teoria del diritto e dello stato

TEORIA DEL DIRITTO E DELLO STATO
RIVISTA EUROPEA DI CULTURA E SCIENZA GIURIDICA
2009/2-3
Theory of LAW AND STATE
TEORIA DEL DIRITTO E DELLO STATO
RIVISTA EUROPEA DI CULTURA E SCIENZA GIURIDICA
rechts- und staatslehre
Théorie du droit et de l’état
teorÍa del derecho y del estado
2009
N. 2-3
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isbn 978-88-548-3157-5
issn 1721-8098-90002
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Indice
pag.
Articoli e saggi
Annibale S., La condizione giuridica della Santa Sede dal
1870 ad oggi. Attività internazionale: ingerenza o
non ingerenza?
153
Arcidiacono L., Discrezionalità legislativa e giurisprudenza
della Corte a confronto in tre recenti decisioni
215
Lombardi G., Costituzionalismo e costituzionalismi d’Europa:
matrici e caratteri comuni, aspetti differenziali
247
Mangiameli S., Autodeterminazione: diritto di spessore costituzionale?
258
Ruggeri A., Valori e principi costituzionali degli Stati integrati d’Europa
292
Interpretazioni e opinioni
Castorina E., Concezioni bioetiche e principi costituzionali: il
problema delle scelte di fine-vita
331
Di Salvatore E., Giudici e Richterrecht tedesco nell’evoluzione della forma di Stato
353
Tondi della Mura V., I rischi della competizione regolativa e
valoriale fra i diversi poteri dello Stato (riflessioni a
margine del “caso Englaro”)
380
Discussioni e recensioni
Borrello R., recensione a The Petition of Right, trad. it., Macerata 2009. La figura di Edward Coke tra Bonham’s
case e the Petition of Right
V
425
Indice
Losurdo F., recensione a G. Zagrebelsky, La legge e la sua
giustizia, Torino 2008
429
Gallo S., discussione su G. Radbruch, Lo spirito del diritto
inglese, Milano 1962
436
Mancini M., discussione su Regole e procedure: la teoria
dell’argomentazione giuridica di Robert Alexy
443
Letteratura e diritto
Ciervo A., La classe operaia non va in paradiso. Le trasformazioni del mercato del lavoro tra diritto e letteratura
457
Nobile S., Il senso del Potere. Ipotesi di lettura di “Un re in
ascolto” di Italo Calvino 481
de
503
Abstracts
VI
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 153-214
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/97888548315751
Articoli e saggi
Silverio Annibale
La condizione giuridica internazionale della Santa Sede dal
1870 ad oggi. Attività internazionale: ingerenza o non ingerenza?
Sommario: 1. La condizione giuridica della Santa Sede nel periodo 1870-1929. – 1.1. Premessa. – 1.2. Problematiche d’inquadramento della Santa Sede dopo l’estinzione dello Stato Pontificio. – 1.3. Considerazioni sulla Legge delle guarentigie.
– 1.4. La Santa Sede, alla stregua della Legge sulle guarentigie, come “ente
dipendente” dello Stato italiano nel periodo 1870-1929. – 2. La condizione giuridica della Santa Sede dopo i Patti Lateranensi. – 2.1. Confronto tra la Legge
delle guarentigie e i 3 Trattati del Laterano dell’11 febbraio del 1929. – 2.2.
Altri elementi desumibili da alcuni articoli del Trattato Lateranense dell’11
febbraio 1929. – 2.3. Recupero, per la Santa Sede, con la nascita dello Stato
della Città del Vaticano, della condizione di ente indipendente anche nei confronti dello Stato italiano. – 2.4. L’attività internazionale della Santa Sede. – 3.
Ingerenza o non ingerenza della Santa Sede (e della Chiesa Cattolica) nella
sfera dello Stato italiano. Premessa. – 3.1. L’oggetto del problema scaturente
da alcune recenti vicende. – 3.2. Considerazioni ed osservazioni conclusive.
1.
La condizione giuridica della Santa Sede nel periodo 18701929
1.1.
Premessa
La questione della soggettività internazionale della Santa
Sede non può prescindere da una sommaria indagine storica (1). Ciò
(1) Tra l’altro, la verifica dell’(eventuale) ingerenza della Santa Sede negli affari interni di uno Stato estero richiede la soluzione, seppure difficoltosa, di un’annosa
questione preliminare: la condizione giuridica della Santa Sede in rapporto ai criteri
di diritto internazionale che permettono di qualificare un ente come soggetto di diritto
internazionale e quindi come destinatario delle norme e dei principi internazionali,
tra i quali, il principio della non ingerenza negli affari interni di uno Stato. Questione
preliminare che ci permette di affrontare, nelle successive pagine del presente saggio,
lo status giuridico della Santa Sede, viste le tesi contrastanti riscontrate. Alcuni sostengono che si tratti di uno Stato anomalo o atipico; F. Ruffini, Lo Stato della Città del Va-
153
Silverio Annibale – La condizione giuridica internazionale della Santa Sede
risulta necessario in quanto il Papa e dunque la Santa Sede – dopo
ticano, in Scritti giuridici minori a cura di M. Falco, A.C. Jemolo, F. Ruffini, I, Milano
1936, 295 ss.; A.C. Jemolo, Carattere dello Stato della Città del Vaticano, in Riv. dir.
int., 1929, 188 ss. In particolare si ritiene che lo Stato del Vaticano sia una entità puramente strumentale e servente nei confronti della Santa Sede (costituito in forma di aggregato statale) e quindi ciò verrebbe ad impedire al Vaticano di svolgere un’attività politica autonoma rispetto alla Santa Sede (A.C. Jemolo, Carattere dello Stato della Città
del Vaticano, cit., 190, secondo cui la Città del Vaticano “il giorno in cui, per impossibile
ipotesi (…), si arrogasse di rivendicare una sovranità propria, distinta e contrastante
con quella della Santa Sede, lo Stato italiano riacquisterebbe ipso iure la sovranità
di territorio e di popolazione cui ha rinunciato”). Così anche G. Balladore Pallieri, Il
rapporto fra Chiesa Cattolica e Stato vaticano secondo il diritto ecclesiastico ed il diritto
internazionale, in Riv. int. Scienze sociali, 1930, 214; G. Ottolenghi, Sulla condizione
giuridica della Città del Vaticano, in Riv. dir. int., 1930, 180 ss.). Altri sostengono che
“è soggetto di diritto internazionale non perché esercita il governo sulla Chiesa, bensì
perché è un centro di potere indipendente” (S. Ferlito, L’attività internazionale della
Santa Sede, Milano 1988, 66). Altri che sia da considerarsi la Chiesa Cattolica (di cui
organo supremo il Pontefice), e non la Santa Sede (organo della Chiesa Cattolica), soggetto di diritto internazionale (L. Cavaré, Le droit international public positif, Paris
1951, I, 375 ss.; H. Kelsen, Principles of International Law, New York 1966, 159; G.M.
Ruggiero, Note in tema di immunità della Chiesa Cattolica secondo il diritto internazionale, in DI, 1960, 148 ss.; M. Siotto Pintor, Les sujets du droit international autres
que les Etats, in Recueil des cours de l’Académie de droit international de La Haye,
1932, III, 319 ss.). Infine, altri, considerano la Santa Sede come un soggetto internazionale atipico o sui generis – (V. Andriano, La Chiesa e gli organismi internazionali,
in Aa.Vv., Il diritto nel mistero della Chiesa, IV, Roma 1980, 443; F. Farusi, Validità
della diplomazia pontificia, in La Civiltà cattolica, Roma 1978, 262 ss.; N. Nucitelli,
Le fondement juridique des rapports diplomatiques entre le Saint-Siège et les Nations
Unies, Paris 1956, 56-65; H. Wagnon, La personnalité juridique du Saint-Siège en droit
international, in Annales de droit et de Sc. pol., XIV, 1954, 3-19) – o ente diverso dagli
Stati (A. Martini, La questione romana e il mancato invito alla Santa Sede per la prima
conferenza dell’Aja nel 1899, in La Civiltà cattolica, 1962, 221 ss.). Contra, P. Cipriotti,
Funzione, figura e valore della Santa Sede, in Concilium, 8/1970: “La Città del Vaticano
ha, in diritto internazionale, la posizione giuridica che è propria di ogni Stato” (p. 80);
prosegue a p. 86 affermando che il Trattato Lateranense “è stato stipulato dalla Santa
Sede nella sua qualità di organo supremo della Chiesa Cattolica, e non di organo supremo dello Stato della Città del Vaticano”. A p. 88 attribuisce una duplice funzionalità
alla Santa Sede a seconda delle materie stipulate: “È chiaro, ad esempio, che quando
la Santa Sede stipula un concordato agisce come organo della Chiesa Cattolica, quando ha stipulato con l’Italia convenzioni varie relative a materie meramente temporali
(poste, moneta, sanità ecc.) o ha chiesto all’UNESCO la protezione speciale della Città
del Vaticano come complesso di ‘beni culturali’, ha agito come organo dello Stato della
Città del Vaticano, sebbene in tal modo abbia tutelato anche, più o meno direttamente,
interessi della Chiesa Cattolica”. L’argomento “preliminare” richiede, inevitabilmente,
una ricostruzione storica (a partire dal 1870) dell’intera vicenda dell’ente o degli enti in
questione sia in rapporto allo Stato italiano (per la sussistenza di “accordi internazionali” bilaterali, tra i quali i Trattati dell’11 febbraio del 1929, sottoscritti tra la Santa
Sede e l’Italia, sia in rapporto al diritto internazionale per l’intensa attività di relazioni
internazionali dell’Ente stesso (stipulazione di accordi internazionali, accreditamento
di diplomatici presso la Santa Sede e viceversa, attività nelle organizzazioni internazionali, qualifica di osservatore in alcune organizzazioni internazionali).
154
Articoli e saggi
la Breccia di Porta Pia nel 1870 – ha perso il suo potere temporale
e la sovranità sul territorio dello Stato Pontificio (2) per effetto della
debellatio (3).
In conseguenza degli avvenimenti del 1870 – che determinarono l’estinzione dello Stato Pontificio e il venir meno della sovranità
esterna (indipendenza) e interna – lo Stato italiano adottò una legge
interna (4) – Legge 13 maggio 1871, n. 214, per le guarentigie delle
prerogative del Sommo Pontefice e della Santa Sede e per le relazioni della Chiesa con lo Stato italiano (5) – avente efficacia in tutta
(2) Il Papa (e la Santa Sede) ricopriva due funzioni distinte: quella sovrana
dello Stato Pontificio e quella della suprema autorità della Chiesa Cattolica.
(3) Il 20 settembre del 1870 le truppe italiane occuparono Roma (la c.d. Breccia di Porta Pia) dopo la caduta dell’impero di Napoleone III. Con la Breccia di Porta Pia
vennero meno lo Stato Pontificio e tutto il suo apparato centrale di governo (e quindi il
suo organo esponenziale per le funzioni temporali, cioè la Santa Sede). Il 2 ottobre del
1870 furono annesse all’Italia Roma e Lazio. Non mancano, tuttavia, gli internazionalisti (come G. Balladore Pallieri, Diritto internazionale ecclesiastico, Padova 1940, 58
ss.) che sostengono la persistenza della sovranità territoriale della Santa Sede almeno
sui palazzi vaticani, o sulla Città Leonina, anche dopo l’estinzione dello Stato Pontificio. A nostro parere si trattava, per questi beni, solo di una concessione dello Stato
italiano e non di un diritto sovrano. Infatti, si sottolinea (A. Galante, Manuale di diritto
ecclesiastico, Roma 1914, 437) che: “quando la Curia romana volle istituire speciali tribunali vaticani per cause edilizie, la giurisprudenza italiana (Corte di Appello di Roma
del 9 novembre 1882 nella causa Martinucci-Theodoli), negò alla Curia tale facoltà, che
sarebbe stata la conseguenza di una vera e propria sovranità effettiva”.
(4) Il 21 marzo del 1871 il disegno di “legge delle guarentigie” fu approvato
dalla Camera con 185 voti contro 106. Il 20 maggio 1871, con 150 voti a favore, contro
20, anche il Senato lo approvò.
(5) Che si tratti di una legge interna non vi sono dubbi se si tiene conto
dell’inciso dell’art. 19: “Ordiniamo che la presente, munita del sigillo dello Stato, sia
inserita nella raccolta ufficiale delle leggi e dei decreti del Regno d’Italia, mandando a
chiunque spetti di osservarla e farla osservare come legge dello Stato”. Da segnalare,
ancora, il discorso di Pasquale Stanislao Mancini (Atti parlamentari, Senato, Discussioni, leg. XIII, sessione del 1876-77, in L.M. De Bernardis, Documenti per il corso di
storia dei rapporti tra Stato e Chiesa, Genova 1971, 98) pronunciato a proposito della
Legge del 13 maggio 1871 sulle garanzie pontificie: “Questa legge, o Signori, siamo
tutti d’accordo, non ha carattere internazionale, è una Legge d’ordine interno dello
Stato italiano. Rammenterete che allorquando essa venne discussa, erasi proposto
d’introdurvi un articolo inteso a vietare a qualsiasi Amministrazione di far divenire materia di convenzione internazionale qualunque disposizione di quella Legge. Il
Parlamento reputò superfluo un simile divieto; tale fu l’accordo unanime di tutti gli
uomini più autorevoli e delle varie parti politiche del Parlamento. Tuttavia agli occhi
nostri benché quella non sia una Legge che impegni vincoli internazionali, è divenuta una delle Leggi fondamentali ed organiche del nostro paese, la sua osservanza
non ha bisogno di essere raccomandata a trattati o ad ingerenze straniere, che noi
gelosi della dignità nazionale sentiremmo il dovere di respingere energicamente”. Il
parere del Consiglio di Stato del 27 febbraio – adottato nell’adunanza del 2 marzo
155
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 215-246
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/97888548315752
Luigi Arcidiacono
Discrezionalità legislativa e giurisprudenza della Corte a
confronto in tre recenti decisioni*
Sommario: 1. La sostanziale fragilità dell’art. 28 della L. 87 del 1953. – 2. Segue: la
mancata indicazione di limiti espliciti all’attività della Consulta. – 3. La
Corte nell’intento del Costituente. – 4. Il significato dell’art. 28 della L.
87/53 nel contesto politico bipolare. – 5. L’accentuazione del ruolo politico
della Corte: il problema della sua responsabilità. – 6. I sintomi più recenti
del ruolo “avanzato” della Corte: a) le sentenze di ammissibilità del referendum su leggi elettorali. – 7. Segue: b) l’ordinanza 334/2008 nel conflitto di
attribuzione tra Camere e Corte di Cassazione. – 8. Segue: c) la sent. 151/09
e l’illusione di un bilanciamento giurisprudenziale.
1.
La sostanziale fragilità dell’art. 28 della L. 87 del 1953
La recente sentenza n. 151/09 offre buono spunto di riflessione sul percorso che da qualche tempo la Corte costituzionale ha compiuto, eludendo gli argini, peraltro deboli ed agevolmente aggirabili,
che il legislatore ordinario ha posto nell’art. 28 della legge n. 87 del
1953. Il monito in esso contenuto, con cui si prescrive al giudice delle
leggi di astenersi dal procedere attraverso valutazioni politiche e
di sanzionare la discrezionalità legislativa, non costituisce oramai
ostacolo alla Corte nella produzione di una giurisprudenza incisiva
sul versante delle scelte operate dal legislatore.
Da questa affermazione – sostenuta da una serie di decisioni, alcune al limite dello straripamento appena richiamato, altre,
invece, demolitrici delle opzioni compiute in piena discrezionalità da
parte del legislatore – discende che la Corte costituzionale, custode
istituzionale delle attribuzioni dei singoli poteri e giudice delle controversie riguardanti i conflitti relativi, è divenuta surrettiziamente
potere “redistributore” delle attribuzioni. La questione tocca soprattutto, ma non solo, la posizione costituzionale del Parlamento, che
il legislatore ordinario – sebbene tardivamente e con normazione di
grado inferiore rispetto alle conclusioni dettate con la costituzione
e con L. Cost. n. 1 del 1948 e le altre successive – ha tentato di difendere e ribadire con l’art. 28 della L. n. 87/53. Senonché, come si è
*
Questo scritto con il medesimo titolo ma in forma assai più ristretta è destinato agli Studi in onore di Alessandro Pace.
215
Luigi Arcidiacono – Discrezionalità legislativa e giurisprudenza della Corte
paventato nell’incipit, la norma in esso contenuta risulta facilmente
aggirabile dalla Corte. Difatti, la Consulta, portando la questione
sul piano dello stretto rapporto tra legge e costituzione, ha sempre
gioco agevole nell’argomentare in mero punto di diritto e dimostrare, implicitamente, che proprio il “merito” della legge costituisce vulnus alla costituzione.
Ciò almeno per due motivi: il primo attiene al costrutto
dell’art. 28; il secondo alla capacità del giudice delle leggi, in virtù
della debolezza della norma di eludere l’ostacolo in essa presente.
Quanto al primo motivo, in particolare, occorre osservare
che la riserva di legislazione secondo la quale la Corte non può intercettare il merito e la discrezionalità del legislatore altro non è se
non la riaffermazione del principio che l’indirizzo politico è rimesso
al Parlamento (o meglio al rapporto tra Governo e sua maggioranza); di conseguenza alle scelte compiute dal legislatore non è sovrapponibile una ricostruzione diversa da parte del giudice delle leggi.
Tale svolgimento di un primo ed elementare significato normativo
della disposizione di cui al più volte menzionato art. 28 è tanto ovvio, quanto aderente all’impianto costituzionale della distribuzione
delle attribuzioni tra i singoli poteri. Esso, in sostanza, da un lato
ribadisce l’ampio spazio di intervento riservato, appunto, al potere
legislativo, facendo coincidere con i margini di questo il limite che
incontra il giudice delle leggi; dall’altro, tuttavia, non specifica in
concreto i punti di tali limiti, né determina, in conseguenza, quale
strumento sarebbe azionabile e da chi nell’ipotesi che la norma venisse violata o comunque elusa. Peraltro, pare del tutto condivisibile
che l’art. 28 della legge del 1953 abbia il proprio robusto fondamento
nell’art. 70 della costituzione, di cui non è mera ricognizione. Infatti, mentre l’art. 70 conferisce l’attribuzione della funzione legislativa alle Camere, così imponendo a tutti gli altri poteri il rispetto di
questa prerogativa, non riconoscendo a nessuno di essi la medesima
capacità, l’art. 28 ribadisce codesta esclusività di fronte alla Corte
costituzionale, consegnataria della capacità ablativa della legge, che
fosse in contrasto con la Costituzione.
Quanto al secondo, poi, non pare possa trarsi in discussione la capacità argomentativa che la Corte è in grado di porre in
essere in maniera di poter legare ad uno o più punti della costituzione – letti peraltro secondo la sua visione – i risultati della legge
e di sancirne il contrasto tra ordine costituzionale e prodotto della
discrezionalità.
Si vuole affermare, in particolare, che la Corte può spostare
l’oggetto di osservazione da cui partire per sindacare o meno la legge,
216
Articoli e saggi
valutando il profilo di questa in relazione alla scelta compiuta dal legislatore, ugualmente frutto della sua discrezionalità, ma contraria al
parametro costituzionale. Tutto – appare chiaro – dipende dal modo in
cui si interpretano testo e spirito della legge fondamentale. Se infatti
il giudice costituzionale perviene ad una lettura vincolante delle norme fondamentali la legge ha maggiore probabilità di cadere sotto la
scure della declaratoria di illegittimità. Viceversa, se ritiene possibile
letture per così dire alternative, riconoscendo un campo d’intervento
più ampio alle opzioni del legislatore, si avvia verso una pronuncia
di infondatezza della questione. In tale forbice si gioca il rapporto di
non poco momento tra l’attività di produzione normativa primaria e il
sindacato di legittimità delle leggi. Ciò che induce a riflettere, tuttavia, è che nella determinazione della maggiore o minore ampiezza del
campo di discrezionalità legislativa ha peso il solo ruolo del giudice
delle leggi, mentre il Parlamento ne subisce le conseguenze, dovendo
osservare gli effetti dell’amputazione del suo prodotto.
Non pare, tuttavia, che tutto ciò possa essere stata l’intenzione del costituente (1), soprattutto nel volere l’equilibrio tra i poteri che esso ha inteso tracciare e dal quale non può ritenersi che
le Camere restino isolate nello scacchiere dei rapporti tra indirizzo
politico, che guida le scelte legislative, e compatibilità degli esiti di
queste con il quadro dei principi e dei valori costituzionali, così come
vengono letti nel giudizio di costituzionalità.
In conseguenza di queste considerazione il campo di osservazione si sposta, ponendo l’interrogativo circa la forza dell’art, 28 della
L. n. 87/53 e circa la sua capacità di fare sistema nel contesto della distribuzione delle attribuzioni compiuta dal costituente. La risposta può
essere duplice: che la funzione dell’art. 28 è di conferma della piena conducenza del suo contenuto; ovvero che il medesimo art. 28 costituisce
(1) Il disagio in ordine alla sovrapposizione della attività della Corte su
quella legislativa del Parlamento ha radici risalenti nel processo contrattualistico e
compromissorio, così come nelle idee non del tutto chiarite intorno a ciò che dovesse
essere e contenere la redigenda costituzione, tanto da essere questa stessa manifestazione di “una innegabile ambiguità, che è fonte di gravi incertezze ricostruttive” (così,
F. Modugno, Corte costituzionale e potere legislativo, in Corte costituzionale e sviluppo
della forma di governo in Italia, Bologna 1982, 20 ss.). Al pensiero appena richiamato
e che non si può non condividere, vanno aggiunti i movimenti all’interno dei poteri
di garanzia, divenuti sempre più vicini (se non aderenti) alle posizioni dei partiti politici, determinando a loro modo e comunque perniciosamente l’avvio di un processo
anomalo di attrazione tra i poteri (cfr. sull’argomento, L. Arcidiacono, La caratterizzazione dei poteri, oltre la loro separazione, in Scritti giuridici in onore di Sebastiano
Cassarino, Padova 2001, 76-78, attraverso atipici collegamenti tra “prodotti” della
comunità, quali i partiti politici, e pezzi di Stato-apparato. Cfr. inoltre infra § 3.
217
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 247-257
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/97888548315753
Giorgio Lombardi
Costituzionalismo e costituzionalismi d’Europa: matrici e
caratteri comuni, aspetti differenziali
Ricordo di aver letto nel 1957 la traduzione italiana di alcuni
saggi di Charles Howard Mc. Illwain che recava come titolo “Costituzionalismo antico e moderno”.
Ciò che mi aveva colpito era che l’autore poteva stabilire una
continuità tra ciò che era avvenuto nella Gran Bretagna del Medioevo e ciò che si era sviluppato su quelle basi all’inizio dell’epoca
moderna ed era proseguito prendendo sempre nuova forza e nuovi
aspetti anche nel mondo contemporaneo.
Tutto questo – e qui stava la singolarità – era stato possibile
senza rotture in una serie di passaggi che pur avendo visto eventi
rivoluzionari epocali e non poche catastrofi politiche poteva considerarsi come una continuità singolare, in fondo il costituzionalismo
antico aveva elementi che si erano innervati in quello che poi si
chiamò moderno e, pur nelle differenze, aveva mantenuto lo stesso
sostanziale connotato: quello cioè di un potere limitato e fondamentalmente responsabile.
Quanto era poi particolarmente interessante era come molti
di questi elementi si erano poi manifestati alla base dei valori che
avevano giustificato negli Stati Uniti la guerra per l’indipendenza
dalla Corona britannica ed avevano portato allora un governo libero
che avrebbe poi avuto l’evoluzione di una democrazia in seguito poi
presa a modello in molteplici e talvolta non fortunate esperienze.
Eppure quella degli Stati Uniti era una struttura ben diversa da quella del Regno Unito: si trattava di un ordinamento repubblicano e non monarchico, la struttura era federale, e si aveva una
dichiarazione dei diritti che andava oltre a quella della Petition of
Rights del diciassettesimo secolo e soprattutto un testo costituzionale scritto a differenza dell’ordinamento britannico che una costituzione formale e scritta non l’ha mai avuta.
È questo un paradosso o invece si coglie in questi modelli
apparentemente contrastanti un qualche cosa che gli unisca?
È difficile dirlo ora, forse la risposta emergerà più oltre e per
adesso occorre continuare a considerare altre prospettive che separano e avvicinano al tempo stesso il costituzionalismo anglosassone
dagli altri costituzionalismi europei.
Penso che una delle parole più usate sin dai tempi del tardo
247
Giorgio Lombardi – Costituzionalismo e costituzionalismi d’Europa
diritto romano è quella di costituzione: constitutio e constitutiones
erano documenti provenienti dalla cancelleria imperiale dotati di
una particolare solennità e ciò continua dopo la renovatio imperii
nel Medioevo e nell’epoca moderna. Sono infatti chiamate costituzioni quegli atti solenni che intendono indicare norme alle quali si
attribuisce un particolare significato simbolico come per esempio le
leggi e costituzioni di alcuni sovrani italiani come quelle di Vittorio
Amedeo II Re di Sardegna e di altri.
Ma esse non hanno quel valore ideologico che nel tempo ha
fatto parlare di costituzionalismo e di costituzionalismi intendendo
con quest’ultimo termine declinazioni diverse di concetti affini.
Quanto deve essere però considerato è che nell’antico regime
è solo la solennità dell’atto a comportare il nome evocativo di costituzioni ma non è sempre il contenuto e mai l’efficacia del tipo di fonte
a creare la differenza rispetto ad altri atti.
Non vi è gerarchia né a livello politico, né sul piano dell’efficacia giuridica tra le costituzioni e le altre fonti: un rescritto regio
poteva benissimo disporre diversamente da qualsiasi costituzione.
Un’altra parola contigua a quella di costituzione ma con
un valore politico più ridotto e circoscritto è la parola Statuto (che
incontriamo anche in Spagna come statuto real) non è un caso
che nel 1848, quando Carlo Alberto concede una costituzione la
chiami Statuto, quasi a volerne abbassare il significato simbolico
ed evocativo del termine, stemperandone l’impatto ideologico e
politico, con trasparente riferimento all’antico mondo dei comuni
medioevali.
Ma vi sono ancora alcune osservazioni che esigono che si ritorni su quanto era stato detto all’inizio.
Si è detto prima del rapporto singolare di continuità o per
meglio dire di contiguità tra l’ambiente giuridico britannico e quello
degli Stati Uniti, ma malgrado ciò è li che si vede la prima e netta
differenza che ci fa capire il senso moderno col quale si può parlare
di costituzione.
La Gran Bretagna forse ha una sua costituzione non già
come documento ma come modo d’essere politico dell’ordinamento
al quale si riferisce, gli Stati Uniti hanno invece una vera e propria
costituzione intesa come legge suprema e fondamentale proprio per
regolare espressamente ed esplicitamente il modo d’essere politico
di un popolo.
È a questo modello che si ispira l’idea di una costituzione
nella vecchia Europa lasciandone paradossalmente fuori proprio la
Gran Bretagna.
248
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 258-291
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/97888548315754
Stelio Mangiameli
Autodeterminazione: diritto di spessore costituzionale?*
Sommario: 1. L’autodeterminazione e il catalogo dei diritti costituzionali. – 2. Le posizioni
volte a superare il vincolo del catalogo costituzionale dei diritti: a) le tendenze
fondate sull’art. 2 Cost. – 3. Segue: b) l’affermazione di un principio generale
di libertà o di tutela dell’autonomia privata. – 4. La tipicità dei diritti e i fatti
nuovi. Necessariamente “nuovi diritti”? – 5. Il catalogo dei diritti e la considerazione unitaria della persona umana. – 6. Il principio della persona umana
e le “rivendicazioni di autodeterminazione individuali”: il caso del diritto alla
salute e del diritto alla vita. – 7. Segue: il diritto alla salute e il diritto alla vita
e il sistema dei diritti; il caso dell’obiezione di coscienza. – 8. Relativismo dei
valori e Costituzione: individualismo e persona umana.
1.
L’autodeterminazione e il catalogo dei diritti costituzionali
Il c.d. diritto all’autodeterminazione, nel linguaggio corrente, è il riconoscimento della capacità di scelta autonoma ed indipendente dell’individuo e compare, come espressione, durante gli anni
delle lotte femministe (1).
Questa espressione, originata dalla lotta per i diritti civili
e sociali delle donne, successivamente si arricchisce di un ulteriore
riferimento: il diritto all’autodeteminazione dei popoli (2).
Il principio di autodeterminazione dei popoli, solennemente
enunciato da Woodrow Wilson in occasione del Trattato di Versailles (1919), sancisce il diritto di un popolo sottoposto a dominazione
(*) Relazione tenuta al IV Laboratorio Sublacense su “La comunità familiare e le scelte di fine vita”; Abbazia di Santa Scolastica – Subiaco, 3-5 luglio 2009.
(1) V. sul punto la Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina
del 1791, dovuta alle battaglie di Olympe de Gouges, finita ghigliottinata sotto Robespierre; il famoso saggio di M. Wollstonecraft, A Vindication of the Rights of Woman: with Strictures on Political and Moral Subjects (1792); nonché Stuart Mill, La
schiavitù delle donne (1869).
(2) Sul punto v. G. Arangio Ruiz, Autodeterminazione (diritto dei popoli
alla), in Encicl. Giur. Treccani, Roma 1988, ad vocem; F. Lattanzi, Autodeterminazione dei popoli, in Digesto disc. pubbl., Torino 1987, II, 4 ss.; G. Palmisano, Nazione
Unite e autodeterminazione interna, Milano 1997, passim; D. E. Tosi, Secessione e
costituzione tra prassi e teoria, Napoli 2007, 251 ss.; per un quadro sintetico dei classici sul principio in commento v. Self-Determination in International Law, Burlington
2000; nonché H. Ambruster, Selbstbestimmungsrecht, in Wörterbuch des Völkerrechts,
Berlin 1962, 250 ss.
258
Articoli e saggi
straniera ad ottenere l’indipendenza, ad associarsi ad un altro stato
o comunque a poter scegliere autonomamente il proprio regime politico. Tale principio costituisce una norma di diritto internazionale
generale, cioè una norma che produce effetti giuridici (diritti ed obblighi) per tutta la Comunità degli Stati. Inoltre, questo principio
rappresenta anche una norma di jus cogens, cioè diritto non derogabile mediante convenzione internazionale, in quanto rappresenta un
principio supremo ed irrinunciabile del diritto internazionale. Come
tutto il diritto internazionale, il diritto di autodeterminazione ratificato da leggi interne, per esempio la Legge n. 881 del 1977, vale
come legge dello Stato che prevale sul diritto interno.
Alla luce di questa premessa, la domanda che forma il titolo
di questo intervento è estremamente problematica; essa riguarda la
nozione di autodeterminazione e la Costituzione.
Si adopera un concetto che ha rilevanza giuridica quasi esclusiva nel diritto internazionale e che, per il resto, assolve in genere
anche nel linguaggio comune ad un compito politico-rivendicativo e
ci si chiede se l’“autodeterminazione”: a) sia un diritto e b) se abbia
uno spessore costituzionale.
Ora, la Costituzione non parla di autodeterminazione in alcuna delle sue disposizioni, e ciò nonostante che la nozione di persona, nelle sue diverse aggettivazioni (personale, personalità), sia
richiamata 21 volte, quella di uomo (o umano) ben 9 volte, in alcuni
casi in reciproca combinazione (nell’art. 3, comma 2, e nell’art. 32,
comma 2, Cost.) e la dignità è richiamata due volte (nell’art. 3, comma 1, come dignità sociale, e nell’art. 41, comma 2, come dignità
umana) (3).
Del resto, il linguaggio del Costituente, in gran parte riconducibile a quello adoperato dalla legislazione del tempo, non poteva con-
(3) Sul tema della persona decisive sono le prospettive di diritto privato, per
le quali v. G. Alpa e A. Ansaldo, Le persone fisiche, in Il codice civile, commentario diretto da Schlesinger, Milano 1996; A. Pizzorusso, R. Romboli, U. Breccia, A. De Vita,
Persone fisiche, Artt. 1-10, in Commentario del Codice civile Scialoja Branca, a cura
di F. Galgano, Bologna-Roma 1988. La nozione di persona sta al centro dell’attuale
dibattito sulla bioetica, che tocca sia l’inizio e sia la fine della vita. Le contrapposte
posizioni derivano, in genere, dal diverso modo di intendere la persona. Anche il tema
della “dignità” (per il quale v. M. Di Ciommo, Dignità umana, in Dizionario sistematico di Diritto costituzionale, a cura di Stelio Mangiameli, Milano 2008, 381 ss.) è sottoposto a differenti tipi di interpretazione e la molteplicità di queste spinge parte della
dottrina (M. Luciani) a valutare la nozione di dignità come una formula vuota, la
qualcosa contrasta con il principio ermeneutico per il quale alle parole del legislatore
(a maggior ragione del Costituente) si deve riconoscere un carattere prescrittivo.
259
Stelio Mangiameli – Autodeterminazione: diritto di spessore costituzionale?
siderare l’autodeterminazione come una espressione giuridica (4). Se
si prende in considerazione, infatti, il codice del 1942 è facile constatare che i termini di riferimento sono esclusivamente il riconoscimento
e la salvaguardia di diritti e di libertà: l’art. 832, a proposito della proprietà, afferma: “Il proprietario ha diritto di godere e disporre delle
cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli
obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico” (5); l’art. 1321, la cui rubrica reca la dicitura “autonomia contrattuale”, si esprime così: “1. Le
parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei
limiti imposti dalla legge. 2. Le parti possono anche concludere contratti che non appartengono ai tipi aventi una disciplina particolare,
purché siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo
l’ordinamento giuridico” (6). Infine, per comprendere l’intero sistema e
il suo funzionamento, occorre considerare la previsione dell’art. 2907,
nell’ambito del libro sesto, dedicato alla tutela dei diritti che recita:
“Alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità giudiziaria
su domanda di parte e, quando la legge lo dispone, anche su istanza
del pubblico ministero o d’ufficio” (7).
Anche quando limita o vieta il codice non presuppone una
sfera di autodeterminazione, ma fa riferimento al concetto di “disposizione”. Emblematico, in questo contesto, l’art. 5, sugli atti di
disposizione del proprio corpo, per il quale “Gli atti di disposizione
del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione
permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari
alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume” (8).
(4) Sul tema del linguaggio della Costituzione, sulle sue aporie, sul significato delle parole adoperate e sull’interpretazione costituzionale, secondo canoni diversi,
a partire dall’interpretazione storico-normativa, sia consentito rinviare al nostro Le
materie di competenza regionale, Milano 1992, ed ivi ampi ragguagli sui profili linguistici e sistematici con richiami di dottrina e giurisprudenza italiana e comparata.
(5) Per il diritto di proprietà sia consentito rinviare a S. Mangiameli, La
proprietà privata nella Costituzione, Milano 1986, passim.
(6) Per la tutela dell’autonomia privata, in via indiretta, da parte degli artt.
41 e 42 Cost., v. Corte costituzionale, sentenza n. 37 del 1969, in Giur. Cost. 1969, I,
1, 1246 ss.; L. Mengoni, Autonomia privata e Costituzione, in Banca, Borsa e titoli di
credito 1997, I.
(7) V. F.D. Busnelli, Della tutela giurisdizionale dei diritti, Torino 1964.
(8) Sulla disposizione in esame si vedano le osservazioni di: G. Alpa, A. AnAtti di disposizione del proprio corpo, in Commentario al codice civile, diretto
da P. Schlesinger, Milano 1996, 247 ss; V. Rizzo, Art. 5 (Atti di disposizione del proprio corpo), in Commentario al codice civile, a cura di P. Perlingieri, Napoli 1991, 253
ss.; R. Romboli, Persone fisiche, sub art. 5, in Commentario Scialoja-Branca, Bolognasaldo,
260
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 292-330
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/97888548315755
Antonio Ruggeri
Valori e principi costituzionali degli Stati integrati d’Europa*
Sommario: 1. Valori e principi della “transizione”: stabilità degli uni e (relativa) mutevolezza dei secondi. – 2. Valori, principi e fatti di continuità ovvero di discontinuità costituzionale. – 3. I valori di una comunità politicamente organizzata sono
di necessità un “numero chiuso”? – Un ossimoro apparente: la positivizzazione dei valori come… valori. – 4. Identità costituzionale degli Stati e identità
dell’Unione: una possibile diversificazione al piano dei valori ovvero a quello
dei principi? – 5. L’Unione, “unita” (nei valori) e “diversificata” (nei principi):
un motto felice, tuttavia obbligato a fare i conti (non ancora saldati) con la
spinosa questione del deficit democratico. – 6. Come pesare (ed apprezzare)
“unità” e “diversità” e, ancora, come preservarle? – Analisi della struttura delle
tradizioni costituzionali, nazionali e comuni (e, per ciò pure, europee), e loro
riunificazione nei processi interpretativi secondo valore. – 7. “Unità” e “diversità”, dal punto di vista della funzione o dello scopo cui sono, rispettivamente,
chiamati l’Unione e gli Stati: ancora una conferma del carattere artificioso della
rigida distinzione dell’identità dell’una e degli altri, su basi di valore. – 8. Leale
cooperazione e sussidiarietà: due principi indisponibili, siccome necessari a dar
pratico senso alla “unità nella diversità”, ad ogni livello istituzionale e campo di
esperienza. – Interessi dalla natura composita (sovranazionali, nazionali, locali
a un tempo), processi di produzione giuridica al proprio interno ugualmente articolati, risultanti da “catene” di norme funzionalmente connesse, superamento delle barriere artificiosamente erette tra i campi materiali, in applicazione
della “logica”, ormai recessiva, di una rigida separazione delle competenze. – 9.
Un’annosa (e irrisolta) questione: si danno limiti all’integrazione? – La deformata rappresentazione, data in dottrina e giurisprudenza, del rapporto intercorrente tra norme dell’Unione e principi fondamentali degli Stati, e la ricerca
di una composizione unitaria dell’identità costituzionale dell’una e degli altri,
attraverso la tecnica dei “bilanciamenti” su basi di valore.
1.
Valori e principi della “transizione”: stabilità degli uni e
(relativa) mutevolezza dei secondi
Il titolo dato a questa riflessione richiede alcuni chiarimenti
preliminari, senza dei quali lo stesso suo oggetto si presta a pericolosi fraintendimenti.
Comincio dalla parte finale, precisando che il tema che mi è
stato assegnato vorrebbe esser particolarmente ambizioso (proprio
per ciò, però, nel lavoro che ora si avvia potranno unicamente porsi
le basi per ulteriori e più adeguati approfondimenti, bisognosi di
(*) Relazione al Convegno su Costituzionalismo e diritto costituzionale negli Stati integrati d’Europa, Bari 29-30 aprile 2009. Farà parte degli Scritti in onore
di L. Arcidiacono. Lo scritto è aggiornato alla data del convegno.
292
Articoli e saggi
aversi in altre sedi): non si è, infatti, chiamati a dire né della sola
Europa né degli Stati ma dell’una e degli altri assieme, necessariamente visti in modo congiunto e – come si tenterà di mostrare
– connotati da stretta interdipendenza. Aggiungo, poi, che non si
ragionerà di scenari molto di là da venire, una volta cioè che gli Stati
saranno finalmente, compiutamente “integrati” in seno all’Unione o
a “qualcosa” che, con altro nome, ne dovesse prendere il posto. Non
posseggo (e credo che nessuno possegga) la classica palla di vetro che
consenta di vedere ciò che sarà, in un futuro comunque non prossimo, che peraltro potrebbe – come si sa – non venire mai alla luce.
L’orizzonte di questo studio è invece, di necessità, assai più
corto; e l’unico futuro di cui, pur con molta approssimazione, è qui
dato discorrere è quello legato alle sommamente incerte sorti del
trattato di Lisbona, cui pure è doveroso il richiamo, se non altro perché – la speranza è questa – potrebbe tra non molto divenire realtà.
Il vero è che il titolo di questo studio (e – mi si consenta –
dell’intero convegno in cui esso è presentato) è, forse, non del tutto
appropriato; semmai, si dovrebbe dire: degli Stati in via d’integrazione, volendosi raffigurare la presente congiuntura caratterizzata da
relazioni tra ordinamenti che non sono più separati e però non sono
ancora pleno iure integrati. Diciamo che si è in mezzo ad un processo,
senza che peraltro risulti chiaro se il più sia già stato fatto ovvero sia
ancora da fare e, comunque, quanta distanza ancora ci separi dalla
meta. Un processo che vede gli Stati aver bisogno dell’Unione e questa, a sua volta, di quelli; e che, anzi, proprio nel reciproco sussidio
– come si tenterà di dire più avanti – si coglie l’identità sia degli uni
che dell’altra. Il che vale come riconoscere che una profonda (e, forse, davvero irreversibile) trasformazione si è ormai compiuta negli
Stati, nell’idea stessa di Stato, che un tempo – come si sa – evocava,
nel modo più immediato e genuinamente espressivo, la realtà di un
ordinamento internamente “integrato”, connotato – secondo la dottrina classica – da originarietà e sovranità, oltre che da territorialità
e da altri attributi ancora. Attributi che non sono più riproponibili, quanto meno col carattere di assolutezza di un tempo, proprio
perché è in corso un’integrazione interordinamentale dai contorni
ancora largamente indefiniti, comunque originali, la quale ad ogni
buon conto non autorizza a concludere nel senso che gli attributi
suddetti si siano del tutto smarriti, come invece vorrebbe una fin
troppo ottimistica (ma, in realtà, deformante) lettura patrocinata da
quanti ritengono che la sovranità (e, perciò, l’identità degli Stati) sia
andata ormai definitivamente dispersa, malgrado non possa neppure dirsi che sia stata soppiantata da una “sovranità” dell’Unione che,
293
Antonio Ruggeri – Valori e principi costituzionali degli Stati integrati
pur con ogni sforzo di buona volontà, non riesce ancora oggi a farsi
in modo tangibile, esclusivo, valere (1).
Quando una vicenda ordinamentale è ancora in fieri è assai arduo trovare le parole giuste per descriverla; comunque, risulta
particolarmente disagevole prefigurarne gli esiti e darne ex ante la
opportuna qualificazione. Diciamo pure che è metodicamente scorretto o, come che sia, fondato su basi inconsistenti farlo a mezzo di
categorie pensate per la sola realtà statale e, ad ogni buon conto,
valevoli per ordinamenti ormai integrati, non in via d’integrazione.
Eppure, del ricorso a categorie siffatte, almeno in una fase iniziale,
non può farsi a meno, essendo questi i soli ferri del mestiere di cui
disponiamo, mentre deve rimandarsi per i loro necessari aggiustamenti, anche di non secondaria entità, a più raffinate analisi che
potranno in modo adeguato essere avviate e svolte in un successivo
momento.
I rilievi appena fatti con riguardo al secondo frammento del
titolo si riflettono immediatamente sul primo, ponendo subito una
questione di grande momento.
Se è vero che il tempo odierno – come si è soliti dire, con
espressione fin troppo abusata e tuttavia calzante nelle sue applicazioni all’Unione – è un tempo di “transizione”, di quali valori e principi siamo oggi chiamati a discorrere? Ha senso ragionare di valori
e/o principi della transizione? Sembra quasi un ossimoro, tanto più
che – come si vedrà a momenti – i valori in questione sono, se non
universali (ché molti, purtroppo, ad oggi in essi non si riconoscono),
comunque transepocali, rinvenendosene il germe sin dall’antichità, persino dunque in realtà ordinamentali non statali o prestatali
(quanto meno, avuto riguardo all’idea di Stato quale affermatasi –
secondo una tesi risalente e ad oggi largamente diffusa – a partire
dal trattato di Westfalia).
E ancora: può dirsi che i valori e/o principi in parola siano
diversi sia da quelli affermatisi nei territori dell’Unione prima della
nascita dell’Unione stessa che da quelli che potrebbero aversi allorché quest’ultima sarà giunta alla meta della piena integrazione ovvero sarà soppiantata da altra entità ad oggi tuttavia sconosciuta?
Gli interrogativi appena posti danno conto del perché la riflessione che si va ora facendo investa, ad un tempo, sia i valori che
(1) In realtà, sembra maggiormente adeguato al presente contesto ragionare di una sovranità condivisa, secondo riparti di materie e competenze assai più fluidi
nel diritto vivente di quanto traspaia dalle norme che li stabiliscono (sulla mobilità di
questi rapporti si tornerà anche più avanti).
294
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 331-352
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/97888548315756
Interpretazioni e opinioni
Emilio Castorina
Concezioni bioetiche e principi costituzionali: il problema
delle scelte di fine-vita *
Sommario: 1. Scelte di fine-vita e ordinamento costituzionale. – 2. Segue: libertà di autodeterminazione individuale e “impegno ippocratico” del medico: due indirizzi giurisprudenziali. – 3. Il “diritto a morire” quale risvolto negativo del diritto alla
salute. – 4. Segue: il diritto alla vita. – 5. Costituzione e pluralità di concezioni
etiche nelle democrazie pluraliste. – 6. Segue: la ricerca di una legittimazione
costituzionale delle concezioni bioetiche dominanti. – 7. Il medico come “arbitro” di un bilanciamento tra diritti.
1.
Scelte di fine-vita e ordinamento costituzionale
Negli ultimi tempi ha preso quota, anche con una certa insistenza mediatica, il dibattito intorno ad un’ipotesi di disciplina legislativa in materia di “scelte di fine-vita” (1).
La questione si incentra, in particolare, sulle modalità di
attivazione dei trattamenti medici nello stato ultimo dell’esistenza
umana (si pensi, soprattutto, al caso dei trattamenti di sostentamento vitale in pazienti che versano in stato vegetativo permanen-
(*) Relazione al Convegno su Etica e Diritto nella medicina di fine vita, Bios
& Law – Centro Interdisciplinare di Ricerca Avanzata in Biomedicina e Biodiritto,
Paternò 22 e 23 maggio 2009.
(1) Al momento, il Senato della Repubblica ha approvato, in data 26 marzo
2009, il disegno di legge n. 10/a in materia di consenso informato e di dichiarazioni
di volontà anticipate nei trattamenti sanitari, nonché in tema di cure palliative e di
terapia del dolore. Tra le principali novità contenute nel testo, vi è il divieto della sospensione di alimentazione e di idratazione artificiali ed il carattere non obbligatorio
e comunque non vincolante della dichiarazione anticipata di trattamento. In dottrina, i profili di diritto costituzionale vengono ampiamente affrontati da F.G. Pizzetti,
Alle frontiere della vita: il testamento biologico tra valori costituzionali e promozione
della persona, Milano 2008.
331
Emilio Castorina – Concezioni bioetiche e principi costituzionali
te) (2), sulle possibili forme di rifiuto di detti trattamenti, quantunque non abbiano carattere sproporzionato o sperimentale e, quindi,
sul correlato spazio decisionale del medico alla luce delle norme di
deontologia professionale e dei principi della responsabilità giuridica. L’argomento tocca da vicino il diritto alla vita, così come il diritto
alla salute ed all’assistenza sanitaria, nelle loro reciproche, ed a volte strettissime, interconnessioni (3); la libertà di autodeterminazione
individuale come esplicazione del potere della persona di disporre
del proprio corpo (4), la cui base ed i correlati limiti si fanno risalire
al primo comma dell’art. 13 Cost. (5), ma sempre e comunque nel
rispetto della dignità della figura umana, secondo quanto dispone
l’art. 32, comma secondo, della stessa Costituzione.
Nella prassi è possibile riscontrare considerevoli divergenze
nell’esperienza comparata dei diversi Paesi, dovute tanto alle concrete modalità di assunzione delle decisioni terapeutiche, quanto ad
atteggiamenti culturali, religiosi, filosofici e professionali diversi, i
quali contribuiscono ad edificare uno scenario difficilmente riconducibile ad unità, perfino nell’ambito di uno stesso ordinamento nazio(2) Tale condizione, com’è noto, non coincide con la morte cerebrale. La legge 29 dicembre 1993, n. 578, concernente Norme per l’accertamento e la certificazione
di morte, ha stabilito espressamente che la morte si identifica con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo (art. 1).
(3) Per notazioni generali sul diritto costituzionale alla salute, si può rinviare ai contributi di M. Luciani, Salute. I) Diritto alla salute – Dir. Cost., in Enc.
Giur., XXXII, Roma 1994; R. Ferrara, Salute (diritto alla), in Digesto delle discipline
pubblicistiche, XIII, Torino 1997, 513 ss.; A. Simoncini, E. Longo, Art. 32, in Comm.
Cost., a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, I, Torino 2006 e, più di recente, di
R. Balduzzi, Salute (Diritto alla), in Diz. dir. pubbl., diretto da S. Cassese, VI, Milano
2006, 5393 ss.
(4) Richiamando la libertà della persona di disporre del proprio corpo, la
Corte costituzionale si è limitata, invero, a dichiarare l’illegittimità costituzionale
dell’art. 696, comma 1, c.p.c., nella parte in cui non consentiva di disporre accertamento tecnico o ispezione giudiziale sulla persona dell’istante (sent. n. 471 del 1990,
in Giur. cost., 1990, 2818 ss.). In dottrina, si precisa che, sul principio personalista e
sul valore unitario e inscindibile della persona umana si fonda la libertà di decidere
e autodeterminarsi in ordine a comportamenti che in vario modo coinvolgono ed interessano il proprio corpo, R. Romboli, I limiti alla libertà di disporre del proprio corpo
nel suo aspetto “attivo” ed in quello “passivo”, in Foro it., I, 1991, 17.
(5) Tuttavia, A. Pace, Libertà personale (dir. Cost.), in Enc. Dir., XXIV, Milano 1974, 307, precisa che l’art. 13 Cost. non autorizza quegli atti di disposizione che
vadano contro la salute o la dignità (automutilazione di arti, prostituzione), ma anche
gli altri che contravvengono alla costante volontarietà: è legittimo che ci si sottoponga
spontaneamente ad una visita medica o ad un internamento in casa di cura, ma dovrebbe essere parimenti consentito di revocare l’assenso in qualsiasi istante.
332
Interpretazioni e opinioni
nale, ove si riscontrano, per di più, notevoli differenze nella gestione
dei malati e nella pratica clinica (6).
Per tali ragioni, di fronte alle “scelte di fine-vita” il quadro
di riferimento anche per il giurista diviene particolarmente incerto,
ancor più perché, in molti settori, non vi sono protocolli generalmente condivisi nelle comunità scientifiche nazionali e internazionali in merito alle pratiche terapeutiche da esperire proprio in tali
delicati momenti, ed anche perché, pur a fronte di pur utili “raccomandazioni”, emanate da qualificati organi di società scientifiche
e professionali (7), l’autonomia e la responsabilità del medico sono
comunque soggette, di volta in volta, ad essere valutate alla luce di
divieti presenti nella vigente legislazione nazionale, improntata alla
tutela del “diritto alla vita” (artt. 579 e 580 del codice penale, che
(6) In Europa, la materia è presa in considerazione da talune legislazioni
nazionali, tuttavia di segno non univoco: tanto vero che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000, nel proteggere il diritto alla vita di ogni individuo
(art. 2) e sancendo il diritto all’integrità della persona, si limita, nel campo della
medicina e della biologia, a ribadire principi sui quali convergono unanimemente
gli ordinamenti dei Paesi membri (consenso informato, divieto di pratiche eugenetiche e di clonazione riproduttiva degli essere umani, divieto di fare del corpo umano
fonte di lucro, art. 3). Le differenze tra le legislazioni nazionali, presenti in Europa,
vengono considerate, di recente, da F. Galofaro, Eluana Englaro. La contesa sulla
fine della vita, Roma 2009, 91 ss., il quale riferisce come in alcuni Stati sia permessa
l’eutanasia attiva e passiva (Belgio, Olanda), in altri il suicidio assistito su richiesta
del paziente (Francia, Svizzera, Danimarca, Germania, Ungheria), nonché varie posizioni in ordine alla liceità ed ai fondamenti bioetici della cessazione del trattamento
di malati in stato vegetativo persistente. In particolare, per la disciplina vigente in
Svizzera, F. Botti, L’eutanasia in Svizzera, Bologna 2007; per quella di altri ordinamenti, si può fare riferimento al volume Eutanasia e diritto. Confronto tra discipline,
a cura di S. Canestrari, G. Cimbalo, G. Pappalardo, Torino 2003.
(7) Degne di nota sono, ad esempio, le recenti Raccomandazioni formulate
nel Parere ufficiale della Società italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva (SIAARTI) in materia di fine vita, stati vegetativi, nutrizione e idratazione del 5 maggio 2009, in www.siaarti.it.,nel quale si fa rilevare, in premessa, come,
per un verso, la Terapia Intensiva (T.I.) offra una cornice del tutto particolare, che
esalta la dimensione etica delle problematiche in argomento, ma come dall’altro tali
problematiche si differenziano nettamente da quelle sollevate dagli stati vegetativi
o da altre malattie degenerative che comportano la cronica dipendenza del malato
da uno o più supporti delle funzioni vitali e che prevedono figure e collocazioni assistenziali del tutto differenti dagli intensivisti e dalle T.I. Il parere avverte, opportunamente, “che se la trattazione delle tematiche etiche proprie di queste due categorie
di sofferenza fossero ricomprese in dettami di legge unici, che non tenessero conto
delle diversità cliniche di queste due categorie di malati e della conseguente diversità
dell’approccio ai temi etici solo in teoria simili, non si offrirebbe alcuna reale comprensione delle questioni in campo rischiando di generare pericolose confusioni con
tragiche ricadute sui malati”.
333
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 353-379
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/97888548315757
Enzo Di Salvatore
Giudici e Richterrecht tedesco nell’evoluzione della forma di
Stato
Sommario: 1. L’espressione “Richterrecht”. Teoria del diritto e dottrina dello Stato. Il
Richterrecht nell’evoluzione della forma di Stato. – 2. “Volksgeist”, Legislatore
e giudice nel pensiero della Scuola storica del diritto. Il II Reich del 1871 e
la concezione dello Stato-persona nei rapporti tra le fonti del diritto e nelle
relazioni tra gli organi costituzionali. – 3. La Costituzione francese del 1875
e la concezione della legge come “regola generale”. Il Rechtsstaat tedesco e la
concezione della legge come “regola di diritto”. Fonti del diritto e giudice. – 4.
Democrazia, pluralismo e Richterrecht nella vigenza della forma di Stato della
Repubblica di Weimar. – 5. Giudici e Richterrecht tra teoria e prassi del nazionalsocialismo. – 6. Giudici e Richterrecht nella Grundgesetz del 1949.
1.
L’espressione “Richterrecht”. Teoria del diritto e dottrina
dello Stato. Il Richterrecht nell’evoluzione della forma di
Stato
L’espressione Richterrecht designa letteralmente il fatto
produttivo del diritto da parte del giudice (1). Il presente scritto non
si propone di indagare se e in quali termini detta produzione sia immanente all’attività svolta dal giudice ovvero se e in che modo essa
sia intrinseca al momento stesso della comprensione. Che di per sé
l’interpretazione si concreti in un atto di creativa costruzione (e mai
di mera sussunzione) del diritto è una verità difficilmente controvertibile (2). Agli occhi del giurista, però, questa stessa verità saprebbe
(1) G. Orrù, Richterrecht. Il problema della libertà e autorità giudiziale nella dottrina tedesca contemporanea, Milano, 1983, 2; è appena il caso di precisare che
la problematica del “Richterrecht” va mantenuta distinta da quella relativa al c.d.
“diritto vivente”: in questo secondo caso, infatti, l’espressione ha riguardo a “quella
applicazione «costante diffusa e prevalente»”, che “agisce esattamente alla maniera
di un precedente radicato a tal punto nella giurisprudenza che, per essere modificato,
necessita dell’intervento del giudice delle leggi (o, al limite, del legislatore)”: così D.
Bifulco, Il giudice è soggetto soltanto al «diritto». Contributo allo studio dell’articolo
101, comma 2, della Costituzione italiana, Napoli, 2008, 47; in questo senso già A.
Pugiotto, Sindacato di costituzionalità e «diritto vivente». Genesi, uso, implicazioni,
Milano, 1994, 267.
(2) A. Kaufmann, Ermeneutica e filosofia del diritto, in Filosofia del diritto
ed ermeneutica, trad. it., Milano, 2003, 3 ss., 9; sul problema v. anche C. Luzzati, La
vaghezza delle norme. Un’analisi del linguaggio giuridico, Milano, 1990, 118 ss., ed
ivi ulteriore letteratura citata; questa conclusione tende ad agganciarsi alla tradizione della filosofia ermeneutica, che collega tra loro Schleiermacher, Dilthey, Heidegger e Gadamer; v. tuttavia più sotto, nt. 6.
353
Enzo Di Salvatore – Giudici e Richterrecht tedesco
esprimere un significato solo psicologicamente, sociologicamente o
filosoficamente rilevante, essendo essa tesa a mostrare secondo quali modalità vitali il giudice perviene alla “Recht-Sprechung” (3). In
questo senso, allora, il dogma della perfetta coincidenza tra soggetto
ed oggetto dell’interpretazione può costituire solo un punto di partenza, ma non certo una conclusione giuridicamente soddisfacente;
a meno che, si intende, non sia proprio l’ordinamento positivo ad
accordare valore prescrittivo a modalità siffatte. Per questa ragione,
può qui tralasciarsi di discutere ulteriormente (4) se l’attività del
giudice sconti un necessario rapporto di identità o di alterità tra
soggetto ed oggetto dell’interpretazione (5) o se, nella prospettiva di
una “ontologia delle relazioni” (6), il diritto sia non un “oggetto”, ma
“piuttosto la struttura dei rapporti nei quali gli uomini stanno l’uno
verso l’altro e verso le cose” (7).
(3) A. Kaufmann, La storicità del diritto alla luce dell’ermeneutica, in Filosofia del diritto, cit., 33 ss., 63.
(4) La questione è invece considerata da G. Orrù, Richterrecht, cit., 20 ss.,
ed ivi riferimenti al c.d. “circolo ermeneutico” (Heidegger; Gadamer) e al problema
della “Vorverständnis” (Esser): “Il postulato della riflessione critica della precomprensione esige che si studino i meccanismi della formazione della precomprensione
sia dal punto di vista psicologico sia dal punto di vista sociologico, altrimenti non si
farebbe alcun passo avanti rispetto al positivismo giuridico, che tale precomprensione
non vedeva o nascondeva”.
(5) Cfr. E. Betti, Diritto romano e dogmatica odierna, in Arch. giur., 1928,
70 ss., ora in Diritto Metodo Ermeneutica. Scritti scelti, Milano, 1991, 59 ss., 64 ed
anche 81, per il quale “i termini del processo conoscitivo sono pur sempre due: il
soggetto e l’oggetto”; l’idea che tra soggetto ed oggetto dell’interpretazione si dia una
necessaria identità è comunque respinta da parte della dottrina più risalente: cfr. ad
es. D. Donati, Il problema delle lacune dell’ordinamento giuridico, Milano, 1910, 175
ss., 186 s., il quale sostiene che l’attività del giudice sia sempre esclusivamente “dichiarativa”; in ordine al “Subjekt-Objekt Schema”, anche con riferimento al problema
delle lacune del diritto, v. utilmente K. Engisch, Aufgaben einer Logik und Methodik
des juristischen Denkens, in Beiträge zur Rechtstheorie, Frankfurt a.M., 1984, 65 ss.
(6) Questa prospettiva muove da un passo di Tommaso d’Aquino (Summa
theologica, I, 116, 2, ad 3: “Ordo non est substantia, sed relatio”) e si oppone tanto
all’idea che il diritto possa essere ridotto a mero sistema di norme – come ebbe a
ritenere il Kelsen sulla scia della dottrina delle forme elaborata da Kant (Critica
della ragion pura, trad. it., Roma-Bari, 2005, Parte II (“Logica trascendentale”), 77
ss.) –, quanto all’idea che tutto il diritto sia direttamente ricavabile dalla “Natur der
Sache”: cfr. A. Kaufmann, Il diritto tra identità e differenza. Riflessioni su un tema non
approfondito, in Filosofia del diritto, cit., 75 ss., 90.
(7) Nella Prefazione all’Einführung in Rechtsphilosophie und Rechtstheorie
der Gegenwart del 1994, A. Kaufmann scrive: “Il diritto non è un «oggetto» come alberi e case. Il diritto è piuttosto la struttura dei rapporti nei quali gli uomini stanno
l’uno verso l’altro e verso le cose. Invece di una ontologia sostanziale va sviluppata
354
Interpretazioni e opinioni
Sul piano strettamente giuridico, estraneo al presente scritto è, però, pure l’indagine intorno al significato che il Richterrecht
esprime dal punto di vista della teoria generale del diritto. Una valutazione di questo tipo, infatti, non si discosterebbe sensibilmente da
quella sopra descritta, in quanto, pur escludendo dalla problematica
in discorso ogni presupposto psicologicamente, sociologicamente o
filosoficamente rilevante, essa finirebbe per attribuire al diritto giudiziale una validità di carattere universale. E una pretesa siffatta si
scontrerebbe non tanto contro la realtà dell’ordinamento giuridico,
quanto contro la stessa possibilità di individuare i presupposti dogmatici che sostengono le diverse fasi di sviluppo dell’ordinamento,
così come i caratteri peculiari che connotano l’attività giurisprudenziale entro le differenti esperienze costituzionali.
Con ciò non si vuole certo svilire il ruolo che la teoria generale del diritto ha esercitato sulla funzione giurisdizionale, dovendosi semplicemente storicizzare ovvero restituire alla sua giusta luce
l’eventuale influenza che la teoria medesima ha saputo storicamente esercitare in proposito: sintomatica, al riguardo, è la reazione che
essa ha innescato al termine della seconda guerra mondiale, quando
quella pretesa, smascherata nei suoi fondamenti ideologici, venne
bruscamente relativizzata e ricondotta alla “ragione” del diritto naturale. In quella occasione, anche l’attività del giudice si fece talvolta carico di un compito diverso (8). In questa prospettiva, allora,
l’analisi della specifica funzione assolta dal diritto giudiziale deve
essere collegata all’assetto storico-giuridico dello Stato e al ruolo riconosciuto entro la sua forma al diritto.
una ontologia delle relazioni” (la citazione è tratta da A. Kaufmann, Filosofia del diritto, teoria del diritto, dogmatica giuridica, in Filosofia del diritto, cit., 223 ss., 247;
v. utilmente anche Id., La «ipsa res iusta». Pensieri per un’ontologia ermeneutica del
diritto, ivi, 95 ss., 102; in questo modo, invero, nonostante dichiari di condividere il
presupposto che sostiene la teoria del circolo ermeneutico, l’A. finisce per allontanarsi
dalle posizioni sulle quali si erano attestati Heidegger e Gadamer.
(8) Cfr. sul punto la giurisprudenza richiamata da K. Engisch, Introduzione
al pensiero giuridico, trad. it., Milano, 1970, 283, che recepì la nota “formula” elaborata da G. Radbruch, Gesetzliche Unrecht und übergesetzliches Recht, in SJZ, 1946, 105
ss., 107; V. inoltre K. Stern, Das Staatsrecht der Bundesrepublik Deutschland, V, Die
geschichtlichen Grundlagen des Deutschen Staatsrechts, München, 2000, 2119 s., ed
ivi ulteriori riferimenti di giurisprudenza; v. anche BVerfGE, 95, 96, 134 s.
355
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 380-424
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/97888548315758
Vincenzo Tondi della Mura
I rischi della competizione regolativa e valoriale fra i diversi
poteri dello Stato (riflessioni a margine del “caso Englaro”)*
Sommario: 1. – Gli interrogativi inevasi: lo Stato di diritto, Aldo Moro ed Eluana Englaro.
2. – Il surplus politico e valoriale della regola giurisdizionale. 3. – Il profilo
regolativo della competizione fra i diversi poteri dello Stato. 3.1. – Segue: la
sostanziale “invincibilità” della regola giurisdizionale. 4. – Il profilo valoriale
della competizione fra i diversi poteri dello Stato. 4.1. – Segue: la regola giurisdizionale fra testo normativo e contesto di riferimento. 4.2. – Segue: l’integrazione “globalizzata” delle lacune fittizie e la decontestualizzazione dei diritti
costituzionali. 5. – Il “caso Englaro”, ovvero: dell’“invincibilità” della regola
“perfetta”. 5.1. – Segue: l’inversione d’orientamento politico-culturale della Suprema Corte. 5.2. – Segue: il parossismo asimmetrico del sistema dei controlli.
1.
Gli interrogativi inevasi: lo Stato di diritto, Aldo Moro ed
Eluana Englaro
Forse proprio per la drammaticità che l’ha caratterizzata, la
vicenda di Eluana Englaro ha reso più stridenti le tensioni politicoistituzionali presenti nel Paese, solitamente assorbite dal dinamismo insito nel circuito costituzionale della divisione e del bilanciamento dei poteri. Eppure, proprio tale sistema è parso faticare a
reggere l’impatto emotivo provocato dal convulso susseguirsi delle
determinazioni giurisprudenziali ed istituzionali, che hanno scandito e determinato l’ultimo periodo di vita della donna. Proprio l’impianto dello Stato di diritto, posto a suprema condizione di garanzia
dei diritti del singolo, è parso inadeguato alla specie ed ingabbiato
da motivazioni di tipo formale; quasi ad eludere quella centralità
della persona umana, indicata dal Costituente quale “pietra d’angolo” dell’intero edificio costituzionale (1).
Di qui, gli interrogativi fondamentali sottesi all’intera
vicenda, riassumibili nelle seguenti drammatiche alternative:
salv(aguard)are il diritto alla vita dell’interdetta, sino ad infrangere
l’avversa regola elaborata nell’occasione (solo) in via giurisdiziona(*) Il presente saggio, con aggiunte e modifiche, è destinato alla pubblicazione negli Scritti in onore di Luigi Arcidiacono.
(1) Così l’efficace immagine offerta da Giorgio La Pira in Assemblea Costituente, seduta dell’11 marzo 1947, in La Costituzione della Repubblica nei lavori
preparatori della Assemblea Costituente, Camera dei Deputati, Roma, 1971, I, 316.
380
Interpretazioni e opinioni
le? Ovvero, salvaguardare la regola giurisdizionale, sino ad infrangere irrimediabilmente il bene della e il diritto alla vita coinvolti, già
diversamente tutelati dal sistema ordinamentale? Per meglio dire:
esporre a rischio di credibilità l’impianto formale dello Stato di diritto, consentendo l’aggiramento della regola giurisdizionale formulata
in senso contrario allo iure condito ed allo iure condendo? Ovvero,
esporre ad estinzione certa la vita della destinataria della suddetta
regola, pur di consentire la vigenza del disposto giurisdizionale?
E così – con tutti i distinguo del caso – è parso nuovamente riecheggiare il terribile interrogativo che squarciò la notte della
“Prima Repubblica” durante i giorni del rapimento di Aldo Moro,
allorché si prospettò l’eventualità di uno scambio fra lo statista ed
alcuni detenuti. Ipotesi che, per un verso, avrebbe consentito la salvezza del prigioniero, così come assicurato dalle Brigate Rosse (anche se non si sa quanto fondatamente); per altro verso, tuttavia,
avrebbe comportato la deroga ai principi dello Stato di diritto, con
una sostanziale perdita di credibilità dello Stato medesimo dagli imprevedibili effetti, attesa l’eccezionalità del momento storico.
Da un punto di vista formale, il percorso che infine ha condotto a far prevalere la regola giurisdizionale sulle diverse opzioni
eccepite ed a legittimare il tragico epilogo in questione, è stato valutato come inesorabile nella propria coerenza e consequenzialità
giuridico-istituzionale: rilevata la (dubbia) esistenza di una lacuna
normativa (la mancata disciplina del c.d. testamento biologico con
riguardo all’ipotesi limite dello stato vegetativo permanente del paziente), la stessa è stata parzialmente colmata in via interpretativa
dalla Cassazione con l’identificazione, invero creativa, di una regola
specifica (l’ammissibilità, alle condizioni indicate, dell’interruzione della nutrizione ed idratazione artificiali del paziente in stato
vegetativo), applicata poi al caso concreto dal giudice competente,
che infine ha autorizzato l’interruzione del trattamento nutrizionale
dell’interdetta, così come richiesto dal padre e tutore della stessa; interruzione poi dimostratasi insuscettibile di ogni avverso tentativo
dirimente, atteso, per l’appunto, un approccio soprattutto formale ai
principi caratterizzanti la divisione dei poteri e lo Stato di diritto.
Da un punto di vista sostanziale, tuttavia, il percorso tratteggiato è parso forzatamente irrigidito nella sequenza unidimensionale delle singole fasi decisionali coinvolte; e ciò, paradossalmente, quasi a dispetto dei principi istituzionali che pure ne avevano
consentito il formale svolgimento.
Il rilievo appare evidente, osservando l’essenzialità assunta nella specie dal fattore temporale: in tanto i diversi giudici aditi
381
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 425-428
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/97888548315759
Discussioni e recensioni
Roberto Borrello
recensione a
The Petition of Right, trad. it., Macerata 2009.
La figura di Edward Coke tra Bonham’s case e the Petition
of Right
È apparsa in libreria una pregevole edizione della Petition of Right
(trad. it. con testo orig. a fronte e con una introduzione di S.Bonfiglio, Macerata 2009, XXXVII-13).
Il ben noto documento costituzionale esce nella collana “Il Monitore
costituzionale” (n.11) diretta da Alessandro Torre, a cui va ascritto il merito
di offrire una collezione di testi costituzionali storicamente collocati, via via
sempre più completa e senza precedenti in Italia (se si eccettuano le ormai risalenti pubblicazioni della Collana di testi e documenti costituzionali,
promossa dal Ministero della costituente nel 1946), i quali testi hanno la
capacità di innescare virtuosi processi mentali di rimeditazione e di rielaborazione presso tutti gli studiosi.
In particolare una pietra angolare dell’evoluzione del costituzionalismo, quale il Petition of Right, è in grado di suscitare una forte suggestione
sul costituzionalista portandolo a riflettere sulle radici stesse delle categorie
fondamentali che egli elabora ed utilizza.
Sotto tale punto di vista, l’introduzione al volumetto fatta da Salvatore Bonfiglio si inscrive perfettamente nello spirito della Collana, cogliendo
i nessi più reconditi della Petition, con i temi chiave del costituzionalismo
moderno, come quello del fondamento dei diritti di libertà tra storia e diritto
naturale e la loro costante tensione dialettica con l’autorità.
Tanti sono gli spunti che la lettura dell’opera suggerisce, ma nella
presente sede mi sembra opportuno limitarmi ad un passaggio del saggio
di Bonfiglio che ha giustamente dato rilievo, tra gli attori che animano la
scena della Petition, a Edward Coke ed al Bonham’s Case del 1610.
Bonfiglio pone in evidenza come, nella logica del tentativo di affermazione da parte degli Stuart dell’assolutismo regio, veniva guardato
con disfavore ogni tentativo di affermare la superiorità del Common Law
sugli Statutes. Questi ultimi, pur nel complesso istituzionale del King in
Parlament, erano da considerare, in quel momento storico, espressione so-
425
Roberto Borrello – La figura di Edward Coke
stanziale ed univoca della volontà regia nell’ambito di una forma di governo
avente i caratteri della monarchia limitata e, pertanto, ogni forma di loro
sindacato o messa in discussione equivaleva ad un indebolimento delle prerogative regie.
La figura di Coke è, sotto tale punto di vista, emblematica e fondamentale, in quanto egli è stato giudice, teorizzatore del fondamento del
Common Law e parlamentare, coredattore del Petition of Right.
Esiste, sotto tale punto di vista, un filo rosso che unisce il Bonham’s
Case con la Petition of Right e seguire questo filo consente in effetti di cogliere in pieno, in tutte le sue implicazioni ed articolazioni, il processo che
ha portato alla contestazione dell’assolutismo degli Stuart, culminato nella
riaffermazione di valori fondanti della comunità politica inglese, sintetizzati nella nozione di ancient constitution.
Come è ben noto, il Bonham’s Case nasce da una controversia riguardante un medico, il Dr. Thomas Bonham, laureato a Cambridge nel
1606 in physic medicine, ma privo di licenza per esercitate l’attività professionale e perseguito, per tale motivo dal London College of Physicians, che
aveva la giurisdizione in quella città per la pratica della medicina. Dopo
essere stato diffidato a non svolgere attività nella città di Londra, Bonham,
che aveva continuato ciononostante ad esercitare, fu arrestato ed imprigionato ad opera dello stesso Ordine professionale.
Il medico sostenne, a sua discolpa, di avere conseguito una regolare
laurea in medicina a Cambridge e di non riconoscere alcun potere al London College of Physicians circa la possibilità di svolgere la sua professione
liberale.
Il caso giunse alla Court of Common Pleas dove il Collegio di Londra
si costituì, sostenendo che il potere di disciplinare l’attività di tutti i medici
londinesi discendeva da uno statute of incorporation, di origine parlamentare che lo legittimava anche ad incassare la metà delle multe comminate per
le trasgressioni connesse a tale disciplina.
Il Chief Justice della Corte era Edward Coke, anch’egli laureato di
Cambridge, il quale dichiarò che i Censori del Collegio di Londra non potevano essere contemporaneamente “judges, ministers and parties” in quanto ciò
era lesivo del principio della imparzialità del giudice. In particolare appariva
estremamente grave la circostanza che quel Collegio fosse chiamato ad accertare violazioni e a sanzionarle con multe, una cui parte finiva nelle sue casse.
La possibilità di rivestire i tre ruoli tra loro incompatibili (“wear all three of
these hats” disse Coke metaforicamente) discendeva dalla previsione, come si
è detto, di uno statute di origine parlamentare. Ed ecco che allora Coke scrisse
il celeberrimo passo della sentenza nel quale osservò che “[I]t appears in our
books, that in many cases, the common law will controul Acts of Parliament,
and sometimes adjudge them to be utterly void: for when an Act of Parliament
is against common right and reason, or repugnant, or impossible to be performed, the common law will controul it, and adjudge such Act to be void”.
Lo statute contrario al complesso dei principi consolidati nel Com-
426
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 429-435
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/978885483157510
Federico Losurdo
recensione a
G. Zagrebelsky, La legge e la sua giustizia, Torino 2008
1.
Premessa
Con La legge e la sua giustizia Gustavo Zagrebelsky perfeziona
quella teoria generale del diritto della quale aveva già fissato le principali
idee guida nella sua precedente opera Il diritto mite (Torino 1992).
Il nuovo libro, che unisce a una serrata analisi giuridica una
coinvolgente cornice narrativa, individua nell’idea della ineliminabile
“duplice natura” del diritto – come “forma” e “sostanza” – l’elemento che
consentirebbe di superare le contrapposte concezioni unilaterali del fenomeno giuridico: il positivismo giuridico e il giusnaturalismo (Analogamente G. Peces Barba, Curso de Derechos fundamentales. Teoria general,
Madrid 1991, trad. it., a cura di L. Mancini, Teoria dei diritti fondamentali, Milano 1993).
Zagrebelsky, invece, si ricollega idealmente a quella corrente
di pensiero che individua una connessione concettuale necessaria tra
il diritto positivo e la sua “pretesa di giustezza” (R. Alexy, Begriff und
Geltung des Rechts, Concetto e validità del diritto, trad. it., a cura di F.
Fiore, Torino 1997) e assume pienamente la celebre formula elaborata
dal filosofo del diritto tedesco Gustav Radbruch, in origine convinto positivista, poi in seguito all’esperienza nazista, tendenzialmente giusnaturalista: “il diritto positivo, assicurato da sanzione e forza, conserva il suo
predominio anche quando materialmente ingiusto e inadeguato, a meno
che il contrasto tra la legge positiva e la giustizia raggiunga una misura
tanto intollerabile che la legge, in quanto diritto ‘iniquo’, debba essere
piegata alla giustizia” (G. Radbruch, Gesetzliches Unrecht und uebergesetzliches Recht, in Id. Rechtsphilosophie, trad. it., Ingiustizia legale e
diritto sovralegale, in Filosofia del diritto, a cura di A.G. Conte et al.,
Milano 2002, 152 ss.).
Sulla base di questa premessa (parte prima del volume – II paragrafo), l’Autore individua un rinnovato e rinforzato ruolo di guida dei principi
costituzionali e dei relativi inerenti valori nell’interpretazione delle regole
legislative (parte seconda del volume – III paragrafo) e tende ad elevare la
giustizia costituzionale a “custode” ultimo ed esclusivo dell’interpretazione
del diritto (parte terza del volume – IV paragrafo), fino a fissare le basi per
un “costituzionalismo universale”, capace di reggere le inedite sfide della
globalizzazione (V paragrafo).
429
Federico Losurdo – La legge e la sua giustizia
2.Il duplice volto del diritto
Zagrebelsky chiarisce immediatamente che cosa debba intendersi
per giustizia in rapporto alla legge (p. 28 ss.) Egli non si riferisce a una
concezione assoluta – filosofica, razionale o naturale – della giustizia che
si trasformerebbe “in uno strumento di lotta, non di civile composizione
delle differenze” nelle attuali società pluraliste e significherebbe “lanciare
parole d’ordine violente che, calando dall’alto, inciterebbero alla ribellione
e, all’estremo, condurrebbero alla guerra civile”. Invece, il discorso di Zagrebelsky si incentra su una nozione relativa di giustizia intesa appunto non
da un “punto di vista esterno” al contesto sociale, ma da “un punto di vista
interno”, cioè “secondo le concezioni vigenti entro la comunità di diritto da
cui la legge trae origine e cui si indirizza” (Il tema è sviluppato anche da G.
Palombella, Dopo la certezza. Il diritto in equilibrio tra giustizia e democrazia, Bari 2006).
Al positivismo giuridico – che pure, diversamente da quanto si è
soliti ritenere, ha una sua idea di giustizia – Zagrebelsky contesta di concepire come un rapporto tra due sfere separate quello tra diritto positivo e giustizia (“il diritto può avere qualsiasi contenuto” sosteneva H. Kelsen, Reine
Rechtslehre, Wien 1960, trad. it., a cura di M. Losano, La dottrina pura del
diritto, Torino 1966, 222). Il “doppio lato del diritto” istituisce, invece, una
“connessione profonda di complementarietà ed essenzialità tra l’esperienza di giustizia e l’esperienza giuridica, in quanto la pretesa di giustizia (o
giustezza) sia considerata un elemento della definizione stessa del diritto”
(p. 33) (Già J. Habermas, Faktizitaet und Geltung, trad. it., Fatti e norme,
Milano 1996, 129 ss., individuava un “rapporto di complementarietà” tra la
“morale autonoma” e il diritto positivo).
Questa ineliminabile dialettica tra legge (lex) e giustizia (ius) assume due moti contrapposti nella storia del diritto. Per un verso essa si
manifesta come lento ma inesorabile assorbimento delle istanze etiche del
diritto nella legge statuita dal potere sovrano. Per altro verso essa si estrinseca in una contraria reazione di “ritorno al diritto”, cioè di riscoperta del
lato sostanziale e materiale dell’esperienza giuridica in contrapposizione
agli abusi e ai soprusi del potere legale.
Il mito dell’Antigone di Sofocle rappresenta agli occhi dell’Autore una
“lezione”, perché inviterebbe a “guardare il diritto da entrambi i lati” (p. 69): il
lato delle istanze di giustizia materiale pre-positive; e il lato della legge disposta per volontà di un potere politico. Due lati non inconciliabili ma integrabili
come dimostrerebbe anche l’esperienza del diritto romano. Questo non era un
diritto meramente legislativo (lex), ma al contrario era un insieme – fuso in
unità dai responsa di giuristi non inquadrati in burocrazia – di mores arcaici,
di interpretazioni sacrali delle Dodici Tavole e di programmi giurisprudenziali
fissati nell’editto pretorio (ius). Un “latente dualismo (…) tra ius civile, custodito e sviluppato da esperti giuristi circondati di prestigio sociale, e lex regolatrice
di ciò che diremmo la dimensione pubblica della vita” (p. 73) (Sulla dialettica
430
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 436-442
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/978885483157511
Simone Gallo
discussione su
G. Radbruch, Lo spirito del diritto inglese, Milano 1962
1.Introduzione: il 0diritto inglese nell’interpretazione di
Radbruch (1)
Esistono opere che, pur senza affrontare direttamente una tematica e senza assumere posizioni apertamente critiche, si consacrano come
autentiche testimonianze di impegno morale e di affermazione ideologica, il
cui messaggio non cessa di stupire nemmeno a decenni di distanza. È ciò che
accade quando si affronta la lettura del saggio “Lo spirito del diritto inglese”
di Gustav Radbruch.
Una considerazione che si arrestasse alla sola analisi preliminare
del titolo di quest’opera non potrebbe certamente cogliere la complessità di
significati che da essa emerge. Lo studio della cultura giuridica anglosassone, infatti, non è che il punto di partenza dal quale l’autore ci guida per
lasciarci addentrare in un contesto di più profonde valutazioni, che spaziano dall’indagine storica a quella filosofica, con il progressivo palesarsi di
una posizione di profonda polemica antipositivistica. Procedendo da questi
presupposti, quindi, risulta necessario interpretare la visione prospettata
da Radbruch inscrivendola in quel preciso spaccato storico che vide la cultura tedesca al centro dei drammatici cambiamenti che segnarono gli inizi
del XX secolo: dalla caduta di Weimar all’affermarsi della politica nazionalsocialista, cui seguirono il secondo conflitto mondiale e gli orrori della
dittatura nazista.
La riscoperta del pensiero giusnaturalista, nel panorama storico
e culturale della Germania del primo dopoguerra, ha il gusto di un cambio di rotta, di una dichiarazione d’intenti, nella volontà di tagliare i ponti
con il passato e prendere le distanze da quella scellerata cultura giuridica,
propugnata dalla politica nazionalsocialista, che aveva piegato il ruolo della giurisprudenza rendendola inerme anche dinanzi al proliferare di leggi
ingiuste.
È in questo quadro che può rilevarsi la volontà dell’autore di aderire a quella corrente di pensiero spesso definita come “neo-giusnaturalismo”
e fondata sulla necessità di addivenire ad un contemperamento tra due separate istanze: l’irrinunciabile esigenza di giustizia materiale e la necessaria positività del diritto.
(1) Per le riflessioni sviluppate in questo articolo, primaria fonte di ispirazione e di riferimento è stata l’analisi elaborata da Alessandro Baratta, curatore
dell’edizione del 1962 de Lo spirito del diritto inglese di Gustav Radbruch ed autore
dell’introduzione all’opera.
436
Discussioni e recensioni
L’analisi del diritto inglese offre al filosofo un concreto sistema giuridico di riferimento nel quale sembra possibile rilevare il superamento della
contrapposizione sussistente tra positività e giustizia, così fortemente opposti e apparentemente inconciliabili nel contesto del diritto continentale. Lo
sguardo che Radbruch rivolge al diritto inglese concentra l’attenzione sulla
delicata tematica legata all’esigenza di poter compiere una valutazione “sovrapositiva” del diritto, per poter prestare ascolto alla domanda di giustizia
che si leva dalla voce del popolo. Ma simili considerazioni appaiono forse maggiormente aderenti allo spirito del diritto inglese proprio in ragione di quel
carattere di autocrititca e di quel senso di responsabilità individuale verso il
contesto pubblico che tanto contraddistinguono la cultura anglosassone e, al
tempo stesso, la separano dall’impostazione continentale.
L’assenza di queste virtù, il progressivo annullamento di ogni
istanza democratica ed il violento soffocamento delle libertà ad opera del
totalitarismo nazionalsocialista avevano stravolto ogni parametro di giustizia, e la Germania cui si rivolgeva Radbruch aveva assistito inerme al
graduale cedimento della forza della giurisprudenza dinanzi ad una legge
intollerabilmente ingiusta, che reclamava obbedienza a tutti i costi nell’ossequiosa osservanza della formula “Gesetz ist Gesetz” (il diritto è diritto) e
che imponeva una cieca sudditanza dinanzi alla norma, indipendentemente
da ogni canone di accettabilità morale.
È in questa prospettiva, nell’inevitabile paragone con la cultura giuridica anglosassone, che si palesa la volontà dell’autore di concentrare la propria attenzione su quel profilo di profonda moralità che contraddistingue la
cultura giuridica inglese, così intrisa di considerazioni etiche delle quali tanto
si è avvertita l’assenza nel panorama giuridico tedesco del periodo bellico.
Il dialogo sul diritto inglese può allora considerarsi come un mero pretesto,
un’occasione per partire dall’osservazione di un sistema giuridico, e ancor più
di una cultura giuridica, per sollevare un confronto e formulare una critica
che, prendendo ispirazione dai caratteri positivi dello spirito del diritto anglosassone, metta in luce il profondo divario che separa una cultura, fondata
sulla consapevolezza di dover necessariamente interpretare le istanze etiche
che si levano dal popolo per darne concreta attuazione nel contesto giuridico,
da un’altra, soggiogata alle regole di una fredda autorità che richiede solo
prona obbedienza alla legge, abbandonando ogni istanza morale.
Radbruch sosteneva la possibilità di distinguere i giuristi inglesi in
due grandi categorie, separando coloro che aderivano ad una impostazione
per la quale si prediligeva la dimensione della ragione e della natura, da
coloro che credevano nell’autorità, così riproponendo la tradizionale bipartizione tra giusnaturalismo e giuspositivismo che da sempre divide il panorama filosofico.
Una simile riflessione trova ampi riscontri in una tradizione
giuridica come quella che contraddistingue il Common law, così particolarmente influenzata dai principi del giusnaturalismo da considerare
questa dottrina non tanto “come un criterio superiore di valutazione del
437
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 443-456
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/978885483157512
Massimo Mancini
discussione su
Regole e procedure: la teoria dell’argomentazione giuridica
di Robert Alexy
La Teoria dell’argomentazione giuridica (1978) di Robert Alexy costituisce uno speciale contributo della filosofia analitica alla teoria del ragionamento giuridico, avanzando una proposta certamente analitica, ma anche
non positivista, che defnisca i confini del discorso giuridico, interessando in
special modo la struttura dell’argomentazione nelle decisioni giudiziarie.
L’individuazione di cosa sia razionale, ma soprattutto di cosa non
possa rientrare in una tale definizione, costituisce quindi il primo degli
obiettivi che la teoria di Alexy si prefigge. L'autore intende fornire un criterio di individuazione che possa soddisfare le esigenze del ragionamento e
della decisione giuridica (in primo luogo quella giudiziaria) (1).
La proposta di Alexy si limita però solo al controllo della razionalità nel momento dialettico del confronto tra le argomentazioni, guardandosi dall’affrontare la razionalità delle decisioni che se ne possano trarre,
poiché il superamento di una tale soglia “condurrebbe ad un cambiamento
fondamentale della teoria del discorso. Essa passerebbe ad essere da teoria dell’argomentazione a teoria della decisione. Come tale essa non rivestirebbe più alcun ruolo come teoria della giustificazione degli enunciati
morali” (2).
La razionalità cui si riferisce l’autore può essere identificata con la
ragion pratica di Kant, per quanto concerne il discorso pratico, alla quale
(1) L’esigenza di razionalità che Alexy intende soddisfare prende le mosse
da una sentenza della Corte costituzionale tedesca del 14 gennaio 1973, “sulla interpretazione evolutiva ed integrativa del diritto”, il cui contenuto dispone che il giudice
debba fondare su di una argomentazione razionale la propria decisione; sentenza che,
si può affermarlo senza difficoltà, sancisce una esigenza comune ad ogni ordinamento
giuridico. R. Alexy, Prefazione a Teoria dell’argomentazione giuridica (Theorie der juristichen Argumentation. Die Teorie des rationalen Diskurses als Theorie der juristichen Begründung, Frankfurt am Main 1978), a cura di M. La Torre, Milano 1998, 3.
(2) R. Alexy, Postfazione alla seconda edizione del 1991: risposta ad alcune
critiche, in Teoria dell’argomentazione giuridica, cit., 250. D’altronde, la tesi avanzata
dall’autore ben si accorda con le esigenze specifiche del ragionamento giuridico, che affronta soprattutto verità probabili, piuttosto che certe: “L’impossibilità di raggiungere
la certezza non può perciò essere ritenuto un motivo sufficiente per disconoscere alla
giurisprudenza la natura di scienza o il carattere proprio di un’attività razionale. Non
è la produzione di certezza, ma il soddisfacimento di una serie di condizioni, di criteri,
o di regole, a determinare il carattere razionale della giurisprudenza (…). Nel loro complesso esse possono essere considerate come un’esplicazione del concetto di argomentazione giuridica razionale” (R. Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica, cit., 230).
443
Massimo Mancini – La teoria dell’argomentazione giuridica di Robert Alexy
si associano le esigenze della specifica razionalità giuridica, come nel caso
della “dogmatica”.
Anche il metodo seguito per definire quale argomentazione sia razionale e quale non lo sia si fonda sul principio kantiano dell’individuazione
dialettica di proposizioni ingannevoli (vale a dire i “paralogismi”, del lessico
aristotelico (3), riproposto da Kant) (4) e, una volta scoperte, della prevenzione del loro verificarsi attraverso la statuizione di criteri.
Le teorie del discorso pratico della filosofia del linguaggio vengono
esaminate da Alexy con attenzione: lo scopo che il filosofo si propone dichiaratamente è quello di formulare una teoria procedurale del discorso giuridico inteso come caso particolare del discorso pratico, definendo la propria
proposta proprio come “tesi del caso particolare” (Sonderfallthese).
Il significato dell’espressione “procedurale” viene chiarito dallo
stesso autore nella sua Postfazione del 1991: “La teoria del discorso è una
teoria procedurale. In base ad essa una norma è corretta solo allorché può
essere il risultato della procedura definita dalle regole del discorso” (5).
Per delineare la sua teoria dell’argomentazione giuridica, Alexy
procede ad un’attenta analisi delle dottrine filosofiche, in special modo della filosofia tedesca, spaziando dal pensiero aristotelico alla filosofia del linguaggio di Ludwig Wittgenstein, comprendendo i più recenti sviluppi della filosofia giuridica e di teorie critiche della società e della comunicazione
come quelle di Jürgen Habermas (6) o del costruttivismo esposto nelle opere
di Paul Lorenzen (7) e Oswald Schwemmer.
L’esame delle singole posizioni filosofiche condotto da Alexy tende
tanto ad evidenziare aporie ed aperte critiche delle opere degli autori analizzati, quanto ad estrarre e coordinare gli aspetti ritenuti validi dalle loro
teorie, nel generoso intento di delineare una struttura regolamentare, uno
schema applicabile al discorso ed alle argomentazioni giuridiche.
La natura del discorso giuridico, secondo Alexy, è contrattuale, fon(3) Aristotele, Organon, Topici I (A), 1, 100b e 101a, trad. it., a cura di G.
Colli, in Opere, Bari 1990, II, 4.
(4) I. Kant, Kritik der reinen Vernunft, Riga 1781, Critica della ragion pura, trad.
it., a cura di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, rev. di V. Mathieu, Bari 1996, 237-238.
e 256.
(5) R. Alexy, Postfazione a Teoria dell’argomentazione giuridica, cit., 245
(6) Tra le opere di Habermas alle quali Alexy è particolarmente attento si
segnalano i saggi (1967-1976) tradotti da G. Bonazzi e M. Baluschi e raccolti in Agire
comunicativo e logica delle scienze sociali, Bologna 1980; Legitimationsprobleme im
Spätkapitalismus, Frankfurt Suhrkamp 1973, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, trad. it., a cura di G. Backhaus, Bari 1976.
(7) Konstruktive Wissenschaftstheorie, Frankfurt am Mein, Suhrkamp 1974;
Methodischen Denken, Frankfurt am Mein, Suhrkamp 1968, e, insieme a Schwemmer,
Konstructive Logik, Ethik und Wissenschaftstheorie, Mannheim 1973.
444
Discussioni e recensioni
data sull’accordo tra i parlanti (8) che stabiliscono le regole della comunicazione, come nel discorso pratico generale o in qualsiasi altro caso di discorso
o comunicazione verbale.
Il discorso pratico, quale elemento centrale della comunicazione,
viene identificato come campo privilegiato per disciplinare il rapporto giuridico tra soggetti, esaminandone l’orizzonte dialettico.
Il nodo principale che l’autore si propone di sciogliere, attraverso
la sua teoria procedurale, è l’individuazione di criteri metodologici applicabili a qualsiasi discorso, che riescano a distinguere la razionalità delle
relative argomentazioni, superando il richiamo formale (altrimenti vago e
indefinibile) alla razionalità stessa, inevitabile nel ragionamento giuridico,
segnatamente nell’attività di interpretazione del giudice (9).
La questione che Alexy si pone nella sua Teoria dell’argomentazione giuridica non concerne però la razionalità dell’intero ordinamento giuridico, ma solo la razionalità del discorso giuridico, delle argomentazioni e, di
conseguenza, delle decisioni prese, nell’ambito di un qualsiasi ordinamento
giuridico positivo; l’autore non considera trascurabile la questione della razionalità dell’intero ordinamento, semplicemente si propone un campo di
ricerca più ristretto (10).
Elementi centrali del discorso giuridico sono, per Alexy, la pretesa di
correttezza (11), che costituisce il punto di saldatura tra diritto e morale, e il
principio di universalizzabilità: essi costituiscono il nucleo della tesi dell’incorporazione di diritto e morale (Verbindugthese) che l’autore sostiene anche
nel 1992, in Begriff und Geltung des Rechts (12). La pretesa di correttezza è il
nodo da cui si sviluppa la posizione non positivista dell’autore, introducendo
la possibilità di una verifica non solo formale del discorso giuridico.
Da un lato la correttezza comporta l’osservanza formale di un ordinamento vigente (13), dall’altro si eleva al di sopra di ogni particolare diritto
positivo (14).
(8) R. Alexy, Teoria dell’argomentazione giuridica, cit., 225 e 226.
(9) Ivi, 3. L’autore si riferisce in special modo alla citata decisione della
Corte costituzionale federale tedesca sull’interpretazione giudiziale, ma il rinvio alla
razionalità o ragionevolezza può ben esser definito una costante in ogni ordinamento
giuridico, ineliminabile dall’applicazione di qualsiasi diritto positivo.
(10) Ivi, 227.
(11) Correttezza intesa come Richtigkeit, che Alexy tiene a distinguere da
Gerechtigkeit (giustizia), con l’esplicita intenzione di sottolineare come quest’ultima
espressione possa essere foriera di minacciose aporie ed evidentemente in contrasto
con il sostegno ad una teoria fondata su regole meramente procedurali del discorso.
(12) Concetto e validità del diritto, trad. it., a cura di F. Fiore, Torino 1997.
(13) R. Alexy, op. cit., 170-172 e 175.
(14) R. Alexy, Postfazione a Teoria dell’argomentazione giuridica, cit., 260.
445
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 457-480
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/978885483157513
Letteratura e diritto
Antonello Ciervo
La classe operaia non va in paradiso. Le trasformazioni del
mercato del lavoro tra diritto e letteratura
Sommario: 1. Letteratura e dogmatica giuridica. – 2. Memoriale ovvero dell’esterno. – 3.
Nascita del lavoratore “quartario”. – 4. Catena di smontaggio. – 5. Sentieri
interrotti.
“Dove va? Chi lo sa: si ricorda appena di
dove è venuto!”
J.W. Von Goethe
1.
Letteratura e dogmatica giuridica
In un suo importante lavoro sulla nascita dei sistemi penali nel
continente europeo, Italo Mereu, autorevole storico del diritto italiano, affrontando il problema dell’incapacità della classe dirigente del nostro Paese
di svecchiare le categorie dogmatiche del diritto attraverso riforme politiche
strutturali e di lungo periodo, aveva modo di scrivere quanto segue: “Le
riforme italiane sono ‘nominali’, sono stati chiamati con nomi nuovi, istituti
vecchi: l’eretico è diventato il deviante, i fedeli le masse, il procuratore fiscale il pubblico ministero, delatori pentiti, abiura l’autocritica, gli inquisitori
inquirenti (...), la carcerazione preventiva la si è battezzata custodia cautelare. (...) Per evitare situazioni imbarazzanti, anche a livello internazionale,
sarebbe sufficiente il senso del ridicolo: il legislatore repubblicano ha abolito
la legge per i sordomuti sostituendoli con i ‘sordi preverbali’, ha promosso i
becchini a ‘operatori cimiteriali’, gli spazzini prima a ‘operatori ecologici’ poi
a ‘pulizieri’, gli infermieri a ‘paramedici’, i ciechi a ‘privi di vista’” (1).
Si può dire che, a distanza di anni, questa situazione non sia cambiata affatto e che, anzi, sembra essersi ulteriormente aggravata. Basta leggere il testo normativo di quella che, secondo l’attuale classe dirigente del
(1) Cfr. I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa, Milano 1979
-2000, 363.
457
Antonello Ciervo – La classe operaia non va in paradiso
nostro Paese è la più importante riforma politica e sociale dell’ultimo decennio, quella cioè del mercato del lavoro, realizzata con la c. d. “Legge Biagi”.
Senza entrare nel merito di una normativa così ampia e complessa,
ciò che colpisce il lettore di questa norma è proprio quel fenomeno descritto
da Mereu: la spiccata capacità del legislatore italiano di impiegare parole
nuove che soltanto all’apparenza danno il senso di un cambiamento celebrato, per giunta, come epocale.
Questo metodo normativo, che sembra quasi ispirato ai romanzi del
Tomasi di Lampedusa, trova proprio nella “Legge Biagi” uno dei suoi esiti
più alti (e, ci sia consentito di dire, anche grotteschi), nel momento in cui il
legislatore formula la definizione di “lavoratore”.
Ed infatti ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera j del Decreto legislativo n. 276 del 10 settembre 2003 (“Attuazione delle deleghe in materia di
occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003 n. 30”), si
scopre che per il legislatore repubblicano lavoratore è “(…) qualsiasi persona
che lavora o è in cerca di un lavoro”.
La definizione lascia, a ben pensare, abbastanza perplessi visto che,
se le parole hanno ancora un significato proprio, come vorrebbe l’articolo 12
delle Preleggi, chi è in cerca di lavoro certamente non può essere definito lavoratore, semmai sarà un disoccupato oppure, rectius, un ex-lavoratore in cerca
di nuova occupazione. Evidentemente ci sarà una qualche differenza, anche ai
sensi di legge, tra un operaio che entra in fabbrica alle sette di mattina ed un
ex-operaio, in cerca di lavoro, che alla stessa ora invece di appostarsi ai cancelli
di Mirafiori, rimane a dormire, in attesa che la moglie gli porti la prima colazione a letto.
Tuttavia il formalismo astratto del legislatore permette, grazie ad
una avventata definizione normativa, di mandare al macero una mole enorme di scaffali di biblioteche giuridiche, oltre che di vocabolari della lingua
italiana. Le conseguenze del concettualismo normativo non tardano a manifestarsi e ad incidere sulla realtà, per lo meno quella dei numeri: secondo
l’Istat, infatti, il tasso di disoccupazione nel nostro Paese è sceso, nel corso
del 2006, al 6,8%, rispetto al 7,7% del 2005. Questo dato è il più basso dal
1993, da quando cioè esistono dati confrontabili.
Più precisamente, nel corso del quarto trimestre del 2006, il numero degli occupati in Italia risulta essere pari a 23.018.000 unità, con una
crescita media annua dell’1,5% (+ 333.000 unità, di cui 191.000 circa sono
lavoratori a tempo determinato e 90.000 sono stranieri a tempo indeterminato) (2).
Ciò che però qui interessa è sicuramente andare oltre il freddo dato
statistico e la (discutibile) definizione normativa di lavoratore, per comprendere meglio le concrete e reali mutazioni di un mercato del lavoro che appare, almeno agli occhi di chi scrive, sempre più flessibile. Sebbene questo
nuovo concetto, la “flessibilità”, sembra ormai fagocitare ogni nuova tipolo(2) I dati sono consultabili sul sito dell’istat, all’url www.istat.it.
458
Letteratura e diritto
gia di contratto lavorativo (3), lo scopo di questo scritto è proprio quello di
riempire di contenuto questo involucro vuoto.
Sarà necessario allora porsi sul piano più concreto dell’esperienza
giuridica (4) per cogliere meglio gli effettivi mutamenti sociali e giuridici
del mercato del lavoro. Per questo motivo, ci serviremo, nel corso di questo
scritto, della lettura di ampi brani di opere letterarie, convinti come siamo
che “(…) la letteratura non serve per mettere a disposizione nuovi concetti o
per distogliere l’attenzione dai percorsi argomentativi della giurisprudenza,
ma solo per arricchire la conoscenza del mondo e dei fenomeni sociali, delle
responsabilità connesse al ruolo del giurista e per richiamare l’attenzione
sull’esigenza di conoscere i rapporti umani” (5).
In effetti, le trasformazioni del mercato del lavoro, soprattutto in
Italia, spingono il giurista a compiere un’analisi complessa di questo fenomeno, un’analisi in cui non possono certamente avallarsi costruzioni
superficiali.
È per questo motivo che riteniamo di dover ricorrere allo studio dei
testi letterari, non solo perché la letteratura porta a formulare interrogativi, anche radicali, sul significato delle esperienze umane, ma perché “(…)
essa prospetta giudizi meno ispirati al metro del conformismo e dell’utilitarismo di quanto si possa immaginare restando al livello di studio di soli
testi normativi” (6).
Del resto, questo nuovo approccio che ci viene indicato al fine di
studiare i mutamenti normativi, risulta, alla prova dei fatti, saldamente
ancorato alla concreta esperienza giuridica e spinge lo studioso a mettere da
parte, anche solo per un attimo, il c.d. “diritto dei dogmi” (7).
(3) Si veda al riguardo il bel saggio di R. Sennett, L’uomo flessibile. Le conseguenze del nuovo capitalismo sulla vita personale, Milano 1999, in particolare il
capitolo III, Flessibilità, 45-62.
(4) Si veda, per tutti, G. Capograssi, Il problema della scienza del diritto,
Milano 1962, 32 ss.; ma si veda anche, sempre dello stesso autore, Id., Studi sull’esperienza giuridica, Roma 1932, 19 ss.; cfr. inoltre E. Opocher, voce Esperienza giuridica, in Enc. Dir., XV, Milano 1966, in particolare 744, dove l’A. così scrive: “La nozione
di esperienza giuridica appare, dunque, dal punto di vista della sua genesi come una
nozione puramente problematica verso la quale convergono tanto sul piano speculativo quanto sul piano giuridico, una serie di prospettive legate tra loro solo dalla
comune esigenza di cogliere il fenomeno giuridico nel suo concreto movimento”.
(5) Così A.A. Cervati, Educazione giuridica e studio della letteratura, in Ritorno al diritto. I valori della convivenza, 4/2006, 23.
(6) Ivi, 26.
(7) “Il diritto dei dogmi tende a rimuovere e a disfarsi del complesso di passioni ed interessi che popolano la vita umana: questa, quando diventa oggetto di attenzione da parte del giurista – il che avviene costantemente, poiché è della vita di
esseri umani che il diritto si occupa – deve essere tradotta in concetti, racchiusa in un
sistema coerente che spiega il reale, che ne dà una versione che, sola, è considerata
459
Teoria del diritto e dello Stato
2009 n. 2-3 / pag. 481-502
ISSN 1721-8098-90002
ISBN 978-88-548-3157-5
DOI 10.4399/978885483157514
Sandro de Nobile
Il senso del Potere. Ipotesi di lettura di “Un re in ascolto” di
Italo Calvino
La pagina della scrittura calviniana che si situa tra gli anni ’60 e
la metà degli anni ’70 è forse quella che, più di ogni altra, risente e manifesta di un progressivo distacco dell’autore dai temi della politica e della
società.
Uscito dal P.C.I. a ruota dei fatti d’Ungheria, Italo Calvino, cresciuto, come uomo e come intellettuale, all’interno del partito, si ritrova
sradicato e privo di riferimenti politici, prima ancora che di bandiere delle
quali non ha mai avuto bisogno.
E se politica, in questi anni, vuol dire anche, in qualche modo, etica
e morale, e quindi segno di una precisa posizione dell’uomo di fronte al e nel
mondo, allora siamo in grado di capire come questo sradicamento possa far
sentire le sue conseguenze anche all’interno dell’universo letterario calviniano, che in questi anni sembra astrarsi sempre di più dal contesto reale,
perseguendo le strade della fantascienza (Ti con zero, Le Cosmicomiche),
come pure quelle del gioco combinatorio (La taverna dei destini incrociati, Il
castello dei destini incrociati).
Rispetto alla realtà che circonda l’autore sanremese palesa sentimenti sempre più pessimistici, tant’è vero che neanche la congerie di rinnovamento delle idee che si mette in moto nel ’68 riesce a riportarlo ad
un contatto più diretto con una politica che pure, in questi anni, torna ad
affascinare tanto le masse quanto le elites intellettuali.
Questo latente pessimismo calviniano, che pare urlare dai silenzi dello scrittore in merito agli sconvolgimenti sociali degli anni ’60, viene
tuttavia decisamente messo in secondo piano da Calvino nel decennio successivo, quando i tragici eventi che si susseguono paiono risvegliare in lui
la necessità di misurarsi, sul filo tra storia e letteratura, anche riguardo le
tematiche dell’attualità e della politica.
Il terrorismo, l’inasprirsi dello scontro politico nelle piazze, le stragi, il precipitare della situazione internazionale, più in generale il clima di
violenza che viene ad instaurarsi in Italia e nel mondo negli anni ’70, spingono l’autore sanremese, evidentemente sempre conscio del ruolo dell’intellettuale nella storia, a tornare a fare i conti col contesto che lo circonda.
Da qui le sue collaborazioni a “Il Corriere della Sera” (1975-1979)
ed a “La Repubblica” (1979-1982), con articoli che spaziano dalla strettissima attualità all’apologo; da qui la natura anche latamente politica di un
libro per altri versi centrato su ben diversi presupposti come Se una notte
d’inverno un viaggiatore; da qui, più in generale, la ripresa di un confronto
più serrato tra lo scrittore e l’attualità, confronto che, partendo dalla nuda
481
Sandro de Nobile – Il senso del Potere
cronaca e da un commento, ora non più intimo, ma affidato alle colonne dei
giornali, finisce con lo sconfinare anche nel terreno della letteratura.
Il mondo che Calvino si trova ad affrontare in questi anni è un mondo nel quale egli ha difficoltà a trovare una precisa collocazione, nella misura in cui esso si è discostato da quell’insieme di valori che, oltre ad innervare
il “midollo del leone” calviniano, costituiscono, in fondo, la testata d’angolo
della società italiana come si è andata costruendo dopo la Resistenza, dal
razionalismo alla solidarietà, dalla libertà alla giustizia sociale.
Tutti questi valori, che sono (o forse sarebbe più corretto dire “dovrebbero essere”…) fondamento della società italiana, e quindi anche del
vivere associato in tutte le sue forme, sino alle istituzioni, che dovrebbero
farsene paladine e sostenitrici, nell’Italia degli anni ’70-’80 sembrano essere
in una fase di profonda crisi, schiacciati dal peso di una violenza che si fa
sempre più pervasiva, alimentata com’è da una tendenza estremistica incessantemente montante nella società italiana: “(…) il mondo sta andando
come tutti sappiamo, ed è naturale che molti, cominciando a rendersi conto
della necessità di farlo cambiare, sentano più facilmente l’appello di formulazioni estremiste (…)” (1).
La tendenza verso l’estremismo è dunque, in qualche maniera, giustificata, a detta di Calvino, dall’andamento delle politica mondiale, che non
lascerebbe altro spazio alla prospettiva di trasformazione radicale della società se non quello dato dalla distruzione violenta di ogni ordinamento.
Ancor più giustificato appare tale estremismo in Italia, dove, a detta dello scrittore, lo Stato ha addosso tante e tali colpe nei confronti dei
cittadini e delle loro libertà da apparire alla stregua di un moloch che si
può solamente abbattere: “Ma la serie di fatti mortiferi e misteriosi che dal
1969 cerca di condizionare emotivamente la vita italiana ha aspetti molto
più gravi che le gesta tradizionali di sicari fascisti ed agenti provocatori, e
sono le ombre che prendono forma tra le quinte dei servizi di polizia e della
magistratura. Direi che di estremismo si può parlare finché esiste una logica di mezzi e di fini, ma sfuggono a qualsiasi logica gli organi dello Stato
non sottoposti a controllo, dove più si combinano disastri più si fa carriera,
grazie alle coperture e alle omertà che si creano: e questo è il problema politico numero uno, in guerra e in pace, negli stati capitalisti e pre-capitalisti
e post-capitalisti di tutto il mondo” (2).
Calvino, in questi anni, dalle colonne dei giornali, affronta ripetutamente i temi accennati nel brano su citato, e li svolge in maniera schietta e decisa, rimarcando a più riprese il ruolo svolto, nella strategia della
tensione in atto in Italia, dallo stragismo di Stato (del quale all’epoca si
avevano prove tutt’altro che certe), dall’immobilismo della magistratura,
(1) I. Calvino, L’estremismo, in Nuovi Argomenti, nuova serie, 31/gennaiofebbraio 1973, poi in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, Torino 1980,
ora in Saggi. 1945-1985, a cura di M. Barenghi, Milano 1995, I, 315.
(2) Ivi, 317.
482
Letteratura e diritto
dalla violenza repressiva delle forze di polizia, sottolineando sovente, d’altro
canto, quanto la conservazione del potere da parte della D.C. dovesse a tale
stato di cose, costruito ad arte.
Posizioni, dunque, queste del Calvino degli anni ’70, spregiudicatissime, e tutt’altro che tenere nei confronti di uno stato democratico macchiatosi dei più orrendi crimini, ed in questo complice del clima di violenza
generale.
Un clima che in qualche maniera spiega, se non giustifica, l’uso
della violenza fatto proprio da una certa parte dell’universo di sinistra
italiano.
Certo Calvino non sposa tesi terroristiche od eversive, ponendosi
anche in netto contrasto rispetto alle posizioni di chi, come ad esempio Montale (3), giustifica, appellandosi all’umanità, il rifiuto di diversi cittadini di
svolgere il ruolo di giudici popolari nei processi contro i terroristi.
Per Calvino (4), contrariamente a quanto ritenuto e dichiarato dal
poeta di Ossi di seppia, la paura manifestata da questi cittadini non fa che
alimentare ulteriormente altra paura, in una spirale che, se perpetuata,
non lascerebbe margini di salvezza agli italiani.
Inoltre lo scrittore sanremese è ben conscio di come la violenza,
mentre per la destra è parte costituente della sua ideologia, per la sinistra
rappresenta in fondo la contraddizione fondamentale, pericolosamente in
bilico sul sottile confine tra esigenza di liberazione e rispetto del principio di
libertà, tra rivoluzione e dittatura del proletariato: “Quanto alla fine della
violenza, la fondazione d’un potere statale autoritario ripropone nel tempo
la violenza a tutti i livelli. Per la destra questa è una conferma della propria
visione del mondo; per la sinistra è la contraddizione fondamentale, il problema dei problemi, ancora tutto da risolvere” (5).
È significativo, comunque, che, a cavallo degli anni ’70, se deve pensare, in termini letterari, ad una qualche forma di governo utopico, Calvino
lo faccia proprio ponendo come base costituzionale il principio della violenza, rendendolo, paradossalmente, fondamento della democrazia.
È il caso, questo, dell’abbozzo di romanzo La decapitazione dei capi
(6), pubblicato dall’autore su “Il Caffé” nel 1969 e preceduto da una nota
che recita: “Le pagine che seguono sono abbozzi di capitoli d’un libro che da
tempo vado progettando, e che vorrebbe proporre un nuovo modello di socie-
(3) E. Montale, La sconfitta dello Stato, dice Montale, viene da lontano (intervista di Giulio Nascimbeni), in Il Corriere della Sera, 5 maggio 1977, 1.
1977, 1.
(4) I. Calvino, Al di là della paura, in Il Corriere della Sera, 11 maggio
(5) Id., L’estremismo, cit., 321.
(6) Id., La decapitazione dei capi, in Il Caffé, a. XIV, 4/agosto 1969, ora in
Romanzi e racconti, III, a cura di M. Barenghi, B. Falcetto, Milano 1991, 242-256.
483
Abstracts
Annibale S., The juridical status of the Holy See from the 1890 until
now. International affairs: interference or not?
153
The Porta Pia breach on September 20, 1870, followed by the annexation of Rome to the Kingdom of Italy, raised the question related to the
status, in international law, of the Holy See deprived, as it has been
since then, of normal territorial sovereignty. Because of the debellatio (violence practiced by a foreign State on another State) the extinction of the State, usually, produces it. Despite the extinction of the
Pontifical State (or Papal State), the Holy See, and in some cases the
Pope, continued after 1870 to engage in diplomatic relations, as well as
the Holy See entered into international agreements and concordats.
Some questions: could there be a State without a territory? What
legal character in respect to international law could be attributed
to diplomatic relationships still maintained by the Holy See (and by
the papacy) with a number of States?
With the realization of the Treaty signed on February 11, 1929, between the Holy See and Italy, it was recognized the State of Vatican
City and the authority of the Holy See in the field of international
relations as an attribute that pertains to the very nature of the Holy
See, in conformity with its traditions and with the requirements of
its spiritual mission in the world.
Nevertheless, the transitory border between the spiritual function
and the possible incidence on the political (of States) choices, raised
discussions or reactions about the interference (or not) of the Holy
See/Catholic Church in internal or external affairs of other States
(domestic jurisdiction).
Arcidiacono L., Legislative discretion and Constitutional Court’s
case law in three recent sentences
215
The constitutional Court uses to elude the limits imposed by Law
n. 87/1953 (and its constitutional basis contained in Art. 70 of
Constitution), that foist the Court not to proceed with political eval-
503
Abstracts
uations or judging legislative discretion. Art. 28 seems to be really
easy to elude, if the question of constitutional legitimacy is decided
from the Court demonstrating that legislator’s (lawful but objectionable) choices violate a constitutional rule.
This way of proceeding brings two risks: (1) the introduction of a component, in the relationship between Parliament and Government,
that is outside of the Italian form of State and form of Government;
(2) the Court can became a decider between majority and opposition. Considering that Constitutional Court uses to judge legislative
discretion, seems to be admissible the existence of a consitutional
resposability of the same Court.
The descripted way of proceeding of Italian Constitutional Court
can be osserved in three recent decisions (sentence n. 15/2008; order
n. 334/2008, sentence n. 151/2009).
Lombardi G., Constitutionalism and constitutionalisms of Europe:
common basis and differential aspects
247
The work is focused on the meanings and characteristics of both concepts of constitution and constitutionalism, as they are developed in
England, United States and in the continent (under the influence
of the French experience). After this historical and comparative approach, the author considers that most of the experiences of the last
century have as common characteristic the judicial review of legislation and the juridical guarantee of the rigidity of the Constitution.
The profiles outcropped provide the background necessary for the
analysis of the actual context, in which is observable the transformation of the social state, that is related with the transformation
of the concept and the function of the space. From this elements, in
fact, originate the problem of new criteria of organization and new
instruments of guarantee.
Mangiameli S., Selfdetermination: a costitutional right?
258
The Constitution has to able to adapt itself to every historical change
and to new demands of protection. That’s why it’s always necessary
to create new constitutional protected situations. In Italy that happened interpreting the catalog of constitutional rights as “opened”,
thanks to Art. 2 of Italian Constitution with its recall to inviolable
rights. This kind of interpretation is also in strict relation with the
504
Abstracts
concept of “selfdetermination”. For example, according to some authors, Art. 32, Par. 2, of Italian Constitution can be considered as an
expression of the right of “selfdetermination”, because the refuse of
medical treatments and the choise of let themselves dying could be
considered as a way to protect human dignity. However, this theory
cannot be accepted, because the Italian Constitution is based on the
dignity of the person as a “status” that characterizes the citizen and
that can also bring to restrictions of the individual demands. So, in
the Italian constitutional system, cannot find any place the individualistic point of views, that could allow people to violate against
themselves the principle of respect of human person.
Ruggeri A., Constitutional values and principles of the integrated
States of European Union
292
Work starts from distinction between values and principles, the
former belonging to the pre-legal world, the latter on the contrary
to the legal one, in which they represent the most immediate and
authentic expressive form of the others. It wonders, therefore, if it
is possible to speak about values and principles of transition referring to E.U., since this is a growingly integrated legal order, then
observing that values of today can only be values of tomorrow, while
there could be a (although partial) difference at the level of principles (especially, organization ones). It is pointed out, besides, the
importance of values in the recognition of principles itself and in
their general characterization; ant it is noted moreover that innovations in principles do not necessarily produce a transformation in
values, as it is commonly thought, being able to have the converse,
ie an increased appreciation of the values.
Work wonders, therefore, if the further progress of the supra-national integration process could add new values in the same constitutional order, or if the values represent necessarily a fixed number,
on which depends the legal order identity.
With special reference to the art. 4 of the Treaty of Lisbon, where
is mentioned national identity distinct from the identity of E.U.,
we try to evaluate whether diversification of these identities can
be found only in the level of principles or in that of values and we
have come to the conclusion that motto “Union is united in diversity” means unity of values and diversity of principles: nevertheless
the Union is obliged to deal with the unresolved issue of democratic
deficit. Then, we try to evaluate – but the following is an arduous
505
Abstracts
task both in theory and in practice – how to “measure” both unity
and diversity, particularly in the field of protection of fundamental
rights, where it is required the availability of each national legal
system to be influenced by the other one, excluding any prejudicials
resistances, in order to reach an optimal safeguard of rights. Infact,
considering the hard question about the existence of limits to european integration, we underline that the effect of european law can
suffer no limits (“Controlimiti” as they are usually called) a priori
in national legal order; conflicts among rules of the two legal systems must be solved using the logic of balancing, in according with
cases and values: this balancing cannot authorize the supremacy of
a single constitutional identity, either european or national, for all
these identities are equally salvagarded, being obliged to occasional
compressions, but being able to expand and realize themselves in
different circumstances.
Castorina E., Bioethics conceptions and constitutional principles:
the problem of “end-of-life choice”
331
In this period in Italy is taking place, also with a high interest of the
media, the debate about the creation of an ipotetic legal discipline of
the subject “end-of-life choice”.
The Essay deals with the main themes related to the right to life in
its connections to the right to health care and sanitary assistance
and, also, to the individual freedom of self-determination (freedom
considered as an explication of the faculty of every human being to
dispose of his own body). All of that in the context of the principles of
the Italian Constitution, which protect the plurality of ethical conceptions present in the pluralist democracies.
According to the Author’s vision, the key of interpretation of the
question is based on the necessary balance between the freedom of
self-determination and the right to health care and sanitary assistance: none of these principles can be considered as predominant in
an absoluty way since the Italian Constitution recognizes the collective dimension of the right to health care as not only an individual
right, but also a collectivity right (art. 32, paragraf 1 of the Italian
Constitution).
The physician is the “referee” who decides about the balance between the individual freedom of self-determination and the right to
health care and sanitary assistance.
506
Abstracts
Di Salvatore E., Judges and RichtRecht in the evolution of the State
form
353
The essay want to examine the role played by the “Richterrecht” in
the German constitutional experience. This phrase express literally
the production of law by the judge, that is usually indicated with the
principle “judge made law”. In the light of the different political and
historical functions of the legal order in the several forms of State,
the author shows that in the German experience the Richterrecht
appeared with very divergent and peculiar content.
Tondi Della Mura V., The risks of the institutional competition about
the set of rules and values among different poker of the State (some
reflection on the Englaro case)
380
“Englaro case” has been characterized by an unnatural rivalry
among different powers, that are called for various reasons to fill the
normative gap related to the case at issue; this has created a sort of
new institutional competition about human values and their juridical characterization and about the set of principles, in which these
values are relevant for the rules to the detriment of the traditional
order of the division of powers and the State law. This competition,
finally, has turned to juridical norm advantage (in particular the
2007 norm of Corte di Cassazione , I Sez. Civ., n. 21748) and not to
the parliamentary norm (and also incidentally governmental one)
because of the political, institutional and valued surplus that is historically recognized to the first one.
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