La dinastia Giulio Claudia
Tiberio
Tiberio Giulio Cesare Augusto (Tiberius Iulius Caesar Augustus; Roma, 42 a.C.–37) fu il secondo
imperatore romano, appartenente alla dinastia giulio-claudia, e governò dal 14 al 37.
Discendente della gens Claudia, alla nascita ebbe il nome di Tiberio Claudio Nerone (Tiberius
Claudius Nero). Fu adottato da Augusto nel 4, ed il suo nome mutò in Tiberio Giulio Cesare (Tiberius Iulius
Caesar); alla morte del padre adottivo, il 19 agosto 14, ottenne il nome di Tiberio Giulio Cesare Augusto
(Tiberius Iulius Caesar Augustus) e poté succedergli ufficialmente nel ruolo di princeps, sebbene già
dall'anno 12 fosse stato associato nel governo dell'impero.
In gioventù Tiberio si distinse per il suo talento militare conducendo brillantemente numerose
campagne lungo i confini settentrionali dell'impero e in Illirico. Dopo un periodo di volontario esilio sull'isola
di Rodi, rientrò a Roma nel 4 e condusse altre spedizioni in Illirico e in Germania, dove pose rimedio alle
conseguenze della battaglia di Teutoburgo. Asceso al trono, operò alcune importanti riforme in ambito
economico e politico, e pose fine alla politica di espansione militare, limitandosi a mantenere sicuri i confini
grazie anche all'opera del nipote Germanico. Dopo la morte di quest'ultimo, Tiberio favorì sempre più
l'ascesa del prefetto del pretorio Seiano, allontanandosi da Roma per ritirarsi nell'isola di Capri. Quando il
prefetto mostrò di volersi impadronire del potere assoluto, Tiberio lo fece destituire e uccidere, ma evitò
ugualmente di rientrare nella capitale.
Tiberio fu duramente criticato dagli storici antichi, quali Tacito e Svetonio, ma la sua figura è stata
rivalutata dalla storiografia moderna come quella di un politico abile e attento.
Tiberio nacque dall'omonimo Tiberio Claudio Nerone, cesariano e da Livia Drusilla, di circa trent'anni
più giovane del marito. Tanto dal ramo paterno che da quello materno apparteneva alla gens Claudia,
un'antica famiglia patrizia giunta a Roma nei primi anni dell'età repubblicana e distintasi nel corso dei secoli
per il raggiungimento di numerosi onori e alte magistrature. Fin dall'origine, la gens Claudia si era divisa in
numerose famiglie, tra le quali si distinse quella che assunse il cognomen Nero (Nerone, che in lingua
sabina significa "forte e valoroso"), a cui apparteneva Tiberio. Egli poteva dunque dirsi membro di una
stirpe che aveva dato alla luce personalità di altissimo rilievo, come Appio Claudio Cieco, e che annoverava
tra i più grandi assertori della superiorità del patriziato.
Il padre era stato tra i più ferventi sostenitori di Gaio Giulio Cesare e, dopo la sua morte, si era
schierato dalla parte di Marco Antonio, luogotenente di Cesare in Gallia, entrando in contrasto con
Ottaviano, erede designato dallo stesso Cesare. Dopo la costituzione del secondo triumvirato tra Ottaviano,
Antonio e Marco Emilio Lepido e le conseguenti proscrizioni, i contrasti tra i sostenitori di Ottaviano e quelli
di Antonio si concretizzarono in una situazione di conflitto, ma il padre di Tiberio continuò ad appoggiare l'ex
luogotenente di Cesare. Allo scoppio del bellum Perusinum, suscitato dal console Lucio Antonio e da
Fulvia, moglie di Marco Antonio, il padre di Tiberio si unì dunque agli antoniani, fomentando il malcontento
che stava nascendo in molte regioni d'Italia. Dopo la vittoria di Ottaviano, che riuscì a sconfiggere Fulvia
asserragliata a Perugia e a restaurare il proprio controllo su tutta la penisola italica, egli fu costretto a
fuggire, portando assieme a sé la moglie e il figlio omonimo. La famiglia si rifugiò dunque a Napoli, e partì
poi alla volta della Sicilia, controllata da Sesto Pompeo. I tre furono poi costretti a raggiungere l'Acaia, dove
si stavano radunando le truppe antoniane che avevano lasciato l'Italia. Il piccolo Tiberio, costretto a
prendere parte alla fuga e a patire le insicurezze del viaggio, ebbe dunque un'infanzia disagevole e agitata,
fino a quando gli accordi di Brindisi, che ristabilivano una pace precaria, permisero agli antoniani fuoriusciti
di fare ritorno in Italia.
Nel 39 a.C. Ottaviano decise di divorziare da sua moglie Scribonia, dalla quale aveva avuto la figlia
Giulia, per prendere in sposa la madre del piccolo Tiberio, Livia Drusilla, della quale era sinceramente
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innamorato. Il triumviro chiese per le nozze l'autorizzazione del collegio dei pontefici, dal momento che Livia
aveva già un figlio ed era in attesa di un secondo. I sacerdoti acconsentirono al matrimonio tra i due,
ponendo, come unica clausola, che fosse accertata la paternità del nascituro. Il 17 gennaio del 38 a.C.,
dunque, Ottaviano sposò Livia, la quale dopo tre mesi partorì un figlio a cui fu imposto il nome di Druso. La
questione della paternità, in realtà, rimase incerta. Si poté in un secondo momento accertare come la
paternità di Druso dovesse spettare al padre di Tiberio, poiché Livia e Ottaviano non si erano ancora
incontrati nel momento in cui il bambino fu concepito.
Mentre Druso fu allevato dalla madre nella casa di Ottaviano, Tiberio rimase presso l'anziano padre
fino all'età di nove anni: nel 33 a.C. quest'ultimo morì e fu il giovanissimo figlio a pronunciarne la laudatio
funebris. Tiberio si trasferì dunque nella casa di Ottaviano assieme alla madre e al fratello, proprio mentre
le tensioni tra Ottaviano e Antonio sfociavano in un nuovo conflitto, che si concluse nel 31 a.C. con lo
scontro decisivo di Azio. Nel 29 a.C., durante la cerimonia del trionfo di Ottaviano dopo la definitiva vittoria
su Antonio ad Azio, fu Tiberio a precedere il carro del vincitore.
All'età di quindici anni fu vestito della toga virile, e fu dunque iniziato alla vita civile: si distinse come
difensore ed accusatore in numerosi processi giudiziari, e si dedicò contemporaneamente
all'apprendimento dell'arte militare, distinguendosi in particolare per la sua abilità nell'equitazione. Si dedicò
inoltre, con grande interesse, a studi di oratoria latina, retorica greca e diritto; frequentava i circoli culturali
legati ad Augusto, dove si parlava tanto in greco quanto in latino: conobbe dunque Gaio Cilnio Mecenate e
gli artisti che egli finanziava, come Quinto Orazio Flacco, Publio Virgilio Marone e Sesto Properzio. Si
dedicò con altrettanta passione alla composizione di testi poetici.
Se Tiberio dovette molto della sua ascesa politica alla madre Livia Drusilla, terza moglie di Augusto,
restano indubbie le sue capacità militari di comandante e stratega: egli rimase imbattuto nel corso di tutte le
sue lunghe e frequenti campagne, tanto da divenire, nel corso degli anni, uno dei migliori luogotenenti del
patrigno.
Data la mancanza di vere e proprie scuole militari che permettessero di fare esperienza, nel 25 a.C.
Augusto decise di inviare in Spagna i sedicenni Tiberio e Marcello, in qualità di tribuni militari. Lì i due
giovani, che Augusto vedeva come suoi possibili successori, parteciparono alle fasi iniziali della guerra
cantabrica, iniziata dallo stesso Augusto nell'anno precedente, e portata a termine, nel 19 a.C., dal generale
Marco Vipsanio Agrippa.
Due anni più tardi, nel 23 a.C., all'età di diciotto o diciannove anni, Tiberio fu nominato questore
dell'annona, in anticipo di cinque anni rispetto al tradizionale cursus honorum delle magistrature. Si trattava
di un incarico particolarmente delicato, a cui spettava garantire l'approvvigionamento di frumento per l'intera
città di Roma, che contava allora oltre un milione di abitanti, duecentomila dei quali potevano sopravvivere
solo grazie alle distribuzioni gratuite di grano da parte dello stato; l'Urbe, inoltre, si trovava ad attraversare
un periodo di carestia dovuta a una piena del Tevere che aveva distrutto buona parte dei raccolti nelle
campagne laziali, impedendo anche alle navi onerarie di giungere fino a Roma con le loro le derrate
alimentari. Tiberio affrontò la situazione con vigore: acquistò a sue spese il grano che gli speculatori
ammassavano nei loro depositi e lo distribuì gratuitamente, tanto da essere salutato come benefattore di
Roma. Fu dunque incaricato di condurre le ispezioni negli ergastula, prigioni sotterranee in cui venivano
rinchiusi gli schiavi, i viaggiatori e coloro che chiedevano rifugio per evitare il servizio militare. Si trattava,
questa volta, di un compito non particolarmente prestigioso, ma ugualmente delicato, poiché i padroni degli
ergastula si erano resi odiosi a tutta la popolazione dell'Italia, creando così una situazione di tensione.
Nell'inverno del 21-20 a.C. Augusto ordinò al ventunenne Tiberio di condurre un esercito legionario,
reclutato in Macedonia ed Illirico, e di muovere in Oriente, verso l'Armenia. Essa era, infatti, una regione di
fondamentale importanza per l'equilibrio politico di tutta l'area orientale: svolgeva un ruolo di cuscinetto tra
l'impero romano ad ovest e quello dei Parti ad est, ed entrambi volevano farne un proprio stato vassallo,
che assicurasse la protezione dei confini dai nemici. Dopo la sconfitta di Marco Antonio e la caduta del
sistema che egli aveva imposto in Oriente, l'Armenia era tornata sotto l'influenza dei Parti, che favorirono
l'ascesa al trono di Artaxias II. Augusto ordinò dunque a Tiberio di scacciare Artaxias, di cui gli Armeni
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filoromani chiedevano la deposizione, e imporre sul trono il fratello minore Tigrane, di tendenze filoromane.
I Parti, spaventati dall'avanzata delle legioni romane, scesero a compromessi e sottoscrissero una pace con
lo stesso Augusto, giunto intanto in Oriente da Samo, restituendo le insegne e i prigionieri di cui si erano
impossessati dopo la vittoria su Marco Licinio Crasso nella battaglia di Carre del 53 a.C. Ugualmente,
anche la situazione armena si risolse prima dell'arrivo di Tiberio e del suo esercito grazie al trattato di pace
tra Augusto e il sovrano partico Fraate IV: il partito filoromano poté prendere il sopravvento e alcuni agenti
inviati da Augusto eliminarono Artaxias. Al suo arrivo, dunque, Tiberio non dovette far altro che incoronare
Tigrane, che prese il nome di Tigrane III, come re cliente, in una cerimonia pacifica e solenne, tenutasi
davanti agli occhi delle legioni romane. Al suo ritorno a Roma, il giovane generale fu celebrato con grandi
feste e con la costruzione di monumenti in suo onore, mentre Ovidio, Orazio e Properzio scrissero
composizioni in versi per celebrarne l'impresa. Il merito della vittoria spettò comunque ad Augusto, quale
comandante in capo dell'esercito: egli fu infatti proclamato imperator per la nona volta, poté annunciare in
senato il vassallaggio dell'Armenia senza tuttavia decretarne l'annessione.
Nel 19 a.C. fu conferito a Tiberio il rango di ex-pretore, ovvero gli ornamenta praetoria, ed egli poté
dunque sedere in Senato, appunto tra gli ex-praetores.
Sebbene Augusto, dopo la campagna in Oriente, avesse ufficialmente dichiarato in senato che
avrebbe abbandonato la politica di espansione, ben sapendo che un'estensione territoriale eccessiva
sarebbe stata letale per l'imperium romano, decise comunque di attuare altre campagne per rendere sicuri i
confini. Nel 16 a.C. Tiberio, appena nominato pretore, accompagnò Augusto in Gallia, dove trascorse i tre
anni successivi, fino al 13 a.C., per assisterlo nell'organizzazione e governo delle province galliche. Il
princeps fu accompagnato dal figliastro anche in una campagna punitiva oltre il Reno.
Nel 15 a.C. Tiberio, insieme al fratello Druso, condusse una campagna contro le popolazioni di Reti,
stanziati tra il Norico e la Gallia e Vindelici. Druso aveva già in precedenza scacciato dal territorio italico i
Reti, resisi colpevoli di numerose scorrerie, ma Augusto decise di inviare anche Tiberio affinché la
situazione fosse definitivamente risolta. I due, nel tentativo di accerchiare il nemico attaccandolo su due
fronti senza lasciargli vie di fuga, progettarono una grande "operazione a tenaglia" che misero in pratica
anche grazie all'aiuto dei loro luogotenenti: Tiberio mosse dall'Elvezia, mentre il fratello minore da Aquileia
e Tridentum, percorrendo la valle dell'Adige e dell'Isarco, e risalendo infine l'Inn. Tiberio, che avanzava da
ovest, sconfisse i Vindelici nei pressi di Basilea e del lago di Costanza; in quel luogo i due eserciti poterono
riunirsi e prepararsi a invadere la Baviera. L'azione congiunta permise ai due fratelli di avanzare fino alle
sorgenti del Danubio, dove ottennero l'ultima e definitiva vittoria sui Vindelici. Questi successi permisero ad
Augusto di sottomettere le popolazioni dell'arco alpino fino al Danubio, e gli valsero una nuova
acclamazione imperatoria, mentre Druso, figliastro prediletto di Augusto, per questa ed altre vittorie, poté
più tardi ottenere il trionfo.
Nel 13 a.C., guadagnatosi ormai la reputazione di ottimo comandante, Tiberio fu nominato console
ed inviato da Augusto nell'Illirico: il valoroso Agrippa, infatti, che aveva a lungo combattuto contro le
popolazioni ribelli della Pannonia, morì appena tornato in Italia. La notizia della morte del generale provocò
una nuova ondata di ribellioni tra le genti sconfitte da Agrippa, in particolare Dalmati e Breuci, ed Augusto
assegnò al figliastro il compito di pacificarle. Tiberio, assunto il comando dell'esercito nel 12 a.C., sgominò
le forze nemiche e attuò una politica di durissima repressione contro gli sconfitti; grazie alla sua abilità
strategica e all'astuzia che dimostrò poté ottenere una vittoria totale nel giro di soli quattro anni. Nel 12 a.C.
sottomise i pannoni Bruci. Privò i suoi nemici delle armi e vendette come schiavi la maggior parte dei loro
giovani, dopo averli deportati. Contemporaneamente, lungo il fronte orientale, il governatore di Galazia e
Panfilia Lucio Calpurnio Pisone era stato costretto ad intervenire in Tracia, poiché le genti del luogo, in
particolare i Bessi, minacciavano il sovrano trace Remetalce I, alleato di Roma.
L'11 a.C. vide Tiberio impegnato prima contro i Dalmati, che si erano nuovamente ribellati, e poco
dopo ancora contro i Pannoni che avevano approfittato della sua assenza per cospirare nuovamente. Il
giovane generale fu dunque notevolemente impegnato nel combattere contemporaneamente contro più
popoli nemici e fu costretto più volte a spostarsi da un fronte all'altro. Nel 10 a.C. i Daci si spinsero oltre il
Danubio, effettuando gravi razzie nei territori di Pannoni e Dalmati. Questi ultimi, dunque, vessati anche dai
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tributi imposti loro da Roma, si ribellarono nuovamente. Tiberio, che si era recato in Gallia insieme ad
Augusto al principio dell'anno, fu così costretto a far ritorno sul fronte illirico, per affrontarli e batterli ancora
una volta. Al termine dell'anno poté finalmente fare ritorno a Roma insieme al fratello Druso e ad Augusto.
Conclusasi la lunga campagna, anche la Dalmazia, ormai definitivamente inglobata nello stato
romano e avviata al processo di romanizzazione, fu affidata come provincia imperiale al diretto controllo di
Augusto: era infatti necessario che vi fosse stanziato permanentemente un esercito pronto a respingere
eventuali assalti lungo i confini e a reprimere possibili nuove rivolte. Augusto, tuttavia, evitò in un primo
momento di ufficializzare la salutatio imperatoria che i legionari avevano tributato a Tiberio e si rifiutò di
tributare al figliastro anche la cerimonia del trionfo, contro il parere che il senato aveva espresso. A Tiberio
fu comunque concesso di percorrere la via Sacra su di un carro ornato delle insegne trionfali e di celebrare
un'ovazione: si trattò di un uso del tutto nuovo che, sebbene inferiore al festeggiamento del trionfo vero e
proprio, costituiva comunque un notevole onore.
Nel 9 a.C. Tiberio si dedicò interamente alla riorganizzazione della nuova provincia dell'Illirico.
Mentre da Roma, dove aveva festeggiato la sua vittoriosa campagna, tornava ai confini orientali, Tiberio fu
avvisato che il fratello Druso, mentre si trovava sulle rive dell'Elba a combattere contro le popolazioni
germaniche, era caduto da cavallo fratturandosi il femore. L'incidente sembrò di poco conto e fu dunque
trascurato; le condizioni di Druso, tuttavia, peggiorarono repentinamente nel settembre. Tiberio lo raggiunse
a Mogontiacum per portargli conforto, dopo aver percorso, in un giorno solo, oltre duecento miglia. Druso,
alla notizia dell'arrivo del fratello, ordinò che le legioni lo accogliessero degnamente, e spirò più tardi tra le
sue braccia. Fu dunque lo stesso Tiberio condurre il corteo funebre che riportò la salma di Druso a Roma,
precedendo tutti a piedi. A Roma, pronunciò una laudatio funebris per il fratello defunto nel Foro, mentre
Augusto pronunciò la sua nel Circo Flaminio; il corpo di Druso fu poi cremato nel Campo Marzio e deposto
nel Mausoleo di Augusto.
Negli anni 8 - 7 a.C. Tiberio si recò nuovamente, mandato da Augusto, in Germania per continuare
l'opera iniziata dal fratello Druso e combattere le popolazioni germaniche, dopo la sua prematura
scomparsa. Attraversò dunque il Reno e le tribù dei barbari, spaventate, ad eccezione dei Sigambri,
avanzarono proposte di pace, ma ricevettero tuttavia un netto rifiuto, in quanto sarebbe stato inutile
concludere una pace senza l'adesione dei pericolosi Sigambri stessi; quando anch'essi inviarono degli
uomini, Tiberio li fece massacrare e deportare. Per i risultati ottenuti in Germania, Tiberio ed Augusto
guadagnarono nuovamente l'acclamazione ad imperator e Tiberio fu designato console per il 7 a.C. Poté
dunque portare a termine l'opera di consolidamento del potere romano sulla regione costruendo numerosi
forti ed espandendo dunque l'influenza romana fino al fiume Weser.
Perseguendo gli interessi politici della famiglia, Tiberio nel 12 a.C. era stato costretto da Augusto a
divorziare dalla prima moglie, Vipsania Agrippina, figlia di Marco Vipsanio Agrippa, che aveva sposato nel
16 a.C. e da cui aveva avuto un figlio, Druso minore. L'anno successivo sposò dunque Giulia maggiore,
figlia dello stesso Augusto e quindi sua sorellastra, vedova di Agrippa. Tiberio era sinceramente innamorato
della prima moglie Vipsania e se ne allontanò con grande rammarico; il sodalizio con Giulia, poi, vissuto
dapprima con concordia e amore, si guastò ben presto, dopo la morte del figlio ancora infante che era nato
loro Il carattere di Tiberio, particolarmente riservato, si contrapponeva inoltre a quello licenzioso di Giulia,
circondata da numerosi amanti.
Nel 6 a.C. Augusto decise di conferire a Tiberio la tribunicia potestas (potestà tribunizia) per 5 anni:
essa rendeva sacra e inviolabile la persona di Tiberio, e conferiva inoltre il diritto di veto. In questo modo
Augusto sembrava voler avvicinare a sé il figliastro e poteva inoltre porre un freno all'esuberanza dei
giovani nipoti, Gaio e Lucio Cesare, figli di Agrippa e Giulia, che aveva adottato e che apparivano come i
favoriti nella successione.
Malgrado questo onore, Tiberio decise di ritirarsi dalla vita politica e abbandonare la città di Roma,
per andarsene in un volontario esilio sull'isola di Rodi, che lo aveva affascinato fin dai giorni in cui vi era
approdato, di ritorno dall'Armenia. Alcuni sostengono che fosse indignato e sconcertato dalla situazione,
altri che sentiva la scarsa considerazione di Augusto nei suoi confronti per essere stato usato quale tutore
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dei suoi due nipoti, Gaio e Lucio Cesare, gli eredi designati, oltre ad un crescente disagio e disgusto nei
confronti della nuova moglie.
Si trattava di una scelta strana e improvvisa, che Tiberio prese proprio nel momento in cui stava
ottenendo numerosi successi, mentre si trovava nel mezzo della giovinezza ed in piena salute. Augusto e
Livia tentarono inutilmente di trattenerlo; il princeps arrivò addirittura a parlare della questione in senato,
inutilmente. Gli storici antichi non seppero dare un'interpretazione univoca della vicenda, che appariva, in
effetti, abbastanza strana.
Per tutto il periodo della sua permanenza a Rodi (per quasi otto anni), Tiberio mantenne un
atteggiamento sobrio e defilato, evitando di porsi al centro dell'attenzione o di prender parte alle vicende
politiche dell'isola. Quando, tuttavia, nell'1 a.C. smise di goderne, decise di chiedere il permesso di rivedere
i suoi parenti: stimava infatti che, seppure partecipe delle vicende politiche, non avrebbe più potuto in alcun
modo mettere a repentaglio il primato di Gaio e Lucio Cesare. Ricevette tuttavia un rifiuto. Decise allora di
fare appello alla madre, che tuttavia non poté ottenere altro che Tiberio venisse nominato legato di Augusto
a Rodi, e che dunque la sua disgrazia fosse almeno in parte celata. Si rassegnò così a continuare a vivere
come un privato cittadino, timoroso e sospetto, evitando tutti coloro che venivano a fargli visita sull'isola. Nel
2 a.C. la moglie Giulia fu condannata all'esilio sull'isola di Ventotene e il suo matrimonio con lei fu di
conseguenza annullato da Augusto: Tiberio, per quanto contento della notizia, cercò di dimostrarsi
magnanimo nei confronti della lussuriosa Giulia, nel tentativo di riconquistare la stima di Augusto. Nell'1
a.C. decise di far visita a Gaio Cesare che era appena giunto a Samo, dopo che Augusto gli aveva conferito
l'imperium proconsolare e lo aveva incaricato di compiere una missione in Oriente dove, morto Tigrane III, il
problema armeno si era riaperto. Tiberio lo onorò mettendo da parte ogni rivalità ed umiliandosi ma Gaio,
spinto dall'amico Marco Lollio, fermo oppositore di Tiberio, lo trattò con distacco. Soltanto nel 1 d.C., dopo
sette anni dalla sua partenza, a Tiberio fu concesso di fare ritorno a Roma, grazie anche all'intercessione
della madre Livia, ponendo fine a quello che aveva smesso di essere un esilio volontario. Gaio Cesare,
che, infatti, si era allontanato da Lollio, decise di acconsentire al ritorno; Augusto, che aveva rimesso la
questione nelle mani del nipote, lo richiamò così in patria, facendogli però giurare che non si sarebbe
interessato in alcun modo al governo dello stato.
A Roma, intanto, i giovani nobiles che sostenevano i due Cesari avevano sviluppato un forte
sentimento di odio verso Tiberio e continuavano a vederlo come un ostacolo all'ascesa di Gaio Cesare.
Qualcuno, durante un banchetto, aveva promesso a Gaio Cesare che, se l'ordinava, sarebbe andato a Rodi
ad uccidere Tiberio, e molti altri nutrivano lo stesso proposito. Al suo ritorno nell'Urbe Tiberio dovette
dunque agire con grande cautela, senza mai abbandonare il proposito di riacquisire il prestigio e l'influenza
che aveva perduto nell'esilio di Rodi.
Proprio quando la loro popolarità aveva raggiunto i massimi livelli, Lucio e Gaio Cesare morirono,
rispettivamente nel 2 e nel 4, non senza che si sospettasse che Livia Drusilla avesse avuto qualche ruolo
nella loro morte: il primo si era misteriosamente ammalato, mentre il secondo era stato colpito a tradimento
in Armenia, mentre discuteva con i nemici una proposta di pace. Tiberio, che al suo ritorno aveva lasciato la
sua vecchia casa per trasferirsi nei giardini di Mecenate e aveva evitato in ogni modo di partecipare alla vita
pubblica, fu adottato da Augusto, che non aveva ormai altri eredi. Il princeps lo costrinse però ad adottare a
sua volta il nipote Germanico, figlio del fratello Druso Maggiore, sebbene Tiberio avesse già un figlio,
concepito dalla prima moglie, Vipsania, di nome Druso minore e più giovane di un anno soltanto.
L'adozione di Tiberio, che prese il nome di Tiberio Giulio Cesare, fu celebrata il 26 giugno del 4 con grandi
festeggiamenti e Augusto ordinò che si distribuisse alle truppe oltre un milione di sesterzi. Il ritorno di
Tiberio al potere supremo dava, infatti, non solo al Principato una naturale stabilità, continuità e una
concordia interna, ma nuovo slancio alla politica augustea di conquista e gloria all'esterno dei confini
imperiali.
Subito dopo la sua adozione, Tiberio fu nuovamente investito dell'imperium proconsolare e della
tribunicia potestas quinquennale o decennale e inviato da Augusto in Germania, poiché i precedenti
generali non erano riusciti a espandere ulteriormente la zona d'influenza romana rispetto alle conquiste che
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Druso maggiore aveva portato a termine tra il 12 e il 9 a.C. Tiberio desiderava inoltre riacquistare il favore
delle truppe dopo un decennio di assenza.
Dopo un trionfale viaggio durante il quale fu più volte festeggiato dalle legioni che già aveva
comandato in precedenza, Tiberio giunse in Germania, dove, nel corso di due campagne svolte tra il 4 e il
5, occupò in modo permanente, con nuove azioni militari, tutte le terre della zona settentrionale e centrale
comprese tra i fiumi Reno ed Elba. Nel 4 sottomise diverse popolazioni della regione, e riportò sotto il
dominio romano i Cherusci, che se ne erano sottratti. Decise poi di avanzare ancora di più nel territorio
germanico per superare il fiume Weser, e organizzò nel 5 una grande operazione che prevedeva l'impiego
delle forze terrestri e della flotta proveniente dal Mare del Nord: poté così stringere in una morsa letale i
temibili Longobardi assieme a Cimbri, Cauci e Senoni, che furono costretti a deporre le armi e ad arrendersi
al potere di Roma.
L'ultimo atto necessario era quello di occupare anche la parte meridionale della Germania, ovvero la
Boemia dei Marcomanni di Maroboduo, al fine di completare il progetto di annessione e portare il confine
dal fiume Reno all'Elba. Tiberio aveva progettato un complesso piano d'attacco che prevedeva l'impiego di
numerose legioni, quando scoppiò una grande rivolta in Dalmazia e Pannonia, che fermò dunque l'avanzata
di Tiberio. La campagna, progettata come una "manovra a tenaglia", costituiva infatti una grande
operazione strategica in cui gli eserciti di Germania, Rezia ed Illirico dovevano riunirsi in un punto
convenuto e sferrare l'ultimo attacco. Lo scoppio della rivolta dalmato-pannonica, però, impediva che le
legioni dell'Illirico raggiungessero la Germania, e c'era inoltre il rischio che Maroboduo si alleasse ai ribelli
per marciare contro Roma: Tiberio, dunque, quando era a pochi giorni di marcia dal territorio nemico,
concluse in fretta un trattato di pace con il capo marcomanno, e si diresse al più presto in Illirico.
Dopo un quindicennio di relativa tranquillità, nel 6 l'intero settore dalmato-pannonico riprese le armi
contro il potere di Roma: la causa della nuova insurrezione era il malgoverno dei magistrati inviati da Roma
a gestire le province, che erano state vessate mediante l'imposizione di gravosi tributi. L'insurrezione ebbe
inizio nella zona sudorientale dell'Illirico per poi estendersi ad altre popolazioni.
Con il timore di altre ribellioni ovunque nell'Impero, il reperimento delle reclute diventò problematico,
tanto da dover essere utilizzata la "ferma" obbligatoria e nuove tassazioni per far fronte a una simile
emergenza. Le forze messe in campo dai Romani furono ingenti: dieci legioni ed oltre ottanta unità
ausiliarie, pari a circa cento/centoventimila armati.
Tiberio mandò avanti i suoi luogotenenti perché sbarrassero la strada ai nemici nel caso avessero
deciso di marciare contro l'Italia: Marco Valerio Messalla Messallino riuscì a sconfiggere un esercito di
20.000 uomini e si asserragliò a Siscia, mentre Aulo Cecina Severo difese la città di Sirmium (Sirmio)
evitandone la caduta, e respinse Batone il Pannone presso il fiume Drava. Tiberio giunse sul teatro della
guerra sul finire dell'anno, quando gran parte del territorio, ad eccezione di poche piazzeforti, era nelle mani
dei ribelli, e anche la Tracia era scesa in guerra a fianco dei Romani.
Poiché a Roma si temeva che Tiberio indugiasse nella risoluzione del conflitto, nel 7 Augusto inviò
presso di lui Germanico in qualità di questore; il generale, intanto, meditava di riunire gli eserciti romani
impegnati della regione lungo il fiume Sava, in modo tale da poter disporre di oltre dieci legioni. Da Sirmio,
dunque, Cecina e Marco Plauzio Silvano condussero l'esercito verso Siscia, sconfiggendo le forze
congiunte dei ribelli. Ricongiunte le forze, Tiberio inflisse ripetute sconfitte ai nemici, ristabilendo l'egemonia
romana sulla valle della Sava e consolidando le conquiste ottenute mediante la costruzione di alcuni forti. In
previsione dell'inverno, dunque, separò nuovamente le legioni, inviandole a presidiare i confini, e
trattenendone cinque con sé a Siscia.
Nell'8 Tiberio riprese le manovre militari e sconfisse in agosto un nuovo esercito pannone.Tiberio
dispose le truppe in modo tale da poter sferrare l'attacco finale nell'anno successivo.
Nel 9 Tiberio riprese le ostilità suddividendo in tre colonne l'esercito e ponendosi assieme a
Germanico alla guida di una di esse. Mentre i suoi luogotenenti spegnevano gli ultimi residui focolari di
ribellione, egli si addentrò nel territorio dalmata alla ricerca del capo ribelle; ricongiuntosi con la colonna
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guidata dal nuovo legato Marco Emilio Lepido, lo raggiunse nella città di Andretium, dove il ribelle si arrese
ponendo fine, dopo quattro anni, al conflitto.
Per la vittoria, Tiberio fu insiginito ancora una volta del titolo di imperator e ottenne il trionfo, che
celebrò tuttavia solo più tardi, mentre a Germanico furono concessi gli ornamenta triumphalia.
Nel 9, dopo che Tiberio aveva brillantemente sconfitto i ribelli dalmati, l'esercito romano di stanza in
Germania, guidato da Publio Quintilio Varo, fu attaccato e sconfitto in un'imboscata da un esercito
germanico guidato da Arminio mentre attraversava la selva di Teutoburgo. Tre legioni, costituite dagli
uomini più esperti e addestrati, furono totalmente annientate, e le conquiste romane oltre il Reno andarono
perdute, poiché rimasero del tutto prive di un esercito di guarnigione che le custodisse. Augusto, inoltre,
temeva che dopo una simile disfatta romana Galli e Germani, alleatisi, marciassero contro l'Italia;
fondamentale perché questo timore potesse risultare vano fu l'apporto del sovrano dei Marcomanni
Maroboduo, che tenne fede ai patti stipulati con Tiberio nel 6 e rifiutò l'alleanza con Arminio.
Tiberio, pacificato l'Illirico, tornò a Roma, dove decise di posticipare la celebrazione del trionfo che gli
era stato tributato in modo tale da rispettare il lutto imposto per la disfatta di Varo. Il popolo avrebbe
comunque desiderato che prendesse un soprannome, come Pannonico, Invitto o Pio, che ricordasse le sue
grandi imprese; Augusto, tuttavia, respinse le richieste rispondendo che un giorno avrebbe preso anch'egli
l'appellativo di Augusto, e poi lo inviò sul Reno, per evitare che il nemico germanico attaccasse la Gallia e
che le province appena pacificate potessero rivoltarsi nuovamente ancora una volta in cerca
dell'indipendenza.
Giunto in Germania, Tiberio poté constatare la gravità della disfatta di Varo e delle sue conseguenze,
che impedivano di progettare una nuova riconquista delle terre che andavano fino all'Elba. Adottò, dunque,
una condotta particolarmente prudente, prendendo ogni decisione assieme al consiglio di guerra ed
evitando di far ricorso, per la trasmissione di messaggi, a uomini del luogo come interpreti; sceglieva allo
stesso modo con cura i luoghi in cui erigere gli accampamenti, in modo tale da fugare qualsiasi pericolo di
rimanere vittima di una nuova imboscata; mantenne, infine, tra i legionari una disciplina ferrea. In questo
modo poté ottenere numerose vittorie e confermare il confine lungo il fiume Reno, mantenendo fedeli a
Roma i popoli germanici che abitavano quei luoghi.
La successione fu una delle più grandi preoccupazioni della vita di Augusto, spesso affetto da
malattie che avevano fatto più volte temere una sua morte prematura. Il princeps aveva sposato nel 42 a.C.
Clodia Pulcra, figliastra di Antonio, ma l'aveva poi ripudiata l'anno successivo (41 a.C.), per sposare prima
Scribonia e, poco dopo, Livia Drusilla.
Per alcuni anni Augusto sperò di avere come erede il nipote Marco Claudio Marcello, figlio di sua
sorella Ottavia, che fece sposare con sua figlia Giulia, nel 25 a.C. Marcello fu così adottato, ma morì ancora
in giovanissima età due anni più tardi. Augusto costrinse allora Agrippa a sposare la giovanissima Giulia,
scegliendo dunque come successore il fidato amico, cui attribuì l'imperium proconsolare e la tribunicia
potestas. Tuttavia anche Agrippa morì prima di Augusto, nel 12 a.C., mentre si distinguevano per le loro
imprese Druso, favorito dello stesso Augusto, e Tiberio. Dopo la prematura morte di Druso, il princeps
diede la figlia Giulia in sposa a Tiberio, ma adottò i figli di Agrippa, Gaio e Lucio Cesare: anche'essi
morirono però in giovane età, non senza che si sospettasse un coinvolgimento di Livia. Augusto, dunque,
non poté che adottare Tiberio, poiché l'unico altro discendente diretto di sesso maschile ancora in vita, il
figlio di Agrippa, Agrippa Postumo, appariva brutale e del tutto privo di buone qualità, ed era stato mandato
al confino nell'isola di Pianosa.
Secondo Svetonio, tuttavia, Augusto, per quanto affezionato al figliastro, ne biasimava spesso alcuni
aspetti, ma scelse comunque di adottarlo per più motivi:
Tiberio, dunque, dopo aver portato a termine le operazioni in Germania, celebrò in Roma il trionfo
per la campagna in Dalmazia e Pannonia nell'ottobre del 12, in occasione del quale si prostrò
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pubblicamente di fronte ad Augusto, e ottenne nel 13 il rinnovo della tribunicia potestas e l'imperium
proconsulare maius, titoli che ne completavano di fatto la successione, elevandolo al rango effettivo di
coreggente, insieme allo stesso Augusto: poteva, dunque, amministrare le province, comandare gli eserciti,
ed esercitare pienamente il potere esecutivo. Tuttavia già dal momento della sua adozione Tiberio aveva
iniziato a prendere parte attiva al governo dello stato, coadiuvando il patrigno nella promulgazione delle
leggi e nell'amministrazione.
Nel 14, Augusto, ormai prossimo alla morte, chiamò con sé Tiberio sull'isola di Capri: l'erede, che
non ci era mai stato, ne rimase profondamente affascinato. Lì si decise che Tiberio si sarebbe nuovamente
recato in Illirico per dedicarsi alla riorganizzazione amministrativa della provincia; i due ripartirono assieme
per Roma, ma Augusto, colto da un improvviso malore, fu costretto a fermarsi nella sua villa di Nola, mentre
Tiberio proseguì per l'Urbe e partì poi per l'Illirico, com'era stato concordato. Proprio mentre si avvicinava
alla provincia Tiberio fu urgentemente richiamato indietro perché il patrigno, che non si era più potuto
spostare da Nola, era ormai in fin di vita. L'erede poté giungere da Augusto e i due tennero assieme ancora
un ultimo colloquio, prima che il principe morisse. Secondo altre versioni, invece, Tiberio giunse a Nola
quando Augusto era già morto.
Tiberio annunciò dunque la morte di Augusto, mentre sopraggiungeva anche la notizia del misterioso
assassinio di Agrippa Postumo da parte del centurione addetto alla sua custodia. Temendo inoltre eventuali
attentati alla sua persona, Tiberio si attribuì una scorta militare, e convocò il senato per il 17 settembre
perché si discutesse delle onoranze funebri da rendere ad Augusto e se ne leggesse il testamento: egli
lasciava come eredi del suo patrimonio Tiberio e Livia (che assumeva il nome di Augusta), ma assegnava
numerosi donativi anche al popolo di Roma e ai legionari che militavano negli eserciti. I senatori decisero
allora di tributare solenni onoranze funebri al princeps defunto, il cui corpo fu cremato nel Campo Marzio, e
iniziarono poi a rivolgere preghiere a Tiberio perché assumesse il ruolo e il titolo che era stato di suo padre,
e guidasse dunque lo stato romano; Tiberio inizialmente rifiutò, secondo Tacito e Svetonio volendo in realtà
essere supplicato dai senatori, perché non sembrasse che il governo dello stato subisse svolte in senso
autocratico e perché il sistema repubblicano rimanesse almeno formalmente intatto. Alla fine Tiberio
accettò l'offerta dei senatori, prima di irritarne gli stessi animi, probabilmente essendosi reso conto che vi
era l'assoluta necessità di un'autorità centrale. Risulta, pertanto, più probabile la tesi sostenuta dagli autori
filotiberiani, che raccontano che le esitazioni di Tiberio nell'assumere la guida dello stato furono dettate da
una reale modestia, più che da una premeditata strategia, forse suggerita dallo stesso Augusto.
Dopo la seduta del senato del 17 settembre del 14, dunque, Tiberio divenne il successore di Augusto
alla guida dello stato romano, mantenendo la tribunicia potestas e l'imperium proconsulare maius insieme
agli altri poteri di cui aveva usufruito Augusto, e assumendo il titolo di princeps. Rimase imperatore per
quasi ventitré anni, fino alla sua morte, nel 37. Il suo primo atto fu quello ratificare la divinizzazione di suo
padre adottivo, Augusto (divus Augustus), come in precedenza era stato fatto con Gaio Giulio Cesare,
confermandone inoltre il lascito ai soldati.
Fin dall'inizio del suo principato, Tiberio si trovò a dover convivere con l'incredibile prestigio che
Germanico, il figlio di suo fratello, Druso maggiore, che egli stesso aveva adottato per ordine di Augusto,
andava acquisendo presso tutto il popolo di Roma. Quando questi ebbe portato a termine le sue campagne
sul fronte settentrionale, dove si era guadagnato la stima dei suoi collaboratori e dei legionari, la sua
popolarità era tale da consentirgli, se avesse voluto, di prendere il potere scacciando il padre adottivo, che
in alcuni contesti era già malvisto poiché la sua ascesa al principato era stata segnata dalla morte di tutti gli
altri parenti che Augusto aveva indicato come eredi. Il risentimento spinse quindi Tiberio ad affidare al figlio
adottivo uno speciale compito in Oriente, in modo da allontanarlo ulteriormente da Roma; il Senato decise
di conseguenza di conferire al giovane l'imperium proconsulare maius su tutte le province orientali. Tiberio,
tuttavia, non aveva fiducia in Germanico, che in Oriente si sarebbe trovato lontano da qualsiasi controllo ed
esposto alle influenze dell'intraprendente moglie Agrippina maggiore, e decise dunque di affiancargli un
uomo di sua fiducia:la scelta di Tiberio ricadde su Gneo Calpurnio Pisone. Germanico, dunque, partì nel 18
verso l'Oriente assieme a Pisone, che fu nominato governatore della provincia di Siria.
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Germanico, tornato in Siria nel 19 dopo aver soggiornato in Egitto durante l'inverno, entrò in aperto
conflitto con Pisone, che aveva annullato tutti i provvedimenti che il giovane figliastro di Tiberio aveva
preso; Pisone, in risposta, decise di lasciare la provincia per fare ritorno a Roma. Poco dopo la partenza di
Pisone, Germanico cadde malato ad Antiochia e morì il 10 ottobre dopo lunghe sofferenze; prima di spirare,
lo stesso Germanico confessò la propria convinzione di essere stato avvelenato da Pisone, e rivolse
un'ultima preghiera ad Agrippina affinché vendicasse la sua morte. Officiati i funerali, dunque, Agrippina
tornò con le ceneri del marito a Roma, dove grandissimo era il compianto di tutto il popolo per il defunto.
Tiberio, tuttavia, evitò di manifestare pubblicamente i suoi sentimenti, e non partecipò neppure alla
cerimonia in cui le ceneri di Germanico furono riposte nel mausoleo di Augusto. In effetti Germanico
potrebbe essere deceduto di morte naturale, ma la popolarità crescente enfatizzò molto l'avvenimento.
Subito, però, si manifestò il sospetto, alimentato dalle parole pronunciate da Germanico morente,
che fosse stato Pisone a causarne la morte avvelenandolo. Si diffuse dunque anche la voce di un
coinvolgimento dello stesso Tiberio, quasi fosse il mandante del delitto di Germanico, avendo lo stesso
scelto personalmente di inviare Pisone in Siria: quando dunque lo stesso Pisone fu processato, accusato
anche di aver commesso numerosi reati in precedenza, l'imperatore tenne un discorso particolarmente
moderato, in cui evitò di schierarsi a favore o contro la condanna del governatore. A Pisone non poté
comunque essere imputata l'accusa di veneficio, che appariva, anche agli accusatori, impossibile da
dimostrare; il governatore, tuttavia, certo di dover essere condannato per gli altri reati che aveva
commesso, decise di suicidarsi prima che venisse emesso un verdetto.
La popolarità di Tiberio, dunque, uscì danneggiata dall'episodio, proprio perché Germanico era molto
amato.
La morte di Germanico aprì la strada per la successione all'unico figlio naturale di Tiberio, Druso, che
aveva, fino a quel momento, accettato un ruolo secondario rispetto al cugino Germanico. Egli era soltanto
di un anno più giovane del defunto, ma ugualmente abile, come risulta dal modo con cui fronteggiò la rivolta
in Pannonia.
Intanto, Lucio Elio Seiano, nominato prefetto del Pretorio insieme al padre nel 16, riuscì presto a
conquistarsi la fiducia di Tiberio. Accanto a Druso, dunque, favorito per la successione, si andò a collocare
anche la figura di Seiano, che acquisì un grande influsso sull'opera di Tiberio: il prefetto del Pretorio, infatti,
che mostrava nel carattere una riservatezza del tutto simile a quella dell'imperatore, era invece animato da
un forte desiderio di potere, e ambiva lui stesso a divenire il successore di Tiberio. Seiano vide inoltre
crescere enormemente il suo potere quando le nove coorti pretoriane furono raggruppate nella stessa città
di Roma. Tra Druso e Seiano si venne quindi a creare una situazione di aperta rivalità; il prefetto, allora,
iniziò a meditare l'ipotesi di assassinare Druso e gli altri possibili successori di Tiberio, sedusse la moglie
dello stesso Druso, Claudia Livilla e intraprese con lei una relazione. Poco tempo dopo, nel 23, lo stesso
Druso morì avvelenato; l'opinione pubblica arrivò a sospettare, pur senza alcun fondamento, che potesse
essere stato Tiberio a ordinare l'assassinio di Druso, ma appariva più verosimile che vi fosse stata coinvolta
Claudia Livilla. Otto anni più tardi Tiberio venne a sapere che ad uccidere il figlio era stata proprio la nuora
Livilla, insieme al suo più fidato consigliere, Seiano.
Tiberio, dunque, si trovò ancora una volta, all'età di 64 anni, privo di un erede, perché i gemelli di
Druso, nati nel 19, erano troppo giovani, ed uno di loro era morto poco dopo il padre. Scelse allora di
proporre come suoi successori i giovani figli di Germanico, che erano stati adottati da Druso e che Tiberio
pose sotto la tutela dei senatori. Seiano ebbe, allora, un potere sempre maggiore, tanto da poter sperare di
divenire imperatore egli stesso dopo la morte di Tiberio, e iniziò una serie di persecuzioni prima contro i figli
e la moglie di Germanico, Agrippina, poi verso gli amici dello stesso Germanico; molti di loro furono infatti
costretti all'esilio, o scelsero di darsi la morte per evitare una condanna.
Tiberio, addolorato per la morte del figlio ed esasperato per l'ostilità del popolo di Roma, nel 26
decise di ritirarsi prima in Campania e l'anno successivo a Capri su consiglio dello stesso Seiano, per non
fare mai più ritorno nell'Urbe. Egli aveva già sessantasette anni e sembra che il piano di allontanarsi da
Roma lo accarezzasse già da diverso tempo. Si racconta che dopo aver visto il figlio morire agonizzante,
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avesse parlato di dimettersi. Non poteva più sopportare di vedere intorno a sé gente che gli ricordava
Druso, senza dimenticare che la vicinanza della madre Livia era divenuta per lui insopportabile. Una
malattia che gli sfigurava il viso ne aveva, infine, aumentato la sucettibilità e l'ombrosità del carattere. Ma il
suo ritiro fu un errore molto grave, sebbene Tiberio non avesse diminuito la cura con cui affrontava i
problemi dell'Impero dalla villa di Capri.
Il prefetto del pretorio, intanto, godendo della totale fiducia dell'imperatore, prese il controllo di tutte le
attività politiche, divenendo rappresentante incontrastato del potere imperiale. Egli era riuscito, inoltre, a
convincere il princeps a concentrare tutte le nove coorti pretorie, in precedenza distribuite tra Roma ed altre
città italiche, nell'Urbe a sua totale disposizione, ora che Tiberio aveva lasciato Roma.
Tiberio, invece, si impegnò a mantenersi informato sulla vita politica di Roma, e riceveva
regolarmente missive che lo informavano delle discussioni intraprese in senato; egli stesso, grazie
all'istituzione di un vero e proprio servizio postale, poteva esprimere il proprio parere, ed era anche in grado
di impartire ordini ai suoi emissari nell'Urbe. L'allontanamento di Tiberio da Roma portò, comunque, a una
progressiva esautorazione del senato, a tutto vantaggio dell'imperatore stesso e di Seiano.
Il prefetto del pretorio, infatti, iniziò a perseguitare i proprio oppositori accusandoli di lesa maestà ed
eliminandoli, dunque, dalla scena politica; grande credito acquisirono i delatori, ovvero coloro che
fungevano da accusatori, e permettevano la condanna dell'imputato. Una tale situazione portò alla
creazione di un clima di generale sospetto, che, a sua volta, fomentò ulteriormente le voci sul
coinvolgimenti dell'imperatore nei numerosi processi politici intentati da Seiano e dai suoi collaboratori. Nel
29, quando Livia Drusilla, che con il suo carattere autoritario aveva sempre influenzato il governo, morì
all'età di ottantasei anni, il figlio si rifiutò di far ritorno a Roma per le esequie e proibì la sua divinizzazione.
Seiano, allora, poté procedere indisturbato in una serie di azioni contro Agrippina maggiore e il suo figlio
primogenito Nerone: contro il giovane furono riversate numerose accuse infamanti, tra cui quella di tentata
sovversione, ed egli fu dunque condannato al confino sull'isola di Ponza, dove morì nel 30. Agrippina,
invece, accusata di adulterio, fu deportata nell'isola Pandataria dove morì nel 33.
Nei progetti di Seiano rientrava appunto il proposito di assicurarsi la successione nel ruolo di
imperatore. Eliminati i discendenti diretti di Tiberio, il prefetto era ormai l'unico candidato alla successione:
dopo aver già tentato inutilmente di imparentarsi con l'imperatore sposando la vedova di Druso minore
Claudia Livilla, iniziò ad aspirare al conferimento della tribunicia potestas, che avrebbe formalmente sancito
la sua successiva nomina ad imperatore, rendendo la sua persona sacra e inviolabile, e ottenne, intanto,
nel 31 il consolato assieme allo stesso Tiberio. Contemporaneamente, però, la vedova di Druso maggiore,
Antonia minore, facendosi portavoce dei sentimenti di gran parte della classe senatoriale, comunicò in una
lettera a Tiberio tutti gli intrighi e i fatti di sangue di cui Seiano, che stava ordendo una cospirazione ai danni
dello stesso imperatore, era responsabile; Tiberio, allertato decise allora di destituire il potente prefetto, e
organizzò un'abile manovra con l'aiuto del prefetto dell'Urbe Macrone.
Per non destare sospetti, l'imperatore nominò Seiano pontefice, promettendo di conferirgli al più
presto la tribunicia potestas; contemporaneamente, però, lasciò anticipatamente la carica di console,
costringendo così anche il collega a rinunciarvi. Il 17 ottobre del 31, infine, Tiberio, nominato segretamente
prefetto del pretorio il prefetto dell'Urbe e capo delle coorti urbane Macrone, lo inviò a Roma con l'ordine di
accordarsi con Grecinio Lacone, prefetto dei vigiles, e col nuovo console designato Publio Memmio Regolo,
affinché convocasse per il giorno successivo il senato nel tempio di Apollo, sul Palatino. In tal modo Tiberio,
garantendosi il sostegno delle coorti urbane e dei vigili, si era premunito contro un'eventuale reazione dei
pretoriani in favore di Seiano.
Quando Seiano giunse in Senato, venne informato da Macrone dell'arrivo di una lettera di Tiberio
annunciante il conferimento della potestà tribunizia. Così, mentre questi prendeva giubilante il proprio posto
tra i senatori, Macrone, rimasto fuori dal tempio, allontanò i pretoriani di guardia facendoli sostituire dai vigili
di Lacone. Poi, consegnata la lettera di Tiberio al console perché la leggesse al Senato, raggiunse i castra
praetoria per annunciare la propria nomina a prefetto del pretorio. Nella lettera, volutamente molto lunga e
vaga, Tiberio trattava di vari argomenti, di tanto in tanto intessendo le lodi di Seiano, a volte muovendogli
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qualche critica; solo alla fine, l'imperatore accusava all'improvviso il prefetto di tradimento, ordinandone la
destituzione e l'arresto. Seiano, sbigottito per l'inatteso voltafaccia venne immediatamente condotto via in
catene dai vigiles e poco dopo sommariamente processato dal senato: fu condannato a morte e alla
damnatio memoriae.
La sentenza venne eseguita nella stessa notte nel Carcere Mamertino per strangolamento, e il corpo
esanime del prefetto fu poi lasciato al popolo, che ne fece scempio trascinandolo per le strade dell'Urbe. A
seguito dei provvedimenti che Seiano aveva preso contro Agrippina e la famiglia di Germanico, infatti, la
plebe aveva sviluppato una forte avversione nei confronti del prefetto. Il Senato dichiarò il 18 ottobre festa
pubblica.
Pochi giorni più tardi furono brutalmente strangolati nel Carcere Mamertino i tre giovani figli del
prefetto; la sua ex-moglie, Apicata, si suicidò, dopo aver inviato una lettera a Tiberio rivelando le colpe di
Seiano e Claudia Livilla in occasione della morte di Druso minore. Livilla fu dunque processata, e, per
evitare una sicura condanna, si lasciò morire di fame. Alla morte di Seiano e dei suoi familiari seguirono poi
una serie di processi contro gli amici e i collaboratori del defunto prefetto, che furono condannati a morte o
costretti al suicidio:
Tiberio, intanto, trascorse l'ultima parte del suo regno sull'isola di Capri, circondato da uomini di
studio, giuristi, letterati ed anche astrologi.Tacito e Svetonio raccontano che a Capri Tiberio poté lasciare
libero sfogo ai suoi inenarrabili vizi, abbandonandosi alla gola e alla sfrenata libidine; sembra tuttavia più
verosimile che Tiberio abbia mantenuto la sua consueta riservatezza, evitando gli eccessi come aveva
sempre fatto, non trascurando i propri doveri nei confronti dello Stato e continuando a lavorare nel suo
interesse.
Dopo la caduta di Seiano si riaprì la questione della successione, e nel 33 anche Druso Cesare, il
maggiore dei figli di Germanico rimasti in vita, morì di inedia dopo essere stato condannato al confino nel
30 con l'accusa di aver cospirato contro Tiberio. Quando Tiberio, nel 35, depositò il suo testamento,
potendo scegliere tra tre possibili eredi, incluse nel testamento il nipote Tiberio Gemello, figlio di Druso
minore, e il nipote collaterale Gaio, figlio di Germanico. Restò dunque escluso dal testamento il fratello dello
stesso Germanico, Claudio, che era considerato del tutto inadatto al ruolo di princeps, in quanto debole di
corpo e di dubbia sanità mentale. Il favorito nella successione apparve subito il giovane Gaio di venticinque
anni, meglio noto come Caligola, poiché Tiberio Gemello, peraltro sospettato di essere in realtà figlio di
Seiano, aveva dieci anni di meno: due ragioni sufficienti per non lasciargli il Principato. Il prefetto del
pretorio Macrone, infatti, dimostrò subito la sua simpatia per Gaio, guadagnandosene con ogni mezzo la
fiducia.
Nel 37, Tiberio lasciò Capri, come aveva già fatto in precedenza, forse con l'idea di rientrare
finalmente in Roma per trascorrervi i suoi ultimi giorni; intimorito però dalle reazioni che il popolo avrebbe
avuto, si fermò a sole sette miglia dall'Urbe, e decise di tornare indietro verso la Campania. Qui fu colto da
malore, e trasportato nella villa di Lucullo a Miseno; dopo un iniziale miglioramento, il 16 marzo cadde in
uno stato di delirio e fu creduto morto. Mentre molti già si apprestavano a festeggiare l'ascesa di Caligola,
Tiberio si riprese ancora una volta, suscitando scompiglio tra coloro che avevano già acclamato il nuovo
imperatore; il prefetto Macrone, tuttavia, mantenendo la lucidità, ordinò che Tiberio fosse soffocato tra le
coperte.
La plebe romana reagì con grande gioia alla notizia della morte di Tiberio, festeggiandone la
scomparsa. Molti monumenti che celebravano le imprese dell'imperatore furono distrutti, così come
numerose statue che lo raffiguravano. In molti tentarono di far cremare il corpo di Tiberio a Miseno, ma fu
comunque possibile trasportarlo a Roma, dove fu cremato nel Campo Marzio e sepolto, tra le ingiurie, nel
Mausoleo di Augusto il 4 aprile, presidiato dai pretoriani. Mentre l'imperatore defunto riceveva queste
modeste onoranze funebri il 29 marzo, Caligola era già stato acclamato princeps dal senato.
Tiberio non si distinse mai per nessuna tendenza al rinnovamento. Durante il suo regno dimostrò,
anzi, un rigido rispetto per la tradizione augustea, cercando di osservare tutte le istruzioni di Augusto. Suo
scopo era quello di salvaguardare l'impero, assicurandone la tranquillità interna ed esterna, oltre a
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consolidare il nuovo ordinamento evitando, tuttavia, che esso assumesse le caratteristiche di un dominato.
Per mettere in atto questo suo piano utlilizzò quali collaboratori e consiglieri personali molti di quegli ufficiali
che lo avevano seguito nel corso delle lunghe e numerose campagne militari, durate quasi quarant'anni. In
ogni caso l'amministrazione dello stato durante i primi anni di principato fu riconosciuta da tutti ottima per
buon senso e moderazione. Lo stesso Tacito apprezzò le capacità del nuovo princeps almeno fino alla
morte del figlio Druso avvenuta nel 23.
La stessa cosa dicasi nelle relazioni tra Tiberio e la nobilitas senatoriale, che furono, tuttavia, diverse
da quelle instauratesi con Augusto. Il nuovo imperatore, infatti, appariva, per meriti ed ascendenze, diverso
dal patrigno, che aveva posto fine alle guerre civili, riportato la pace all'impero, e ottenuto di conseguenza
una grandissima autorevolezza. Tiberio dovette quindi basare il rapporto tra princeps e nobiltà senatoriale
su una moderatio che accresceva il potere di entrambi, sovrapponendolo a quello del tradizionale ordine
gerarchico; stabilì, inoltre, una netta distinzione tra gli onori che andavano tributati agli imperatori viventi e il
culto di quelli defunti divinizzati.Nonostante questi provvedimenti, che contribuivano a mantenere in vita la
"finzione repubblicana", non mancarono, accanto agli adulatori, esponenti della classe senatoriale che
osteggiarono fortemente l'opera di Tiberio. Tuttavia nei primi anni Tiberio, seguendo il modello augusteo,
cercò sinceramente una cooperazione con il senato, partecipando sovente alle sue sedute e rispettandone
la libertà di discussione, consultandolo anche su questioni che era in grado di risolvere da solo ed
ampliandone le stesse funzioni amministrative. Egli sostenava infatti che il buon princeps deve servire il
senato.
Le magistrature conservarono, comunque, la loro dignità, e il senato, che Tiberio consultava spesso
prima di prendere decisioni in qualsiasi ambito, fu favorito mediante più provvedimenti.
Sebbene fosse consuetudine che l'imperatore segnalasse alcuni candidati alle magistrature, le
elezioni avevano continuato a svolgersi, almeno formalmente, nell'assemblea dei comizi centuriati. Tiberio
decise di porre fine alla consuetudine, e assegnò ai senatori il compito di eleggere i magistrati.
Allo stesso modo, Tiberio decise di assegnare ai senatori il compito di giudicare i senatori stessi o i
cavalieri di alto rango che si fossero macchiati di reati particolarmente gravi, come l'omicidio o il tradimento.
I senatori furono anche incaricati di giudicare, senza l'intervento dell'imperatore, l'operato dei
governatori di provincia. Al senato, infine, fu assegnata la giurisdizione in campo religioso e sociale su tutta
l'Italia.
Durante il periodo della sua permanenza a Capri, tuttavia, Tiberio, per evitare che il senato
prendesse provvedimenti a lui non graditi, soprattutto nell'ambito dei numerosi processi di lesa maestà
condotti da Seiano, stabilì che ogni decisione approvata dal senato dovesse essere applicata soltanto dieci
giorni più tardi, in modo da avere egli stesso la possibilità di controllare, nonostante la lontananza da Roma,
l'attività dei senatori.
Il principe si consultava spesso con il senato tramite i senatus consulta, talvolta su questioni fuori
della sua competenza, ad esempio sulle questioni di carattere religioso, ambito nel quale Tiberio mostrò
una particolare avversione per i culti orientali: nel 19 furono infatti resi illegali i culti caldei e giudaici, e
coloro che li professavano furono costretti all'arruolamento o espulsi dall'Italia. Ordinò di bruciare ogni
paramento e oggetto sacro adoperato per i culti in questione, e, mediante l'arruolamento, poté inviare i
giovani di religione ebraica nelle regioni più lontane e malsane, in modo da infliggere un duro colpo alla
diffusione del culto.
Tiberio riformò almeno in parte l'ordinamento augusteo contro il celibato, incentrato sulla lex Papia
Poppea: egli, pur senza abolire le disposizioni del patrigno, nominò una commissione che si occupò di
riformare l'ordinamento e di rendere meno severe le pene da comminare ai celibi, o a coloro che, pur
sposati, non avevano figli; furono, tuttavia, ugualmente presi dei provvedimenti che tenessero a freno il
lusso e garantissero la moralità dei costumi.
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Tra i provvedimenti più importanti rientra, poi, l'approvazione della lex de maiestate, che prevedeva
che fossero perseguibili e passibili di condanna tutti coloro che avessero recato offesa alla maestà del
popolo romano. Sulla base di una legge tanto vaga poteva ritenersi colpevole sia chi si fosse reso
responsabile di una sconfitta militare o di una sedizione, sia chi avesse male amministrato lo stato. La
legge, che tornava in vigore dopo essere stata abrogata, divenne presto uno strumento nelle mani
dell'imperatore, del senato, e soprattutto del prefetto Seiano, per incriminare gli oppositori politici. Tiberio,
tuttavia, si mostrò più volte contrario alle sentenze politiche, evitando che i processi fossero determinati da
raccomandazioni e incitando più volte i magistrati ad agire in totale onestà.
Tiberio risultò eccellente nella gestione finanziaria, tanto da lasciare alla sua morte un avanzo
memorabile nelle casse dello stato: per fare solo pochi esempi, i beni del re Archelao di Cappadocia
divennero proprietà imperiale, come pure alcune miniere della Gallia della moglie Giulia, una miniera
d'argento, una d'oro in Spagna confiscata nel 33, ed altre ancora. Affidò l'amministrazione del patrimonio
dello stato a funzionari particolarmente oculati, il cui incarico durava spesso fino alla vecchiaia; fu sempre
pronto e generoso nell'intervento in ogni circostanza interna difficile, come durante le carestie che la plebe
urbana patì o come quando nel 36 costituì un sussidio, in seguito ad un incendio sull'Aventino, di cento
milioni di sesterzi. Nel 33, dopo aver preso alcuni provvedimenti contro l'usura, riuscì ad attenuare una
grave crisi agraria e finanziaria provocata da una riduzione della circolazione monetaria, istituendo con il
proprio patrimonio personale un fondo di prestito di altri cento milioni di sesterzi, dal quale i debitori
potevano attingere per tre anni senza interessi, purché possedessero, a garanzia, terreni di valore doppio
rispetto alla somma chiesta in prestito. Appena possibile, cercò di razionalizzare la spesa pubblica per gli
spettacoli riducendo le paghe degli attori e diminuendo il numero delle coppie di gladiatori che
partecipavano ai giochi; ridusse dall'1% allo 0,5% l'impopolare tassa sulle vendite, e lasciò, alla sua morte,
2.700 milioni di sesterzi nelle casse del tesoro. Ai governatori provinciali che lo invitavano a imporre nuove
imposte, egli si oppose fermamente, rispondendo che è compito del buon pastore tosare le pecore, non
scorticarle.
Seppe scegliere, inoltre, degli amministratori competenti e curò in modo particolare il governo delle
province. I governatori che avevano ottenuto buoni risultati e che si erano dunque distinti per onestà e
abilità poterono, infatti, spesso ricevere delle proroghe al mandato. Tacito, tuttavia, vide in quest'uso la
volontà da parte dell'indeciso Tiberio di allontanare da sé la preoccupazione del governo delle province e di
evitare che più persone potessero godere dei benefici che derivavano dall'aver ricoperto un'alta
magistratura. La riscossione delle imposte nelle province fu affidata ai cavalieri, che si organizzavano in
apposite società d'appalto; Tiberio evitò in ogni modo l'imposizione di nuove tasse ai provinciali, e
scongiurò in questo modo il pericolo di rivolte. Fece, infine, costruire strade in Africa, in Spagna soprattutto
nella parte nord-ovest, in Dalmazia e Mesia, ed altre furono riparate come in Gallia Narbonense.
Tiberio si mantenne fedele alla decisione di Augusto di mantenere i confini dell'impero invariati,
cercando di salvaguardare i territori interni e di assicurarne la tranquillità ed operò soltanto i cambiamenti
necessari per la sicurezza. Egli riuscì ad evitare guerre o spedizioni militari inutili, con le conseguenti spese,
riponendo una fiducia maggiore nella diplomazia. Allontanò i re clienti e i governatori che si erano rivelati
inadatti al loro ruolo, e cercò di garantire un sistema amministrativo più efficiente. Le uniche modifiche
territoriali interessarono, infatti, il solo Oriente, quando alla morte dei re clienti, Cappadocia, Cilicia e
Commagene furono incorporate nei confini imperiali.
Tutte le rivolte che si susseguirono nel suo lungo principato, durato 23 anni, furono soffocate nel
sangue dai suoi generali.
Durante l'impero di Tiberio, le forze militari erano dislocate con la seguente disposizione: la tutela
dell'Italia era affidata a due flotte, quella di Ravenna (classis Ravennatis) e quella di Capo Miseno (classis
Misenensis), e Roma, in particolare, era difesa dalle nove coorti pretorie, che Seiano fece riunire in un
accampamento alle porte dell'Urbe, e da tre coorti urbane. Il nordovest dell'Italia era invece presidiato da
un'ulteriore flotta, all'ancora sulle coste della Gallia, costituita dalle navi rostrate che Augusto aveva
catturato ad Azio. Le restanti forze erano stanziate nelle province, con l'obiettivo di salvaguardare i confini e
reprimere eventuali rivolte interne: otto legioni erano schierate nella zona del Reno a protezione dalle
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invasioni germaniche e dalle rivolte galliche, tre legioni si trovavano in Spagna, e due tra le province
dell'Egitto e dell'Africa, dove Roma poteva anche contare sull'aiuto del regno di Mauretania. Ad Oriente,
quattro legioni erano stanziate tra la Siria e il fiume Eufrate. Nell'Europa orientale, infine, due legioni erano
stanziate in Pannonia, due in Mesia, a protezione del confine danubiano, e due in Dalmazia. Dislocati
ovunque sul territorio, in modo da poter intervenire dove ce ne fosse bisogno, erano altre piccole flotte di
triremi, battaglioni di cavalleria e gruppi di ausiliari reclutati tra gli abitanti delle province.
Riguardo alla politica estera lungo i confini settentrionali, Tiberio seguì il principio di mantenere e
consolidare una barriera contro i Germani lungo la linea del Reno, ponendo fine dopo pochi anni dalla salita
al trono alle operazioni militari improduttive e pericolose che Germanico aveva intraprese negli anni 14-16.
Tacito che ammirava Germanico, ed aveva poca simpatia per Tiberio, imputò la decisione del princeps alla
sola invidia per i successi raggiunti dal nipote. Tiberio che gli riconosceva il merito di aver ridato lustro al
prestigio romano tra i Germani, ritenne al contrario ed a ragione, che un nuovo tentativo di stabilire il
confine sull'Elba avrebbe implicato un allontanamento dalla politica di Augusto, considerata da Tiberio
come un praeceptum, oltre a comportare un notevole aumento della spesa militare e l'obbligo di condurre
poi una successiva campagna in Boemia contro Maroboduo, re dei Marcomanni. Tiberio, inoltre, non lo
reputava né utile né necessario.
Nel 14, mentre era in corso la rivolta delle legioni in Pannonia, anche gli uomini stanziati lungo il
confine germanico si ribellarono ai loro comandanti, dando inizio ad un'efferata serie di violenze e massacri.
Germanico, allora, che era a capo dell'esercito stanziato in Germania e godeva di grande prestigio, si
incaricò di riportare alla calma la situazione, confrontandosi personalmente con i soldati in rivolta. Essi
chiedevano, come i loro compagni Pannoni, la riduzione della durata del servizio militare e l'aumento della
paga: Germanico decise di concedere loro il congedo dopo venti anni di servizio e di inserire nella riserva
tutti i soldati che avevano combattuto per oltre sedici anni, esonerandoli così da ogni obbligo ad eccezione
di quello di respingere gli assalti nemici; raddoppiò allo stesso tempo i lasciti a cui, secondo i testamento di
Augusto, i militari avevano diritto. Le legioni, che avevano da poco appreso della recente morte di Augusto,
arrivarono addirittura a garantire il proprio appoggio al generale se avesse desiderato impadronirsi del
potere con la forza, ma egli rifiutò dimostrando allo stesso tempo grande rispetto per il padre adottivo
Tiberio e una grande fermezza. La rivolta, che aveva attecchito tra molte delle legioni di stanza in
Germania, risultò comunque difficile da reprimere, e si concluse con la strage di molti legionari ribelli. I
provvedimenti presi da Germanico per soddisfare le esigenze delle legioni furono poi ufficializzati in un
secondo momento da Tiberio, che assegnò le stesse indennità anche ai legionari pannoni.
Ripreso il controllo della situazione, Germanico decise di organizzare una spedizione contro le
popolazioni germaniche che, venute a conoscenza delle notizie della morte di Augusto e della ribellione
delle legioni, avrebbero potuto decidere di lanciare un nuovo attacco contro l'impero. Assegnata, dunque,
parte delle legioni al luogotenente Aulo Cecina Severo, attaccò le tribù di Bructeri, Tubanti e Usipeti,
sconfiggendole nettamente e compiendo numerose stragi; attaccò, poi, i Marsi, ottenendo nuove vittorie e
pacificando così la regione ad ovest del Reno: poté in questo modo progettare per il 15 una spedizione ad
est del grande fiume, con la quale avrebbe potuto vendicare Varo e frenare ogni volontà espansionistica dei
Germani.
Nel 15, dunque, Germanico attraversò il Reno assieme al luogotenente Cecina Severo, che
sconfisse nuovamente i Marsi, mentre il generale ottenne una netta vittoria sui Catti. Il principe dei Cherusci
Arminio, che aveva sconfitto Varo a Teutoburgo, incitò allora tutte le popolazioni germaniche alla rivolta,
invitandole a combattere contro gli invasori romani; si formò, tuttavia, anche un piccolo partito filoromano,
guidato dal suocero di Arminio, Segeste, che offrì il proprio aiuto a Germanico. Questi si diresse verso
Teutoburgo, dove poté ritrovare una delle aquile legionarie perdute nella battaglia di sei anni prima, e rese
gli onori funebri ai caduti le cui ossa erano rimaste insepolte. Decise, poi, di inseguire Arminio per
affrontarlo in battaglia; il principe germanico, però, attaccò gli squadroni di cavalleria che Germanico aveva
mandato in avanscoperta sicuro di poter cogliere il nemico impreparato, e fu dunque necessario che l'intero
esercito legionario intervenisse per evitare una nuova disastrosa sconfitta. Germanico, allora, decise di
tornare ad ovest del Reno assieme ai suoi uomini; mentre si trovava sulla strada del ritorno presso i
cosiddetti pontes longi, Cecina fu attaccato e sconfitto da Arminio, che lo costrinse a retrocedere all'interno
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dell'accampamento. I Germani, allora, convinti di poter avere la meglio sulle legioni, assaltarono
l'accampamento stesso, ma furono a loro volta duramente sconfitti, e Cecina poté condurre le legioni sane
e salve ad ovest del Reno.
Nonostante avesse riportato una sostanziale vittoria, Germanico era cosciente che i Germani erano
ancora in grado di riorganizzarsi, e decise, nel 16, di condurre una nuova campagna che avesse l'obiettivo
di annientare definitivamente le popolazioni tra il Reno e l'Elba. Per giungere indisturbato nelle terre dei
nemici, decise di approntare una flotta che conducesse le legioni fino alla foce del fiume Amisia: in tempi
rapidi furono approntate oltre mille navi agili e veloci, in grado di trasportare numerosi uomini ma dotate
anche di macchine da guerra per la difesa. Non appena i Romani sbarcarono in Germania, le tribù del
luogo, riunite sotto il comando di Arminio, si prepararono a fronteggiare gli invasori e si riunirono a battaglia
presso Idistaviso; gli uomini di Germanico, ben più preparati dei loro nemici, fronteggiarono allora i
Germani, e riportarono una schiacciante vittoria. Arminio e i suoi si ritirarono presso il Vallo Angirvariano,
ma subirono un'altra durissima sconfitta da parte dei legionari romani: le genti che abitavano tra il Reno e
l'Elba erano così state debellate. Germanico ricondusse dunque i suoi in Gallia, ma, sulla strada del ritorno,
la flotta romana fu dispersa da una tempesta e costretta a subire notevoli perdite; l'inconveniente occorso ai
Romani diede nuovamente ai Germani la speranza di poter ribaltare le sorti della guerra, ma i luogotenenti
di Germanico poterono facilmente avere la meglio sui loro nemici. Sebbene Roma non fosse dunque
riuscita ad espandere la sua area d'influenza, il confine stabilito dal Reno era, così, protetto da altre
eventuali rivolte germaniche; a segnare in modo ancora più netto la fine delle ribellioni delle genti del luogo
intervenne, nel 19, la morte di Arminio, che, dopo aver sconfitto in guerra il re filoromano dei Marcomanni,
Maroboduo, fu tradito e ucciso dai suoi compagni quando aspirava ormai al regno.
Ad Oriente la situazione politica, dopo un periodo di relativa tranquillità successivo agli accordi tra
Augusto e i sovrani partici, tornò a farsi conflittuale: a causa delle lotte intestine, Fraate IV e i suoi figli
morirono mentre a Roma regnava ancora Augusto, e i Parti chiesero dunque che Vonone, figlio di Fraate
inviato tempo prima come ostaggio, potesse tornare in Oriente, per salire al trono in qualità di unico
membro ancora in vita della dinastia arsacide. Il nuovo sovrano, però, estraneo alle tradizioni locali, risultò
inviso ai Parti stessi, e fu quindi sconfitto e scacciato da Artabano II, e costretto a rifugiarsi in Armenia. Qui i
re imposti sul trono da Roma erano morti, e Vonone fu dunque scelto come nuovo sovrano; tuttavia, ben
presto Artabano fece pressione su Roma perché Tiberio destituisse il nuovo re armeno, e l'imperatore, per
evitare di dover intraprendere una nuova guerra contro i Parti, fece arrestare Vonone dal governatore
romano di Siria.
A turbare la situazione orientale intervennero anche le morti del re della Cappadocia Archelao, che
era venuto a Roma a rendere omaggio a Tiberio, di Antioco III, re di Commagene, e di Filopatore, re di
Cilicia: i tre stati, che erano vassalli di Roma, si trovavano in una situazione di instabilità politica, e si
acuivano i contrasti tra il partito filoromano e i fautori dell'autonomia.
La difficile situazione orientale rendeva necessario un intervento romano, e Tiberio nel 18 inviò il
figlio adottivo, Germanico, che fu nominato console e insignito dell'imperium proconsulare maius su tutte le
province orientali. Contemporaneamente l'imperatore nominò un nuovo governatore per la provincia di
Siria, Gneo Calpurnio Pisone, che era stato suo collega durante il consolato del 7 a.C. Giunto in Oriente,
Germanico, con il consenso dei Parti, incoronò ad Artaxata un nuovo sovrano d'Armenia. Stabilì, inoltre,
che la Commagene ricadesse sotto la giurisdizione di un pretore, pur mantenendo la propria formale
autonomia, che la Cappadocia fosse istituita come provincia a sé stante, e che la Cilicia entrasse invece a
far parte della provincia di Siria. Germanico aveva così brillantemente risolto tutti i problemi che avrebbero
potuto far temere l'accendersi di nuove situazioni di conflitto nella regione orientale. Ricevette, intanto,
un'ambasceria da parte del re dei Parti Artabano, che era intenzionato a confermare e rinnovare l'amicizia e
l'alleanza dei due imperi: in segno di omaggio alla potenza romana Artabano decise di recarsi in visita da
Germanico in riva al fiume Eufrate, e chiese che in cambio Vonone fosse scacciato dalla Siria, dov'era
rimasto dal momento del suo arresto, poiché fomentava nuove discordie;Germanico accettò di rinnovare
l'amicizia con i Parti, e acconsentì dunque all'allontanamento dalla Siria di Vonone, che aveva stretto un
legame di amicizia con il governatore Pisone. L'ex-re dell'Armenia fu dunque confinato nella città di
Pompeiopoli in Cilicia, e morì poco tempo dopo, ucciso da alcuni cavalieri romani mentre tentava la fuga.
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Nel 19 anche Germanico morì, dopo aver evitato con oculati provvedimenti che una carestia sviluppatasi in
Egitto avesse conseguenze catastrofiche per la provincia stessa.
La sistemazione dell'Oriente approntata da Germanico garantì la pace fino al 34: in quell'anno il re
Artabano II di Partia, convinto che Tiberio, ormai vecchio, non avrebbe opposto resistenza da Capri, pose il
figlio Arsace sul trono di Armenia. Tiberio, allora, decise di inviare Tiridate, discendente della dinastia
arsacide tenuto in ostaggio a Roma, a contendere il trono partico ad Artabano, e sostenne l'insediamento di
Mitridate, fratello del re di Iberia, sul trono di Armenia. Mitridate, con l'aiuto del fratello Farasmane, riuscì ad
impossessarsi del trono di Armenia: i servi di Arsace, corrotti, uccisero il loro padrone, gli Iberi invasero il
regno e sconfissero, alleatisi con i popoli locali, l'esercito dei Parti guidato da Orode, figlio di Artabano.
Artabano, temendo un nuovo massiccio intervento da parte dei Romani, rifiutò di inviare altre truppe contro
Mitridate, e abbandonò le proprie pretese sul regno di Armenia. Contemporaneamente, gli odi che Roma
fomentava tra i Parti contro Artabano costrinsero il re a lasciare il trono e a ritirarsi, mentre il controllo del
regno passava all'arsacide Tiridate. Poco tempo più tardi, tuttavia, quando Tiridate era sul trono da circa un
anno, Artabano, radunato un grosso esercito, marciò contro di lui; l'arsacide inviato da Roma, impaurito, fu
costretto a ritirarsi, e Tiberio dovette accettare che lo stato dei Parti continuasse ad essere governato da un
sovrano ostile ai Romani.
Nel 17, il numida Tacfarinas, che aveva servito come ausiliario nell'esercito romano, iniziò a
raccogliere attorno a sé numerosi briganti, ma divenne poi guida dell'intero popolo dei Musulami, nomadi
che abitavano le zone vicine al deserto del Sahara. Organizzato un esercito con il quale compiere razzie e
tentare di intaccare il dominio romano, Tacfarinas attirò dalla sua parte i Mauri guidati da Mazippa; il
proconsole d'Africa Marco Furio Camillo, allora, si affrettò a marciare contro Tacfarinas e i suoi alleati, nel
timore che i ribelli rifiutassero di ingaggiare battaglia, e li sconfisse nettamente, meritandosi anche le
insegne trionfali.
L'anno successivo, Tacfarinas riprese le ostilità, iniziando una serie di attacchi e razzie contro villaggi
e accumulando un grosso bottino; cinse infine d'assedio una coorte dell'esercito romano, e riuscì a
sconfiggerla duramente. Allora, il nuovo proconsole, che era succeduto a Camillo, inviò il corpo dei veterani
contro Tacfarinas, che fu sconfitto. Il numida, allora, intraprese una tattica di guerriglia contro i Romani, ma,
dopo alcuni successi iniziali, fu nuovamente sconfitto, e ricacciato nel deserto.
Dopo alcuni anni di pace, nel 22 Tacfarinas inviò ambasciatori presso Tiberio a Roma, affinché
chiedessero per lui e per i suoi uomini la possibilità di risiedere stabilmente all'interno dei territori romani; se
Tiberio non avesse accettato le condizioni, il numida minacciava di scatenare una nuova guerra che
avrebbe protratto ad oltranza. L'imperatore, tuttavia, considerò la minaccia di Tacfarinas come un oltraggio
al potere di Roma, e ordinò di condurre una nuova offensiva contro i ribelli numidi. Il comandante
dell'esercito romano, Bleso, decise di adottare una strategia simile a quella che Tacfarinas aveva a sua
volta adottato nel 18: egli divise il suo esercito in tre colonne, con le quali poté attaccare ripetutamente i
nemici e costringerli alla ritirata. Il successo sembrò essere definitivo, tanto che Tiberio acconsentì alla
proclamazione ad imperator di Bleso. La guerra contro Tacfarinas ebbe fine soltanto nel 24: nonostante le
sconfitte sofferte fino ad allora, il ribelle numida continuava a resistere, e decise di condurre ancora
un'offensiva contro i Romani. Cinse dunque d'assedio una piccola cittadina, ma fu subito attaccato
dall'esercito romano e costretto a retrocedere; molti capi ribelli, tuttavia, furono catturati e uccisi.
All'inseguimento dei fuggiaschi si lanciarono i battaglioni di cavalleria e le coorti leggere, rinforzate anche
dagli uomini inviati dal re Tolomeo di Mauretania, che alleato dei Romani, aveva deciso di scendere in
guerra contro Tacfarinas, che aveva danneggiato anche il suo regno. Raggiunti, i ribelli numidi diedere
nuovamente battaglia, ma furono duramente sconfitti; Tacfarinas, certo dell'inevitabilità di una sconfitta
definitiva, si gettò nel mezzo delle schiere nemiche, e cadde trafitto dai colpi. Con la morte dell'uomo che
l'aveva saputa organizzare, la rivolta ebbe fine.
Nel 21 gli abitanti della Gallia, oppressi dalla richiesta di esosi tributi ed imposte, si ribellarono spinti
da Giulio Floro e Giulio Sacroviro. I due organizzatori della rivolta, uno membro della tribù dei Treviri, l'altro
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di quella degli Edui, godevano della cittadinanza romana, che i loro antenati avevano ricevuto per i servigi
prestati allo stato, e conoscevano il sistema politico e militare romano. Per avere maggiori speranze di
successo, decisero di estendere la ribellione a tutte le tribù della Gallia, e intrapresero dunque numerosi
viaggi, guadagnando alla propria causa anche i Belgi. Tiberio tentò di evitare un intervento diretto di Roma,
ma quando i Galli arruolati nelle milizie ausiliarie iniziarono a defezionare, le legioni marciarono contro Floro
e lo sconfissero presso la selva Arduenna. Il capo dei Treviri, vedendo che per il suo esercito non v'era
alcuna via di fuga, decise di uccidersi; per i suoi, rimasti senza una guida autorevole, ebbe dunque fine la
ribellione. Sacroviro assunse allora il comando generale della ribellione, radunando attorno a sé tutte le
tribù ancora disposte a combattere contro Roma; presso Augustodunum fu attaccato dall'esercito romano e,
dopo aver dato prova di notevole valore, fu sconfitto. Anch'egli, per non finire nelle mani dei nemici, decise
di togliersi la vita assieme ai suoi più fedeli collaboratori; morti coloro che l'avevano saputa organizzare, la
ribellione delle Gallie finì, senza che si fosse ottenuta nessuna riduzione delle gravose imposte che gli
abitanti del territorio dovevano pagare.
Nel 14, non appena le legioni stanziate nella regione dell'Illirico vennero a conoscenza della notizia
della morte di Augusto, scoppiò una rivolta fomentata dai legionari Percennio e Vibuleno. Essi speravano
infatti di poter scatenare una nuova guerra civile da cui trarre notevoli guadagni e, allo stesso tempo,
intendevano migliorare le condizioni in cui si trovavano tutti i militari: chiedevano infatti che si riducessero gli
anni di servizio militare, e che il loro salario giornaliero venisse portato ad un denario. Tiberio, da poco
salito al potere, rifiutò di intervenire personalmente, e inviò presso le legioni il figlio Druso assieme ad alcuni
cittadini romani e due coorti pretorie assieme a Lucio Elio Seiano, figlio del prefetto del pretorio Seio
Strabone. Druso pose fine alla rivolta uccidendo i capi Percennio e Vibuleno e attuando ulteriori repressioni
contro i ribelli; ai legionari non furono fatte sul momento particolari concessioni, ma essi poterono poi
beneficiare delle stesse indennità che Germanico concesse più tardi alle legioni di Germania.
Nell'area dell'ex-Illirico, Tiberio dispose nel 15 che le province senatorie di Acaia e Macedonia
fossero unite alla provincia imperiale di Mesia, prorogando l'incarico del governatore Gaio Poppeo Sabino
(che rimase in carica 21 anni dal 15 al 36) e dei suoi successori.
Anche in Tracia la situazione di tranquillità dell'epoca augustea si ruppe alla morte del re Remetalce
I, alleato di Roma: il regno fu diviso in due parti., affidate al figlio e al fratello, che vennero presto a contesa;
nel 19, Tiberio, nel tentativo di evitare lo scoppio di una nuova guerra che avrebbe probabilmente richiesto
l'intervento di truppe romane, inviò emissari ai due re traci, favorendo l'avvio delle trattative di pace e
risolvendo la questione per via diplomatica.
Caligola
Gaio Giulio Cesare Germanico (Gaius Iulius Caesar Germanicus; 12–41) , meglio conosciuto come
Gaio Cesare o Caligola, fu il terzo imperatore romano, appartenente alla dinastia giulio-claudia, e regnò dal
37 al 41. Le fonti storiche pervenute lo hanno reso noto per la sua stravaganza, eccentricità e
depravazione, tramandandone un'immagine di despota. L'esiguità delle fonti fa comunque di Caligola il
meno conosciuto di tutti gli imperatori della dinastia. Fu assassinato da un gruppo di sue guardie.
Il problema delle fonti, nel caso dell'imperatore Caligola, è una questione complessa. Le Vite dei
Cesari di Svetonio sono lo scritto principale da cui è possibile trarre informazioni sul suo regno. Tuttavia,
così come gli altri documenti a noi tramandati (ad esempio gli scritti di Cassio Dione Cocceiano), gli scritti di
Svetonio tendono a focalizzare l'attenzione su aneddoti riguardanti la crudeltà e la supposta instabilità
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mentale di Caligola, tanto che alcuni storici moderni hanno espresso dubbi sull'attendibilità di questi
resoconti..
Si trattava certamente di un personaggio discusso, molto popolare fra la gente romana ma
politicamente avverso alla classe sociale e al ceto dal quale provenivano gli storiografi. Purtroppo non è
giunta sino a noi la parte su Caligola degli Annales di Tacito, lo storico del periodo generalmente ritenuto
più rigoroso.
Le notizie più importanti sull'aspetto di Caligola provengono da Svetonio. Pare che arrivasse al metro
e novanta di altezza, che fosse quasi calvo (almeno negli ultimi anni di regno) e che avesse gli occhi
incavati e penetranti. Era un ottimo auriga (conduttore di quadrighe), con un fisico agile e scattante.
Caligola ("piccola caliga", la calzatura dei legionari, affettuoso soprannome datogli in giovane età dai
soldati del padre Germanico) era il terzo figlio di Agrippina Maggiore e Germanico, generale molto amato
dal popolo romano. Il padre era figlio di Druso maggiore (fratello di Tiberio e figlio di Livia, moglie di
Augusto) e di Antonia Minore (figlia di Marco Antonio e Ottavia, sorella di Augusto). La madre era figlia di
Marco Vipsanio Agrippa (amico di Augusto) e di Giulia (figlia di primo letto di Augusto). Inoltre suo padre
Germanico era stato adottato da Tiberio, che era stato adottato da Augusto, che a sua volta era stato
adottato da Giulio Cesare.
Questa particolare situazione familiare (che tramite Augusto poteva risalire a Cesare e quindi persino
alle origini stesse di Roma, ad Enea e Venere) rendevano Caligola, il più probabile successore di Tiberio.
Nel 17, dopo aver assistito al trionfo del padre a Roma, partì con la famiglia al seguito di Germanico
inviato in missione a Oriente. Solo due anni più tardi il padre morì e Caligola, insieme alla madre, fece
ritorno in Italia. Nel 27 andò a vivere a casa della bisavola paterna Livia, sul Palatino e nel 29 a casa della
nonna Antonia Minore
L'imperatore Tiberio, ritiratosi a Capri già nel 26, volle Caligola con lui nel 31, anno in cui divenne
pontifex . Nel 33 divenne questore, e qui si chiuse il suo cursus honorum.
Tiberio nominò suoi successori nel testamento (35) e il suo giovane nipote Tiberio Gemello.
Caligola ebbe quattro mogli: Giunia Claudilla, Livia Orestilla, Lollia Paolina, già sposata a Publio
Memmio Regolo e Milonia Cesonia, dalla quale ebbe una figlia che chiamò Giulia Drusilla in onore della
sorella deceduta.
Dopo la morte di Tiberio, avvenuta il 16 marzo 37, il Senato ne annullò il testamento, che lasciava la
guida dell'impero a Caligola e a Tiberio Gemello, nipote del defunto imperatore, sostenendo che al
momento della stesura Tiberio fosse insano di mente e proclamò imperator Caligola il 18 marzo 37.
Caligola salì al potere con l'appoggio di tutti: senato, esercito e popolo. Le ragioni di questa approvazione
sono varie: la sua giovane età (25 anni), la popolarità del padre, la lunghezza del regno di Tiberio (23 anni),
l'infanzia trascorsa negli accampamenti, la sfortuna della sua famiglia, la parentela sia con Augusto che con
Marco Antonio e la sua devozione verso i familiari.
Si pensava che Caligola avrebbe proseguito la politica del padre, Germanico, ma non fu così. Il
breve impero di Caligola fu caratterizzato da una serie di massacri nei confronti degli oppositori interni e da
atti che tendevano a una continua umiliazione della classe senatoria. Caligola si comportava in modi assai
strani che lo identificavano come un "pazzo". Le fonti antiche vedevano in lui un esempio di "pazzia
sanguinaria". Secondo una leggenda, infatti, nominò senatore il proprio cavallo, anche se è evidente che il
suo decreto di nomina esprimeva il suo totale disprezzo per il senato che avrebbe potuto benissimo essere
arricchito dalla sua bestia. In realtà Caligola fece solo una battuta una volta dicendo che avrebbe potuto
nominare il proprio cavallo come senatore, essendo questo più capace dei senatori stessi. Altri racconti
attestano che aveva frequenti attacchi d'ira. Tacito racconta che, durante un banchetto, Caligola scoppiò a
ridere improvvisamente. Un commensale che sedeva con lui gli chiese il motivo di tale risata: Caligola
rispose che stava pensando alla sua morte, facendolo uccidere poco dopo. Caligola adottò una politica di
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assolutismo monarchico, con l'intenzione di diventare un sovrano cui si rendevano onori divini sul modello
delle monarchie orientali, esasperando il noto processo di divinizzazione degli imperatori defunti. Caligola
assunse atteggiamenti autocratici e pretese che gli venisse eretto un tempio. D’altra si rese popolarissimo
con elargizioni alla plebe e costosi giochi circensi.
Se gli imperatori prima di lui avevano optato, almeno nella parte occidentale dell'impero, di
mantenere i legami con le tradizioni repubblicane del potere romano, egli virò sensibilmente verso oriente,
verso una forma di potere assoluto a quel tempo ancora sconosciuto in Italia, anticipando in tal modo una
tendenza divenuta maggioritaria tra gli imperatori romani a partire dal III secolo della nostra era.
Il nuovo imperatore, per evitare problemi dinastici, nominò Tiberio Gemello princeps iuventutis e lo
adottò, nominandolo suo erede. Per evitare comunque che Tiberio Gemello reclamasse la coreggenza che
gli spettava, nel 38 lo fece uccidere o lo indusse al suicidio. Stessa sorte toccò al prefetto del pretorio
Macrone. Probabilmente Caligola non si fidava più di determinati personaggi che potevano, con il loro
potere, carisma o denaro, eliminarlo..
Stando alle fonti, Caligola, al culmine del suo regno, avrebbe voluto essere proclamato Dio. Nel 38
fece introdurre una propria statua nei luoghi di culto di tutte le religioni dell'impero, comprese le sinagoghe.
Potrebbe trattarsi dell'ennesima manifestazione della sua follia, oppure di una subdola politica per
aumentare il suo potere presso i popoli ellenistici, abituati da tempo a considerare il loro sovrano una
divinità. Insomma, il tentativo religioso di un principe giovane di mantenere il potere con tutti i mezzi.
Questo, comunque, provocò molto scontento, soprattutto, presso quelle popolazioni che già avevano
problemi con la semplice autorità civile di Roma senza contare quella religiosa, per esempio i Giudei, che
scatenarono moti di rivolta molto pesanti.
Studi recenti fanno risalire queste strane manifestazioni di Caligola e di altri imperatori, nonché la
misteriosa malattia che lo colpì nel 37, come una intossicazione da piombo. Caligola presentava inoltre - a
detta degli storici, comunque a lui ostili - un comportamento che oggi definiremmo sociopatico ovvero privo
di rimorso e rispetto per le regole della società e i sentimenti altrui, che potrebbero essersi sviluppato per lo
shock di aver visto sterminata la propria famiglia, e da ultimo, per la morte di malattia dell'amatissima
sorella Giulia Drusilla; alcuni affermano inoltre che soffrisse di epilessia o ipertiroidismo. È anche possibile
che le sue stranezze fossero solamente una mossa politica per esplicitare il proprio disprezzo per il Senato.
Alla morte di Tiberio nelle casse del fiscus romano c'erano 2.700.000.000 di sesterzi che Caligola
spese in un anno circa. Alcune delle spese sostenute dal nuovo imperatore furono inevitabili: elargizioni
varie al popolo, all'esercito, ai pretoriani (a cui diede un donativo doppio rispetto a quello promesso da
Tiberio, 2000 sesterzi a testa) e ai regni vassalli di Roma. Non bisogna dimenticare, inoltre, che Caligola
rispettò il testamento di Tiberio, nonostante fosse stato annullato formalmente dal Senato, e diede quanto
stabilito a tutti. Non vanno dimenticati gli enormi banchetti e feste varie organizzate per tenere buono e
calmo il popolo. A tutto questo si aggiunsero, tuttavia, diverse stravaganze, citate dagli storici
contemporanei, come la stalla del suo cavallo tutta in avorio e marmo, i due milioni di sesterzi donati ad un
auriga e il milione donato a Livio Geminio. Va, inoltre, citata l'abolizione della tassa sulle compravendite.
Anche allo scopo di migliorare la situazione economica Caligola, come molti altri imperatori
successivi, espropriò il patrimonio di molti senatori accusandoli di tramare contro la sua persona (accusa
non sempre falsa).
Gli storici moderni tendono a sminuire le voci che parlano di dissesto finanziario delle casse statali,
così come presentato dalle fonti antiche, poiché non si spiegherebbe né la diminuzione del peso fiscale
avvenuto sotto il suo regno, né quella avvenuta sotto il suo immediato successore.
Diversi furono gli atti interessanti di questo imperatore tra cui l'abolizione, nel primo anno di governo,
della legge di lesa maestà, una legge molto odiata dai senatori, reintrodotta però nel 39. Interessante anche
il progetto, attuato nel 38 di restituire ai comizi e alle magistrature, almeno formalmente, le antiche
prerogative, con la conseguenza diretta che il popolo eleggeva i magistrati. In generale si può dividere la
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politica giudiziaria di questo imperatore in due periodi, il primo molto liberale, filo-popolare, nel quale si
cercava l'accordo con i senatori e il secondo nel quale il princeps faceva di tutto per mantenere il potere.
Con i regni alleati non seguì una stessa linea politica, si basò molto sulla simpatia e sulla fiducia che
ogni singolo sovrano era in grado di trasmettergli. Esiliò Mitridate, re d'Armenia; mandò a morte Tolomeo,
re della Mauritania, e ridusse il suo regno a provincia; nominò re di Commagene, regione ridotta a provincia
nel 18, Antioco IV, al quale dette 100 milioni di sesterzi.
Aiutò in tutti i modi Erode Agrippa, al quale affidò, in un primo tempo, la Palestina nord-occidentale,
che dalla morte di Erode Filippo II era sotto il controllo diretto di Roma, successivamente anche i territori del
tetrarca di Galilea, Erode Antipa, accusato di volersi impadronire dei territori di Erode Agrippa, che verrà
prima esiliato e poi eliminato nel 40.
Caligola aveva importanti ascendenti che si erano guadagnati la gloria con le imprese belliche, è
probabile, quindi, che fosse intenzionato a emulare le loro gesta e nel caso a superarle. Se Druso maggiore
e Germanico si erano concentrati sulla Germania, egli per superare le loro gesta doveva, non solo
conquistare la stessa regione, ma varcare l'oceano e giungere in Britannia. Sarebbe stato il primo
imperatore dopo le campagne di Augusto in Spagna nel 26-25 a.C. a guidare un esercito in battaglia.
Stando a Svetonio egli fece leve in tutto l'impero e ammassò un ingente quantitativo di
vettovagliamenti. Secondo Cassio Dione egli arruolò per le sue imprese tra i 200 e i 250 000 uomini. Nel 39
Caligola represse una rivolta fra le sue truppe nell'alto Reno e marciò verso la costa settentrionale della
Gallia, apparentemente intenzionato ad invadere la Britannia. Invece, ordinò alle truppe di scendere in
acqua a cercare conchiglie, come ci racconta Svetonio; o più probabilmente lasciò perdere una spedizione
male preparata.
Caligola morì assassinato in una congiura di pretoriani guidati da due tribuni, Cassio Cherea e
Cornelio Sabino, il 24 gennaio del 41. Insieme a lui persero la vita sua moglie Milonia Cesonia e la loro
figlia bambina, Giulia Drusilla. A lui succedette lo zio Claudio che si era nascosto dietro ad una tenda del
palazzo imperiale, perché temeva di essere ucciso dai pretoriani, che invece lo nominarono imperatore.
Claudio
Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico (Tiberius Claudius Cæsar Augustus Germanicus; 10
a.C.–54) fu il quarto imperatore romano (41-54) della dinastia giulio-claudia, ed il primo a nascere fuori
dell'Italia.
Tiberio era considerato dai suoi contemporanei come un candidato improbabile al ruolo di
imperatore, soprattutto in considerazione di una qualche infermità da cui era affetto, tanto che la sua
famiglia lo tenne lontano dalla vita pubblica fino all'età di quarantasette anni, quando tenne il consolato
assieme al nipote Caligola. Fu probabilmente questa infermità e la scarsa considerazione politica di cui
godeva che gli permisero di sopravvivere alle purghe che colpirono molti esponenti della nobiltà romana
durante i regni di Tiberio e Caligola: alla morte di quest'ultimo, Claudio divenne imperatore proprio in quanto
unico maschio adulto della dinastia giulio-claudia.
Malgrado la mancanza di esperienza politica, Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico (questo il
nome adottato dopo l'acclamazione ad imperatore) dimostrò notevoli qualità: fu un abile amministratore, un
grande patrono dell'edilizia pubblica, espansionista in politica estera (sotto il suo comando si ebbe la
conquista della Britannia) e un instancabile legislatore, che presiedeva personalmente i tribunali e che
giunse a promulgare venti editti in un giorno. Tuttavia, la sua posizione era resa poco sicura
dall'opposizione della nobiltà, cosa che condusse Claudio a mettere a morte molti senatori. Claudio dovette
20
anche sopportare molte disgrazie nella vita privata: una di queste potrebbe essere stata all'origine del suo
assassinio.
La fama di Claudio presso gli storici antichi non fu certo positiva; al contrario, tra i moderni molte
delle sue opere furono rivalutate.
Il padre di Claudio era figlio di Tiberio Claudio Nerone e di Livia Drusilla, ma era nato tre mesi dopo
che Livia aveva sposato Augusto; l'imperatore Tiberio era dunque zio paterno di Claudio. Antonia minore
era invece figlia del triumviro Marco Antonio e di Ottavia minore, sorella di Augusto.
Nel 4, in seguito all'adozione del fratello Gaio Giulio Cesare Claudiano Germanico nella famiglia
Giulia, Claudio divenne il pater familias dei Claudii Nerones e prese il nome Tiberio Claudio Nerone
Germanico.
Claudio era un giovane membro della più importante famiglia di Roma e, in quanto tale, ci si
aspetterebbe che avesse partecipato alla vita pubblica secondo le modalità tipiche del suo rango, ma così
non fu: per tutta l'infanzia e la giovinezza venne tenuto lontano dalla vista del popolo. La ragione di ciò
risiede nel fatto che Claudio era nato con dei difetti fisici in una società come quella romana che
disprezzava la debolezza: i membri della sua famiglia ritenevano che il suo essere costantemente
ammalato, il suo sbavare e la sua balbuzie fossero un sintomo di debolezza mentale. Persino l'assunzione
della toga virilis, il segno del passaggio all'età adulta, avvenne in tono dimesso: mentre era consuetudine
che, giunta l'età, ciascun ragazzo romano venisse pubblicamente accompagnato al Campidoglio dal padre
o dal tutore, Claudio vi venne portato di nascosto, in lettiga, a mezzanotte e senza accompagnamento
solenne. Inoltre, poiché la famiglia riteneva che la sua condizione dipendesse da una mancanza di volontà,
venne tenuto sotto la tutela di un precettore ben oltre la maggiore età, come avveniva per le donne; Claudio
stesso si lamentò del fatto che gli fosse stato assegnato come precettore «un barbaro, un ex-ispettore delle
stalle», il cui compito era di impartirgli una dura disciplina.
Il giudizio dei suoi parenti non era certo lusinghiero: la madre Antonia minore, che curò l'educazione
di Claudio dopo la morte di Druso nel 9 a.C., lo definiva un «mostro d'uomo, non compiuto, ma solo
abbozzato dalla natura», e quando voleva accusare qualcuno di stupidità diceva che era «più scemo di suo
figlio Claudio»; la nonna Livia Drusilla, cui venne affidato in seguito per diversi anni, gli inviava
frequentemente delle lettere in cui lo rimproverava aspramente; la sorella Claudia Livilla deplorava
pubblicamente la possibilità che divenisse imperatore come indegna e ingiusta per il popolo romano.
Augusto, al contrario, si disse sorpreso dalle capacità oratorie del nipote, ma comunque non gli diede
nessun incarico pubblico, né lo inserì tra gli eredi principali nel proprio testamento, lasciandogli appena
800.000 sesterzi alla propria morte.
L'imperatore Tiberio e sua madre Livia Drusilla, rispettivamente zio e nonna di Claudio non
stimavano il futuro imperatore, e lo tennero lontano dal potere. Il nuovo imperatore, suo zio Tiberio, non si
dimostrò più disponibile nei confronti del nipote di quanto in passato lo fosse stato Augusto: quando chiese
il permesso di iniziare il cursus honorum, Tiberio gli conferì gli ornamenta consularia, i simboli del rango
consolare, ma quando Claudio chiese un ruolo più attivo gli venne rifiutato. Se la sua famiglia non perdeva
occasione per dimostrare di non averne grande stima, il popolo romano, al contrario, pare lo tenesse in una
qualche considerazione: alla morte di Augusto, infatti, l'ordine equestre lo scelse come proprio patrono,
mentre il senato romano, propose di ricostruire a spese pubbliche la sua casa distrutta da un incendio e di
permettergli di partecipare alle sedute del Senato, proposte, peraltro, che Tiberio respinse.
Di fronte a questo ostracismo, Claudio abdicò a qualunque aspirazione di carriera politica e si ritirò a
vita privata, dedicandosi ai suoi studi di storia. Scrisse, infatti, un trattato sugli Etruschi, di cui studiò anche
la lingua, una storia su Cartagine, una difesa di Cicerone, alcuni trattati sul gioco dei dadi e sull'alfabeto,
tutti andati perduti. Sempre in questo periodo sposò Plauzia Urgulanilla, da cui ebbe due figli, Druso
Claudio, morto in giovane età, e Claudia, che però Claudio non riconobbe, accusando Plauzia di adulterio e
divorziando da lei nel 28.
21
Due decessi sembrarono riaprire le porte della successione al trono a Claudio: nel 19 scomparve in
circostanze misteriose suo fratello Germanico, mentre nel 23 morì Druso minore, figlio di Tiberio; Claudio
divenne così un possibile erede dell'imperatore. Era però il periodo dell'apice del potere di Seiano, e
Claudio scelse di sminuire le proprie pretese al soglio imperiale: la sorella Claudia Livilla, invece, si alleò
con Seiano e cadde insieme a lui, morendo nel 31.
Per di più, dopo aver divorziato da Urgulanilla, sposò proprio la sorella di Seiano, Elia Petina, da cui
ebbe Claudia Antonia e dalla quale divorziò poi nel 31, dopo la caduta del potente pretoriano, per sposare
Valeria Messalina, figlia di una sua cugina. L'ultima moglie, sua nipote Agrippina minore, era figlia del
fratello Germanico e di Agrippina maggiore. Da Messalina ebbe due figli: Britannico (c. 39 - 55), che
potrebbe essere stato procreato da Caligola, e Claudia Ottavia (c. 41 - 62), che sposò il proprio fratellastro,
figlio di Agrippina, l'imperatore Nerone.
Finalmente sotto Caligola, figlio di suo fratello Germanico, Claudio ottenne il consolato per due mesi
come collega del nipote, ora nuovo princeps (nel 37), pur continuando ad essere bersagliato dagli scherni e
dal rischio di perdere la vita a causa delle facili ire, per non dire follia, del nipote. Subì un processo in cui
era accusato di falso per aver apposto la sua firma, fu persino costretto a pagare 8.000.000 di sesterzi per
l'ammissione ad un collegio sacerdotale, perdendo tutti i suoi averi. L'ironia della sorte volle che, se fino a
quel momento ogni cosa si era dimostrata contraria al suo volere, una volta compiuti i cinquant'anni, egli
era destinato a diventare il nuovo imperatore di Roma.
Dopo l'assassinio di Caligola del 41, infatti, i pretoriani si trovarono di fronte al problema di trovare un
membro superstite della famiglia Giulio-Claudia da mettere sul trono. Molti di loro erano stati assassinati da
tempo, mentre Claudio era riuscito a scampare ad ogni congiura, perché nessuno lo aveva considerato un
avversario pericoloso. Claudio, invocato dal popolo fuori dalla Curia, una volta promesso un donativo di
15.000 sesterzi per ogni pretoriano che gli prestasse giuramento, ottenne il principato con la forza delle
armi, dopo averne comprato la loro fedeltà.
Da allora in poi, con il nome di Tiberio Claudio Cesare Augusto Germanico, governò l'impero per
circa quattordici anni. Il nuovo princeps era considerato uno degli uomini più eruditi del suo tempo: Plinio il
Vecchio lo cita quattro volte come un'autorità; a lui scienziati ed uomini dotti scrivevano o dedicavano
trattati.
Innamorato del passato glorioso di Roma, Claudio si propose di essere un buon governante e, sotto
molti aspetti, vi riuscì. Egli seppe, infatti, scegliere validi collaboratori tra i suoi funzionari e generali (tra cui
basti ricordare Corbulone, Galba, Vespasiano, Gaio Svetonio Paolino, ecc.), ed imporre le proprie linee
politiche.
Per prima cosa rafforzò la sua posizione placando i vari partiti interni al senato, cancellando la
memoria del regno di suo nipote Caligola e richiamando gli esiliati con un'amnistia generale.
Si mostrò rispettoso del senato e dei magistrati, dimostrandosi pronto a tornare al principato di
Augusto. Ricoprì, come princeps, quattro consolati, nel 42, 43, 47 e 51, e per i suoi successi militari
ricevette il titolo di imperator per non meno di 27 volte. Soppresse i processi per tradimento in senato e si
guadagnò popolarità con la concessione di spettacoli gladiatori, gare e spettacoli imponenti (come il suo
trionfo per la conquista della Britannia ed i giochi secolari Ab Urbe condita del 47) e con l'abolizione delle
nuove tasse imposte da Caligola.
Claudio voleva accattivarsi le simpatie del Senato. Egli, infatti, tentò di stabilire una sincera
collaborazione con quest'organo istituzionale, secondo le linee della politica di Augusto, facendo un uso
frequente di senatus consulta e difendendo la posizione sociale dei senatori, riservando loro i posti migliori.
Restituì, pertanto, al senato l'Acaia e la Macedonia, nel 44. Spartì le province acquisite durante il suo
principato fra gli ordini equestre e senatorio: ed a quest'ultimo vennero assegnate la Britannia e la Licia.
22
Claudio si mostrò rispettoso del senato anche partecipando attivamente alle sue sedute. La
presenza alle riunioni era rigorosamente obbligatoria per i suoi membri e l'assenteismo punito. I dibattiti
dovevano essere reali, non dovevano, al contrario, costituire una semplice questione di assenso formale.
Claudio nel 47-48 rivide l'intera lista senatoria, eliminando quei membri inadatti ed introducendo solo
uomini che avessero maturato meriti anche in provincia, poiché voleva che il senato fosse formato dalle
migliori menti dell'impero. È vero anche che la maggiore interferenza con il Senato fu la creazione di un
sistema amministrativo centralizzato. Claudio fu dunque il primo imperatore ad ammettere in senato uomini
provenienti da una provincia, la Gallia Comata; fornendo così agli imperatori successivi una via per
completare l'integrazione dei popoli che facevano parte dell'impero di Roma.
E se Tiberio aveva seguito pedissequamente le istruzioni di Augusto, Claudio non temette le
innovazioni. Egli fu, infatti, il primo a creare una burocrazia centralizzata, suddivisa in sezioni, materie
speciali, ognuna delle quali fu posta sotto il controllo di un liberto, una specie di moderno ministro in scala
ridotta. Egli avviò una forma di amministrazione pubblica imperiale, indipendente dalle tradizionali classi dei
senatori e cavalieri.
Il personale della nuova amministrazione centralizzata era costituito da uomini per la maggior parte
di origine italica, estranei alla tradizione romana, e che dovevano fedeltà soltanto al princeps. La più
importante tra queste cariche appena istituite era quella di segretario generale ab epistulis, ricoperta in
quegli anni da un certo Narciso: l'intera corrispondenza greca e latina (relazioni con i governatori, lettere e
messaggi di vari funzionari, relazioni con città o comunità provinciali), doveva essere gestita, analizzata da
questo funzionario, prima di renderne partecipe il princeps. Secondo a Narciso era il segretario delle
finanze, a rationibus, un certo Pallante, con l'accentramento e centralizzazione del potere finanziario nelle
mani dell'imperatore a partire dall'aerarium.
Vi erano poi altre cariche di prestigio: Callisto era il segretario che si interessava delle richieste
rivolte all'imperatore, a libellis e delle inchieste giuridiche portate davanti al princeps, le cosiddette
cognitiones; Polibio quello che svolgeva la mansione di bibliotecario e consigliere culturale, aiutando
l'imperatore con materiale per discorsi ed editti a studiis. Ma la presenza dei nuovi liberti provocò il continuo
malcontento dell'antica aristocrazia senatoria, ed accrebbe notevolmente il potere personale del principe.
Anche nel campo dell'amministrazione giudiziaria Claudio portò nuove innovazioni come quando nel
53, persuase il senato a concedere ai procuratori imperiali delle province il diritto di giurisdizione. Fino a
quel momento qualsiasi contestazione di diritto fiscale, doveva essere portata davanti al senato o
all'imperatore per ottenere una sua decisione. Il provvedimento venne adottato per migliorare l'efficienza e
la rapidità nel raccogliere il denaro dovuto all'erario, eliminando alcune procedure burocratiche.
Favorì, infine, l'approvvigionamento di grano assicurando navi e merci contro eventuali danni
provocati da tempeste, concedendo privilegi a stranieri costruttori di navi.
Ultimò la costruzione di due acquedotti, iniziata da Caligola: l'acquedotto Claudio (Aqua Claudia),
iniziato da Caligola, e l'Anio Novus. Ne restaurò anche un terzo chiamato Aqua Virgo.
Diede un grande impulso alla costruzione di strade e canali in Italia e nelle province. Tra i tanti
progetti meritano una segnalazione un largo canale che univa il Reno al mare ed una strada che collegava
l'Italia alla Germania (entrambe opere iniziate da suo padre).
Vicino Roma costruì un canale navigabile sul Tevere che terminava a Portus, il nuovo porto a circa
tre km a nord di Ostia. Il porto era costituito da due moli a forma di semicerchio, numerosi granai per
l'approvvigionamento di merci provenienti da tutte le province romane ed all'imboccatura era posto un faro
che divenne il simbolo della città stessa. Per ospitare le navi fu scavato un gigantesco bacino rettangolare
di circa 1000 per 700 metri, collegato al Tevere da due canali. Gli ingegneri di Claudio non considerarono
con la dovuta attenzione il problema rappresentato dal deposito delle sabbie fluviali, e in breve il nuovo
porto fu inagibile. Di questo fallimento fece tesoro Traiano che costruì nello stesso luogo un porto più
efficiente che rimase in funzione per secoli.
23
Bonificò la piana del Fucino nell'Italia centrale attraverso lo scavo di un emissario che faceva defluire
le acque del lago nel fiume Liri, a vantaggio di un migliore sfruttamento agricolo. Altri imperatori si
cimentarono con questa impresa che ebbe però termine solo nel XIX secolo grazie ai Torlonia che
ingrandirono il tunnel scavato da Claudio tre volte la sua dimensione originale.
Fece costruire nuove strade: la via Valeria Claudia fino all'Adriatico, o la via Claudia Augusta da
Altinum fino al Danubio. Poche province non portano tracce delle strade costruite sotto il suo principato.
Per quanto riguarda la politica religiosa, Claudio sebbene conservatore per natura e di interessi
repubblicani, anche qui non si mostrò ostile alle innovazioni. Si adoperò per restaurare il collegio degli
haruspices. Nel 47 celebrò i Ludi Saeculares dell'ottavo centenario dalla fondazione di Roma. Nel 49
ampliò, sempre nel corso di un'altra cerimonia, l'antico recinto sacro di Roma (pomerium), includendovi ora
l'Aventino e parte del Campo Marzio.
Si mostrò tollerante nei confronti dei culti provinciali, solo quelli che non considerava pericolosi per
l'ordine pubblico interno. Se, infatti, verso il druidismo la sua azione fu più energica di quella dei suoi
predecessori, con la completa soppressione, con gli Ebrei assunse un atteggiamento più liberale, e ristabilì
per loro la libertà di culto e l'esonero del culto imperiale, anche se a Roma agì con severità, espellendone
l'intera comunità ebraica a seguito di contrasti.
Anche verso i Cristiani la politica religiosa di Claudio si mostrò aperta. La Lettera di san Paolo ai
Romani 16,11 attesta la diffusione della nuova religione all'interno della casa di Narciso, uno fra i più noti
liberti imperiali. Tacito colloca al 42 o 43 la conversione a una superstitio externa, identificabile quasi
certamente col Cristianesimo, di Pomponia Grecina, moglie di Aulo Plauzio, che conduceva in quegli anni la
spedizione britannica. Sono gli stessi anni in cui la tradizione della Chiesa colloca l'arrivo a Roma di Pietro
e la prima stesura del Vangelo di Marco. L'unico atto in apparente contraddizione con tale atteggiamento è
l'espulsione da Roma dei Giudei impulsore Chresto assidue tumultuantes ossia "in continuo subbuglio a
causa di Cresto (da identificarsi forse con Cristo)": controverso passo di Svetonio riguardo al quale vi sono
discordanti interpretazioni storiografiche.
.Claudio, senza lasciarsi scoraggiare dal consiglio di Augusto di mantenere l'impero entro i limiti da
lui stabiliti, aggiunse non meno di 5-7 nuove province: Mauritania (dal 40-41), Britannia, Licia, Panfilia (dal
43), Giudea (dal 44) e Tracia (dal 46); oltre all'annessione di nuovi territori/province danubiane, come il
Regno del Norico (attorno al 50) e parti della Rezia.
Tale scelta politica fu determinata dal fatto che egli aveva ereditato da Caligola una Mauritania in
rivolta ed una Britannia considerata matura per l'annessione, e dalla sua convinzione che fosse arrivato il
momento di sostituire agli stati clienti un controllo diretto imperiale. La politica difensiva di Tiberio fu infatti
abbandonata, tranne lungo il limes europeo di Reno e Danubio.
La rivolta della Mauretania, che seguì all'assassinio del re Tolomeo per ordine dell'imperatore Gaio
Caligola (che in seguito aveva deciso di annettere i nuovi territori, trasformandoli in nuova provincia,
nell'autunno del 40), fu soffocata nel sangue dopo quattro duri anni di lotta (dal 41 al 44) grazie a valenti
generali. La Mauretania fu divisa in due province, la Mauretania Caesariensis e quella Tingitana (con
capitali Cesarea e Tingis), affidate ad un procuratore imperiale di ordine equestre.
Claudio riuscì a sedare una rivolta di Musulami dell'Africa settentrionale, inviandovi uno dei più
qualificati generali, Servio Sulpicio Galba, in qualità di governatore ed a capo della legione lì stanziata. Nel
43 iniziò la conquista della Britannia, quasi un secolo dopo Gaio Giulio Cesare. Al di là della ragioni
politiche, economiche e militari della spedizione, non va dimenticata una considerazione forse più
importante, di natura psicologica, e cioè di provare a tutti di essere il degno figlio del conquistatore della
Germania, Druso. Egli si recò in Britannia nell'autunno del primo anno di guerra per essere presente alla
vittoria finale. Questa fu la conquista della quale Claudio andò più orgoglioso.
In Gallia alcune tribù ottennero i diritti latini e molti la cittadinanza romana, ma cosa più importante,
Claudio riuscì a convincere un senato riluttante a far ammettere alcuni cittadini Galli all'interno delle
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istituzioni e magistrature romane. Egli, basandosi sui suoi studi della storia di Roma, dimostrò che la
repubblica romana si era rafforzata e ingrandita grazie al fatto di aver incorporato elementi considerati fino
a poco prima degli "stranieri", come lo erano stati gli Etruschi, i Sanniti, i Greci, ecc. Claudio apriva così le
porte del Senato anche ai provinciali Galli.
In Germania, il legato della Germania Inferiore, Gneo Domizio Corbulone, diede prova delle sue
grandi capacità militari con una campagna nelle terre dei Frisoni e contro i pirati Cauci lungo le coste del
Mare del Nord (47-48). Claudio però gli ordinò di ritirarsi al di qua del Reno. Non voleva ripetere le imprese
del padre Druso.
In Tracia, da lungo tempo inquieta, il sovrano regnante era stato assassinato e Claudio decise che
era ormai giunto il momento di annettere la regione.
Completò, infine, le conquiste dei territori rimasti liberi fino al Danubio, annettendo le parti rimaste
libere fino a quale momento della Rezia e del Norico nel 50 circa. La Licia, dove si erano verificati dei
disordini, divenne provincia nel 43.
In Oriente, Claudio ricompensò l'amico Erode Agrippa I per l'aiuto prestatogli in passato,
insediandolo sul trono di Giudea, che dal 6 era una provincia romana. Alla morte di Agrippa, nel 44, la
Giudea ritornò ad essere una provincia romana, amministrata da procuratori.
Nei confronti della Partia, Claudio riuscì ad ottenere il controllo dell'Armenia, fino a quando il nuovo
re Vologese I, riuscì ad insediare suo fratello Tiridate sul trono armeno verso la fine del regno di Claudio.
Come ricordato sopra grazie ai suoi studi storici Claudio si era convinto che Roma doveva molto alla
sua propensione in tempi passati ad inserire tra i propri cittadini gli uomini più meritevoli. Per questi motivi
gli uomini più importanti di Gallia, Spagna ed Africa, i dottori greci o asiatici, gli scienziati ed i letterati,
potevano contribuire notevolmente alla crescita dello Stato romano. E se la cittadinanza era una cosa
preziosa da "regalare" ai provinciali, un cittadino romano, per meritarsela, doveva saper parlare e scrivere
in latino: questa era una condizione insindacabile per Claudio. In caso contrario la cittadinanza romana
sarebbe stata revocata.
Messalina, moglie di Claudio fin dalla sua ascesa al trono, gli dette una figlia, Claudia Ottavia, e un
figlio (nel 41) cui il padre dette il soprannome di Britannico. Donna di grande crudeltà, aveva cospirato,
insieme al suo amante, il console Gaio Silio, per uccidere Claudio e prenderne il suo posto. Ma la congiura
fu scoperta e la stessa fu messa a morte nel 48.
La nuova moglie fu scelta, anche grazie al consiglio del liberto Pallante, sostenitore dei diritti di
Agrippina minore, nipote di Claudio e figlia di Germanico e pronipote di Augusto.
Agrippina aveva un figlio il cui nome era Lucio Domizio Enobarbo, il futuro imperatore Nerone. Il
matrimonio con Claudio fu celebrato nel 48, ed Agrippina divenne le nuova Augusta, godendo ora di
privilegi senza precedenti. Nello stesso tempo diede inizio ai suoi intrighi per generare discredito sul figlio di
Claudio, Britannico, in favore di suo figlio Domizio Enobarbo. Ambiziosa e priva di scrupoli, Agrippina si
macchiò di una serie di delitti, servendosi del veleno o di false incriminazioni.
Il figlio Nerone fu adottato da Claudio all'età di tredici anni (nel 50), quale tutore del più giovane
Britannico (di cinque anni più giovane), ottenendo nel 51 la toga virilis, il titolo di princeps iuventutis,
l'imperium proconsolare fuori Roma, mentre nel 53 sposava Claudia Ottavia, figlia di Claudio.
Nonostante i suoi difetti dimostrò capacità e temperamento e coprì il ruolo meglio di altri. Morì nel 54
improvvisamente, dopo aver mangiato un piatto di funghi avvelenati. Non è difficile pensare che sia stato
avvelenato da Agrippina, anche se era ormai sicura della successione di Nerone. Essa potrebbe aver
desiderato vedere il figlio sul trono mentre era ancora abbastanza giovane per seguire i suoi consigli e le
sue volontà.
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Morto Claudio, Agrippina e Nerone si preoccuparono di far sparire anche Britannico, figlio naturale di
Claudio e aspirante al trono; questo evento testimonia l'implicazione di Agrippina nella morte
dell'imperatore. L'augusta, però, dedicò sul Celio il tempio del Divo Claudio al defunto marito.
Nerone
Lucio Domizio Enobarbo Nerone Claudio Cesare Augusto Germanico (latino: Nero Claudius Caesar
Augustus Germanicus (37–68) fu il quinto ed ultimo imperatore della dinastia giulio-claudia succedendo al
suo padre adottivo Claudio nell'anno 54 e governò per quattordici anni fino al suicidio all'età di 30 anni. Per
la sua politica favorevole al popolo fu inviso alla classe aristocratica, motivo per cui ne fu tramandata
un'immagine di tiranno, parzialmente rivista dalla maggioranza degli storici moderni, i quali ritengono che
non fosse né pazzo - come lo descrissero alcune fonti - né particolarmente crudele, ma che i suoi
comportamenti fossero simili a quelli di altri imperatori non ugualmente giudicati, anche se il suo
comportamente ebbe certamente qualche eccesso e stravaganza; inoltre fu accusato del grande incendio
di Roma, fatto da cui gli studiosi moderni tendono a discolparlo.
Il padre apparteneva alla famiglia dei Domizi Enobarbi, una stirpe considerata di "nobiltà plebea",
(cioè recente), mentre la madre era figlia dell'acclamato condottiero Germanico, nipote di Marco Antonio, di
Agrippa e di Augusto, nonché sorella dell'imperatore Caligola che quindi era suo zio materno.
Nel 39 Agrippina Minore, sua madre, amante del potere e descritta da molti come spietatamente
ambiziosa, fu scoperta coinvolta in una congiura contro il fratello Caligola e venne quindi mandata in esilio
nell'isola di Pandataria nel mar Tirreno, nell'arcipelago Pontino. In quegli anni il piccolo Lucio visse con la
zia Domizia Lepida, che egli amò più della madre e dalla quale avrebbe imparato l'amore per lo spettacolo
e per la danza. L'anno seguente il marito di lei, Gneo, morì e il suo patrimonio venne confiscato da Caligola
stesso.
Lucio nel frattempo fu affidato alle cure della zia, Domizia Lepida. Poiché questa non era di non
elevata condizione economica, in questi primi anni i precettori furono un barbiere ed un ballerino, i quali
anch'essi aiutarono Lucio a coltivare l'amore per la danza e per lo spettacolo.
Nel 41 Caligola venne assassinato, così Agrippina Minore poté ritornare a Roma ad occuparsi del
figlio dell'età di quattro anni, attraverso il quale aveva intenzione di attuare la propria opera di rivalsa. Lucio
venne affidato a due liberti greci per poi proseguire gli studi con due sapienti dell'epoca: Cheremone
d'Alessandria e Alessandro di Ege, grazie ai quali il giovane allievo sviluppò il proprio filoellenismo.
Nel 49 Agrippina Minore sposò l'imperatore Claudio, che era suo zio, ed ottenne la revoca dell'esilio
di Seneca, allo scopo di servirsi del celebre filosofo quale nuovo precettore del figlio. Inoltre, visto che il
giovane Lucio dimostrava maggior affetto verso la zia Domizia Lepida, Agrippina per gelosia, la fece
accusare di avere complottato contro l'imperatore, ottenendone da Claudio la condanna a morte.
Nell'occasione, l'undicenne Lucio fu minacciato e costretto dalla madre a testimoniare contro la zia. Poco
dopo, gli fu imposto il fidanzamento con Ottavia, figlia di Claudio, di otto anni.
Il primo scandalo del regno di Nerone coincise col suo primo matrimonio, considerato incestuoso,
con la cugina Claudia Ottavia, figlia di suo zio Claudio; Nerone più tardi divorziò da lei quando s'innamorò di
Poppea. Nel 62 Nerone sposò Poppea dopo aver ripudiato Claudia Ottavia per sterilità e averla relegata in
Campania. Alcune manifestazioni popolari in favore della prima moglie, convinsero l'imperatore delle
necessità di eliminarla, dopo averla accusata di tradimento.
Lo stesso anno Burro morì, forse ucciso per ordine di Nerone, e Seneca si ritirò a vita privata; la
carica di prefetto del Pretorio venne assegnata a Tigellino (già esiliato da Caligola per adulterio con
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Agrippina). Contemporaneamente venne introdotta una serie di leggi sul tradimento, che provocarono
l'esecuzione di numerose condanne capitali.
Nel 63 Nerone e Poppea ebbero una figlia, Claudia Augusta, che tuttavia morì ancora in fasce.
Allo scoppio del grande incendio di Roma del 64, l'imperatore si trovava ad Anzio, ma raggiunse
immediatamente l'Urbe per conoscere l'entità del pericolo e decidere le contromisure, organizzando in
modo efficiente i soccorsi, partecipando in prima persona agli sforzi per spegnere l'incendio. Nerone mise
sotto accusa i Cristiani residenti a Roma. Dai duecento ai trecento cristiani vennero messi a morte.
Fu poi accusato, dopo la morte, di aver provocato egli stesso l'incendio. Nonostante la ricostruzione
dei fatti sia incerta e molti aspetti della vicenda siano ancora controversi, l'immagine iconografica
dell'imperatore che suona la lira dal punto più alto del Palatino mentre Roma bruciava è ormai ampiamente
superata e considerata inattendibile. Al contrario, l'imperatore aprì addirittura i suoi giardini per mettere in
salvo la popolazione e si attirò l'odio dei patrizi facendo sequestrare imponenti quantitativi di derrate
alimentari per sfamarla. In occasione dei lavori di ricostruzione, Nerone dettò nuove e lungimiranti regole
edilizie, destinate a frenare gli eccessi della speculazione e tracciare un nuovo impianto urbanistico, sul
quale è tuttora fondata la città. In seguito all'incendio egli recuperò una vasta area distrutta, facendo
realizzare il faraonico complesso edilizio noto come Domus Aurea, la sua residenza personale, che giunse
a comprendere il Palatino, le pendici dell'Esquilino (Oppio) e parte del Celio, per un'estensione di circa 2,5
km quadrati (250 ettari).
Nel 65 venne scoperta la congiura pisoniana (così chiamata da Gaio Calpurnio Pisone) e i
cospiratori, tra cui anche Seneca, vennero costretti al suicidio. La stessa sorte toccò anche Gneo Domizio
Corbulone. In quel periodo Nerone ordinò anche la decapitazione di San Paolo e, più tardi, secondo la
tradizione cattolica, la crocifissione di San Pietro.
Nello stesso anno, Poppea, in attesa del secondogenito di Nerone, morì a causa di incidente di
gravidanza, e non a causa di un calcio sferratole dal marito come è opinione comune. Secondo Svetonio
invece, Nerone l'avrebbe ripudiata per sposare Statilia Messalina e Poppea, ritiratasi nella sua villa del
Vesuviano, ad Oplontis, sarebbe morta nel 79 durante l'eruzione del Vesuvio.
Nel 67, l'imperatore viaggiò fra le isole della Grecia, a bordo di una lussuosa galea sulla quale
divertiva gli ospiti (fra questi anche tutti gli stupefatti notabili delle città visitate e tributarie di Roma,
compresa Atene) con prestazioni artistiche, mentre a Roma, Ninfidio Sabino (collega di Tigellino, che aveva
preso il posto dei congiurati pisoniani) andava procurandosi il consenso di pretoriani e senatori.
Prima di lasciare la Grecia, Nerone annunciò personalmente -ponendosi al centro dello stadio
d'Istmia, presso Corinto, prima della celebrazione dei giochi panellenici- la decisione di restituire la libertà
alle poleis, eliminando il governo provinciale di Roma.
Sotto Nerone, il re della Partia Vologese I pose sul trono del regno d'Armenia il proprio fratello
Tiridate, sul finire del 54. Questo convinse Nerone che fosse necessario avviare preparativi di guerra in
vista di un'imminente campagna militare. Domizio Corbulone fu inviato a sedare le continue scaramucce tra
le popolazioni locali e sparuti gruppi di romani. In realtà non vi fu una vera guerra fino al 58 d.C. Dopo la
conquista di Artaxata nel 58 e della città di Tigranocesta, nel 59, pose sul trono dei parti re Tigrane IV, nel
60. Il nuovo re non era molto favorevole all'influenza dei romani ed il fratello Tiridate si sostituì al medesimo
nel 64. Si spense così l'ultimo focolaio di guerra e Nerone poté fregiarsi del titolo di imperator (Pacator)
invitando a Roma il re Tiridate I.
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Nerone inaugurò, nel contempo, solenni festeggiamenti per la ricorrenza del trecentesimo anniversario
della prima chiusura delle porte del tempio di Giano Gemino (236 a.C.) per celebrare la "pace ecumenica"
raggiunta in tutto l'impero, per far dimenticare al popolo il disastroso incendio della città del mese di luglio. Per la
prima volta dunque, a Roma, un comandante si fregiò del titolo di imperatore.
Gaio Giulio Vindice, governatore della Gallia Lugdunense, si ribellò dopo il ritorno dell'imperatore a Roma, e
questo spinse Nerone ad una nuova ondata repressiva: fra gli altri ordinò il suicidio al generale Servio Sulpicio
Galba, allora governatore nelle province ispaniche: questi, privo di alternative, dichiarò la sua fedeltà al senato ed
al popolo romano, non riconoscendo più l'autorità di Nerone. Si ribellò quindi anche Lucio Clodio Macero,
comandante della III legione Augusta in Africa, bloccando la fornitura di grano per la città di Roma. Nimfidio
corruppe i pretoriani, che si ribellarono a loro volta a Nerone, con la promessa di somme di denaro da parte di
Galba. Infine il senato lo depose e Nerone si suicidò il 9 giugno 68, nella villa suburbana del liberto Faonte,
pugnalandosi alla gola con l'aiuto del suo segretario Epafrodito.
Il corpo di Nerone fu cremato e le sue ceneri deposte in un'urna deposta nel sepolcro dei Domizi, sotto
l'attuale basilica di Santa Maria del Popolo.
Nerone nutrì, secondo lo storico Svetonio, oltre che una sfrenata passione per la musica e il canto, anche
una discreta passione per la pittura e la scultura. Svetonio parla anche delle sue personali qualità artistiche
ricordando come avesse scritto molti componimenti poetici originali.
Si cimentò anche pubblicamente come suonatore di cetra. La notizia secondo cui avesse assistito
all'incendio di Roma suonando questo strumento è un falso: allo scoppio dell'incendio, Nerone si trovava nella sua
villa di Anzio e si precipitò a Roma per dirigere l'opera di spegnimento e i soccorsi, ai quali partecipò in prima
persona.
Stando a Tacito, Nerone amava passare il suo tempo nella residenza estiva di Torre di Gianus, dove
amava deliziare il palato dei suoi ospiti con delicati manicaretti da lui stesso preparati. Non vi è alcuna prova che
Nerone soffrisse di malattie come il saturnismo (intossicazione da piombo), attribuita anche ad altri imperatori a
causa dell'uso del vino addolcito in otri di piombo.
Nerone, oltre alla famosa ricostruzione di Roma a seguito dell'incendio del 64, intraprese altre opere
pubbliche tra cui due imprese sovrumane iniziate ma mai completate: il taglio dell'istmo di Corinto e un canale
lungo la costa dall'Averno a Roma.
La prima opera, già tentata dal tiranno Peliandro, dal Re di Macedonia Demetrio Poliorcete, da Giulio
Cesare e da Caligola sembrava non portare fortuna a chi la intraprendeva, tutti morti in modo violento. Gli scavi
furono segnati da episodi nefasti e si interruppero con la morte dell'ideatore.
Il canale dall'Averno a Roma (lungo 250 km), ancora più mastodontico di quello di Corinto assorbì risorse
umane e economiche immense e non fu mai completato a causa degli infiniti problemi tecnici.
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