Nei pozzi di Sa Osa a Cabras si rivela il mondo vegetale della

Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano
Nei pozzi di Sa Osa a Cabras si rivela il mondo vegetale della Sardegna nuragica
Cinque anni dopo la conclusione degli scavi in estensione a Sa Osa, condotti dalla
Soprintendenza per i Beni Archeologici per le province di Cagliari e Oristano in collaborazione con
l’Università di Sassari, gli studi archeobotanici rivelano il mondo vegetale conosciuto dai nuragici,
e quindi nuovi aspetti della loro economia produttiva.
Nel 2008 i lavori per la nuova strada Oristano - Cabras rivelarono un insediamento preistorico su
un leggerissimo rialzo del terreno al raccordo con la strada Rimedio - Torregrande. In precedenza
erano stati rinvenuti solo pochi frammenti sporadici, poiché la maggior parte del sito era sepolta da
un metro di sedimenti alluvionali depositati dal Tirso nei suoi millenari movimenti attraverso la
pianura. Tra il 2008 e il 2009, in tre campagne di scavo finanziate dalla Provincia di Oristano per
una durata di 9 mesi, fu indagata tutta l’estensione di quella che oggi è una rotatoria stradale.
La grande impresa archeologica ha avuto il merito di indagare per la prima volta in estensione un
insediamento nuragico senza nuraghe perdurato dal Bronzo Medio al Bronzo Finale - Primo Ferro
(circa 1500-800 a. C.): un sito non monumentale e quasi senza strutture edilizie caratterizzato dalla
posizione in prossimità del basso corso del Tirso, in un ambiente instabile segnato dalle cicliche
esondazioni del fiume, quindi dai rischi e dalle opportunità conseguenti.
Nei pozzi più profondi del settore meridionale, colmati da una fanghiglia perennemente umida a
causa della falda acquifera superficiale, fu subito notata una grandissima quantità di semi d’uva e di
fico. Le nuove scoperte sono venute dalla setacciatura dei campioni di sedimento prelevati e sigillati
durante lo scavo. Dapprima il gruppo di archeobotanica del Centro di Conservazione della
Biodiversità dell’Università di Cagliari ha pubblicato i risultati degli ultimi studi sui semi di vite
rinvenuti nei pozzi, fornendo importanti indizi sull’origine della viticultura in Sardegna e in Europa
(Vegetation History & Archaeobotany, http://link.springer.com/article/10.1007/s00334-014-05129); ora, grazie anche alla collaborazione con i migliori specialisti nazionali ed internazionali del
settore (Soprintendenza per i Beni Archeologici della Toscana, Laboratorio di Palinologia e
Paleobotanica dell’Università di Roma La Sapienza, Istituto per la Valorizzazione del Legno e delle
Specie Arboree di Sesto Fiorentino, Instituto de Historia di Madrid), il contenuto del pozzo più
ricco di reperti, il pozzo N, è stato accuratamente studiato sotto tutti i diversi aspetti botanici (Plant
Biosystems, http://www.tandfonline.com/eprint/sycgI3HfuJZNycA9vExy/full#.VOW5SRzGdYs).
Sono stati identificati centinaia di migliaia di semi, frutti, granuli pollinici e frammenti di legno e
carbone di piante coltivate e selvatiche, come olivo, mirto, mora, frumento, orzo, prugnolo
selvatico, cicerchia, ginepro, lentisco e molte altre ancora. La novità più singolare è data dal
ritrovamento di 47 semi di melone, specie la cui coltivazione in tempi preistorici era nota finora
solo nel Vicino e Medio Oriente. I semi di melone ritrovati nel pozzo N di Sa Osa, datati col C14 al
periodo compreso tra 1310 e 1120 a.C., costituiscono attualmente la più antica testimonianza della
coltivazione del melone nel bacino del Mediterraneo. Ora sono in corso analisi genetiche e
morfologiche in collaborazione con l’Università Politecnica di Valencia. Il quadro archeobotanico
rivela che la popolazione stanziata nei pressi di Cabras alla fine del Bronzo Recente aveva
un’economia di sussistenza altamente sviluppata e una profonda conoscenza della flora e
vegetazione della Sardegna, su cui eseguiva un’attenta selezione delle materie prime.
Naturalmente è del tutto casuale che questi siano i più antichi semi di melone conosciuti nel
Mediterraneo. Nulla suggerisce un primato dei nuragici nella coltivazione del melone. Piuttosto,
negli scavi e nelle ricerche di Sa Osa è stato tenacemente perseguito l’obiettivo dell’indagine
interdisciplinare a tutto campo ed è stata sfruttata la prima occasione favorevole presentatasi.
Attraverso l’intero spettro delle specie vegetali domestiche e spontanee documentate nei pozzi di
Sa Osa, e attraverso i resti ossei animali ugualmente oggetto di studio, vediamo l’emergere di
diverse forme di agricoltura e allevamento: da un lato attività estensive per la produzione di cereali,
legumi, fibre tessili, carne, latte, lana, cuoio e pelle, e prodotti derivati come quelli caseari;
dall’altro, almeno in alcuni ambienti particolarmente adatti per natura o adattati dall’uomo, attività
intensive e specializzate per la produzione di ortaggi e frutta.
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Il pozzo N di Sa Osa (foto A. Usai)
Trattamento dei sedimenti archeologici per l’estrazione dei materiali botanici (foto D. Sabato)
Vinaccioli (sinistra) e acheni di fico (destra) appena dopo il ritrovamento (foto C. Buffa)
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Alcuni dei semi e frutti ritrovati nel pozzo N di Sa Osa: a) frumento nudo, b) lentisco, c) ginepro, d)
olivo, e) prugnolo selvatico, f) melone, g) mirto, h) mora, i) fico, l) vite, m) ghianda di leccio (foto
D. Sabato)
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Alcuni dei semi archeologici di melone ritrovati nel pozzo N di Sa Osa (foto D. Sabato)
Frammenti di sughero (sinistra) e altri frammenti di legno (destra) appena dopo il ritrovamento (foto
I Sanna)
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Rametti di ginepro probabilmente usati come materiale da costruzione. In molti di loro
l’interruzione dell’ultimo anello prima della quiescenza autunnale indica che furono tagliati tra la
fine dell’estate e l’autunno (foto D. Sabato)
Estrazione del polline dai sedimenti archeologici (a sinistra), e alcuni dei granuli pollinici ritrovati
(a destra): a) olivo, b) avena/frumento, c) Chenopodiaceae, famiglia che include la barbabietola, la
bietola e gli spinaci, c) Ericaceae, famiglia che include l’erica e il corbezzolo (foto C. Pepe)
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