L`uomo contemporaneo e il diritto alla città. Scienza, filosofia e

G. Limone, L’uomo contemporaneo e il diritto alla città. Scienza, filosofia e poesia tra la conoscenza della crisi e la crisi della conoscenza. Tre poemetti come trilogia di uno sguardo, in The City Crisis – The Priority of the XXI century … for a “UN World Conference” … for a “UN Resolutions”. Tomo 8°, Corrado Beguinot (a cura di), Giannini, Napoli 2011, ISBN 9788874315222, pp. 692‐703 L’uomo contemporaneo e il diritto alla città. Scienza, filosofia e poesia tra la conoscenza della crisi e la crisi della conoscenza. Tre poemetti come trilogia di uno sguardo di Giuseppe Limone 1. La modernità tra la scomposizione in parti e il problema dell’intero Una città non è un mero aggregato urbano. Essa è una comunità. Una comunità che è memoria storica, figura spaziale, identità civile: precipitato di convivenze, di culture, di tradizioni. Nel mondo contemporaneo la città è paradossalmente diventata centro rivelatore di movimenti antropologici, cartina di tornasole di processi globali, test polivalente sullo stato di salute del pianeta. Alla scala della singola città, l’intero mondo riappare come misurato in controluce. Come in un principio archimedico dei fluidi, per cui in ogni punto dell’intero si trasferisce dinamicamente l’insieme. Come in un ologramma. Le città oggi attraggono in modo crescente le popolazioni, in un processo che aumenta senza tregua. Al tempo stesso, tra le parti sottosviluppate e quelle sviluppate del pianeta è in atto un fenomeno ininterrotto di migrazioni massicce, che sconvolgono gli insediamenti tradizionali e le loro culture. Il doppio fenomeno dellʹurbanesimo e delle migrazioni accade all’interno di un processo economico e tecnoscientifico globale in cui si incrociano istanze speculative, desideri e bisogni, tutti da studiare secondo una visione dell’intero capace di porsi come una filosofia dell’economia, della società planetaria e dei movimenti antropologici. Il doppio fenomeno dell’urbanesimo e delle migrazioni ha innestato un processo di rivoluzione permanente nel corpo sociale delle città. La città, investita da questi fenomeni, è sempre più congestionata, inquinata, meticciata, spersonalizzata, occupata da poteri speculativi che si oppongono a ogni piano, dispersa in periferie senza servizi e senza volto, deprivata di attrezzature e di verde, devastata da marginalità e devianze, proiettata in strutture lacerate fra l’indifferenza e l’ostilità. 2
Esiste una disciplina, l’iridologia, che a partire da ogni punto dell’iride oculare mira a individuare lo stato di salute dell’intero corpo. Ogni punto dell’iride è colto così in connessione di rete con l’organismo di cui fa parte. Allo stesso modo, ogni aggregato umano, ogni città può essere vista come l’iride del mondo contemporaneo, del pianeta. Ogni tratto della città è, in tale orizzonte, un test muto sulle condizioni del mondo. Una città è una cartina di tornasole sullo stato del pianeta e un sismografo delle sue crisi. Si pensi ad alcuni paradossi cruciali che attraversano il corpo cittadino: le velocità moltiplicano i percorsi e impoveriscono le relazioni; il crescere delle scelte possibili banalizza la crucialità dei loro significati; la potenza degli effetti realizzabili genera l’impotenza del governarli; l’espandersi dei servizi congestiona l’intero; l’accelerazione dei mutamenti cancella le memorie. La città è come attraversata da pròtesi avveniristiche che non dialogano fra loro. La ricerca spasmodica della vita genera l’invivibilità. L’economia crea diseconomie. Più crescono i servizi per la vita, più deperisce la vita. Più cresce il ricorso alle tecnoscienze, più manca un governo delle scienze. Più si inseguono i desideri, più vanno in catastrofe i valori. Più aumentano le velocità, più diminuisce la capacità di governarne gli effetti. Più si parla di libertà, più si praticano solitudini. Più diventano rapidi i flussi di comunicazione, più aumentano le distanze fra i luoghi di produzione e quelli di consumo. Più cresce l’accelerazione verso il futuro, più si perde il governo del futuro. Tutti i processi che investono le città sono oggi il nostro osservatorio sperimentale e portatile sulle caratteristiche di un mondo che, rendendosi percettibile alla nostra scala, da ogni angolo del pianeta ci arriva addosso. Questo mondo va conosciuto, capito, fronteggiato e, allʹaltezza di ogni città, governato. Per l’effetto combinato dei fenomeni di complessità e di velocità che caratterizzano il nostro tempo, l’intera cartografia del mondo contemporaneo si fa specchio della storia umana. Tutto ciò costituisce per noi un quadro di sintomi che è, al tempo stesso, una struttura di quesiti. La città ci questiona. La velocità dei processi esige da noi capacità di previsione; la complessità esige unità di visione; la pervasività della tecnoscienza domanda nuovi modelli conoscitivi; i massicci processi di migrazione postulano nuovi modi di impostare i rapporti con l’altro. I fenomeni indicati hanno determinato una pericolosa patogenesi nel corpo delle città. Una tale patogenesi, a cui paradossalmente concorre la stessa tecnoscienza, deve essere studiata per essere governata. Governata con le 3
scienze. Ma gli interventi delle scienze devono urgentemente superare la loro stessa frantumazione, aprendosi a una regía unitaria che significhi una scienza della connessione fra le scienze. Osserviamo. I processi di mutamento, a comando economico e tecnoscientifico, sottopongono ogni persona e ogni gruppo a stress di sradicamento: sradicamento dal tempo, dallo spazio, dai contesti sociali, dalla propria immagine del mondo, dalle memorie. Tutto ciò esige risposte rapide e consapevolezza matura. La città è il nostro primo approccio all’essere insieme, all’essere in comunità. Essa è uno dei nostri primi test sul mondo. Occorre rispondere alla velocità con la prevenzione, alla tecnoscienza con una nuova conoscenza, ai fenomeni distorsivi della vita comune con strategie urbanistiche qualificate, alla complessità con una percezione nuova dell’intero cui si appartiene. Emergono, in questo orizzonte, tre contraddizioni fondamentali: quella fra ragioni scientifiche separate che non trovano una ragione comune, quella fra una ragione che non riesce a conciliarsi con un vissuto e quella fra un vissuto che non riesce a strutturarsi intorno a valori comuni. Il problema del vivere in una città è la rappresentazione in vivo di queste contraddizioni cruciali. È necessaria pertanto una strategia complessiva che risponda a queste contraddizioni. Una tale risposta deve potersi strutturare intorno a un diritto fondamentale, da promuovere come prioritario nella temperie contemporanea: il diritto alla città. Un tale diritto significa quel diritto che ‐ accanto ai diritti alla vita, a una famiglia, all’associarsi – è il diritto a una comunità concreta in cui si è radicati e si vive. Nessuno può vivere senza una comunità. Un tale diritto è degno di essere considerato oggi uno dei diritti fondamentali della persona alla scala del pianeta. Si badi: la “comunità” non nasce dalla semplice idea “buonista” del volersi bene, ma dalla situazione reale, permanente e irrevocabile, se ne sia consapevoli o no, del condividere insieme i medesimi pericoli. Ma qual è la strategia prospettica per intendere il rapporto tra il mondo della conoscenza e la persona? Occorre una scienza che dalle parti e dalle scienze delle parti sappia ricostituire l’intero, occorre una scienza che sappia non solo di spazi fisici, ma di spazi simbolici: fenomeni, aree, distanze, colori, strutture, ostacoli debbono poter essere simbolicamente decodificati; occorre una sensibilità alla prossemica e alla simbolica di gesti e geometrie; occorre una scienza della comunicazione in un mondo di fraintendimenti tra etnie; occorre una scienza che riduca le distanze e che intervenga sulle cause ben prima che 4
sugli effetti; occorre una scienza che sappia delle energie rinnovabili e delle nanotecnologie; è necessaria una scienza che sappia della memoria e del futuro; urge una scienza che sia esperta dei limiti delle scienze, che si occupi dell’intero e che curi non solo il compreso ma i vissuti. Una città oggi è un sensóre del pianeta. In una società planetaria investita da complessità e velocità, tutto diventa paradossalmente effimero e povero, perché ciò che è veloce è precario e ciò che è complesso è fragile. La città – per l’affollarsi di vite diverse, per l’accrescersi di accelerazioni, per la sottrazione progressiva di spazi – si congestiona. Essa, pervasa da fenomeni opposti e coevi, si fa felina, ferina, insofferente, indifferente, sudicia, sorda, veloce, feroce. Ciò che la colma è la dismisura; ciò che le manca è la memoria e la pietà. La città si fa brutta. Pendolo che oscilla tra l’indifferenza e l’ostilità. Rivelatori sommersi del suo stato di salute diventano i suoi soggetti deboli: i bambini, gli anziani, gli svantaggiati, i disabili, gli immigrati. Nei loro silenzi e nelle loro latenze di vita si disegna l’intera cartografia della salute d’un pianeta. A questa scala di sguardo siamo oggi chiamati a collocarci, per essere al tempo stesso concreti e globali. 2. Scienza, filosofia, poesia Quando Tito Lucrezio Caro, straordinario poeta latino, scrive il De Rerum Natura, compie in unʹopera sola più atti di genio. Traendo ispirazione dal pensiero di Epicuro, egli, con la sapienza di una poiesis condotta alla terza potenza, trasforma la religione in scienza, la scienza in filosofia, la filosofia in poesia. Una tale chimica di creazione va meditata. La scienza degli atomi viene chiamata a superare i pregiudizi del terrore religioso; la filosofia è chiamata a comporre in una superiore sapienza le scoperte della scienza; la poesia è chiamata a realizzare in un vissuto nuovo lo sguardo della vita che dall’interno e dallʹalto contempla l’intero. Su tutto, come su un salutare naufragio, regna la bellezza. Anzi, la sua personificazione serenatrice: Venere. Si tratta di quella bellezza che fa soggiacere Marte, gli istinti aggressivi e di guerra, mentre li converte in forza di rigenerazione. Il problema di Lucrezio è il problema eterno dell’uomo. Come relazionare la conoscenza con quell’intero a cui la stessa conoscenza appartiene? Il quesito di Lucrezio attraversa tutti i tempi ed è, ogni volta daccapo, sollevato alla coscienza. È un quesito che l’uomo contemporaneo può porsi davanti all’intero 5
cosmo, all’intero pianeta, all’intera città. L’uomo sa che il suo stesso domandarsi fa parte dell’intero su cui si domanda, come se quel medesimo intero partecipasse alla domanda su di sé. Interroghiamoci: qual è stato il modo con cui l’era moderna ha risposto a questa domanda? Ha risposto con la scienza sperimentale, matematicamente misurata. La quale a sua volta ha risposto con due strategie combinate: sezionando l’intero in parti e separando i fatti dai valori. Ha risposto con un radicale atomismo e con una radicale neutralità valoriale. Sono state queste le coordinate lungo le quali la scienza ha realizzato progressi mirabili, compiendo esponenziali accelerazioni. Questa operazione straordinaria ha conosciuto costi, tutti da meditare. Sulla strada percorsa dalla scienza è stata chiamata a compiere un referto critico permanente la filosofia. Siamo oggi pervenuti a uno stadio di civiltà in cui questo modello conoscitivo non regge più. Il paradigma tradizionale è ormai un vestito troppo stretto per un corpo che ha ben altre necessità. I due dogmi su cui la scienza era cresciuta sono entrati contemporaneamente in crisi, donde la nascita di due paradossi: 1) una scienza non può svilupparsi senza specializzazioni e non può svilupparsi senza un approccio scientifico che superi le specializzazioni; 2) una scienza non può svilupparsi senza mantenere separati i fatti dai valori e non può svilupparsi più senza un approccio che superi la separazione tra i fatti e i valori. In entrambi i casi lo sviluppo della conoscenza sembra richiedere un metodo e il suo contrario. La scienza appare invocare un approccio metodologico e il suo opposto. Essa rischia ogni momento di segare il ramo dell’albero su cui è seduta1. Il problema è quello di sempre: la conoscenza dell’intero. L’uomo contemporaneo si scopre, sul pianeta, nella stessa condizione in cui si trova Walter Benjamin in quella grande città che tutti rende anonimi e soli. Gli uomini si pongono tutti la stessa domanda: come vivere civilmente il rapporto con quell’intero di cui si è parte? Come vivere in una città? Come rispondere alla 1 Sul punto si veda: G. Limone, La dignità della persona all’incrocio di paradossi nel tempo della velocità. L’anacoluto della pietra scartata come centro del discorso, in Prospettiva e modelli della cooperazione di giustizia nel Mediterraneo, Justice cooperation peace. La cooperazione di giustizia per lo sviluppo e la pace nel Mediterraneo, SUN‐ Facoltà di Studi Politici «Jean Monnet» per l’Alta Formazione Europea e Mediterranea (a cura di), ESI, Napoli 2010, pp. 247 – 271. 6
frantumazione dei saperi e alla separazione dei fatti dai valori? Come rispondere alla lacerazione costituita da queste due separazioni? C’è un primo livello di reazione all’urgenza dei tempi: è un nuovo emergere della filosofia. La filosofia infatti ha da sempre significato un sapere radicale e trasversale che a tutte le scienze pone il problema delle radici e del senso. Ma la filosofia, più volte ostracizzata come inutile, ha troppe volte risposto all’ostracismo chiudendosi in una separata fierezza. Una tale “fierezza” nuoce alle scienze e alla filosofia stessa. La filosofia, per sua vocazione, vive il problema della conoscenza dell’intero: delle sue connessioni interne e delle sue radici. Essa nasce, per sua natura, all’interno di una comunità civile, di una città. Essa vive, per suo statuto, allʹinterno di una complexio oppositorum. Ciò significa che essa pone con forza il problema dell’unità, del senso e dei valori, che le scienze non possono affrontare. Ma la stessa filosofia ha propri limiti, anch’essi insuperabili. Davanti alla conoscenza di un mondo e di una città, non si vive solo il problema mentale, noetico, del conoscere l’intero. Esiste nell’uomo un altro radicale bisogno. Davanti alla realtà in cui vive, l’uomo ha un problema più profondo e più grande: quello di esperire un vissuto. Il filosofo, pur guardando all’intero, si ferma allo sguardo noetico, mentale. Solo il poeta sa far vibrare i vissuti. La poesia traduce una forza emozionale in una forma reale perché tutto risuoni come in un universalissimo gong. Solo la poesia, nel mettere in contatto con un intero, fa trepidare tutt’intorno i vissuti. E occorre la grande poesia per far risuonare quell’intero che vive nella filosofia. Qui la poesia attinge a una forza emozionale che pesca in un originario permanente che sempre la precede e l’accompagna, in un percorso che ha radici comuni con la religione. Perché la poesia è religione di una bellezza che si fa universale e che vibra come un vitale e permanente terremoto. A fondamento di una città vive una pietas comune. Solo nella coscienza subliminale e profonda di questa possibile pietas che tutti tiene insieme in un filo invisibile, sono propizie le condizioni per sentire ogni altro come un “tu”, in un rapporto che non è alla terza persona ma faccia a faccia. Non basta che la città sia un universo di servizi: occorre che conservi le risorse essenziali che propiziano lʹesistenza di un rapporto fra persone. Tito Lucrezio Caro nella sua poesia compie la triplice operazione di essere scienziato, filosofo, poeta. Egli sapeva che della città occorre non solo scienza, ma filosofia e poesia. Nel De rerum natura Lucrezio compie il percorso dalla bellezza di Venere alla peste di Atene, quasi a maieuticamente rivelare dentro la stessa peste lʹurgere umano del bisogno di bellezza. La poesia, in quanto ricerca del vissuto 7
personale e comunitario, è ricerca di bellezza, perché è ricerca di quella matrice in cui ognuno e tutti si riconoscono in un comune vibrare. Nella poesia respira una religione della bellezza che è bellezza della religione: della religione nel senso più radicale e più alto. Ogni città ha una matrice e noi siamo chiamati ogni giorno a recuperarne il senso e il luogo comune. Tutti siamo stati bambini e custodiamo in noi le memorie dei luoghi in cui siamo stati bambini. Dice il Rig Veda: «Trovandomi nella Matrice ho conosciuto tutte le nascite degli dei» (Inno vedico di Vamadeva da Rig Veda, IV, 27,1). Bruce Chatwin, ricordando la lezione del Buddha Gotama, ha scritto: «Non puoi percorrere il sentiero prima di diventare il sentiero stesso»2. Oltre le scienze delle parti e oltre la filosofia come scienza dell’intero, vive la poesia: essa è quel sentiero vissuto che è l’unico modo per entrare nel cuore delle cose. 3. Tre poemetti come trilogia di uno sguardo Scienza, filosofia e poesia, quindi, sono tre modalità del contatto con il proprio essere‐insieme in un aggregato umano, in una città: tre strategie costituenti l’impresa complessa con cui rispondiamo ai problemi conoscitivi ed espressivi che ci pone la vita in un cosmo civile. Questa impresa intende darsi, nei tre poemetti che seguono, una triplice prospettiva, una trilogia dello sguardo. Si rifletta. L’aggregarsi civile degli uomini ha un passato, un presente e un futuro. Si tratta di tre luoghi del tempo che richiamano tre vissuti emozionali: ogni passato ha il suo mito, ogni presente ha il suo occhio descrittore, ogni futuro ha la sua utopia. La trilogia dello sguardo, rappresentata dai tre poemetti che qui seguono, si sintonizza pertanto su tre registri: il mito dell’ieri, la cruda carne dell’oggi, la possibile utopia del domani. Si badi. Ogni poemetto tende a strutturarsi e a oscillare intorno a tre fuochi. Il primo poemetto, intorno alle matrici geometriche e stellari del cosmo, intorno alle energie elementari (fuoco, acqua, terra, aria) e intorno alle migrazioni; il secondo poemetto, intorno ai mali della città, alle potenze della tecnoscienza e ad alcune possibili linee di soluzione; il terzo poemetto, infine, coglie nei crepacci stessi dei mali il disegnarsi dei bordi per una rinascita e, all’interno di essi, i profili per una nuova utopia. Ma tutti e tre i poemetti, attraversati da un’unica voce, appaiono 2 B. Chatwin, The Songlines, New York Viking‐Penguin Books, 1987 (tr. it. Le vie dei canti, Milano, Adelphi, 1988). 8
filigranati da tre figure essenziali: il bambino, il poeta e l’angelo. Sono le tre forme che esprimono, in ogni tempo, il bisogno di un nuovo inizio. Ogni scienza, ogni filosofia, ogni poesia è sempre segnata dall’interrogazione sull’inizio e per un inizio. Perché la storia di ogni civiltà è la storia di un ricominciare sulle tracce di quanto si è compiuto. Appartiene alla poesia, insieme col senso della catastrofe, il tema aurorale del cominciamento. Essa ricorda a tutti, nel dolore, le perenni virtù dell’inizio. Fra queste virtù è fondamentale la libertà, che è la fonte originaria di ogni inizio nuovo: la radice. E – con la libertà – la fantasia, il perdono, la pietà e, radice di ogni radice, la speranza. Si badi. Come lo spazio è, per un corpo vivo, la sua condizione essenziale, tal è per ogni compito e per ogni cammino la speranza. Non può esserci compito, né cammino, senza la speranza. La speranza, perciò, non è semplicemente ciò che accompagna un agire, ma l’unico orizzonte in cui può maturare un qualsiasi agire. Ciò che è lo spazio per un corpo vivo, è per un cammino la speranza. Di più: la speranza è, in apicibus, la condizione di possibilità di ogni fede. L’angelo è l’energia del possibile che rompe il consolidato, il nuovo che nessun “tutto” può esaurire, la necessità del possibile che buca da sempre la necessità del necessario. L’angelo custodisce, annuncia, soccorre, consola, ìndica, guida. Egli, messaggero di speranza, annuncia in forma gentile l’indomabilità della speranza. Come il bambino e la poesia. Figure perenni di misura critica e di rigenerazione ideale. La speranza è, in questo orizzonte, l’incondizionato del possibile e il possibile dell’incondizionato. La porta stretta in cui passa il Messia. La rivoluzione dell’istante. Il guizzo di luce inattesa che spalanca la notte. Il rivelarsi del varco. Lʹapparizione della sorgente. L’esplodere nella roccia del fiore. Lʹirruzione dellʹaiuto ignoto. Lʹimprovvisa epifania del papavero in una distesa di neve. La stella della redenzione. «Solo per chi non ha più speranza, ci è data la speranza» (Walter Benjamin, Angelus novus). Giuseppe Limone Professore Ordinario di Filosofia del diritto e della politica Seconda Università degli Studi di Napoli [email protected] 9