il commercio e la finanza internazionali che pulsano le città hanno un ruolo fondamentale e quindi
la congiuntura non dipende soltanto dalla domanda e dall’offerta.
Le crisi sono accompagnate da sconvolgimenti nei prezzi che provocano “ristrutturazioni” agrarie,
industriali e commerciali (esito positivo di questo difficile periodo).
Il periodo dopo l’anno mille si era caratterizzato per l’espansione demografica e l’espansione delle terre
coltivate. Col XIV secolo si apre invece una stagione di declino; già nel ‘200 era diminuita l’attività di
dissodamento mentre la popolazione aveva continuato ad aumentare. Agli inizi del ‘300 molte zone
europee erano sovrappopolate e questo era aggravato dal rapido esaurimento dei suoli conquistati alla
coltivazione: si riducono gli arativi e cala la produttività dei terreni. Aumentavano così di molto le carestie e
questo portò un forte aumento nel numero dei morti. A far diminuire la popolazione tuttavia non furono
malnutrizione e carestie; la causa maggiore fu la spaventosa epidemia di peste proveniente dall’Asia e che
colpì l’intera Europa fra 1347 e 1352. Essa non colpiva da tempo l’Occidente e i medici europei non erano
minimamente in grado di farle fronte; provocò un improvviso crollo demografico, che persistette nel tempo
per via di una serie di epidemie ricorrenti . Il risultato complessivo sulla popolazione europea fu disastroso
e molte zone videro dimezzati i propri abitanti. Di fronte a tali epidemie emergevano forti episodi di
intolleranza religiosa e in molte località vennero compiuti massacri di Ebrei, considerati responsabili di aver
diffuso l’epidemia e oggetto di risentimento per il loro ruolo di prestatori. Si svilupparono inoltre forme di
penitenza e devozione collettiva (vd movimento dei Flagellanti) che tuttavia non facevano altro che
contribuire alla diffusione del morbo.
Il crollo demografico ebbe importanti conseguenze sui prezzi e i salari che provocarono ristrutturazioni
rilevanti sul settore agricolo. La diminuzione di manodopera portò a un aumento immediato dei salari
mentre diminuì drasticamente il prezzo dei cereali, resistettero invece burro, carne, grassi e i prodotti
artigianali. La maggior redditività dell’allevamento portò ad una conversione di molti terreni, altre volte si
abbandonò la coltivazione del grano per quella di piante più richiesta dal mercato (canapa, luppolo, ecc).
Scompaiono molti villaggi; alcuni per via delle crisi, mentre in altri casi si tratta di un fenomeni di
“ristrutturazione insediativa”. La caduta dei prezzi dei cereali portò molte difficoltà economiche per la
signoria fondiaria che incassava molte meno dai suoi patrimoni terrieri. Queste difficoltà portarono al
progressivo arretramento della conduzione diretta in favore di altri modi per gestire i propri terreni. Si
diffusero l’affitto e la mezzadria che prevedeva l’obbligo del contadino di versare al proprietario la metà dei
propri raccolti. Le difficoltà di gestione delle grandi aziende ricadevano ora sui contadini concessionari,
meno colpiti dal divario fra prezzi agricoli e salari, il concessionario ne ricavava un sicuro vantaggio e
portava in attivo i suoi introiti. Talvolta la crisi delle finanze dei signori fu tale che dovettero vendere i
propri terreni che passano in mano ai borghesi più ricchi; non vi fu però un declino della nobiltà in favore di
una crescente. Nel mondo contadino i braccianti furono avvantaggiati dall’aumento dei salari mentre i medi
proprietari furono svantaggiati dai bassi prezzi delle derrate alimentari e dagli eventuali salari della loro
manodopera. Nell’Italia settentrionale e in Francia avvenne spesso che i piccoli proprietari dovessero
vendere le proprie terre ai borghesi che si andavano arricchendo; la crisi demografica accentuò così il
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processo di differenziazione sociale nelle campagne e proletarizzò gran parte delle masse rurali. I nuovi
proprietari cittadini organizzarono in poderi le nuove terre, questi raggruppavano appezzamenti di terra
contigui e facenti capo ad unica dimora rurale situata in campagna.
Una delle conseguenze sociali della depressione furono le rivolte contadine che attraversarono l’Europa.
Nel 1358 scoppiò in Francia la grande rivolta detta “jacquerie”, immediatamente repressa. Molte altre
scoppiarono attorno al 1380 , si trattava di una sorta “crisi di crescita” della Stato, che aumentava ovunque
il peso delle imposte causando le difficoltà per i ceti più bassi. In generale però convergevano in questi moti
di ribellione interessi e aspirazioni differenti che ne acceleravano il fallimento. In generale è possibile
distinguere in due tipologie queste rivolte: quella per la “vecchia legge”, che miravano a restaurare i vecchi
diritti messi in forse dai signori, e quelle per la “nuova legge” che si giustificavano appellandosi alla legge
divina. Le rivolte furono ovunque un fallimento e vennero tragicamente represse, esse però bloccarono
l’avanzata della reazione signorile.
Infine, nel corso del XV secolo si verificò un nuovo capovolgimento della congiuntura economica e si
assistette ad un ampliamento della situazione economica cui si lega un aumento demografico sostenuto dal
naturale incremento della popolazione. Si verificò così un nuova fase di espansione delle colture e di
ripopolamento: fu potenziata la rete dei canali irrigui e avvenne in Europa una differenziazione delle aree
rurali in funzione del commercio internazionale. In Inghilterra i nuovi campi coltivati vengono
progressivamente convertiti in pascoli recintati e questo aggravò il processo di abbandono dei villaggi. Si
diffusero le enclosures, che ridussero sia i suoli arativi, sia rubarono terreno agli incolti comuni (common
waste). Fenomeni simili di aumento dell’allevamento si verificarono anche in Spagna e in Italia meridionale.
In generale queste ristrutturazioni non migliorarono le condizioni di vita dei contadini, sempre meno spesso
possessori di terre e sempre più costretti a lavorare su terre in affitto o in mezzadria.
La vita economica e sociale delle città, l’artigianato e il commercio
Anche nelle città si verifica fra ‘300 e ’400 un lungo periodo di crisi. In questo periodo però si pongono
alcune delle basi su cui si fonda il mondo moderno:
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Emergono le linee essenziali di un’economia basata sulla divisione internazionale del lavoro e con
aree centrali ed altre periferiche.
Le città diventano l’elemento motore di tutta l’economia, le crisi sottraggono questo ruolo al
mondo rurale, ormai assoggettato politicamente ed economicamente.
Avvengono nelle città importanti trasformazioni sociali: l’artigianato è sempre più sviluppato e
crescono i primi nuclei di un proletariato urbano. I matrimoni fra l’alta borghesia e le famiglie nobili
portano alla formazione del nuovo ceto del patriziato cittadino.
La città è sempre più il luogo dell’organizzazione della produzione e degli scambi, nonché sede di potenti
associazioni di mestiere, delle banche e delle grandi compagnie commerciali. La riduzione della domanda
dovuta al crollo demografico ha ripercussioni anche sulle città, dove tuttavia la congiuntura economica è
influenzata anche dal movimento degli affari e da numerosi fattori. La crisi ha però diverse ripercussioni:
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Di grande rilievo sono i fallimento e le crisi finanziarie che colpiscono le maggiori compagnie
bancarie e mercantili della Toscana (cioè è dovuto alla struttura inadeguata delle società, a
un’eccessiva spericolatezza e da grossi prestiti non recuperati).
Ricorrenti difficoltà provengono dalle cosiddette “carestie monetarie” dovute alla limitata
disponibilità di moneta.
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•
Sul commercio e artigianato si abbattono inoltre il ripetersi di crisi belliche e demografiche, che
creano anche intralci negli scambi.
I centri fieristici più importanti cambiano in continuazione, quelle di Champagne sono sostituite dalle nuove
a Chalon e poi a Ginevra; esse vanno però perdendo di importanza per via della sedentarizzazione dei
commerci e del maggior volume degli scambi. Nel settore industriale si afferma il sistema del lavoro a
domicilio e delle aziende rurali. Nel primo un mercante o un imprenditore a lui associato diventa datore di
lavoro: anticipa il materiale e parte della retribuzione e paga a cottimo la differenza del costo lavoro alla
consegna del prodotto finito. In questo modo i mercanti trovano nelle campagne una manodopera più
docile ed esigente di quella urbana, composta non da operai e artigiani ma da contadini-artigiani a tempo
parziale. E’ un’ulteriore forma di assoggettamento delle campagne al patriziato cittadino. Inoltre sono
instabili anche le localizzazioni dell’industria rurale ed urbana: la manodopera specializzata tende a
spostarsi nelle città e nelle aree a maggior richiesta. Si assiste inoltre a un grande processo di
riassestamento produttivo, le diverse aree geografiche vanno specializzandosi in specifici settori della
produzione artigianale. Si tratta di una “divisione internazionale” del lavoro. Il mercato si è diversificato ed
è andato seguendo due strade differenti per superare le sue difficoltà: migliora la produzioni di lusso (molto
redditizia) e si amplia il mercato dei beni di uso comune (vd tessuti). Aumenta il commercio delle merci
pesanti e di uso quotidiano (vd grano, lane, ecc). Cambia profondamente la carta dei traffici, il
Mediterraneo è fortemente trafficato e cresce d’importanza la penisola iberica mentre va scemando il
ruolo dell’Hansa per la concorrenza Inghilterra e Germania.
Si assiste contemporaneamente ad un perfezionamento delle tecniche mercantili e finanziarie che
permettono al capitalismo commerciale di incrementare la sua capacità di trarre profitti dalle attività
economiche. In Italia vengono introdotte la partita doppia (che permette di conoscere l’ammontare di
debiti e crediti) e la lettera di cambio (titolo di credito), si sviluppano i metodi di assicurazione e si passa
dalle società a succursali a quelle a filiali, che, disponendo ognuna di un capitale autonomo, non fanno
pesare il fallimento di una filiale sulle altre. Per quanto riguarda il termine “capitalismo”, esso è applicabile
a questo periodo solo a patto di intenderlo come capitalismo “commerciale” e non “industriale”. Il primo
indica quel sistema in cui i mercanti-imprenditori dominano la produzione artigianale attraverso il controllo
del lavoro a domicilio e disciplinandola per adeguarla alle esigenze dei mercati. Nel capitalismo industriale
invece gli imprenditori non solo controllano la produzione ma si preoccupano anche di riorganizzarla. Il
capitalismo medievale è quindi una forma di capitalismo commerciale e finanziario tipico del ‘300 e del ’400
che appare in espansione ma che comunque caratterizza soltanto le regioni più sviluppate. A metà ‘400
l’ormai florido capitalismo medievale ha alcuni caratteri essenziali:
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La specializzazione del lavoro ha portato le aree economicamente più deboli a gravitare su quelle
più forti.
Sempre più importanti sono gli scambi internazionali, controllati da pochi finanzieri e mercantiimprenditori.
Il lavoro a domicilio è controllato ormai dal capitale commerciale.
La produzione artigianale però è solo dominata e non trasformata dal capitalismo medievale (forte
limite).
Verso la fine del XV secolo, in alcune aree dell’Europa centrale (vd miniere) i mercanti-imprenditori non si
limitano a dominare la produzione ma se ne impadroniscono e la riorganizzano. Si assiste così a una vera e
propria separazione fra capitale e lavoro. Si assiste così a una fortissima espansione dell’attività mineraria,
è questo il primo caso di una forma di “capitalismo industriale” che modifica le condizioni dello
sfruttamento minerario e del lavoro. Vengono inoltre superati i limiti geografici entro i quali aveva
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tradizionalmente operato il capitalismo commerciale: sono molti i viaggi di esplorazione e hanno specifici
obiettivi:
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Trovare una nuova via per le Indie (vd spezie).
Stabilire diretti contatti con le aree africane produttrici d’oro.
Catturare schiavi da rivendere in Occidente.
Cercare nuove fonti di rendita.
Soprattutto dalla metà del ‘400 la ricerca fu intensa e dispose di mezzi sempre migliori (vd caravella, metodi
astronomici, navigazione di bolina). In questo settore erano all’avanguardia i portoghesi anche grazie
all’impulso dato alla marineria da Enrico il Navigatore (1394-1460). Fu proprio la collaborazione fra
mercanti e potere politico a dare stimolo a queste navigazioni e portò a scoprire via via le coste africane.
Governanti e mercanti erano consapevoli dell’importanza che avrebbe avuto per la loro economia uno
sfruttamento di nuove regioni.
Alla fine del Medioevo si delineano chiaramente alcuni processi di polarizzazione sociale: nelle città sono
forti i contrasti dove diventano enormi le distanze fra ricchi e poveri; aristocrazia e alta borghesia
convergono nel nuovo ceto egemonico del patriziato cittadino (strato con grande prosperità economica ma
di varia origine). Si tratta sia di una convergenza di interessi che di una fusione di stili e modi di vita, la
nuova classe politica che ne emerge è meno violenta e rissosa e spesso fa suoi atteggiamenti da mecenate
(vd Medici). Anche presso i ceti artigianali e mercantili avvengono fenomeni di polarizzazione sociale: i
vertici delle corporazioni si chiudono: la figura del maestro tende a diventare ereditaria. La condizione del
lavorante, da transitoria, tende a diventare permanente. I lavoranti aumentano e acquistano coscienza di
gruppo, creano condizioni per avere aumenti di paga. Inoltre in alcune città italiane la produzione è ormai
passata in gran parte sotto il controllo di potenti mercanti-imprenditori, mentre gli artigiani minori vanno
perdendo la loro autonomia. Cresce così la conflittualità nelle città europee del Trecento: viene contestata
l’egemonia del patriziato e le organizzazioni di mestiere si impadroniscono delle leve del governo
comunale. L’affermazione delle corporazioni è però accompagnato da chiusure oligarchiche. Sono inoltre
ancor più articolati i conflitti che sconvolgono le aree dove forte era la produzione tessile, nelle città
fiamminghe emerge un vero e proprio “problema del proletariato”, cioè di quella classe che vive soltanto
del proprio lavoro dipendente (vd anche rivolta fiorentina dei Ciompi).
Crisi e tentativi di riforma delle istituzioni ecclesiastiche
Da Gregorio VII a Bonifacio VIII i papi si erano concentrati in un importante tentativo di centralizzazione
delle istituzioni ecclesiastiche. L’affermazione progressiva delle monarchie nazionali poneva però per
sempre fine alle ambizioni ierocratiche del papato. Si possono chiarire alcuni punti in merito:
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La crescita degli Stati corrisponde ad un netto declino del potere universale del papato (vd anche
critiche a livello culturale da parte di Occam e Marsilio da Padova).
La Chiesa, come istituzione, andava incontro ad un grande periodo di crisi. Nel 1378 avvenne la
profonda frattura del “Grande Scisma” durato quarant’anni e nel quale si opposero due serie di
papi. Per sanarlo si fece strada il conciliarismo che riteneva il concilio e non il papa depositario di
fede e autorità. Questo depose i due papi e elesse il nuovo Martino V (1417) ma il papato a questo
punto riacquisto tutto il suo potere.
La crisi della Chiesa fu anche una crisi di credibilità, per via dei costumi ecclesiastici e del fasto di cui
il clero di circondava.
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Le eresie si diffusero comunque con difficoltà per via del supporto che il potere politica offriva nella
loro repressione.
La Chiesa non riuscendo ad avviare una riforma “dall’alto” dovette avviarne una “dal basso”
perseguita da coloro che intendevano ricercare una più autentica vita religiosa. Questi tentativi
però furono soltanto parziali e neppure gli ordini religiosi riuscirono a riformarsi completamente .
Il pontificato e il fallimento di Bonifacio VIII rappresentano per il papato la fine della “fase ierocratica” e
l’inizio di una nuova epoca caratterizzata dalla ricerca di forme di convivenza con gli Stati nazionali. Questa
iniziò con la riappacificazione con il regno di Francia siglata da Filippo il Bello e Clemente V che acconsentì
alla chiusura dell’ordine dei Templari, i beni dei quali passarono al re. Questi negoziati però portarono a
una grande caduta di prestigio del papato e Clemente fu anche rimproverato l’essersi troppo allontanato da
Roma. Egli infatti finì per stabilire la residenza papale ad Avignone; ebbe inizio la cosiddetta “cattività
avignonese” (1305-1377) durante la quale la predominanza nella curia passò agli ecclesiastici francesi.
Tuttavia il papato non finì per sottomettersi al la Francia e accentrò ulteriormente il governo della Chiesa .
Il problema dei rapporti fra la Chiesa e gli Stati stimolò anche un forte dibattito sul problema della natura
del potere di re e papi. Se Egidio Colonna difendeva la ierocrazia, i giuristi di Filippo il Bello sostenevano il re
ritenendo il suo regno più antico dello stesso regno ecclesiastico. Importante in questo contesto è il
pensiero di Marsilio da Padova per il quale coloro che detengono il potere devono la propria autorità
all’elezione popolare. Fonte dell’autorità è quindi il popolo a cui spetta anche il diritto di deporre i
governanti. Anche il filosofo francescano Guglielmo di Occam attaccò direttamente l’autorità del papato
sostenendo che al di sopra del papa vi è la Chiesa intesa come comunità dei credenti. L’autorità dei
governanti discendeva da Dio, ma ciò accadeva tramite gli uomini. In questo modo i due pensatori
minavano le basi della monarchia pontificia e loro idee sarebbero state riprese durante il grande scisma che
coinvolse la Chiesa fra il 1378 e il 1417.
Il periodo della residenza papale ad Avignone fu vista dai contemporanei in maniera molto negativa, nel
1378 dunque la curia abbandonò la città francese ma proprio il suo ritorno a Roma porta al Grande Scisma.
Il collegio dei cardinali era diviso in un’area antifrancese che elesse papa Urbano VI (1378-1389) al quale
l’area filofrancese contrappose Clemente VII (1378-1394). Ne derivarono due serie di papi, due curie e due
collegi cardinalizi; la cristianità venne profondamente turbata. Ottenne così progressiva fortuna la dottrina
conciliarista: nel Concilio di Costanza (1414-1418) vennero deposti due pontefici in carica ed eletto papa
Martino V (1414-1431). Venne anche stabilito che si dovessero tenere concili a periodicità fissa, il
successivo fu quello di Basilea nel 1431 presto sospeso da papa Eugenio IV: ormai la tendenza era
nuovamente quella di ricercare un accentramento dei poteri nelle mani del pontefice. Nel 1439 si trovò un
importante accordo per l’unione della Chiesa latina con quella greca ma questa durò poco per via della
caduta di Costantinopoli nel 1453. L’atteggiamento di Eugenio IV rispetto al concilio di Basilea portò al
“Piccolo Scisma”, fu eletto papa Felice V che però presto depose ponendo fine allo scisma nel 1449. A metà
del XV secolo era ormai definitivamente battuto il conciliarismo e continuava a imporsi la linea
dell’accentramento papale.
La crisi della Chiesa era rafforzata da alcuni fenomeni causati dalle esigenze finanziarie del papato; questo
infatti giunse a vendere le indulgenze, ossia ad accettare denaro in cambio dell’annullamento delle
penitenze che si sarebbero dovute scontare nell’aldilà. Persisteva il problema della cattiva condotta del
clero, che riguardava ormai anche gli ordini Mendicanti e i più antichi ordini monastici. Tutto ciò portò ad
una forte crisi di credibilità delle istituzioni ecclesiastiche, presso i ceti borghesi si diffuse un vivace
anticlericalismo. Si faceva strada l’idea che fosse necessaria una grande riforma ecclesiastica per mutare il
sistema di vita del clero, ma si trattava più di una aspirazione che di un preciso programma di riforma.
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Alcuni ordini cercano di imporsi una più stretta osservanza delle regole, ma nessuno riuscì veramente a
rinnovarsi. Il papato si dimostrò incapace di avviare un disegno di riforma, quando questa riuscì imporsi fu
in poche situazioni e grazie a movimenti sorti dal basso.
Le eresie ebbero comunque difficoltà a svilupparsi e diffondersi; esse erano arginate dal grande apparato
repressivo della Chiesa che si era dotata di strumenti come l’inquisizione e che era supportata dal potere
politico degli Stati. La collaborazione col “braccio secolare” fu importante anche per impedire la diffusione
delle dottrine di Giovanni Wycliff che contestava la vendita delle indulgenze e il dogma dell’eucarestia, oltre
a stimolare la traduzione in inglese della Bibbia. Egli fu quindi condannato come eretico e accusato di aver
ispirato l’insurrezione inglese del 1381; Wycliff prese le distanze dalla rivolta, ma ormai la paura di sussulti
sociali rafforzava l’alleanza col papato e contrastava la diffusione dell’eresia.
Diverso fu il caso della Boemia: qui le idee di Wycliff furono rielaborate dal sacerdote Giovanni Hus e
ottennero largo seguito fra la popolazione. Egli ottenne grande consenso e, tacciato di eresia, si recò nel
1414 al Concilio di Costanza per convincere i padri conciliari ad attuare il suo programma riformatore. Fu
però arrestato, condannato ed arso sul rogo. Il dissenso però si estese a tutti i livelli della popolazione e da
movimento riformatore divenne un programma nazionale. I Cechi ruppero così con l’imperatore,
sconfissero Sigismondo (1410-1437) ma non riuscirono ad approfittare della vittoria per via della loro
divisione fra utraquisti (che sottolineavano l’importanza della comunione sotto le due specie del pane e del
vino) e i taboriti (che ritenevano imminente la seconda venuta del Messia). Il carattere egualitario dei
taboriti portò però ad allontanare da loro gli utraquisti che si riavvicinarono a Roma e a sconfiggere i
taboriti in battaglia nel 1434 che dovettero riconoscere l’autorità imperiale. Roma però era stata costretta
al compromesso e a riconoscere la legittimità della comunione e della predicazione utraquista.
Una strada diversa di reazione alla scarsa credibilità delle istituzioni ecclesiastiche fu quella percorsa da chi
ricercava nuove forme di devozione interiori, contraddistinte da alcuni aspetti:
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L’esigenza di una religiosità interiore era già sviluppata nel XIII secolo soprattutto nei paesi del nord
Europa (vd beghinaggio).
Nel XIV e XV secolo frati Minori e Predicatori estesero il loro controllo anche su queste nuove forme
di religiosità e sempre più gruppi di laici entrarono nel Terz’ordine francescano o in quello
dominicano.
Ad una religiosità più interiore si dedicavano anche religiosi dotati di alta preparazione intellettuale
(vd Eckhart).
A partire dalla fine del ‘300 la mistica intellettuale lasciò posto a forme di vita interiore più semplici
che davano grande spazio all’amore di Dio e degli uomini e alle virtù morali (vd Imitazione di Gesù
Cristo di Tommaso di Kempis e movimento della devotio moderna).
L’Italia del Trecento e del Quattrocento
Nel Trecento l’Impero in Italia ormai non funzionava più, nemmeno come strumento intermittente di
coordinazione politico-militare. La discesa di Enrico VII era tragicamente finita con la sua morte presso
Siena. L’Impero era ormai una forza essenzialmente tedesca ed estranea alle faccende italiane, funzionava
soltanto come strumento di legittimazione del potere signorile (vd Visconti). L’Italia centro-settentrionale
sperimentava oramai delle proprie vie di consolidamento politico e ricomposizione territoriale che
consistevano nello sviluppo delle signorie cittadine, nel soffocamento di conflitti armati e lotte di fazione,
nel consolidamento dell’egemonia sociale e politica del patriziato e nell’utilizzo delle imponenti risorse
fiscali delle città per pagare truppe mercenarie impegnate per l’espansione territoriale.
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Firenze: nella prima metà del ‘300 a Firenze la vita politica continua a svolgersi secondo gli ordinamenti
comunali tradizionali. Il popolo grasso opera in equilibrio fra i magnati e il popolo minuto e condiziona la
vita politica organizzando le arti maggiori fra le quali sono scelti i priori. Avvengono comunque sanguinosi
conflitti armati fra le grandi casate. Nel 1300 avviene lo scontro fra la fazione dei guelfi bianchi e quella dei
guelfi neri, il conflitto però provoca il riarmo del popolo che intende difendersi dalla violenza delle grandi
famiglie. Le forze sociali e politiche stanno andando verso una stabilizzazione e questo permette di dare
stabilità alle istituzioni e di dare alla città un’organizzazione sempre più statale. Nella seconda metà del XIV
secolo la situazione è cambiata con la riforma costituzionale del 1343 che permette a tutte le arti (anche le
minori) di partecipare al governo cittadino. Resta escluso il popolo minuto, composto da salariati e artigiani
minori, non organizzati in arti. Questo trova difficoltà a trovare espressione per via dell’atteggiamento
conservatore che caratterizza il patriziato. I forti contrasti portano nel 1378 al tumulto dei Ciompi (lavoranti
sottoposti dell’industria laniera) che si impadroniscono con le armi del governo della città e lo conservano
per oltre un mese. Ottengono così di essere inquadrati in nuove corporazioni e impongono un sistema
elettivo che gli dia la possibilità di controllare con le arti minori numerose cariche pubbliche. Il loro
tentativo però è anacronistico, data la stabilizzazione ormai avvenuta delle forme politiche a Firenze. La
repressione dell’oligarchia è dura: molte persone sono condannate e viene istituita la magistratura degli
“Otto di guardia” per tutelare l’ordine pubblico. Ormai i rapporti fra classi appaiono praticamente
immutabili e il rafforzamento dello stato procede col consolidamento del potere del patriziato. Presto la
lotta si concentra attorno a due grandi famiglie: gli Albizzi e i Medici. A vincere sono quest’ultimi; si impone
la loro signoria iniziata nel 1435 con l’elezione di Cosimo alla carica di gonfaloniere. Si tratta tuttavia di una
signoria particolare di cui si possono individuare alcune caratteristiche:
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I Medici sono formalmente rispettosi delle tradizioni e delle istituzioni repubblicane fiorentine e si
limitano a controllare la vita politica favorendo l’elezione di persone fidate.
La signoria di Cosimo è in sostanziale continuità con il periodo precedente (il popolo minuto
continua a essere escluso dalla vita politica).
I Medici continuano la tradizione di solidità e buona amministrazione dell’oligarchia fiorentina.
Viene redatto un catasto, Firenze resiste all’espansione di Milano e si espande territorialmente in
Toscana.
I Medici inaugurano un periodo di grande mecenatismo.
Milano: diversamente dal caso di Firenze e di altri comuni, a Milano la signoria non si impose alla fine del
percorso di costruzione dell’assetto statale, bensì al suo inizio. Nei comuni come Milano è possibile
delineare tre momenti nello sviluppo delle “signorie cittadine”:
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Inizialmente la signoria è un elemento istituzionale e di lotta politica all’interno di un mondo
cittadino ancora articolato in gruppi armati.
La signoria riesce successivamente a imporsi su questa realtà frammentata e imporre suoi
funzionari e un proprio apparato di potere.
Infine il potere signorile si eleva sopra la società anche attraverso l’ostentazione di un cerimoniale
di corte principesco. Il signore ottiene generalmente una legittimazione imperiale o pontificia e si
avvia a creare una vasto organismo territoriale.
Questa evoluzione avviene a Milano fra la metà del XIII secolo e la fine del XIV. Agli organi del comune si
sovrappongono col tempo quelli della signoria viscontea che si innalzò col tempo sulla società circostante e
crebbe col tempo lo sfarzo presente alla sua corte. Infine la dinastia viscontea venne legittimata nel 1395
dall’imperatore dietro una grossa somma pagata da Gian Galeazzo. I Visconti seppero sfruttare la grande
forza economica di Milano per avviare un grande processo di espansione rivolto verso tutte le direzioni. Si
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trattava però di conquiste spesso labili e che non portarono alla definizione di uno Stato omogeneo. Alla
morte nel 1402 di Gian Galeazzo molte terre dovettero essere abbandonate e i domini viscontei risultarono
di molto diminuiti. Ormai a metà ‘400 la signoria milanese, ora passata nelle mani degli Sforza, controllava
solamente i territori “lombardi”.
Venezia: anche a Venezia avvennero processi di cristallizzazione sociale. Qui il sistema di potere era
orientato nel XI secolo in senso monarchico, si era poi allargato nei due secoli successivi andando a
costituire un comune più complesso ed articolato. Venezia era andata superando le tensioni sociali
assimilando nel tempo al ceto dei nobili le nuove famiglie dell’emergente borghesia. Qui i rapporti fra ceti
erano più semplici, per via del debole artigianato presente in città e di un più cospicuo ceto mercantile. Nel
1297 il patriziato fece approvare la “Serrata del Maggior Consiglio” che riservò alle famiglie che già ne
avevano fatto parte il diretto di partecipare al consiglio stesso, organo principale di governo della
repubblica. Si andava così delineando una situazione di progressiva cristallizzazione e accettazione delle
condizioni sociali vigenti. Rispetto alla politica estera invece Venezia era impegnata in una grande lotta con
Genova per il controllo dei traffici orientali. Punto culminante di questo conflitto fu la guerra di Chioggia
(1378-1381) che portò alla sconfitta di Venezia. Questa allora preferì dedicarsi ad una “politica di
terraferma” che la ponesse al riparo dall’espansionismo visconteo per la quale poté contare su truppe
mercenarie assoldate grazie alle sue disponibilità finanziarie ed economiche. Costruì così una sua
dominazione territoriale che, tuttavia, non superò mai l’Adda. Milano e Venezia ormai si eguagliavano e
nessuno aveva la superiorità sull’intera zona dell’Italia settentrionale. Nel 1454 queste due potenze
firmavano a Lodi un’importante pace, poi sottoscritta dai loro alleati che permise di stabilizzare il panorama
politico-territoriale italiano e di garantire alla penisola un relativo periodo di pace. Si erano ormai delineati i
contorni dei principali Stati regionali del settentrione italiano.
Diversa era la situazione nel resto d’Italia. Nel Meridione l’autorità regia degli angioini, nonché degli
aragonesi in Sicilia, era sempre più in crisi per via dell’accrescersi del potere dei baroni. Dopo la morte di
Federico III d’Aragona alcune potenti famiglie baronali esautorarono il potere regio in Sicilia finché nel 1409
l’isola non venne annessa al regno d’Aragona. Simile era la situazione presso i domini angioini per via della
pesante tutela dei banchieri fiorentine e di alcune lotte dinastiche. Queste vennero temporaneamente
sopite nel 1442 con l’ingresso vittorioso a Napoli di Alfonso d’Aragona, ma la riunificazione dei due regni
non fu sufficiente a ridare forza e stabilità al potere regio.
Un’altra importante dominazione territoriale era quella dello Stato pontificio nell’Italia centrale che si era
andato sovrapponendo, fra XIII e XIV secolo, al vivace pullulare di autonomie cittadine. La curia consolidò il
suo potere, grazie ad un’abile e intensa attività diplomatica e alle ingenti risorse finanziarie che le
permettevano di assoldare compagnie di mercenari. Fra ‘200 e ‘300 i domini pontifici erano caratterizzati
da una situazione politica a metà strada tra quella delle autonomie locali del nord e quella del compatto
regno meridionale. In questo contesto si colloca l’episodio di Cola di Rienzo che nel 1347 occupò il
Campidoglio con proprie milizie popolari e si fece eleggere “tribuno della libertà, della pace e della giustizia
e liberatore della sacra repubblica romana”. Inizialmente fu appoggiato dalla curia avignonese,
successivamente però quanto espresse le intenzioni di rilanciare l’antico ideale imperiale a Roma fu
cacciato e quando tornò al servizio del papa venne ucciso. A riportare l’ordine e a istituire presso il centro
Italia un assetto statale fu il cardinale Albornoz. Questi riuscì a rafforzare il potere territoriale della curia
romana e gettò le fondamenta dello Stato pontificio.
Dopo la pace di Lodi, nacque la Lega italica (1455) che coinvolgeva Venezia, Milano, Firenze Roma, Napoli e
gli stati minori della penisola. Questi erano tutti interessati a mantenere un sistema di equilibrio che
evitasse i conflitti e garantisse un periodo di pace. Questo durò per circa un quarantennio, con alcuni
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momenti di relativa tensione. Uno fu alla morte nel 1458 di Alfonso d’Aragona, ma la corona passo
comunque al figlio Ferdinando; nel 1478 la congiura dei Pazzi uccise alcuni membri della famiglia dei Medici
ma finì in un fallimento. Ne nacque una difficile guerra fra Firenze e Siena, Aragonesi e papa, legati ai Pazzi
che Lorenzo (detto il Magnifico) riuscì a risolvere grazie alle sue capacità diplomatiche. Un’altra grave crisi
fu quella del 1482 quando Venezia dopo aver attaccato alcuni territori estensi chiese l’aiuto di Carlo VIII di
Francia e del duca di Orleans contro Milano. Questo però non avvenne poiché Ludovico il Moro, signore di
Milano, rinunciò alla guerra e cercò una soluzione diplomatica per sé e per gli alleati. L’appello veneziano
alla monarchia francese era una pericolosa mossa diplomatica, successivamente le richieste di intervento a
Carlo VIII vennero ripetute e nel 1494 la sua discesa in Italia aprì un periodo di guerre e invasioni.
Il primo Rinascimento
Fra la fine del XIV e gli inizi del XV si apre in Italia la grande stagione dell’Umanesimo. Si tratta di un
grandioso processo di trasformazione della cultura iniziato alla fine del Trecento con la riscoperta degli
autori classici e con la nascita di un nuovo ceto di intellettuali, che porta a un nuovo modo di concepire
l’uomo e il suo rapporto col mondo. Si possono sottolineare alcuni aspetti essenziali di questo grande
movimento:
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L’Umanesimo costituisce il coronamento di un processo di lunga durata che ha le sue radici nel
risveglio culturale dell’Occidente avvenuto a partire dall’anno Mille. E’ un fenomeno di natura
culturale ed essenzialmente urbano, che si sviluppa in alcune città italiane del Centro e del Nord,
per poi estendersi a tutti i paesi europei.
L’Umanesimo considera come supremi i valori culturali del mondo classico e giudica barbari i secoli
di decadenza di questi modelli.
Il Rinascimento tende così a sovvertire alcuni ideali tradizionali e a trasformare i modi di pensare, le
tecniche e i metodi del lavoro intellettuale.
Nella diffusione della cultura umanistica hanno grande importanza le corti delle grandi signorie
italiane che si dedicano spesso al mecenatismo.
Questi grandi cambiamenti sono possibili anche per via dei profondi mutamenti avvenuti a livello
sociale e cultuale: gli intellettuale hanno una maggior libertà di movimento ed espressione e sono
sempre più spesso laici anziché ecclesiastici.
Cambia il primo luogo il modo di intendere e di conoscere lo spazio. In pittura viene scoperta la prospettiva
e compie grandi passi anche la cartografia, che permette di conoscere con sempre maggior precisione le
diverse aree geografiche in un’epoca di grandi esplorazioni. Hanno grande fortuna le relazioni di viaggio
come Il Milione di Marco Polo. Viene inoltra posta in discussione l’idea che gli uomini dell’ultimo medioevo
avevano di un cosmo inteso come spazio finito, chiuso da una serie di sfere celesti aventi come loro unico
centro la Terra (vd Niccolò Cusano: lo spazio è infinito e senza un unico centro).
Allo stesso modo vi è un nuovo atteggiamento rispetto al tempo, si sente sempre più il bisogno di misurarlo
e sulle torri cittadini compaiono sempre più orologi. Questa trasformazione ha alcuni caratteri importanti:
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Sono le città ad essere portatrici del nuovo modo di intendere il tempo, sempre più importanti dal
punto di vista economico esse sono caratterizzate da un particolare ritmo di vita, differente da
quello della campagna.
La misurazione esatta delle ore cambia il modo stesso di intendere il tempo, ora pensato come una
linea retta che dal passato procede verso il futuro.
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•
Il presente diventa impercettibile e fugace ed impone agli uomini un ritmo veloce, costringendoli ad
agire rapidamente. Per mercanti e artigiani il tempo è sempre più spesso sinonimodenaro.
Queste trasformazioni non cancellano però gli antichi modi di intendere e vivere il tempo: nelle campagne
infatti permane ancora un quadro temporale legato ai ritmi naturali e all’attività agricola. Tuttavia la
diffusione degli orologi cittadini segna un momento chiave, ossia la fine del monopolio delle campane delle
chiese nella misura del tempo. Al contempo il tempo è “umanizzato” ed è Leon Battista Alberti ad
affermare che esso appartiene interamente all’uomo. In generale il nuovo senso del tempo non è visto
come negazione degli ideali cristiani, il “tempo della chiesa” permane ma ad esso si nuova il nuovo modo di
intenderlo. Cambia anche l’idea che si ha della fortuna: la felicità individuale non appare più esclusivamente
in balia del destino ma è vista come frutto delle azioni umane.
L’Umanesimo non ebbe origine tanto nelle università, legate alla cultura scolastica, quanto invece nella
libera cultura diffusa presso le città italiane (Firenze, Milano e Venezia). Nasceva così un nuovo cento di
intellettuali lontano dalle tradizioni culturali e dai modi di pensare tipici del clero e delle università (vd
interesse dei primi umanisti per la vita politico-amministrativa delle loro città). Il legame degli umanisti con
la politica cittadina venne meno nella seconda metà del Quattrocento quando presso le città si erano
completamente avviate verso una chiusura oligarchica (vd in particolare Firenze). Ora dotti e letterati
trovano sempre più spesso aiuto materiale e protezione presso le corti di principi e signori, divennero
“cortigiani” e avevano incarichi diplomatici, uffici o mansioni di altro tipo. Ciò in particolare spiega perché
l’esaltazione umanistica dell’individuo e delle sue capacità avesse una limitata portata sociale; essa infatti
riguardava essenzialmente le persone dei più alti ceti. L’Umanesimo nasceva però da un fatto letterario: la
riscoperta delle humanae littarae e dei grandi scrittori dell’antichità in contrapposizione all’indirizzo
perlopiù teologico che aveva avuto la maggior parte della cultura medievale. Questa riscoperta portò alla
riscoperta di un grandissimo numero di manoscritti che conservavano le opere degli antichi autori latini. I
modelli classi erano sentiti come capaci di agire ed erano fecondi di insegnamenti, stimolando la riflessione
sul tempo presente. L’esaltazione del tempo passato si legava a un desiderio di rinnovamento politico, civile
e religioso, forte era l’attesa per una rinascita politica e spirituale che riportasse le istituzioni all’antica
grandezza. Nasceva infine la filologia che studiava in maniera critica i testi del mondo antico applicando
criteri rigorosi. Gli umanisti lasciavano così alle epoche successive degli importanti strumenti di progresso
culturale. Fondamentale in questa cultura è sicuramente il grande tema della dignità dell’uomo, al quale
viene attribuito un ruolo centrale nell’ordine del creato (vd Marsilio Ficino e Pico della Mirandola). La stessa
natura appare come il “regno” dell’attività umana, lo specifico campo d’intervento del lavoro umano.
Permane un forte senso del divino, la religione è però sentita soprattutto come fatto personale e interiore
(vd devotio moderna). Inoltre a segnare il distacco dalla cultura medievale sono anche il profondo interesse
per l’indagine naturalistica e l’applicazione critica della filologia ai più diversi ambiti del sapere. Si sviluppa
infine la stampa a caratteri mobili, inventata da alcuni tipografi fra i quali spicca Giovanni Gutemberg, verso
la metà del XV secolo. La stampa permetteva di abbreviare i tempi di lavorazione per produrre i libri e di far
scendere così il costo dei libri che videro una maggior diffusione, soprattutto per via di una maggior
richiesta di libri e per la sostituzione della pergamena con la carta. Soltanto nel XVI secolo però la tipografia
arrivò a svolgere un ruolo fondamentale nella diffusione del pensiero; l’Umanesimo si era già diffuso in
Europa prima dell’invenzione della stampa.
L’Europa del Trecento e del Quattrocento
Nel XIV e XV secolo si assiste ad un deciso consolidamento degli Stati: il potere è sempre meno
frammentato e disperso e tende a concentrarsi nelle mani dei monarchi. E’ un cambiamento con alcune
caratteristiche salienti che sono simili in tutto l’Occidente:
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Rafforzamento del potere monarchico tramite un più rigido inquadramento feudale della nobiltà.
Diversificazione e specializzazione degli organi del potere centrale (vd varie sezioni della curia
regis).
Riplasmazione e potenziamento delle reti amministrative periferiche e degli organismi intermedi.
Forte sviluppo delle assemblee rappresentative dei ceti sociali.
Nascita di vere e proprie imposte e incremento del prelievo fiscale.
In alcuni casi, come in Francia e Inghilterra, questo consolidamento porta alla nascita di monarchie
nazionali: si formano popolazioni sottoposte alle stesse leggi e alla stessa organizzazione amministrativa,
consapevoli di una comune tradizione storica. In altre formazioni territoriali invece è molto meno avanzata
la creazione di un assetto istituzionale unitario anche se le popolazioni che vi appartengono sono
consapevoli di difendere interessi comuni (vd Svizzera).
Fu in Francia che il processo di costruzione di un apparato statale fu più evidente, non fu però lineare, dopo
Filippo il Bello vi fu un lungo periodo di paralisi del potere regio durante la cosiddetta “guerra dei Cento
anni”. Questo fu un conflitto franco-inglese, complicato da altri scontri, apertosi nel 1337 e spentosi
definitivamente soltanto nel 1453. La guerra iniziò quando Edoardo III d’Inghilterra si mostrò prima
riluttante a dichiararsi vassallo del re di Francia per i domini che conservava in Francia sud-occidentale, poi
arrivò a proclamarsi re in quanto discendente di Filippo il Bello. Il conflitto si prolungò nel tempo anche per
le lotte che opponevano fazioni e signori locali, oltre all’intervento del re di Navarra. A sottolineare i
turbamenti che la guerra provocò furono due fenomeni: l’esplosione nel 1358 della jacquerie e il tentativo
fallito della borghesia di far assumere agli “stati generali” un ruolo politico di effettivo controllo
sull’amministrazione pubblica. L’autorità regia si indebolì molto fra Trecento e Quattrocento e a causa di
una malattia mentale di Carlo VI il potere passò ai due principi di Orleans e Borgogna, fra loro antagonisti.
Essi si scontravano mentre gli inglesi riportavano alcuni importanti successi militari, la situazione fu
capovolta da soccorso delle provincie, affezionate al proprio re (vd Giovanna d’Arco). Con Carlo VII (14221461). Fu possibile per il potere monarchico riprendere la sua parabola ascendente e così nel 1453, alla fine
del conflitto, all’Inghilterra rimaneva sul continente soltanto il porto di Calais.
La guerra dei Cento anni permise alla Francia di crescere in alcuni aspetti: quello militare, nel prelievo
fiscale e nell’organizzazione amministrativa. Carlo VIII istituì infatti un esercito almeno in parte permanente
senza rinunciare ad alcune vecchie forme di reclutamento. Inoltre riuscì a consolidare la propria forza
militare costituendo un cospicuo parco pezzo di artiglieria. Istituì delle vere e proprie imposte che si
affermarono definitivamente a fine secolo. La guerra inoltre stimolava lo stato a dotarsi di nuovi strumenti
burocratici, a perfezionare l’amministrazione periferica e a specializzare sempre più quella centrale:
consiglio del re, Parlamento, Camera dei conti erano ormai individualità proprie e diventarono il perno di
un’amministrazione pubblica diversa dal passato. Si svilupparono inoltre le istituzioni periferiche con lo
scopo di trasmettere le direttive del potere centrale, di controllarne l’esecuzione e di inquadrare
saldamente le popolazioni. La monarchia e le sue istituzioni si stabilizzarono e le assemblee rappresentative
non giunsero a controllare l’amministrazione regia, ma si limitavano ad approvarla.
A metà Quattrocento la monarchia francese poteva oramai imporre la propria autorità su tutte le categorie
sociali e poteva riprendere in mano anche il controllo della chiesa francese. Signori e autonomie urbane
declinarono nel corso del secolo, la monarchia andava sempre più rafforzandosi. Nel 1465 l’alta aristocrazia
si legò nella “Lega del bene pubblico” guidata da Carlo il Temerario e da una di poco successiva. Venne però
sconfitto nel 1477 dagli svizzeri. La sconfitta di Carlo portò al crollo delle ambizioni dell’alta aristocrazia e
passarono in pochi anni alla corona i diversi territori della Francia (Bretagna, Angiò, Provenza). Si
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consolidava così ulteriormente la monarchia francese sotto Carlo VIII che avrebbe avviato una grande
politica d’espansione.
In Inghilterra la presenza del Parlamento rese diversa l’evoluzione del potere regio. Qui era tipica la
presenza di una dialettica fra la corona e i ceti rappresentati in Parlamento. Questo talvolta era così forte
da deporre o far abdicare un re, ma il re generalmente non volle contrapporsi ad esso. La monarchia
cercava invece di garantire un’ordinata libertà all’interno e una forte politica all’estero nei riguardi della
Francia. A questa politica si attennero nel XV secolo Enrico IV (1399-1413) ed Enrico V di Lancaster; ormai
però era venuto meno il confronto fra re e oligarchia parlamentare, lo scontro principale era fra le opposte
fazioni di famiglie aristocratiche. Alla morte di Enrico V la situazione divenne critica e a ciò si aggiungevano
le sconfitte sul continente che stava riportando Enrico VI. Nacque così la guerra delle Due Rose (1455-1485)
tra il partito degli York e quello del Lancaster, ognuno dei quali rivendicava per se la corona. La guerra ebbe
termine nel 1485 e le confische reciproche di beni permisero alla corona di entrare in possesso di beni
immensi. Nuovo re era Enrico VII Tudor (1485-1509) che disponeva oramai di tutti gli efficaci strumenti
amministrativi necessari a svolgere le sue funzioni di governante. A livello sociale egli poteva contare sulla
borghesia e sulla gentry (media nobiltà) mentre cercò di impedire un recupero di influenza da parte
dell’alta aristocrazie istituendo la cosiddetta “Camera stellata”, una corte straordinaria di giustizia
incaricata di perseguire chi cercasse di ricostruire milizie proprie. L’Inghilterra riuscì così a uscire rinnovata
dalla sua lunga crisi e anche la perdita dei territori continentali gli permise di concentrarsi sul suo governo.
Nella penisola iberica i regni di Castiglia e d’Aragona ebbero più difficoltà a domare i particolarismi e a
inquadrare in modo efficiente le realtà locali. In Aragona si giunse ad un equilibrio nel rapporto fra
monarchia e cortes, dove forte era il peso di nobiltà e patriziato Qui però erano ricorrenti le difficoltà
finanziarie della corona, dovute alla sua politica di espansione territoriale in Italia. L’area di influenza
aragonese si estese molto anche successivamente durante il regno di Alfonso V il magnanimo (1414-1458)
che occupò l’Italia meridionale ed estese temporaneamente il suo protettorato su Bosnia, Serbia e Albania.
Scoppiò successivamente una grande rivolta rurale per via dell’atteggiamento dell’oligarchia rispetto i ceti
più bassi che sfociò poi in una guerra civile. Solo a fine secolo si risollevarono le sorti della corona grazie al
regno dal 1479 di Ferdinando il Cattolico.
La monarchia ebbe maggior peso in Castiglia dove grazie ad un’amministrazione centrale più solida riuscì a
rafforzare la propria autorità nonostante il susseguirsi di lotte dinastiche dopo la morte di Alfonso XI (13121350) e a metà del XV secolo. I re nel Trecento riuscirono a sorvegliarono le città inviandovi in missione
propri funzionari mentre per bilanciare i sempre maggior poteri dell’alta aristocrazia la monarchia cercò
appoggio proprio nelle città. Un evento importante avvenne 1469: il matrimonio di Isabella, sorella del re di
Castiglia Enrico IV con Ferdinando il Cattolico. Questa unione permise al potere regio di agire con rinnovato
vigore e successivamente portò all’unione dei due regni.
In Portogallo alla fine del XIV secolo l’avvento della nuova dinastia dei d’Aviz aprì la strada a una ricca
collaborazione con la borghesia mercantile che sfociò in un notevole dinamismo marinaro e commerciale.
Le esplorazioni portavano il Portogallo a controllare nuovi territori (vd Africa) e ad essere presto un
pericoloso concorrente per la Castiglia.
L’impero divenne nel Trecento una forza politico-militare ormai limitata all’area tedesca. Riflesso di tale
germanizzazione si ebbe con l’imperatore Carlo IV di Boemia-Lussemburgo, questi nel 1356 promulgò la
cosiddetta “Bolla d’oro” che confermò la consuetudine di fare della carica imperiale una carica elettiva (ne
facevano parte tre principi ecclesiastici e quattro laici) e sancì la divisione territoriale della Germania in
principati coordinati poco più che territorialmente attorno al potere imperiale. La Germania non entrava
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quindi nel novero delle grandi monarchie e risultava separata in una serie di conglomerati regionali. Ne
risultava così un assetto politico-territoriale vario e articolato, analogo per certi versi a quello dell’Italia
centro-settentrionale. Con Venceslao e Sigismondo l’impero trovava sempre più difficoltà anche a imporsi
come forza politico-militare in grado di coordinare i principati tedeschi.
Nel frattempo andava crescendo un nuovo regno a est dell’impero, quello d’Ungheria. Dopo alcune
difficoltà nel XII e XIII secolo fu conquistato dai mongoli nel 1241. L’Ungheria era ora in una crisi profonda di
cui la nobiltà approfittò per acquisire potere. Nel 1308 se ne impadronirono gli Angioini di Napoli che
riuscirono in parte a rafforzare il potere monarchico e a unire temporaneamente le corone di Ungheria e
Polonia. Alla morte di Sigismondo l’autorità imperiale e i regni di Ungheria e Boemia pervennero al genero
Alberto II d’Asburgo. Iniziava a profilarsi nell’Europa centrale una grossa ma fragile formazione austromagiaro-boema ma già con Federico II d’Asburgo (1440-1493) Ungheria e Boemia tornavano indipendenti
dall’impero.
Nelle regioni del Baltico vi fu tra XIII e XIV secolo una forte avanzata germanica contro le tribù indigene,
assicurata da vere e proprie crociate compiute dall’ordine teutonico. La sua espansione non si limito alla
conquista e alla evangelizzazione della Prussia (ultimata a fine Duecento) ma proseguì nel XIV secolo fino a
occupare la Samogizia che però si ribellò e chiese aiuto ai principi di Polonia e Lituania. In Polonia dopo un
periodo di disgregazione del potere monarchico, questo andò consolidandosi ad opera soprattutto di
Casimiro il Grande (1333-1370). Infine nel 1358 fu importante l’unione dinastica fra Polonia e Lituania sotto
la dinastia iagellonica. Questo portò alla occidentalizzazione della Lituania che assorbì via via la cultura della
cattolica Polonia. Migliorarono le capacità di difesa di questi due paesi che uniti sconfissero nel 1410
l’ordine teutonico a Tannemberg che ormai si avviava al decadimento. Lo stato Lituano-Polacco però non
era veramente solido e verso il 1440 i nobili lituani si separarono dalla Polonia mentre quelli Polacchi
stabilirono un’unione personale con l’Ungheria minacciata dai Turchi. In Polonia infatti la mancanza di
borghesia portava la nobiltà a detenere grandissimi poteri; Casimiro IV dovette così appoggiarsi alle
assemblee della piccola nobiltà a cui passò il potere legislativo, ai danni però della stessa monarchia.
Il mondo scandinavo vide negli ultimi due secoli del periodo medievale fortemente ridotto il suo peso
politico. Nel secondo Trecento la Danimarca cercò inutilmente di contrastare l’egemonia nel Baltico della
Lega anseatica, nel 1397 riuscì a raggruppare nell’Unione di Kalmar anche la Norvegia e la Svezia in
funzione antianseatica. Questa però continuò a rimanere soggetta alla preponderanza commerciale
dell’Hansa. La situazione cambiò sensibilmente alla fine del XV secolo: ad Oriente si affacciava la potenza
del principato di Mosca che nel 1478 si impadronì di Novgorod. Crebbe il dinamismo marinaro e
commerciale degli Olandesi penetrati nel Baltico mentre l’Hansa dovette fare i conti con le potenze
scandinave. Principato di Mosca, Svezia, Danimarca e Olanda si avviavano ad essere le potenze dell’Europa
del Nord e a soppiantare la lega anseatica.
In Europa orientale, a metà dell’XI secolo si era sfasciato il principato di Kiev dando origine ad alcune
formazioni politiche minori. Di queste si impadronirono i Mongoli, questi però non distrussero i vecchi
principati russi ma si limitarono a chiedergli un tributo. Quello di Mosca così iniziò nel ‘300 e nel ‘400 ad
estendere i propri domini e a richiedere tributi in nome del khan mongolo. A fine XV secolo con Ivan il
Grande (1462-1505) la potenza moscovita riuscì a sottrarsi dalla dominazione dell’Orda d’oro, a
impadronirsi di Novgorod e ad estendere la propria dominazione. Sotto l’influenza bizantina egli si
proclamò autocrate (zar) di tutta la Russia e si servì sempre più di un considerevole apparato
centralizzatore.
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Anche negli ex territori bizantini andava emergendo un nuovo stato: l’impero ottomano. A metà XIII secolo
nuclei di Turchi provenienti dal Turkestan furono spinti dai mongoli a spostarsi in Asia Minore. Sotto la
guida del loro capo Othman essi nel XIV secolo fondarono lo Stato Ottomano che si espanse rapidamente
togliendo territori a Bisanzio. Quando ormai puntavano su Costantinopoli, la loro avanzata fu fermata dalla
riscossa mongola di Tamerlano che sconfisse il sultano Baiazet ma morì poco dopo. Dopo alcune guerre
civili l’impero ottomano seppe riprendersi e avanzare contro l’Europa; nel 1453 Costantinopoli cadde nelle
mani di Maometto II, alla sua morte i Turchi controllavano ormai l’intera penisola balcanica. Gli ottomani
riuscirono nelle loro rapide conquiste grazie alla loro capacità di organizzare immediatamente le provincie
conquistate , al disciplinatissimo esercito e alla concentrazione del potere nelle mani del sultano. Questi,
attraverso i ministri (vizir) e i governatori delle provincie (pascià) riusciva a imporre a tutti i sudditi la sua
volontà. Il mondo turco nella sua concezione del potere statale come assoluto e illimitato si ricollegava
proprio alla tradizione politica orientale che aveva caratterizzato l’impero bizantino e quello arabo ma che
ormai era distante dal mondo Occidentale dove erano andati emergendo sempre più i poteri locali.
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