FORTE, F. Grandezza e attualità di Joseph A. Schumpeter. In: SCHUMPETER, J.
A. Capitalismo, socialismo e democrazia. 5a Ed. Milano: Riletture, 2009. p VIIXL.
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Introduzione
GRANDEZZA E ATTUALITÀ DI JOSEPH A. SCHUMPETER
Di Francesco Forte[Nota *]
1. Capitalismo, socialismo e democrazia, di Joseph Alois Schumpeter, non è stato
scritto per lo specialista, ma per il lettore generale. Quindi, più di altri testi di
questo autore - grande economista, ma anche sociologo e storico dei fatti e del
pensiero politico e sociale -, è di lettura agevole per i non addetti ai lavori. Esso, in
gran parte, si basa su studi precedenti, a volte molto complessi, che in quest'opera vengono semplificati, per far parte di un grande affresco di carattere
generale. Sia per queste caratteristiche, sia a causa dell'insistenza su alcune
poche grandi tesi di fondo, suscettibili di rigogliosi sviluppi a livello di principi e
nelle istituzioni, questa è un'opera di grande rilievo.
La sua lettura, a me pare, è quasi obbligatoria, per chiunque voglia affrontare i
problemi contemporanei del capitalismo e delle grandi imprese high tech, della
democrazia e della giustizia sociale. Qualcuno si stupirà del fatto che possa essere
considerata attuale, per i problemi che si presentano nel XXI secolo, un'opera che tratta
del capitalismo industriale, pubblicata in prima edizione nel 1942. Anche tenuto conto
del fatto che il capitolo finale fu scritto il 30 dicembre 1949, alla vigilia della morte
improvvisa dell'autore, è passato un mezzo secolo dalla sua edizione finale. Si può dire,
però, che questo libro è più attuale ora che non, ad
Nota * - Página VII
*Francesco Forte (1929) ha iniziato la carriera accademica nel 1951, all'Università di
Pavia; nel 1961 è stato chiamato da Luigi Einaudi a succedergli nella cattedra di
Scienza delle finanze all'Università di Torino. Dal 1985 è ordinario nella Facoltà di
Economia dell'Università La Sapienza di Roma. È stato visiting professor alla Brookings
Institution di Washington e in altre università americane e inglesi. Negli anni '70 dopo
essere stato vicepresidente dell'ENI, ha ricoperto importanti incarichi politici, come
ministro delle Finanze e delle Politiche Comunitarie e poi come presidente della
Commissione Finanze e Tesoro del Senato. Tornato dal 1994 all'attività accademica, è
stato visiting professor presso il Fondo Monetario Internazionale. È autore di moltissime
pubblicazioni e di una trentina di libri di carattere scientifico, in edizioni italiane e
internazionali.
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esempio, vent'anni fa, perché al cuore della teoria dello sviluppo capitalistico di
Schumpeter, assieme alla figura dell'imprenditore innovatore, vi è il progresso
tecnologico, che genera e alimenta la crescita delle grandi imprese e le loro posizioni di
monopolio temporaneo: con ciò esse fanno i grandi profitti che le ripagano dei costi
sostenuti per le innovazioni e premiano il loro successo.
È un processo di "distruzione creatrice", perché il nuovo soppianta il preesistente. E,
sin che permane questo ritmo, c'è da attendersi che le creazioni che hanno generato
posizioni di monopolio siano soppiantate da altre innovazioni. È per l'appunto quel che
è accaduto, nell'ultimo decennio del secolo XX, negli Stati Uniti e, in parte, in Giappone
e in Europa. Il capitalismo high tech di Schumpeter è sotto i nostri occhi ora, con
caratteristiche specifiche che egli allora non poteva immaginare, ma con i tre connotati
fondamentali, che lui reputava gli dessero grosse capacità dinamiche: la leadership
dell'imprenditore innovatore, il progresso tecnologico endogeno alle imprese, le grandi
imprese: che subiscono la concorrenza non necessariamente a opera di altre, già
presenti sul mercato, ma soprattutto per il fatto che quest'ultimo è aperto e libero e che
ci sono istituzioni bancarie e finanziarie che consentono di far crescere i nuovi sfidanti.
Quest'opera, pertanto, ci serve per capire il dualismo che si riscontra nelle economie
dei Paesi avanzati. Da un lato, gli Stati Uniti che nel decennio '90 sono stati
estremamente dinamici e si trovano all'avanguardia tecnologica e non conoscono
un'elevata disoccupazione, neanche nel periodo di rallentamento economico iniziato
alla fine del 2000. Dall'altro, il Giappone e l'Europa: il primo stagnante, la seconda che
non riesce a fare da locomotiva mondiale, come, per un decennio, è accaduto per gli
USA. Il prodotto lordo europeo non riesce a crescere con un ritmo paragonabile a quello
degli Stati Uniti e la disoccupazione stenta a scendere sotto il 10% della forza lavoro:
nonostante la creazione del mercato unico e dell'Unione Monetaria, che si pensava
dovesse generare nuovi impulsi all'economia. Ha a che fare questo con i fattori di
disturbo allo sviluppo capitalistico considerati da Schumpeter?
La risposta è "sì". Ciò che scrive Schumpeter chiarisce il confronto fra il modello
americano attuale, che corrisponde da vicino a quello che lui considerava essere il
capitalismo dinamico e i modelli semistazionari europei continentali, in cui il capitalismo
si combina con pesanti regolamentazioni e con una massiccia fiscalità, cioè con quello
che lui etichetta (e critica) come "capitalismo controllato" o anche come "capitalismo
laburista"
La Parte II di questo libro, in cui tutto ciò è trattato, però, reca
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un titolo disturbante che sembra più un "De profundis" che un "Gloria" allo sviluppo
capitalistico: "Può il capitalismo sopravvivere?". Non dobbiamo essere tratti in inganno
da questa provocazione schumpeteriana. La domanda serve per porre in luce i pericoli
sul sentiero del capitalismo maturo. Ci aiuterà a capire che il ritardo del capitalismo in
Europa si collega, in buona misura, alle regole e alle istituzioni dell'Unione Europea e al
dirigismo perdurante negli Stati membri. Ad esempio, nel dissenso fra il permissivismo
dell'antitrust degli Stati Uniti e l'interventismo della Commissione Europea di Bruxelles,
con riguardo al controllo delle operazioni societarie che danno luogo a grandi
concentrazioni economiche ad alto contenuto tecnologico che possono ottenere una
posizione dominante sul mercato, la risposta di Schumpeter è nettamente a favore della
linea permissiva. Ciò perché, ai fini dello sviluppo economico globale, servono i giganti
industriali dotati di un potere monopolistico, ottenuto con le innovazioni. Essi sanno che
decadranno se non fanno altre innovazioni: ma hanno i laboratori per progettarle, la
capacità di raccolta dei mezzi per finanziarle, la dimensione produttiva e di mercato per
realizzarle con successo. I prezzi di monopolio che questi complessi ottengono sono il
premio per le innovazioni effettuate e l'incentivo e la base per le nuove. Anche se essi
hanno una posizione dominante, operando in un'economia aperta e libera, sono
comunque esposti alla concorrenza potenziale innovativa, che la potrà scalzare. Se le
sequenze di Schumpeter sono corrette, le politiche adatte per avere più capitalismo
genereranno progresso tecnologico, una crescita maggiore, con più reddito pro capite e
una più estesa occupazione.
2. Dicevo che nel grande affresco di questo libro vi sono alcune idee centrali, che lo
rendono particolarmente vivo, ai fini di elaborazioni teoriche e di riflessioni sulle scelte
istituzionali. La prima e più importante - svolta soprattutto nella Parte II - l'abbiamo
appena citata: riguarda il modello di sviluppo del capitalismo basato sul trinomio grande
impresa monopolistica-progresso tecnologico-imprenditore innovatore. Una seconda,
che intendiamo considerare ora, riguarda non il sistema economico, ma quello politico.
Si tratta del ruolo del leader nel regime democratico.
L'idea fa da filo conduttore alla Parte IV che tratta delle istituzioni appropriate di
governo democratico e ha un titolo troppo riduttivo: "Socialismo e democrazia". La cosa
meno felice di quest'opera sono i titoli di "Parti"e "Capitoli". Non aiutano il lettore a
capire di che cosa l'autore vi abbia trattato. La Parte IV si occupa,
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in larga e non secondaria misura, delle istituzioni democratiche nei sistemi capitalistici.
Quanto al termine "socialismo" da parte di Schumpeter, va chiarito che, secondo l'uso
degli economisti austriaci suoi maestri (che si è poi consolidato negli USA), esso
designa il collettivismo. Ciò nonostante il fatto che in Austria i socialisti si fossero
sempre comportati da socialdemocratici non desiderosi di rivoluzione e lui fosse stato,
nel 1919, ministro di un governo socialista, in coalizione con il "centro" dei popolari, in
un regime non certo collettivista. Il capitolo finale della Parte IV prospetta, in modo
cautamente positivo, la possibilità che in un sistema economico collettivistico sussista
un regime democratico, in una delle formule possibili.
Il confronto fra le diverse formule della democrazia rappresentativa, però, è sviscerato
nei precedenti capitoli per i regimi capitalistici. L'idea centrale che domina la scena è
quella che la vera democrazia rappresentativa consista nella scelta di leader fra loro in
competizione, ai quali il corpo elettorale affida la delega ai programmi concreti. La
democrazia schumpeteriana basata sulla concorrenza fra leader anziché fra partiti
programmatici, per quanto presentata con una supersemplificazione, colpisce per il suo
realismo e risulta di grande attualità. Qui, come in vari altri casi, Schumpeter rompe
tabù tradizionali. Nega la tesi per cui i politici nel regime democratico possano farsi
portatori fedeli di preferenze e volontà specifiche riscontrati a priori presso gli elettori.
Non crede che questi abbiano idee dettagliate sulla cosa pubblica perché essa è troppo
complicata e lontana dalla loro esperienza quotidiana. Soprattutto, il nostro autore
sostiene, per altro senza addurre dati o altri riscontri empirici, che la gente dedica ai
temi della politica assai meno attenzione di quella che dà alle proprie scelte
economiche nella vita quotidiana. Da ciò consegue che, per consentire ai cittadini di
effettuare scelte democratiche efficaci sul governo della cosa pubblica, conviene fare
riferimento al potere di delega a un leader. Occorre, quindi, dar vita a istituzioni che
consentano agli elettori di concentrarsi sulla scelta dei leader politici. Questi
presenteranno i propri programmi elettorali in modo necessariamente vago. Quando,
grazie al consenso popolare, siano giunti al potere, avranno il compito di fare quelle
scelte concrete, su cui ex post gli elettori potranno dare un giudizio. Ai cittadini spetterà
giudicare se i leader che hanno eletto li soddisfano e, pertanto, reiterare loro la fiducia o
licenziarli, assegnando il potere ad altri leader.
Emerge, così, con una certa semplificazione, ma in modo molto interessante, un
parallelismo fra il ruolo dell'imprenditore innova-
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tore nell'economia di mercato capitalistica e quello del leader politico democratico. Si
noti che per Schumpeter anche il cittadino come consumatore, più attento ai suoi
interessi, che non il cittadino-elettore, non ha a priori un'idea di ciò che esattamente
preferisce: sono le imprese, operanti sul mercato, che - con le loro innovazioni e le loro
offerte concrete di beni, da esse creati e serviti - fanno emergere le preferenze
individuali. A fortiori, sono i leader politici che plasmano i bisogni pubblici dei cittadini e
non viceversa. Il parallelo fra i vantaggi dell'accentramento del potere in politica e in
economia si fa, così, calzante. In economia, già lo si è visto, per Schumpeter sono da
preferirsi le istituzioni che favoriscono le grandi imprese, anche se monopolistiche,
purché il mercato sia aperto e le istituzioni del capitalismo favoriscano la concorrenza
come innovazione. In politica sono da preferirsi istituzioni democratiche imperniate sul
ruolo dell'accentramento del potere politico in un capo, tanto a livello nazionale, che a
livello di governo locale, purché si stabilisca la concorrenza fra leader. Il politico
vincente, in una democrazia rappresentativa ben funzionante, secondo questo modello,
è molto simile al leader imprenditoriale innovatore che domina il mercato nazionale o
locale, e che in un'economia libera e dinamica, è sempre soggetto alla sfida dei
concorrenti potenziali.
Così, il potere della grande impresa e del capo politico che assicurano l'efficienza del
sistema non devono destare eccessive preoccupazioni. Questi poteri reggono solo sino
a quando con essi si riescono a soddisfare le aspettative dei cittadini meglio che con
quelli di altri, che si apprestano a scalzarli, nel processo di "distruzione creatrice".
Ovviamente, occorre che, in analogia a quelle economiche del capitalismo libero e
dinamico, le istituzioni politiche siano organizzate per consentire la competizione fra i
leader e il ricambio al vertice.
3. Tutto ciò si addice, in primo luogo, ai Paesi capitalistici, per i quali la democrazia
politica appare a Schumpeter un connotato ovvio. Ma egli pone anche la questione se il
socialismo collettivista e la democrazia rappresentativa possano coesistere e di quale
democrazia sia idonea a tale modello. La risposta per l'autore è identica, a fortiori, a
quella data per il capitalismo maturo: in una società complessa, occorre che il regime
democratico, per ben funzionare, sia basato sulla scelta dei leader politici, non dei programmi, per i vari aspetti dell'attività pubblica, su cui i cittadini non possono avere che
idee vaghe. L'avvicendamento fra coalizioPágina XII
ni politiche che si caratterizzano essenzialmente mediante la persona del leader può
dare luogo, anche nel modello socialista, a una concorrenza dinamica (cioè nel tempo)
simile a quella che ha luogo, nel sistema capitalistico maturo, con riguardo alla concorrenza dinamica, fra grandi gruppi monopolistici.
In questo ragionamento sulla compatibilità fra socialismo e democrazia si cela una
trappola. Concentrando le scelte democratiche elettorali solo sulla scelta dei leader, a
livello centrale e locale, non vi è bisogno di porre in discussione il potere del partito
unico, che è coessenziale al modello collettivistico. La lotta fra partiti e fra ideologie, in
tale sistema, non può sussistere. Così nel modello "socialista" collettivista delineato da
Schumpeter la democrazia, in quanto si risolve nella delega da parte degli elettori ai
leader della gestione della cosa pubblica, non comporta nessuna discussione sulle
istituzioni, assunte come un dato, ma solo sulle persone chiamate a gestirle, che
potranno attuare diverse politiche, solo nei ristretti margini consentiti dalle regole
compatibili con il sistema.
Il modello di democrazia che ne esce, benché molto superiore al regime autocratico e
repressivo, che di fatto si è affermato nei sistemi collettivisti reali, è molto più limitato di
quello di democrazia basata sulla scelta dei leader, fra loro in competizione, che
Schumpeter teorizza per il modello capitalistico. Basta pensare alle conseguenze
dell'elezione di diversi leader nelle democrazie inglese e americana, che si basano sul
potere del capo del governo e, rispettivamente, del presidente della repubblica.
Margaret Thatcher ha segnato una svolta enorme nel modello di sviluppo del
capitalismo e della società britannica, sulla base di deleghe degli elettori ad attuare
questo programma, diventate, con i consensi via via espressi, sempre più esplicite. Il
sistema di New Deal, che è stato per decenni il modello americano, fu creato dalla
leadership di Franklin D. Roosevelt e dei suoi successori con il consenso degli elettori.
Ronald Reagan ha modificato profondamente tale modello e ne è sortito un lungo ciclo
di sviluppo capitalistico e un sistema americano con caratteri molto diversi da quelli
precedenti e da quelli dell'Europa continentale.
La scelta dei leader, in regime democratico, nei modelli di mercato capitalistici,
insomma, ha effetti di portata ben più ampia di quelli immaginabili nel sistema socialista
collettivista schumpeteriano, che del resto, come si vedrà fra poco, è per sua natura
alieno al cambiamento e perciò statico. La politica in esso è, come l'economia, ridotta a
pura amministrazione.
La tesi di Schumpeter relativa alla compatibilità del modello del
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leader, per i sistemi socialisti collettivisti, appare ardita. Non è mai accaduto, nelle pur
ampie esperienze di collettivismo del XX secolo, che uno di tali regimi riuscisse ad
avere effettivi istituti di democrazia rappresentativa, senza che i tentativi fossero
repressi o che venisse a crollare il collettivismo, sotto la spinta delle nuove istituzioni.
Schumpeter non sembra aver considerato che l'adozione di forme di democrazia
rappresentativa si oppone alla logica della tenuta del potere, in un regime di economia
collettivizzata. Gli estesi diritti di informazione e di libera discussione da parte dei
cittadini sull'economia di Stato, in tali regimi, non possono essere consentiti, come non
può essere consentito un ampio diritto di sciopero, perché il dissenso li potrebbe
minare. E chi ha il suo posto di lavoro e la sua casa dallo Stato, difficilmente può
dissentire dai governanti, senza grave rischio. Lalternanza al potere rimane una
questione interna agli apparati che lo detengono. E, comunque, l'idea di Schumpeter
che i politici elettivi , ove fossero dotati di potere dal consenso popolare, non vorrebbero
mettere le mani sulle scelte dei piani economici, che lascerebbero ai pianificatori e ai
manager, in sede tecnica, non convince. Probabilmente la democrazia genererebbe
eccessi distributivi populistici. Anche per questo, le burocrazie politiche ed economiche
al potere sarebbero concordi con i capi politici nel non ammetterla.
Ma questi ragionamenti hanno per noi soltanto valore accademico. Pochi sono i
sistemi collettivisti rimasti in piedi. Nessuno in economie di capitalismo maturo.
Nessuno è democratico. Il più rilevante, quello della Cina, riguarda un'economia che sta
entrando, a ritmo celere, nello sviluppo capitalistico aprendosi gradualmente
all'economia di mercato, per attuare ambiziosi obiettivi di crescita. Ma mentre Pechino
ammette crescenti elementi di mercato, le forme di democrazia sono scarsamente
permesse, anche nelle grandi aree costiere in cui è stato consentito un capitalismo
ruggente.
Ma le riflessioni di Schumpeter sui rapporti fra istituzioni democratiche e socialismo
per un'economia industriale avanzata ci interessano, con riguardo ai modelli di
socialismo democratico con estese regolamentazioni, attualmente diffusi nell'Europa,
che è in fase di capitalismo maturo o semimaturo. Con riguardo a questi modelli, di
"capitalismo controllato" ovvero di "capitalismo laburista" in cui viviamo, la tesi di
Schumpeter circa la democrazia basata sulle scelte dei leader appare molto rilevante.
La grande complessità delle istituzioni e dei problemi, di un tale tipo di sistema, sembra
generare una scarsa compatibilità fra un'efficace democrazia rappresentativa di tipo
parlamentare e un'economia efficiente. L’economia richiede decisioni rapide e coerenti;
solo la guida di un
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leader, che ha l'autorevolezza del mandato popolare ricevuto personalmente, può darvi
luogo. Gli operatori economici, in presenza di uno Stato dotato di molti poteri, per
decidersi a investimenti impegnativi e a sviluppi ambiziosi, hanno bisogno di in quadro
di riferimento certo. Il leader politico diventa così il punto di riferimento necessario. Non
è detto che il capitalismo maturo, con un'economia di intervento ampia, sia in grado di
generare sviluppo sostenuto. Schumpeter, come vedremo, lo nega per il capitalismo
avanzato. Ma il regime di democrazia basato sulla scelta del leader appare il più adatto
per favorirlo. Esso, inoltre, contando sulle sue capacità innovative e sul suo potere, può
consentire quelle vaste riforme dell'economia, favorevoli al mercato, che possono dar
vita a un capitalismo più dinamico.
La tesi di Schumpeter su socialismo e democrazia, ove applicata ai nostri "capitalismi
controllati", va in direzione contraria a una opinione largamente corrente fra i nostri
progressisti, quella che si debba dare la preferenza a un regime democratico su base
parlamentare in quanto suscettibile di maggior aderenza alle istanze popolari.
Seguendo il filo del ragionamento schumpeteriano, le chances di buon funzionamento
del regime a base parlamentare sembrano maggiori nel caso di un sistema economico
con un piccolo ruolo dello Stato, come anche nel caso di governi decentrati leggeri, che
hanno compiti limitati in settori di cui i cittadini hanno esperienza diretta.
Vi è comunque, come in altri casi, una certa forzatura nella tesi schumpeteriana.
Punta tutto sul leader politico anziché sui programmi, quindi sulla delega a una persona,
che ha certi principi e orientamenti, ma non portatrice di specifici progetti. Al contrario, il
leader democratico si può distinguere proprio per il tipo di progetti che esprime e
propone agli elettori. E la delega degli elettori allora non è "in bianco" ma per un
"contratto incompleto". Lo stesso accade nella scelta, da parte degli azionisti, dei capi
delle grandi imprese e nel loro avvicendamento. Schumpeter, certo, scrivendo agli
albori della seconda parte del XX secolo non poteva prevedere il successivo, enorme
sviluppo della società dell'informazione, che consente la diffusione dei programmi e il
colloquio fra elettori ed eletti, mediante la rete informatica.
4. Vi è una terza idea centrale di questo libro, non meno rilevante delle altre due, che lo
rende molto attuale: il fatto che il marxismo - come teoria economica e come sociologia
- sia pieno di errori non implica che esso non sia un credo capace di esercitare
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un grande fascino nella critica al modello capitalistico; e la speranza di un modello
alternativo socialistico può avere una funzione politica quasi religiosa. Dalla lettura delle
circa cinquanta brillantissime pagine, non tutte critiche, relative al marxismo, di cui
consiste la Parte I del libro, risulta chiaro perché il marxismo, più che mai ora,
nell'epoca della globalizzazione, possa essere la sorgente del pensiero alternativo a
quello che accetta il mondo capitalistico. Con la guida sapiente e tutto sommato
simpatetica di Schumpeter noi possiamo, poi, avere le risposte da dare a questo
pensiero alternativo.
Egli ci dimostra che la teoria del valore-lavoro di Marx è errata, che il valore dei beni
dipende anche dalle risorse naturali che vi entrano e dal capitale impiegato nella
produzione. Questo non consiste solo di lavoro in esso accumulato, ma anche di risorse
naturali, tempo occorrente per ottenerlo, conoscenze tecnologiche, energie
organizzative e capacità innovative. Il "plusvalore" di Marx, che egli fa derivare dallo
sfruttamento degli operai, generalmente è in realtà un profitto e un extraprofitto
aggiuntivo conseguiti dagli imprenditori, grazie alloro impegno e alla loro capacità. Il
salario, in effetti, contrariamente alla tesi di Marx, non tende al minimo di sussistenza,
perché, con il successo capitalistico, le retribuzioni si sono elevate di continuo. Il tasso
di profitto non ha mostrato una tendenza sistematica ineluttabile a cadere, dovuta alla
scarsità crescente di risorse naturali e alla impossibilità di "sfruttare" il lavoro oltre un
certo limite. Con le iniziative imprenditoriali - finanziate dal risparmio raccolto dalle
banche - si è sviluppato il progresso tecnologico e, con il diffondersi del benessere e
dell'istruzione, la qualità del lavoro è migliorata di continuo e così il suo rendimento.
Non è vero, aggiunge Schumpeter, che la lotta di classe caratterizza lo sviluppo
economico nazionale e internazionale. La collaborazione nelle imprese è molto più
importante e frequente del conflitto sociale, che compare solo di tanto in tanto. Non si
spiegherebbe diversamente lo sviluppo delle imprese, sino a quelle di grandissime
dimensioni. Ma unita strettamente a questa critica, emerge l'idea che Marx come
profeta è ben vivo e che, nonostante vi si possano trovare parecchi errori, sui temi
singoli, il suo quadro d'assieme rimane sufficientemente attraente per molti avversari
del capitalismo nel suo più alto sviluppo. Infatti, ci dice Schumpeter, la teoria marxista
offre spiegazioni di ogni cosa che accade "in termini di lotta di classe, di tentativi di
esercitare lo sfruttamento e di rivolte degli sfruttati, di accumulazione e mutamenti
quantitativi nella struttura del capitale, di variazione nel tasso di plusvalore e nel saggio
di profitto".
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Questa sua capacità apparente e appagante di spiegare il mondo in termini economici
- attribuendo tutti i mali al capitalismo mondiale - esercita un fascino enorme
"soprattutto nei giovani e in quegli abitanti intellettuali del nostro mondo giornalistico, ai
quali gli dei sembrano avere regalato un'eterna giovinezza. Impazienti di recitare la
propria parte, ansiosi di salvare il mondo da questa o quella cosa, disgustati di libri di
testo incredibilmente noiosi, intellettualmente e sentimentalmente delusi, incapaci di
operare per forza propria una sintesi, essi trovano in Marx il loro sogno fatto realtà.
Ecco, la chiave a tutti i più riposti segreti, la bacchetta magica che dirige i fatti grandi e
piccoli! Eccolo, uno schema di spiegazione che è, nello stesso tempo - se ci si consente
di scivolare per un attimo nell'hegelismo -, straordinariamente generale e
straordinariamente concreto."
Non si potrebbe rappresentare in modo più efficace ciò che, sia pure spesso
confusamente, motiva l'assieme dei movimenti di contestazione e degli intellettuali di
brevi letture che, attualmente, agli inizi del XXI secolo, si agitano contro il capitalismo
della globalizzazione, con il supporto di religiosi, cui non basta il credo ultraterreno. Va
sottolineato ancora che queste pagine su Marx e il marxismo non sono scritte in modo
astioso. Al contrario, nonostante la critica pressante, che ci rinfresca sulle ragioni per
cui gli anti-capitalisti sono in errore, circola in questi capitoli una corrente di simpatia e
anche di ammirazione per Marx: che ha contribuito non poco a rendere Schumpeter
popolare negli ambienti degli intellettuali marxisti o marxisteggianti. E che, comunque,
riesce gradita al lettore che non ama il manicheismo culturale.
5. Secondo la profezia di Marx, dal crollo inevitabile del capitalismo sorgerà
necessariamente il socialismo. Schumpeter contesta questa tesi. Per lui il declino del
capitalismo, una volta giunto alla sua piena maturazione, come vedremo meglio fra
poco, è un fatto inevitabile, date certe condizioni, che esso stesso tende a far emergere.
Ma non ne consegue affatto che al capitalismo segua il socialismo. "Il sistema
capitalistico o qualunque altro ordine di cose può sfasciarsi - ovvero l'evoluzione
economico-sociale può uscire dal suo quadro - senza che la fenice socialista riesca a
levarsi dalle sue ceneri. Può esserci il caos e, a meno di definire socialismo ogni
alternativa non caotica al capitalismo, possono presentarsi eventualità diverse."
Schumpeter aggiunge che il modello del socialismo di Marx, defiPágina XVII
nito come cessazione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, era molto vago e che gli
appare assai più plausibile la previsione della fine del capitalismo formulata
dall'economista Gustav Schmoller - consigliere privato e membro della camera alta
prussiana, "non certo un rivoluzionario" -, il quale reputava che ci sarebbe stato "uno
sviluppo nel senso di una progressiva burocratizzazione, nazionalizzazione e via
discorrendo, con sbocco finale in un socialismo di Stato". Dunque, il passaggio a
un'economia collettivista socialistica dal punto di vista distributivo, non è un processo
automatico del postcapitalismo. "In nessun caso l'ordine socialista si realizzerà
automaticamente: quand'anche l'evoluzione capitalistica fornisse tutte le condizioni a
esso necessarie nel modo più marxista che si possa immaginare, un'azione distinta
rimarrebbe sempre necessaria per tradurlo in atto."
L'esame delle condizioni per la transizione al socialismo Schumpeter lo svolge nella
Parte III del libro, intitolata "Può funzionare il socialismo?". Egli, in ogni caso, sostiene
che condizione necessaria per il funzionamento di un "ordine socialista" è la
preesistenza di un capitalismo "trustificato", in cui vi sia un'elevata concentrazione della
produzione, della finanza e anche del commercio in poche grandi imprese. Sarebbe
stata viceversa innaturale e votata a esiti disastrosi la transizione al socialismo di
un'economia poco capitalistica o di capitalismo ancora caratterizzato dal prevalere delle
piccole e medie imprese. In essa non si sarebbe potuta attuare in modo efficiente la
pianificazione centralizzata della produzione. E data la difficoltà di conciliare il
socialismo con la crescita economica, per la mancanza degli imprenditori innovatori,
motivati e finanziati dal profitto capitalistico, tale sistema avrebbe avuto seri problemi.
Dunque, con la teoria di Schumpeter dello sviluppo economico, non regge la tesi degli
anti-globalizzatori che ritengono che i Paesi in via di sviluppo debbano respingere le
istituzioni di libero mercato favorevoli al capitalismo e debbano, invece, adottare
elementi crescenti di socialismo. Da questo punto di vista il modello che la Repubblica
del Sud Africa, con la leadership di Nelson Mandela e dei suoi seguaci, sta
proponendo, per lo sviluppo endogeno africano, non appare dei migliori.
La critica di Schumpeter trova conferma anche nel fallimento del socialismo cubano e
di quello nord coreano e spiega perché la Cina, dopo Mao, facendo retromarcia rispetto
al collettivismo, stia ora avendo quegli alti tassi di crescita economica che, con i vari
piani poliennali, basati sul principio del "balzo in avanti", aveva cercato inutilmente di
conseguire. Forse, invece, è un po' sforzata la tesi
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schumpeteriana per cui i difetti del sistema collettivista sovietico fossero
essenzialmente da addebitarsi al fatto che si era voluto forzare un grande Stato
semifeudale nello sviluppo capitalistico. È difficile concordare sull'affermazione che "le
crudeltà verso singoli individui e verso interi gruppi sono largamente imputabili all'immaturità della situazione, alle circostanze del Paese e alla qualità del suo personale
direttivo. In altre situazioni, in altri stadi di sviluppo, con un personale diverso, non
saranno necessarie, e tanto meglio se si dimostrerà inutile applicare sanzioni di sorta."
A giustificazione di Schumpeter, però, va detto che quando egli scriveva queste
pagine non erano ancora conosciuti gli orrori dello stalinismo. E l'URSS usciva vittoriosa
dalla durissima guerra contro la Germania, dando prova anche di solidità della sua
struttura economica e sociale. Così Schumpeter poteva scrivere un'altra frase, che
suscita in noi delle perplessità. "Il punto interessante è che almeno un regime socialista
sia riuscito a stimolare la disciplina di gruppo e a imporre una disciplina autoritaria.
Così, anche a prescindere dai meriti e demeriti del piano, il confronto con il capitalismo
controllato non si conclude a sfavore dell'alternativa socialista".
A qualche anno di distanza, nel 1946, nel capitolo aggiuntivo, egli scriveva che "in
realtà il regime staliniano è essenzialmente un'autocrazia militaristica che, governando
per mezzo di un partito unico e rigidamente disciplinato e non ammettendo libertà di
stampa, condivide con il fascismo una delle sue caratteristiche distintive e sfrutta le
masse nel senso marxista della parola sfruttare". Schumpeter non afferma affatto che il
ragionamento teorico autorizzasse a ritenere certo il buon funzionamento di un modello
socialista succeduto a un capitalismo maturo. Egli, riguardo al ragionamento teorico, è
altrettanto circostanziato che per quel che concerne il giudizio finale sull'URSS, come
forma di socialismo. E ciò dovrebbe essere tenuto presente da chi ha preteso di
ricavare da questo suo libro affermazioni certe sull'attuabilità di un modello di sviluppo
socialista-collettivista. Egli scrive che "si è parlato solo di possibilità. Molte ipotesi sono
necessarie per trasformare queste possibilità in certezze e anche solo in probabilità
pratiche". Per conseguenza, il disastroso esito dei regimi collettivisti - non solo
nell'Unione Sovietica ma anche nella Germania Orientale, che aveva un capitalismo
abbastanza maturo prima di cadere sotto la dominazione comunista, assieme agli Stati
dell'Est europeo, che allora Schumpeter non poteva ancora osservare - non smentisce
quanto è scritto in queste pagine.
Tali esperienze negative servono però a circoscrivere ulteriormente quella "possibilità
di buon funzionamento" che egli aveva
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enunciata in modo così circospetto. Forse questi sistemi non hanno retto al confronto
con la nuova ondata di sviluppo neocapitalistico in Occidente, Giappone e Sud Est
Asiatico. Forse, se il capitalismo controllato con interventismo pubblico che abbiamo
avuto in Europa e, per molti anni, negli Stati Uniti, dal dopoguerra in poi, non fosse
riuscito a progredire in modo da generare il "neocapitalismo", smentendo la scarsa
fiducia di Schumpeter nel riformismo di stampo laburista (o di New Deal), non vi
sarebbe stato quel crollo. I regimi collettivisti avrebbero potuto proseguire con i loro grigi
risultati, secondo la profezia di Schumpeter, con riguardo al socialismo possibile,
secondo cui "molto più insidioso e probabile è un insuccesso meno completo [Nota 1]
che gli psicotecnici della politica riescono a gabellare per successo".
Come si capisce da questi riferimenti, è frutto di un malinteso (e forse di una
propaganda interessata) la vulgata per cui Schumpeter sarebbe da annoverare fra i
liberisti intelligenti che ammettono che il capitalismo è certamente transitorio e che il
socialismo, come collettivismo razionalmente concepito e gestito, è il modello inevitabile
nonché desiderabile nell'avvenire delle economie avanzate perché riesce a sbrogliare
quegli intricati problemi economici e di democrazia rappresentativa che, con il sistema
di mercato, non si riescono più a risolvere. Questa interpretazione di ciò che dice
Schumpeter in questo libro è fuorviante. Innanzitutto, occorre sottolineare che la tesi per
cui il capitalismo non durerà, egli la enuncia solo in rapporto al perdurare di certe
tendenze, che egli ritiene siano da combattere e per le quali suggerisce modi per
combatterle. Inoltre, come si è visto, lo sbocco di ciò può anche essere un'economia
burocratizzata, ampiamente statalista, non interamente collettivista e non
necessariamente egualitaria, secondo la previsione di Gustav Schmoller.
Il passaggio al socialismo, d'altra parte, nella concezione schumpeteriana, coincide
con l'arresto delle capacità di sviluppo del sistema economico capitalistico. Ed egli non
ritiene che ciò sia un fenomeno positivo, neppure per un'economia avanzata, in quanto
dimostra che lo sviluppo capitalistico non implica uno sfruttamento dei lavoratori e tanto
meno un loro immiserimento. Al contrario, essi ne sono i principali beneficiari con
l'espansione del moderno consumo di massa che eleva i tenori di vita. E non reputa che
esista una fase di saturazione dei bisogni in cui la crescita economica diventi priva di
valore. Dunque, la tendenza al socialismo - che egli preconizza come possibile - per lui
non è un "sole dell'avvenire", ma un rispettabile crepuscolo di lunga durata. Infine, vi è il
grosso rischio di un socialismo claudicante il cui
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insuccesso "non completo" verrebbe gabellato dalla propaganda come un successo.
Non è per altro vero che il DNA di Schumpeter fosse quello di un ortodosso liberista
"conservatore". Vedremo fra poco che la sua formazione e la sua forma mentis sono
assai più complesse. Si è già detto che era stato membro di un governo
socialdemocratico, il primo dell'Austria. E anche la sua critica al marxismo tradisce la
sua simpatia per esso, come filosofia della storia.
Le prospettive che più ci interessano, circa il futuro del capitalismo, in queste pagine
schumpeteriane, comunque non sono quelle del "vero socialismo", che rimane come un
vago modello utile per fornire agli anticapitalisti un riferimento ideale, ma quelle del
capitalismo controllato, contro cui lui, ex ministro socialdemocratico, amico di Otto
Bauer, lancia veementi filippiche, specialmente nei due capitoli finali. Questi sono
contenuti - per un errore dell'editore americano della sua opera - nella Parte V, recante
il titolo "Schizzo storico dei partiti socialisti". In realtà avrebbero meritato di costituire
una parte a sè stante, come" Le prospettive del capitalismo". E il senso dell'ultimo
capitolo, che reca il titolo perentorio "Verso il socialismo" (alla lettera "In marcia verso il
socialismo"), risulterebbe molto più chiaro, circa le tesi ivi sostenute, se avesse un
punto interrogativo.
6. Occupiamoci, dunque, di questo tema del "capitalismo controllato" ovvero "laburista".
Mi pare una definizione che va a pennello per il modello che vige in Europa.
Mediamente, infatti, la spesa pubblica raggiunge quasi il 50% del prodotto nazionale
lordo calcolato ai prezzi di mercato e una percentuale maggiore del 50% ove si
commisuri tale spesa al prodotto netto di ammortamenti e di imposte indirette, cioè al
reddito nazionale netto. D'altra parte, l'Europa continentale è ampiamente
regolamentata, in particolare per quanto riguarda il mercato del lavoro, ma anche per
quel che concerne gli investimenti delle imprese, in relazione a leggi urbanistiche,
edilizie, ambientali ed ecologiche, sanitarie, sui lavori pubblici, sull'agricoltura,
sull'esercizio delle attività finanziarie con discriminazione per i soggetti esteri, sul
risparmio per fini pensionistici da parte di entità non sindacali e internazionali, sull'istruzione professionale privata, sullo sviluppo delle aree meno favorite.
È un elenco sommario, in cui bisogna considerare il doppio livello nazionale e della
Comunità europea. Le imprese pubbliche statali si stanno riducendo, ma resistono in
settori come quello eletPágina XXI
trico, dei trasporti ferroviari e aerei, delle poste, della radio-televisione. Le imprese
municipali e regionali sono importanti nei servizi di trasporti urbani e suburbani in
superficie e sotterranei, nei sistemi portuali e aeroportuali, negli impianti e servizi
energetici, ecologici, idrici. Vi è un quasi monopolio pubblico in interi settori relativi al
capitale umano, che caratterizzano questa epoca di progresso tecnologico come quello
sanitario (cui fanno capo le industrie farmaceutiche e di attrezzature sanitarie), quello
dell'istruzione (cui fanno capo l'editoria scolastica e scientifica libraria e informatica). Il
diritto di sciopero nei servizi pubblici è ampiamente ammesso, le imposte sono
notevolmente progressive, la burocrazia pubblica è molto influente, le organizzazioni
sindacali hanno notevole influenza nelle politiche economiche tramite pratiche di
concertazione. Dunque noi siamo nel regime di capitalismo controllato ovvero laburista,
che Schumpeter critica e che ritiene sia un ibrido, che tarpa lo sviluppo capitalistico e
favorisce l'avanzata di modelli socialisti di vario genere.
È stata eccessivamente enfatizzata l'affermazione schumpeteriana che il capitalismo,
giunto alla sua piena maturazione, crea le basi per distruggere sé stesso perché
l'economia delle grandi imprese tende a "trustificarsi", creando le premesse per
l'economia pianificata collettivistica. Con ciò si ignorano tutti gli altri fattori negativi
riguardanti le istituzioni pubbliche e le decisioni di politica economica e fiscale.
Schumpeter qualifica (anzi squalifica) l'assieme di tali fattori con un pungente motto
latino, che pone sotto il titolo del penultimo capitolo: "Mundus regitur parva sapientia".
Una prima considerazione negativa riguarda le industrie nazionalizzate, in rapporto
alla libertà delle organizzazioni sindacali di esercitare il diritto di sciopero. Schumpeter
argomenta che se non si vogliono portare al disastro le imprese socializzate, cioè statali
o di enti locali, occorrerebbe socializzare i sindacati, cosa che ovviamente non gli
appariva praticabile, in un'economia libera. La ragione di ciò è che, mentre nello
sciopero contro un'impresa privata vi è una contesa fra proprietari che pagano di tasca
propria e lavoratori che lo sanno e sanno anche che se l'impresa va in perdita, vi è un
rischio per il loro posto di lavoro, nel caso delle imprese socializzate chi paga è l'erario
e se l'impresa va in deficit sarà il contribuente che ci rimetterà. I disastri di imprese
come le nostre ferrovie statali e le aziende municipali di trasporto urbano sono sotto gli
occhi di tutti. Si è appena detto che in Europa in questo campo si sta ora facendo
faticosamente marcia indietro, ma che molta strada resta ancora da fare. Mi sembra
che questo argomento, che
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Schumpeter presenta, circa l'incoerenza fra la libertà di sciopero e l'esistenza di estesi
settori di imprese pubbliche e di servizi pubblici che potrebbero essere gestiti dai privati,
sia degno di attenzione, allo scopo di procedere con più decisione in questo indirizzo.
Un secondo fattore negativo, in parte a questo collegato, che il nostro autore
considera, con riguardo al "capitalismo laburista", è quello dell'eccesso di pressione
fiscale, sui redditi medi e alti e sui profitti. Non solo ciò riduce gli incentivi delle attività
professionali e manageriali, ma intacca anche gravemente l'accumulazione di risparmio,
che serve per la crescita economica e così riduce le possibilità del capitalismo di
generare sviluppo e concorrenza dinamica. Egli addita anche i danni di una elevata
tassazione dei profitti delle società: che sono evidenti, se si accolgono le sue tesi sulla
funzione del profitto nel processo di sviluppo capitalistico. Osserva che è pessimo
rimedio aumentare le imposte sulle classi superiori di reddito e sui profitti per
combattere l'inflazione in quanto ci sono, allora, due alternative, entrambe dannose. O
le imprese, a corto di risparmi, si finanziano con un credito aggiuntivo che ripristina
l'inflazione, o si ha un declino del tasso di crescita, che attenua per il momento la
pressione inflazionistica, ma l'aumenta a lunga scadenza.
E evidente che i ministri e i loro esperti economici e gli eurocrati che hanno redatto e
concordato le regole di Maastricht e il patto di stabilità di Amsterdam, per le basi fiscali
della moneta unica, non hanno mai letto Schumpeter oppure, se lo hanno fatto, nei
ritagli del loro tempo, dedicato ad altri testi più di moda, non se lo ricordavano. Infatti,
queste osservazioni di Schumpeter, che poggiano su una sua robusta costruzione
teorica, che fra un po' visiteremo, mostrano che è molto pericoloso e incoerente con gli
obiettivi di stabilità monetaria, per non dire con quelli di sviluppo, il porre dei parametri
di saldi di bilancio, senza occuparsi di come, sul lato delle entrate, essi sono conseguiti.
Dal canto suo, in questo libro, in coerenza con quanto appena osservato, Schumpeter,
per ridare energia al processo di sviluppo capitalistico, propone l'eliminazione della
doppia tassazione dei profitti presso le società e dei dividendi da esse pagate presso gli
azionisti, la possibilità di detrarre, per un lungo intervallo di anni, le perdite subite in un
esercizio negli esercizi successivi, e la detassazione dei guadagni investiti. Si tratta di
un programma di tagli fiscali più simile, nella filosofia, al modello di Berlusconi che a
quello di Bush, ma che presenta la base teorica che li giustifica, con un modello assai
più profondo, analiticamente e sociologicamente, di quelli che vanno sotto il nome di
curva di Laffer.
Página XXIII
Occorre notare che la linea ufficiale prevalente in Europa è quella di considerare
come pericolose per l'economia di mercato la politica di riduzione delle imposte e la
concorrenza fiscale che così si genera. E negli Stati Uniti l'opinione più diffusa circa la
riduzione delle imposte è che essa sia buona cosa nei periodi di depressione, ma che
sia un indizio di scarsa serietà nel ragionamento economico, quando è sostenuta in via
strutturale. Si afferma che essa, se non è preceduta da tagli di spesa, genera effetti
negativi sulle aspettative degli operatori economici, quindi riduce lo sviluppo.
L'argomentazione di Schumpeter presenta una visione diversa, in cui le minori imposte
- purché riguardino il risparmio, i redditi medio-alti e i profitti - generano più sviluppo,
innescando il ciclo capitalistico.
Un terzo fattore negativo, che Schumpeter indica, è l'espansione eccessiva della
spesa pubblica, in accoglimento delle più diverse pretese e pressioni sociali,
un'espansione che la burocrazia pubblica naturalmente favorisce. Vi è differenza fra la
tesi, appena vista, per cui sono nocive allo sviluppo le imposte che incidono troppo sui
risparmi e sui profitti e quella per cui vi nuoce una spesa pubblica troppo alta. Intanto il
nostro autore considera sia la spesa pubblica finanziata con imposte sia quella
finanziata con prezzi pubblici, alla maniera del servizio postale. Le ragioni per cui
Schumpeter avversa l'alta spesa pubblica stanno nel fatto che essa toglie all'operare
della concorrenza creatrice dello sviluppo capitalistico un ampio e crescente settore di
azione. Comunque, dubita che si accetti di finanziarne con imposte anziché con
inflazione la parte gratuita. Il modello di selezione del personale e di valori che si ha,
quando si espande il settore pubblico, è profondamente diverso da quello del
capitalismo. Perché "capitalismo non significa soltanto che la massaia è in grado di
influire sulla produzione scegliendo fra piselli e fagioli e che il giovane può scegliere se
lavorare in una fabbrica o in un'azienda agricola, né che i dirigenti aziendali abbiano
una certa voce nel decidere che cosa e come produrre" (si noti la scala crescente di
importanza attribuita dall'autore a queste libertà di scelta). Capitalismo, dice
Schumpeter "significa un certo schema di valori - un atteggiamento verso la vita, una
civiltà - la civiltà dell'ineguaglianza e della fortuna familiare".
Un quarto fattore negativo del capitalismo controllato ovvero laburista, che
Schumpeter indica, è la regolamentazione dei mercati del lavoro che irrigidisce verso
l'alto i salari e, ostacolando l'espansione della produzione, crea disoccupazione. Qui
egli è in accordo (una volta tanto) con la teoria keynesiana, secondo cui le variazioni al
rialzo dei salari si riflettono in maggiori prezzi, che
Página XXIV
mantengono invariati i salari reali, ma generano inflazione. Questa, osserva
Schumpeter, tende a indebolire l'impalcatura sociale del sistema di economia di
mercato e attiva, allo scopo di combatterla, politiche dirigiste pericolose come il
controllo dei prezzi, che genera altri ostacoli all'espansione della produzione e favorisce
la marcia verso la progressiva socializzazione del sistema. Accanto a ciò, si ha
l'adozione di criteri politici con riguardo all'erogazione del credito.
Un quinto fattore negativo è costituito dalle regolamentazioni antimonopolistiche con
cui il governo o le agenzie pubbliche autonome bloccano le operazioni di
concentrazione e interferiscono nei prezzi, con criteri e in modi che a lui appaiono
eccessivi. Il concetto di "restrizione collusiva" adottato nella prassi giuridica degli Stati
Uniti di allora era, per lui, da criticarsi poiché in pratica abbracciava la quasi totalità degli
sforzi di collaborazione industriale in rapporto alla politica dei prezzi e della produzione
"anche là dove assolve a un compito utile". Inoltre a giudicare su ciò, osserva
Schumpeter - con un argomento che mi sembra si addica a molti degli attuali interventi
giudiziari e amministrativi sul mondo degli affari -, sono chiamate "persone che non
hanno sufficiente familiarità con la natura dei problemi economici" e "persone
decisamente avverse al sistema che dovrebbero regolare o, almeno, al big business".
Infine un'altra osservazione, che merita di essere tenuta presente, circa gli effetti
perversi di politiche giudiziarie che si vorrebbero essere a tutela del buon andamento
dell'economia capitalista: la minaccia onnipresente di sanzioni per illegalità che non è
facile distinguere dai comportamenti legali. Viene alla mente la linea giudiziaria adottata
in Italia e, a quanto sembra, in altri Paesi d'Europa, di considerare il reato di falso in
bilancio come reato di mero pericolo, indipendentemente dal danno che certe scritturazioni (o mancate scritturazioni) possano aver causato in concreto agli azionisti, ai
creditori o ad altri terzi specificamente individuati. Non alla "pubblica fede"
hegelianamente (o gentilianamente) concepita. Qui ci si basa sull'assurda pretesa di
giuristi, mal consigliati da cattivi azienda listi, di stabilire a priori in modo oggettivo che
cosa sia un bilancio vero o falso, in relazione ai diversi criteri di contabilizzazione di utili
e perdite di società partecipate o partecipanti, di prezzi di forniture fra società collegate,
di situazioni effettive di controllo di una società o di un suo azionista su altre società, di
valutazione di conferimenti, di somme limitate poste fuori bilancio per rendere più
flessibili certi comportamenti dei manager a beneficio della società, fermo restando
Página XXV
che, se utilizzate per compiere atti illegali, andrebbero sanzionate in relazione a questi.
Paradossalmente, quegli stessi giuristi e intellettuali che propugnano la nozione
oggettiva di falso in bilancio, in nome della tutela del capitalismo - in realtà per antipatia
per il big business e i grandi imprenditori venuti su rapidamente dalla piccola e media
borghesia -, non si rendono conto che qualsiasi ministro del Tesoro, che applichi in
modo perfetto le vigenti leggi, sarebbe reo di falso in bilancio se i criteri del bilancio
oggettivo, che essi sostengono, fossero applicati ai bilanci pubblici.
7. Accanto ai fattori negativi specifici, appena ricordati, Schumpeter indica, come causa
eventuale della lenta trasformazione del capitalismo in socialismo o forme di statalismo
etichettabili con forzatura con tale nome, anche il diffondersi di una cultura avversa al
capitalismo fra coloro che dovrebbero difenderlo: un fenomeno complesso che allora gli
pareva in crescendo in vasti strati della classe borghese, che lo aveva fatto grande,
negli intellettuali irrequieti, nei nipoti degli imprenditori che lo avevano promosso, con le
loro audaci iniziative, negli economisti avversi al socialismo.
Anche noi, in questi anni, abbiamo assistito al fenomeno "dialettico" per cui il
capitalismo genera dal suo seno i propri avversari: e magari a difenderlo si erige proprio
la maggioranza di quei lavoratori che, secondo la vulgata, a esso si dovrebbero
ribellare, perché sfruttati. Per gli intellettuali irrequieti in cerca di successo, la
spiegazione che Schumpeter dà, in varie pagine, è abbastanza ovvia: alcuni mettendosi
alla testa degli scontenti e dei critici mirano a emergere, in un modo più agevole che
con un assiduo lavoro in una gerarchia aziendale o in un laboratorio universitario; altri, a
causa dello sviluppo economico, si sono resi autonomi dal mondo delle imprese e
hanno interessi propri contrastanti con quelli delle grandi imprese che coltivano con
"incursioni" a carico di queste. Per i nipotini di grandi capitalisti che coltivano avversione
per il capitalismo, Schumpeter offre la tesi che lo sviluppo di un ceto politico e
intellettuale ostile agli interessi della grande azienda ha generato una "perdita di presa"
dei valori propri della società capitalistica "non solo nell'opinione pubblica ma nello
stesso strato capitalistico". Avanzo personalmente anche un'ulteriore ragione: quella di
una gelosia nei riguardi dei nuovi capitalisti emergenti e di un desiderio che il
cambiamento in questione si blocchi, lasciando intatte le gerarchie personali generate
delle fortune passate. Circa i quadri di grandi imprese che sono politicamente a favore
dell'intervento statale, Schumpeter fa notare che lo
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sviluppo della mentalità razionalistica e del tornaconto personale (a breve termine, egli
precisa) distrugge le forme di lealismo e di struttura gerarchica che sono necessarie per
l'esercizio efficiente della leadership. E poi, fra i manager e gli imprenditori, vi sono
quelli che traggono un vantaggio particolare dagli interventi statali e non si curano del
fatto che ciò generi una violazione di regole generali. Magari pensano (o fanno credere)
che l'eccezione a loro pro corrisponda a quei principi generali. Restano gli economisti al
100% avversi al socialismo, per i quali Schumpeter dà un brillante elenco di sei cose
dannose allo sviluppo capitalistico che essi approvano, pur da tale posizione: 1) le
politiche di stabilizzazione e pieno impiego che implicano una buona dose di interventi
statali; 2) la desiderabilità di una maggior eguaglianza nei redditi; 3) l'antitrust; 4) il
controllo del mercato del lavoro e del denaro; 5) l'estensione della sfera dei bisogni
pubblici; 6) ogni tipo di legislazione assistenziale.
Va chiarito che Schumpeter è avverso alla tesi keynesiana per cui per ottenere il
pieno impiego bisogna stimolare la domanda globale di consumo con politiche fiscali
redistributive a danno del risparmio. Egli ritiene che la spesa in deficit o meglio la
riduzione delle imposte in deficit serva per rianimare un'economia, che si trova in
depressione ciclica, ma nega che il punto di attacco sia la distruzione del risparmio, che
è essenziale per lo sviluppo capitalistico, anche se esso rimane inerte, quando
mancano le energie degli imprenditori in libero mercato e le istituzioni finanziarie
capitalistiche adeguate per attivarlo. La sua politica, dunque, è sul lato dell'offerta, non
della domanda. Comunque nega che la politica anticiclica possa funzionare come
politica strutturale. La terapia di Schumpeter serve per dare energia al capitalismo,
quella di Keynes gli pare un mezzo per preparare la sua estinzione e l'avvento di una
qualche forma di socialismo.
8. L’ipotesi per cui dal capitalismo maturo si sarebbe dovuto passare al socialismo, per
gli Stati Uniti, dopo la svolta antidirigista di Reagan proseguita da Bush senior, non
appare più valida. La traiettoria su cui esso è stato portato ha fatto sì che anche con
un'amministrazione democratica come quella del presidente Clinton e del suo vice
Gore, lo sviluppo, trainato da grandi imprese e dalla finanza capitalistica, nei mercati
globali sia continuato. E certamente ciò ha avuto un'accelerazione con la nuova
amministrazione di Bush junior. Ma il pericolo di declino senile del capitalismo appare in
buona parte vero per le società europee, in cui domina il modello
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del capitalismo laburista: che, se posso usare rozzamente una percentuale, è per un
buon 50% informato a economia socialista nel senso di Schumpeter: in queste nostre
società europee continentali attualmente si dibatte circa il se e il come uscire dal
"mezzo socialismo" in cui esse si trovano, per realizzare un maggior progresso per tutti.
In altre parole, se sia possibile una terza via.
A questo riguardo, la risposta che dà Schumpeter, tramite lo Schizzo storico dei partiti
socialisti che traccia nella Parte IV, è esplicita e candida. I socialisti che andarono al
governo in sistemi democratici a economia di mercato, con programmi teorici rivoluzionari e idee pratiche di compromesso o con programmi "fabiani" di riforme
gradualistiche senza chiari principi teorici, hanno avuto davanti a sé necessariamente
solo due vie: quella di amministrare il capitalismo, con caute riforme dotate di un limite
nella logica del sistema, e quella di attuare riforme crescenti, che avrebbero potuto
comportare, in realtà, il fatto di preparare la sua distruzione. Non esiste, dunque, alcuna
terza via, salvo il percorso per confluire in quella del socialismo statalista e collettivista.
Va sempre ricordato che per Schumpeter il male minore del passaggio al socialismo o a
qualche forma di economia analoga in quanto statizzata, riguarda il capitalismo maturo,
in cui vi è un'elevata presenza di grandi imprese, che si prestano alla gestione
centralizzata dell'economia e in cui, oramai, vi sono abbastanza risorse accumulate per
rendere desiderabile un regime stazionario, con pieno utilizzo delle risorse di capitale
già disponibili.
In ogni caso, dunque, non economie come quella italiana, se si ragionasse in termini
puramente nazionali. Noi abbiamo poche grandi imprese. La parte dell'Italia ad alto
sviluppo è ancora in fase di crescita e organizzazione su modelli di economia avanzata.
Un'altra parte rilevante della nazione ha ancora solo chiazze di sviluppo capitalistico.
Semmai la previsione di Schumpeter potrebbe adattarsi a economie come la svedese o
la tedesca, tralasciando però la Germania Orientale, in cui lo sviluppo capitalistico è
ancora carente, dopo il crollo del regime di economia di Stato autoritaria. E nella
prospettiva di una concorrenza europea, il quadro cambia ancora, perché, salvo gettare
a mare i benefici possibili derivanti dal processo di unificazione europea, il capitalismo
non è ancora adeguato alla nuova dimensione di mercato. L’Unione Monetaria Europea
presuppone una nuova ondata di sviluppo capitalistico e crea le premesse per far sì che
i monopoli nazionali diventino grandi imprese in concorrenza fra di loro, in un più vasto
teatro. Non è il caso, proprio, in Europa, data anche l'attuale elevata disoccupazione, di
adagiarsi sulla prospettiva di una felice
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stagnazione. Piuttosto bisogna chiedersi, sempre seguendo il filo del ragionamento di
Schumpeter, come possa continuare a svilupparsi il capitalismo maturo in Europa (ma
anche in economie avanzate in stallo, come il Giappone), dati tutti i pericoli e gli ostacoli
che egli ha delineato. In particolare, come si reagisce alla burocratizzazione delle grandi
imprese e alla "trustificazione" del mercato. In bilico fra l'essere grandi "campioni
nazionali" o imprese globali del mercato europeo, questi nostri gruppi industriali e
finanziari in parte ancora pubblici potrebbero essere sbriciolati o inghiottiti da altri, nel
processo di distruzione creatrice guidato dai colossi americani.
Per quanto riguarda questo problema, la risposta è in parte semplice, in linea di
enunciazione, anche se in pratica di non facile attuazione. Si tratta, in primo luogo, di
rompere le barriere nazionali, nei vari settori, come quello elettrico, telefonico, del gas,
dei trasporti aerei e soprattutto del credito, delle assicurazioni, dei fondi di investimento,
dei mercati finanziari in generale. Meno visibili sono altre barriere, che ostacolano la
concorrenza fra grandi imprese in Europa e la loro crescita dinamica: si tratta dei regimi
europei di controllo dei mercati agricoli, della sanità, della scuola e della ricerca e
dell'ostilità allo sviluppo tecnologico in settori come le biotecnologie, che può generare
artificiosi ritardi sulla scena mondiale.
Ma rimane il quesito disturbante delle burocrazie manageriali non evitabili nelle grandi
imprese. È inevitabile che lo sviluppo tecnocratico delle imprese inaridisca il terreno su
cui dovrebbero germogliare e crescere di continuo le piante degli imprenditori
innovatori? Osservando ciò che è accaduto nelle grandi società per azioni e nel
mercato finanziario degli Stati Uniti, si capisce come sia stata trovata e come si possa
diffondere un'adeguata soluzione al problema posto da Schumpeter: nel nuovo modello
di neocapitalismo maturo, succeduto al neocapitalismo giovane postbellico che ha
dominato la scena americana sino agli anni '70, ora troneggia il duplice principio del
"valore per l'azionista" e del manager che diventa azionista per e tramite il successo
dell'impresa che guida. Egli è attratto alle funzioni di capo di impresa da uno stipendio
corredato da un premio di ingaggio in azioni e ha, come incentivo, l'opzione all'acquisto
di altre azioni.
Non vi è più necessariamente (o meglio non vi è spesso più) il regno del capitalismo
familiare, che Schumpeter considerava essenziale per lo sviluppo, ma non regna
nemmeno più il neocapitalismo manageriale di dirigenti stipendiati che lui vedeva come
la premessa burocratica per l'economia socializzata. Vi è il neo-neoPágina XXIX
capitalismo, in cui il manager è anche azionista attuale e potenziale interessato ai
guadagni di capitale dell'impresa che guida e in cui egli deve creare "valore" per gli
azionisti. Quello che Marx avrebbe chiamato "plusvalore", trattandosi di elevati flussi di
profitti e di previsioni di tali flussi, che generano aumento di valore delle azioni. Il
manager governa, ma non regna. Il re è il capitale, che lo condiziona e lo guida tramite
gli azionisti capitalisti e tramite lui medesimo manager capitalista. E, in questo quadro,
ritornano anche buone carte per il gioco del capitalismo familiare: perché i capitalisti
manager possono essere molto simili ai manager capitalisti e le famiglie degli azionisti
capitalisti possono avere un ruolo simile ai fondi di investimento e agli altri gestori
finanziari nel regno del "valore per l'azionista".
9. Ma dobbiamo dare credito alle dottrine di Schumpeter sul capitalismo e allo
schumpeterismo con cui si può avvalorare il modello di sviluppo capitalistico dell'era
high tech, della concorrenza sui mercati globali e del valore per l'azionista e porre i
partiti di ispirazione socialista di fronte all'inesistenza di terze vie? E quanto credito
possiamo dare a tutto ciò?
Va detto che Schumpeter ama presentare le sue conclusioni come ipotesi tratte da
tendenze e ama sostenere che il suo ragionamento non è turbato dalle sue preferenze.
Eppure si capisce bene che lui depreca che possa perire il capitalismo, come sistema
economico e come sistema di valori, e che non vede nulla di buono nella prospettiva
dell'infiltrazione crescente di elementi di socialismo nel sistema di mercato capitalistico.
Giunge persino a scrivere che il risultato più probabile di tale trend sarà quello di un
socialismo con tratti fascisti perché a volte la storia si diletta di scherzi di cattivo
gusto.[Nota 2] È vero che per fascismo egli non ritiene altro che un regime in cui vige il
metodo della leadership politica monopolistica in contrapposto a quella
concorrenziale.[Nota 3] Ma questa non è una caratterizzazione politica che egli descriva
asetticamente, senza giudizi di valore, dato che per tale socialismo con tratti fascisti
adotta la definizione di "scherzo di cattivo gusto della storia". Inoltre Schumpeter ritiene
desiderabile la crescita economica in un regime capitalistico, guidato dalle decisioni
delle grandi imprese: l'aumento dei beni disponibili per il consumo di massa, secondo le
scelte innovative di queste, su cui poi si esprimerà o meno il gradimento dei
consumatori, per lui è un fatto positivo. In ciò vi è un giudizio di valore cui sono avversi
economisti come Galbraith, sociologi di varia derivazione, uomini di Chiesa e boys di
Página XXX
Seattle (a volte oramai anziani), che ritengono che la società dei consumi, che così si
sviluppa, sia criticabile (salvo poi a deprecare che i popoli dei Paesi in via di sviluppo
siano carenti di tali beni o che, presso di noi, non ne possano godere abbastanza i
danneggiati da eventuali riduzioni del diritto a pensioni di anzianità senza base
contributiva).
Schumpeter è per la diseguaglianza che nasce dall'esercizio di lavori tenaci, dal
risparmio allo scopo di creare un'iniziativa economica, da studi che generano progresso
tecnologico. Un giudizio di valore forte è contenuto anche nell'idea parallela di
Schumpeter che i cittadini, come elettori, non possano formarsi, tramite istituzioni
ispirate alla trasparenza e alla diffusione dell'informazione, delle preferenze su progetti
politici e sia compito dei leader politici di plasmarle. E analogamente quando afferma,
per un'economia di capitalismo maturo non più dinamica, la possibilità del socialismo di
gestire al meglio i capitali e le tecnologie esistenti, a beneficio dei consumatori,
Schumpeter tende a sottovalutare l'importanza delle libere preferenze individuali. Anche
in una società in cui il PIL non cresce, si dovrebbero poter avere mutamenti qualitativi
per libera scelta del consumatore. Non contano solo le quantità, ma anche le qualità, se
si annette alla libertà di scelta un valore.
Non è, il nostro, un osservatore privo di suoi valori. Ma tutto ciò non implica ancora
che sia un osservatore parziale dal punto di vista dei fatti e dei modelli per interpretarli.
Vediamo. Il suo habitus non è quello dell'ottimista che scambia propri valori e desideri
per probabilità di accadimento. È quello del pessimista che mette in luce tutte le
probabilità che possa accadere ciò che lui depreca. Egli ama il proprio pessimismo.
Quando scrive "può il capitalismo sopravvivere? No, non lo credo" è mosso da una
sorta di tristezza angosciosa, come se avesse ancora presente la disperazione di
Vienna, dopo la sconfitta e il crollo dell'Impero austroungarico nel 1918, o sentisse i
bombardamenti della sua Europa del 1942. È vero comunque che circonda la frase con
molti condizionali: da ciò si desume che egli, esagerando il pericolo, voglia mettere in
guardia contro coloro che avversano lo sviluppo capitalistico e puntano a un'economia
largamente pianificata e burocratizzata.
Ma questo annerimento di prospettive fa sì che la sua previsione di un possibile
svanire del capitalismo, in un tempo non lontano, ferme restando le tendenze allora
osservate, risulti svalutativa delle energie del mercato e delle imprese e che i limiti, che
egli pone, al riformismo socialdemocratico, per rimanere entro la logica del modello di
sviluppo capitalistico, appaiano troppo stretti.
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Lo provano i fatti che si sono verificati in Europa, negli USA e in Asia dall'inizio degli
anni '50 in poi. Il capitalismo, per quanto variamente controllato, in modi laburisti o in
modi paternalisti asiatici, si è sviluppato in un fiorente neocapitalismo. I sindacati operai
hanno ottenuto alti salari, con cui hanno alimentato i consumi di massa, senza
scardinare la logica del sistema, salvo in certi anni e situazioni. I partiti
socialdemocratici hanno sostenuto riforme maggiori di quelle ritenute possibili da
Schumpeter, appesantendo i modelli economici con l'ipoteca di crescenti debiti pubblici
e di vincoli "politicamente corretti", ma il cavallo del capitalismo ha continuato a correre,
sia pure ansimando, è tuttora sano e la storia non ha generato - nei Paesi caratterizzati
da maggiori controlli - una spinta a crescerli, ma a ridurli, anche da parte dei laburisti.
Ed è sorto, in Inghilterra, un new labour capace di stare entro i limiti del sistema di
capitalismo avanzato, con tassazione moderata, che, comunque, sembrano permettere
estesi servizi sociali. Le grandi leggi di tendenza, ricavate da Schumpeter con una
procedura "oggettiva" di studioso, sono, dunque, un po' troppo semplificate.
Sull'altro versante, l'assunzione che i tecnici, nella società collettivista, siano in grado
di fare calcoli razionali complicati, circa le varie combinazioni produttive e le varie
organizzazioni aziendali, è priva di riscontri fattuali, mentre contrasta con la teoria della
razionalità limitata di von Hayek - collega di Schumpeter nella scuola economica
neoclassica di Vienna -, che ha ricevuto svariate verifiche empiriche. Inoltre, dire che
questi tecnici possano fare tali calcoli razionali è cosa diversa dal supporre che
desiderino anche farlo. Dotati del potere di dirigere lo Stato socialista, secondo i valori
del socialismo, di cui il partito che li ha messi lì è il custode, non hanno motivo di
blandire le preferenze dei cittadini, anziché di forzarle a ciò che sembri meglio ai
detentori del Vangelo socialista nel partito guida o alle soluzioni per loro meno faticose.
In sintesi, Schumpeter, nonostante quel che continua a ripetere, non è un osservatore
sempre imparziale di fatti e tendenze, li semplifica e a volte li guarda con lenti nere, a
volte con lenti rosa. La sua analisi è acuta, il suo linguaggio vivido e penetrante, ma la
sua genialità nel presentare i suoi argomenti in modo eterodosso lo porta anche a una
trattazione piacevolmente partigiana.
10. Vediamo, dunque, il bagaglio intellettuale con cui il nostro autore ha costruito questi
monumenti allo sviluppo capitalistico, all’imprenditore creatore, alla democrazia basata
sulla concorrenza
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fra leader politici e, nello stesso tempo, ha scavato a fondo attorno alle loro
fondamenta, per mostrare che cosa le potesse corrodere.
Joseph Alois Schumpeter nacque nel 1883 a Triesch, in Moravia, nell'area orientale
dell'Impero austroungarico. Suo padre, un industriale tessile di successo, morì quando
lui aveva quattro anni. Ma i segni dello spirito capitalista rimasero nella casa in cui fu
allevato, anche quando sua madre si risposò con l'aristocratico Sigismund von Kéler,
generale dell'Impero. Industria e aquila bicipite imperiale assieme unite. Il giovane
Joseph, data la condizione nobiliare del marito di sua madre, poté entrare a Vienna nel
Theresianum, un ginnasio liceo umanistico per aristocratici, da cui si licenziò con il
massimo dei voti. Assecondando le tradizioni della famiglia materna, si dedicò
intensamente agli studi nella facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Vienna, con
l'obiettivo di intraprendere una carriera universitaria, nell'indirizzo economico. Allora, in
Austria e negli altri Paesi europei continentali, inclusa l'Italia (con una tradizione che è
continuata sino agli anni '50), le facoltà di Legge erano quelle maggiormente deputate a
impartire gli insegnamenti delle discipline economiche, in collegamento con le altre
scienze sociali e con le discipline umanistiche.[Nota 4] Agli inizi del XX secolo, Vienna,
capitale dell'Impero, irradiava il suo sapere scientifico in tutto il mondo, con un
multiforme positivismo. Ciò, in particolare, nelle materie economiche, dove
campeggiava la scuola marginalista austriaca fondata da Karl Menger e dove si stava
allora sviluppando, sulle orme di quest'ultima, la scuola neoclassica di von Wieser e
Böhm-Bawerk, amici fraterni che avevano condiviso le prime elaborazioni teoriche sul
capitale e l'interesse.
Il giovane Schumpeter fu subito attratto dagli studi sulla formazione della teoria del
valore e sul ruolo della moneta, cui si dedicò frequentando i corsi di Friedrich von
Wieser. Questi aveva pubblicato a Vienna, nel 1889, il suo celebre trattato sulla teoria
del valore (Der Natürliche Wert) tradotto ben presto in inglese, con il titolo Natural
Value, dal noto economista scozzese William Smart. Da questo suo maestro egli
imparò la dimostrazione dell'erroneità della teoria del valore-lavoro di Karl Marx. Ancora
più importante fu per lui l'influsso di Eugene Böhm-Bawerk, che era da poco tornato
all'Università, dopo un periodo come ministro delle Finanze dell'Impero. Böhm-Bawerk,
nello stesso anno di Wieser, aveva pubblicato a Innsbruck la sua "ammirevole"[Nota 5]
opera Positive Theorie des Kapital, come seguito della Storia e critica della teoria del
capitale e dell'interesse (Geschichte und Kritik der Kapitalzinstheorien, Innsbruck 1884).
Ma per il nostro Joseph, spirito aperto ad ampie curiosità intellettuali, non furono
importanti solo
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questi maestri di teoria fredda e rigorosa, furono anche importanti le ricerche e le
discussioni con storici che a noi attualmente suonano quasi come sconosciuti, come
Inama-Sternegg e, ancor più, con i marxisti, che a Vienna erano tanto frequenti, quanto
gli alti ufficiali pluridecorati.
I primi lavori scientifici del giovane Schumpeter, pubblicati nel 1905, furono in effetti di
carattere storico. Intanto imparava a liberarsi dai dogmi. Intesseva dibattiti con Ludwig
von Mises, che si sarebbe affermato come uno dei leader della scuola liberista e con i
giovani marxisti Rudolf Hilferding, futuro autore di celebri studi sul capitalismo
finanziario, e Otto Bauer, futuro leader del socialismo austriaco. Schumpeter non si
sentiva allora, e non sarebbe mai stato in seguito, un accademico puro. Avuto il dottorato nel 1906, si recò al Cairo a esercitare l'avvocatura, mentre attendeva alla
rielaborazione del lavoro scientifico viennese. Ciò sfociò nella pubblicazione, presso le
prestigiose edizioni von Duncker e Humblot Verlag di Lipsia, nel 1908, del dotto libro
sull'Essenza e i principi dell'economia teorica (Das Wesen und der Hauptinhalt der
theoretische Nationaloekonomie). In esso egli svolgeva un'imponente rassegna delle
dottrine economiche allora dominanti nei principali settori di questa scienza, con
l'assunto di dimostrare che non bastava indagare l'economia da un punto di vista statico
o stazionario, come per lo più si stava facendo, ma occorreva affrontare il punto di vista
dinamico. Il massiccio libro, in tale contesto, trattava anche questioni di metodo, come
quella dell'impiego degli strumenti matematici nell'economia, di cui lui era fautore. Nel
1910, questo ponderoso opus accademico valse al ventisettenne Schumpeter la
cattedra in una università minore dell'Impero, quella di Czernowitz. E, poco dopo, quella
nella più importante sede di Graz, a meno di 200 chilometri da Vienna. Questa cattedra,
per altro con l'interruzione di vari periodi di congedo, in cui si dedicava ad altro, egli la
tenne sino al 1921.
Nel 1912, trentenne, pubblicò l'opera teorica principale della sua vita, che lo rese
celebre: la Teoria dello sviluppo economico (Theorie der wirtschaftlichen Entwicklung)
su cui dobbiamo sostare perché sono qui le basi e le strutture portanti della sua teoria
dello sviluppo capitalistico. Nella Teoria dello sviluppo, Schumpeter tracciava "una
rappresentazione concettuale unitaria del processo complessivo dell'economia in
generale e di quella capitalistica in particolare". E presentava, fra l'altro, in
contrapposizione a quella di Böhm-Bawerk, una nuova teoria dell'interesse sul capitale
preso a prestito dalle imprese. La teoria böhm-bawerkiana basava il valore del capitale
sul suo rendimento nel processo produttivo e quePágina XXXIV
sto sul fattore tempo, inteso come quello impiegato per creare il bene capitale
considerato. I macchinari industriali, con cui si eleva anche di molto il rendimento degli
altri fattori produttivi (il lavoro e le risorse naturali), hanno una produttività tanto
maggiore quanto più tempo si è impiegato a fabbricarli. L'interesse sul capitale
materiale era dunque, in equilibrio, il compenso oggettivo per la sua produttività
generata dal passaggio del tempo, con cui era stato posto in essere. E l'interesse sul
capitale finanziario dipendeva da questa produttività dei beni capitali in cui esso si
traduce. Schumpeter partì da questa teoria, che stava allora diventando quella
dominante a livello mondiale, per costruirne una sua, che collegava il rendimento del
capitale allo-Sviluppo capitalistico e comportava la cessazione della validità
dell'interesse sul capitale, quando questo sviluppo cessa.
La teoria schumpeteriana si basava sull'idea che l'interesse sussiste con la sua vera
natura di frutto del capitale solo quando serve per finanziare sviluppi dinamici. Nello
stato stazionario dell'economia, l'interesse sul capitale, in uno schema di funzionamento
perfetto, non dovrebbe esistere, perché si può fronteggiare la spesa per gli investimenti
mediante l'impiego dei fondi accantonati per gli ammortamenti, E von Wieser aveva
insegnato che se è vero che ogni fattore produttivo ha un valore basato sulla sua
produttività marginale, è anche vero che ciò non riguarda i beni di cui non vi sia alcuna
scarsità. Questi, essendo illimitatamente disponibili, non hanno bisogno di compenso
per attivarne l'uso e per essere destinati a un uso anziché a un altro, presente o futuro,
diversamente vantaggioso. L'imprenditore normale, nell'economia senza crescita, non
ha bisogno di farsi prestare denaro, perché non fa nuovi investimenti netti, si limita a
riprodurre nel corso del tempo quote costanti di reddito reale,[Nota 6] con la
ricostituzione del capitale via via consumato nella produzione. Per ottenere tale
capitale, all'impresa che fa ordinari profitti, in regime di concorrenza bastano, come si è
detto, le quote di ammortamento via via accantonate, perché tali profitti normali
contengono anche il premio per l'imprenditore innovatore che ha avuto successo: e,
quindi, è stato in grado di restituire i prestiti ricevuti dalle banche, per la sua attività
iniziale. Solo l'impresa che non riesce a fare abbastanza profitti per rimborsare il
capitale preso a prestito dovrà usare gli ammortamenti per pagare gli interessi su tale
capitale. Questa è un'anomalia, nel modello. È poi vero che se la popolazione aumenta
c'è bisogno di espandere la produzione, per mantenere intatto il reddito pro capite, ma a
questo punto lo stato stazionario subisce una variazione per impulso esterno, l'interesse
sul
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capitale ridiventa significativo perché il modello cambia. L'interesse sul capitale
insomma cesserà di esistere, come realtà generale, "nel momento in cui il processo
economico si arrestasse e non venissero più fondate nuove imprese".[Nota 7]
La teoria di Schumpeter dell'interesse sul capitale presentava analogie solo apparenti
con quella di Marx per cui il capitale impiegato nella produzione, di per sé, non ha diritto
a una remunerazione con interessi, il solo valore dei beni essendo costituito dal lavoro.
Per Marx ciò riguarda il capitale che serve allo sviluppo capitalistico, per Schumpeter,
all'opposto, quello che sussiste quando non vi è tale sviluppo, vale a dire solo
nell'economia stazionaria perfettamente funzionante. La teoria di Schumpeter venne
giustamente criticata da Böhm-Bawerk perché paradossale e unilaterale. In realtà,
l'imprenditore che aveva avuto successo ed era riuscito a restituire, con gli interessi, il
capitale preso a prestito era un soggetto normale, che aveva remunerato il capitale a lui
occorrente per i servizi che esso gli aveva reso, con i profitti dell'impresa, che celavano
in sé gli interessi sul capitale. L'imprenditore che, in seguito, non pagava più interessi
sul finanziamento, non aveva capitale a prestito, perché non ne aveva bisogno, non
facendo nuovi investimenti. Ma remunerava il capitale di sua proprietà, che aveva
riscattato dalla banca, con i propri precedenti extraprofitti, con un compenso che era in
ragione dell'entità di tale capitale. Per fare un calcolo corretto di ciò che gli rendeva
ciascuno dei suoi investimenti, anche in economia stazionaria, avrebbe dovuto tenere
conto di quanti beni capitali impiegava nei vari cicli produttivi, per evitare di destinarne
troppi a quelli che avevano un rendimento minore. L'interesse di equilibrio sul capitale
era proprio un fenomeno necessario dell'economia stazionaria. Trascurarlo avrebbe
implicato gravi errori nell'allocazione dei beni capitali ai vari impieghi alternativi
disponibili. Ma nel sofisma di Schumpeter vi era un'idea geniale: non basta il passaggio
del tempo, per generare il rendimento oggettivo del capitale inteso come assieme di
strumenti per la produzione, occorre l'imprenditore che fa valere questa combinazione
produttiva; e occorre, in primis, la tecnologia che rende produttivi questi beni,
diversamente inerti. La crescita economica non avviene unicamente per fattori esterni
come l'aumento di popolazione che genera nuova domanda in cui impiegare i risparmi
fatti. Questi sono fatti secondari, avviene per impulso interno al sistema capitalistico,
grazie alle innovazioni, al fatto che si investono i risparmi generando minori costi per i
beni esistenti o nuovi beni. Il ragionamento di Schumpeter, apparentemente simile, era
invece diametralmente opposto a quelPágina XXXVI
lo di Marx, perché si risolveva in un'esaltazione, non in una negazione, degli
extraguadagni del capitalismo dinamico. E postulava il capitale finanziario come leva
per consentire all'imprenditore innovatore di creare. Così anche il capitalismo finanziario
non era usura o strozzinaggio, era un'attività altamente positiva
Bellissime, comunque, le pagine di questo lucido e penetrante libro teorico che, in
certi tratti, a Böhm-Bawerk era parso come la creazione di un giocoliere molto
intelligente. Ecco, ad esempio, come viene descritto il processo dinamico del ciclo
economico:
"Perché gli imprenditori non compaiono in maniera continua, momento per momento,
ma a gruppi? Esclusivamente perché la comparsa di uno o di alcuni imprenditori facilita,
e perciò determina, la comparsa di altri imprenditori e questa a sua volta la comparsa di
altri ancora e sempre più numerosi ... La comparsa di imprenditori 'a frotte', che è l'unica
causa del fenomeno dell'espansione, ha dunque sull'economia un effetto
qualitativamente diverso da quello di una comparsa continua, uniformemente distribuita
nel tempo, in quanto non significa, come questa, una perturbazione continua e quasi
impercettibile, bensì una perturbazione forte, a scosse, dello stato di equilibrio, una
perturbazione di un altro ordine di grandezza. Mentre le perturbazioni prodotte da una
continua affluenza di imprenditori potrebbero essere continuamente riassorbite, la
comparsa 'a frotte' genera necessariamente un processo di riassorbimento particolare e
distinguibile, un processo di adattamento al nuovo e di adattamento del sistema
economico al nuovo, un processo di liquidazione ... Questo processo è l'essenza delle
depressioni periodiche".[Nota 8]
11. Il libro valse a Schumpeter un'immediata celebrità internazionale. Nel 1913 venne
infatti invitato dall'Università di Columbia di New York a tenere lezioni, seminari,
conferenze e ne ebbe il dottorato honoris causa. Scoppiata la guerra mondiale, tornò in
Austria. Fu, durante la guerra, su posizioni pacifiste. Guardava con preoccupazione le
crepe che si stavano producendo nella finanza pubblica, sottoposta agli sforzi bellici,
ma anche alle richieste di parti diverse, in modi difficili da far quadrare. Agli inizi del
1918 scrisse il lungo saggio sulla Crisi dello Stato ftscale[Nota 9] (Die Finanzkrise der
Steuerstaats), in cui egli si poneva il quesito se esso potesse sopravvivere.
Egli così concludeva, pessimisticamente: "Se la volontà del popolo richiede spese
pubbliche sempre più alte, se una quantità sempre maggiore di mezzi viene usata per
scopi per i quali i
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privati non li hanno prodotti, se un potere sempre maggiore sta dietro questo volere, e
se, finalmente, tutte le parti della popolazione sono prese da idee completamente nuove
sulla proprietà privata e sulle forme di vita - allora lo Stato fiscale avrà finito il suo corso
e la società dovrà dipendere da altre forze propulsive per la sua economia, che non
l'interesse dei singoli. Questo limite, e con esso la crisi alla quale lo Stato fiscale non
può sopravvivere, può certamente venire raggiunto. Senza dubbio lo Stato fiscale può
crollare".
È facile notare che, in queste pagine, emerge uno dei principali fattori, quello della
fiscalità, che, nel 1942, in un altro periodo buio di guerra, quello del secondo conflitto
mondiale, Schumpeter considererà come causa della possibile caduta del capitalismo,
usando parole molto simili.
Alla fine del 1918, Schumpeter assunse un importante ruolo politico, diventando
membro della Commissione per lo studio delle possibili nazionalizzazioni, istituita a
Berlino dal governo socialdemocratico tedesco.
Poco dopo, nel marzo del 1919, su presentazione di Otto Bauer - leader del partito
socialista austriaco -, entrava, come ministro delle Finanze, nel primo governo a
maggioranza socialista dell'Austria, presieduto da K. Renner, in coalizione con i
popolari. Ma, in ottobre, si dimetteva perché, come scriverà molti anni dopo, la lotta
all'inflazione era allora possibile economicamente ma non politicamente. [Nota 10]
Frattanto, Schumpeter aveva pubblicato anche molti altri importanti lavori, sia di teoria
monetaria, che di sociologia e di analisi del pensiero economico e politico. Ma, nel
1921, stanco della vita accademica, si dimise dall'Università di Graz e assunse la presidenza di una banca privata, la Biedermanbank, che, purtroppo, fu travolta, nel 1924,
dalla crisi finanziaria e fallì. Schumpeter impiegò parte del proprio patrimonio per
risarcire i creditori e iniziò la collaborazione al giornale Deutsche Volkswirt anche per
integrare le proprie risorse finanziarie.
Le università austriache, dopo le dimissioni inusitate da quella di Graz, erano chiuse
per lui, nonostante la sua fama scientifica. Ma ebbe, nel 1925, la cattedra di Scienza
delle finanze all'Università di Bonn. Negli anni 1927-29, mentre studiava la teoria della
moneta - per un trattato poi rimasto incompiuto e pubblicato postumo -, scrisse un lungo
saggio sul pensiero di Gustav Schmoller e un altro sulle classi sociali (non rinunciava ai
suoi lnteressi sociologici e storici). Trascorse, mentre faceva ciò, lunghi periodi
all'Università di Harvard. Ivi (nel 1928) pubblicò un saggio
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sulla Instability of Capitalism. Nel 1931 fece una lunga visita ai circoli accademici e
culturali del Giappone ove venne accolto come uno dei maestri del pensiero
economico.
Nel 1932 venne chiamato alla cattedra all'Università di Harvard, ove insegnerà poi
sempre le discipline economiche. E quivi attese alla stesura della sua opera
monumentale in due volumi, dal titolo Business Cycles: A Theoretical, Historical and
Statistical Analysis of the Capitalist Process, in cui esaminava i cicli economici, nel quadro dell'analisi teorica, storica e statistica del processo capitalistico. Lavorò alla
redazione di un altro libro, History of Economic Analysis, anch'esso monumentale, sulla
storia dell'analisi economica, cioè delle teorie (non delle politiche) economiche, che
sarà poi pubblicato postumo a cura della seconda moglie,[Nota 11] Elisabeth Boody,
sposata nel 1937, anch'essa economista, esperta di economia del Giappone. Fu
presidente, dal 1937 al 1941, della Econometric Society, che aveva promosso ritenendo
essenziale il collegamento fra l'analisi economica teorica e dei fatti e quella statistica
dei dati.
Nel 1942 pubblicò il presente libro, sempre negli Stati Uniti, Capitalism, Socialism and
Democracy, che subito ottenne grande successo. I suoi scritti si infittivano, nei diversi
campi del suo vasto sapere.
Nel 1948 diventò presidente della American Economic Association: oramai era, a
pieno titolo, un economista americano. Ma non dimenticava l'Europa. Infatti ai primi di
gennaio assunse la presidenza della neonata International Economic Association, che
collegava gli economisti al di là e al di qua dell'Atlantico.
Quando morì, poco dopo, nella sua casa di Taconic, era intento a preparare un ciclo
di seminari da svolgere all'Università di Chicago, la patria della scuola economica
liberista americana, fra i cui maestri faceva già spicco George Stigler e iniziava a
emergere Milton Friedman.
12. Concludiamo. La scuola economica austriaca "neoclassica" in cui Schumpeter si
era formato - da von Wieser, il maggiore e più rigoroso teorico del marginalismo, a
Eugene Böhm-Bawerk, il più importante studioso della teoria del capitale, instancabile
difensore della necessità dell'interesse, a Friedrich von Hayek, che teorizzò la
superiorità dell'ordine spontaneo per la soluzione dei problemi economici - era
nettamente schierata a favore dell'economia di libero mercato. Anche Schumpeter fu
sempre chiaramente per il sistema di mercato, ma altrettanto chiaramente (oltre che
dichia-
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ratamente) fu un eretico rispetto alla scuola in cui era stato allevato. Sin dal principio,
come si è visto, si era mostrato insoddisfatto del modo di ragionare degli economisti
teorici austriaci del tempo, che, a suo parere, astraevano da troppi fatti importanti della
realtà.
D'altra parte, nelle aule universitarie non aveva frequentato solo questi economisti
neoclassici. Si era nutrito di studi storici e sociologici, aveva studiato a fondo il
marxismo e aveva imparato a conoscere e ad ammirare i contributi di Schmoller e di
altri studiosi della scuola storica tedesca dell'economia.
Quando si legge il presente libro di Schumpeter, bisogna tenere presente il cocktail
intellettuale del suo sapere e del suo modo di ragionare.
Ciò costituisce un limite al rigore delle sue teorie, ma anche il loro pregio, per la
capacità di "rompere le uova nel paniere" aprendo nuovi orizzonti e creando nuovi
strumenti di interpretazione, magari (volutamente) grezzi, ma utilissimi per capire gli
sviluppi della realtà. Era, lo si è visto, un positivista, perché basava i suoi ragionamenti
sull'osservazione di tendenze, non su affermazioni a priori. E raccolse ed elaborò,
specie in età matura, un mare di statistiche. Ma il suo positivismo si atteggiò in modo
diverso da quello dei suoi maestri della scuola economica neoclassica e anche da
quello di Popper, altro capostipite della scuola di Vienna. Nell'analisi dei sistemi
economici, attribuiva grande importanza alle diverse condizioni storiche e alle variabili
strutturali. La scuola austriaca da cui lui era uscito li trattava come fattori esogeni al
funzionamento dell'economia, quasi come elementi di disturbo secondari, rispetto a ciò
che dicono le leggi economiche, in via generale. Schumpeter si sforzò di inserirli come
fattori endogeni, in rapporto di causa ed effetto, con variabili economiche come il tasso
di crescita del prodotto globale e di quello pro capite.
Come negli altri suoi saggi, lunghi o brevi, nel presente libro non si ragiona partendo
da modelli astratti, teoremi precostituiti, con cui si cerca di interpretare la realtà o con
cui si cercano le condizioni per realizzare un ottimo. Ragiona in modo per così dire
capovolto.
Dall'osservazione dei fatti si traggono le indicazioni delle tendenze. E, per interpretare
queste, si elaborano schemi teorici, che permettono di svolgere analisi positive e
normative. Per aderire a questo metodo, Schumpeter pagò un prezzo, che lo fa differire
notevolmente dai suoi colleghi della scuola economica neoclassica europea o
americana. Abbandonò la formalizzazione matematica, per cui aveva, inizialmente,
espresso una forte preferenza.
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I suoi schemi analitici non sono formalizzati in modo rigoroso, né tanto meno
"modellizzati", come oggi si usa fare: non fece ciò, anche nei lavori più teorici, sia per la
complessità delle tendenze osservate, sia per l'esigenza di trattare, insieme, aspetti
economici e sociologici, sia per la sua ambizione di offrire un quadro generale dei
sistemi economici e politici complessivi. I suoi affreschi - in particolare quello dell
presente libro, a volte solo tratteggiato, anziché dipinto nei dettagli -, a ben guardare,
volevano contrapporsi alla "teoria generale" di Keynes allora dominante.
Non è dato di sapere che cosa avrebbe costruito Schumpeter come seguito e
completamento di queste pagine. Aveva appena scritto, con la sua grafia minuta e
precisa, il capitolo finale di questo libro con il titolo March into Socialism, quale testo per
la conferenza annuale all'American Economic Association. Il capitoLo è rimasto in
forma di prima stesura, ancora da limare e corredare di riferimenti, perché il suo cuore,
d'improvviso, cessò di battere in una fredda notte fra il 7 e L'8 gennaio 1950 a Taconic,
nel Connecticut. Aveva 66 anni soltanto.
San Maurizio di Monti, Rapallo
settembre 2001