4. 6.2005 - La Voce del Popolo

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ARCHEOLOGIA Il mare di Lissa le fu infausto
IN QUESTO NUMERO
Un’esplorazione nelle viscere
della sfortunata «Re d’Italia»
di Carla Rotta
Posata di chiglia, un po’ inclinata
a destra, i contorni ancora delineati
anche se le parti in legno ormai le ha
intaccate il mare. Con ogni probabilità è la “Re d’Italia”, sfortunata ammiraglia della flotta italiana sconfitta
nella battaglia di Lissa dalle navi austriache. Giù, sui fondali dell’Adriatico, dal 20 luglio 1866. Un libro di
storia, lo specchio di mare che lambisce le sassose coste di Lissa, una bara
blu: accanto alla corazzata, navi di costruzione più recente, un aereo della
Seconda Guerra Mondiale. E a cercare ancora, sicuramente dell’altro.
Ma questa volta, a oltre cento metri
di profondità, si è scesi per leggere la
battaglia di Lissa.
“È difficile verbalizzare la sensazione che si prova a oltre cento metri
di profondità, in jeans e maglietta, – ci
dice Jasen Mesić, esperto di archeologia subacquea, master in Italia, in un
colloquio telefonico – concentrarsi, in
un mondo così diverso, in una situazione estranea, surreale quasi: bisogna adattarsi al silenzio, alla luce che
tale non è, ad un mondo che non è fatto di tanti colori ma di tante tonalità
di un colore solo. È come conquista-
re un’altissima vetta, credo. Sì, forse
è paragonabile ad un’impresa di questo tenore.” Solo che invece di salire,
si scende. Lentamente, a bordo di un
sottomarino da ricerca che è attrazione di per sé. E che in un’immersione
si è bloccato, anche, tenendo l’equipaggio con il fiato sospeso. Per poco:
a cercare l’ammiraglia di una flotta, è
andata un’ammiraglia della ricerca.
La francese “Comex”. E la nave appoggio “Janus II” era là per garantire
sicurezza.
Perché proprio Lissa? Perché per
scendere a quelle profondità, abbiamo
bisogno di supporti tecnici di fuori. E
l’aiuto è arrivato grazie ad una donazione di “uso” di supporti tecnici, appunto. Per arrivare ai relitti dell’Alto
Adriatico – coste istriane, ad essere
precisi, basta molto meno e ce la possiamo fare da soli in ogni momento.
Per la flotta di Lissa, parafrasando,
c’è voluta quasi un’altra flotta. Concentrata in un catamarano con sommergibile appresso che hanno mobilitato residenti e turisti di tutte le città
di mare che la spedizione ha toccato.
Un sito archeologico, Lissa, di
quelli che fanno la felicità degli storici e archeologi. Un tesoro di per sé,
al di là dei forzieri che si vogliono a
bordo del relitto e dei quali non si ha
prova ma che comunque, esistendo, al
confronto, sarebbero ben poca cosa.
Sito che intanto è stato localizzato
con la precisione che finora era mancata per ovvi motivi. Ciò nonostante,
proprio per la sua importanza, il Ministero alla Cultura della Repubblica
di Croazia a suo tempo aveva provveduto a mettere sotto tutela l’area che
presumibilmente era stata teatro della storica battaglia. Adesso è tutt’altra
cosa: le coordinate sono ben definite
e l’ordinanza ministeriale ne tiene debito conto.
Ci saranno presumibilmente altre
campagne di ricerca, questa appena
conclusa non è che la prima,
servita appunto a riconoscere il sito.
Questo numero di Storia e Ricerca si apre
con un'avventura nei fondali adriatici, al seguito di una straordinaria spedizione archeologica
subacquea alla ricerca dei resti della "Re d'Italia", affondata nella battaglia di Lissa il 20 luglio 1866.
Flavio Forlani ha intervistato Stefano Lusa,
responsabile del Settore Università e Ricerca della Giunta esecutiva dell'Unione Italiana,
mentre Roberto Palisca ha parlato con Giuliana
Pirjavec, discendente di due antiche famiglie patrizie fiumane.
Kristjan Knez ha ricostruito gli ultimi combattimenti nel Litorale adriatico della Seconda
guerra mondiale, nonché alcuni aspetti dell'offensiva jugoslava; una mostra allestita a Trieste, fotografa i quaranta giorni dell'occupazione
titina della città. Nel contributo di Orietta Moscarda Oblak, ricercatrice del CRS, è contenuta
un'originale analisi della costituzione del potere
popolare in Istria e dello smantellamento delle
precedenti strutture nel 1945.
L'inserto si chiude con un'immersione nella
monografia (edizioni Cash) sui tremila (o quasi)
anni di storia di Pola.
Segue a pagina 2
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• n. 4
• Sabato, 4 giugno 2005
Il dettaglio
dello squarcio
che ha fatto
imbarcare
l’acqua
2 storia e ricerca
Sabato, 4 giugno 2005
J. Mesić e N. Boichot che “sciacquano” con acqua dolce la bussola tirata su dal relitto
ARCHEOLOGIA
Dalla prima pagina
Punto di partenza e di arrivo,
si potrebbe dire, la chiave di tutto,
nello specifico, soprattutto in funzione della tutela. Finora, a garantire l’inviolabilità dei relitti ci
ha pensato il mare con le sue profondità, ma è barriera che basta
sempre meno. Accanto all’ammiraglia, dovrebbero esserci i resti
della “Palestro”: indizi ce ne sono
ma il relitto non è stato individuato con certezza. Come si sente
l’esperto che ha, diciamo, toccato
con mano, la “Re d’Italia”? “Orgoglioso”, non ha dubbi Mesić.
Ma sono momenti indimenticabili anche quelli dell’entrata in porto del gigante francese, della bellissima collaborazione con i colleghi d’Oltralpe, del perfetto funzionamento di tutte le istituzioni
(tante) e uomini (tanti anche questi) coinvolti nell’impegnativa
campagna. Funzionamento ineccepibile anche quando qualcosa è
giocoforza andato storto.
Questa l’attualità. Ma a Lissa, com’erano andate le cose?
Uno scontro da mettersi le mani
nei capelli per i risvolti da operetta che ha avuto, ma i quasi settecento morti (620 da parte italiana,
38 austriaca) impongono rispetto
nella lettura di fatti. Una battaglia
incominciata male e finita peggio.
Voluta fortemente dal Governo di
allora per riscattare l’orgoglio,
forse più politico che militare, andato miseramente a farsi friggere
nella disastrosa disfatta terrestre
di Custoza. Scontro strano, disfatta lampo: la guerra all’Austria
(la Terza d’Indipendenza, per la
precisione) era stata dichiarata
il 20 giugno del 1866, il 24 già
la disfatta di Custoza. L’Esercito
decisamente non era in grado di
sanare una ferita così vergognosa, e allora si pensò di investire
la Marina del dovere del riscatto.
Ma in un’Italia appena unificata,
la Marina frutto della fusione di
flotte di tre Stati (Regno di Sardegna, Granducato di Toscana,
Regno di Napoli) con ammiragli
provenienti da queste impegnati
all’aspra corsa al posto, probabilmente nemmeno questa avrebbe
potuto fare granché. Comunque
all’ammiraglio Carlo Pellion di
Persano venne ordinato di salpare alla ricerca della flotta austriaca e attaccarla “per provare che
il suo mare non è suo.” Non che
Persano ne avesse voglia. Levò
le ancore solo quando fu messo
alle strette (il Ministro Depretis
ordinò la presa di Lissa) e quando Governo e Ministero promisero di unire alle navi che aveva (non poche, in verità: 28 con
650 cannoni e 16 mila uomini),
l’”Affondatore”, ariete corazzato
munito di torri a piastre d’acciaio
e di cannoni Armstrong da 266
mm. Ma se solo le unità avessero fatto onore al nome che portavano! Formidabile, Affondatore,
Terribile (poi, le protocollari Re
d’Italia e la sorella Re di Portogallo, Carignano, Principe Umberto, Palestro, S, Martino…)
La flotta italiana, partita ad Ancona il 16 luglio, era un’armata
Brancaleone sul mare: confusa,
disordinata. Fors’anche incapace. Davanti a Lissa Persano divise la flotta in quattro squadre:
una ai suoi ordini (8 corazzate
e una corvetta) doveva attaccare
Porto San Giorgio; la seconda (3
corazzate e una corvetta) comandata da Vacca doveva attaccare
Porto Comisa; la terza affidata
all’ammiraglio Albini (4 fregate
in legno e una corvetta ad elica)
aveva il compito di smantellare
le batterie austriache di San Vito
e tentare lo sbarco, la quarta, con
qualche cannoniera, nei pressi di
Foto di Jasen Mesić, per gentile
concessione dell’Istituto
croato per il restauro
(Hrvatski restauratorski zavod)
Parte del relitto tranquillamente steso sul fondo dell’azzurro
Adriatico che D’Annunzio, in riferimento proprio a Lissa, avrebbe definito “Amarissimo”
La “Re d’Italia”
Al processo, il racconto
dell'ammiraglio Persano
Nella primavera del 1867 l’ammiraglio Persano venne messo
sotto processo per la sconfitta di Lissa. Così descrisse la
battaglia (da “I fatti di Lissa”, 1866): “… il nemico intanto
avanzava in 'ordine di fronte' su due file colla prora a 'scirocco
– levante', le corazzate in prima fila, le non corazzate in
seconda. Era il momento di disporsi in linea di battaglia per
cannoneggiare d’infilata i legni avversari che s’avvicinavano a
vista d’occhio, ed in pari tempo chiuder loro il passo verso le
loro terre e verso le nostre navi non corazzate, che ancora non
si erano ordinate in seconda linea. Segnalai quindi “Dirigete
ad un tempo per greco-tramontana” formando per tal modo la
linea di battaglia sui legni dell’avanguardia e riserva, che erano
quelli del Contr’Ammiraglio Vacca. Dopo 'Serrate le distanze'
e poi 'Attaccate il nemico appena a portata'… La formazione
dell’armata al mio comando doveva essere disposta su tre linee.
In tutto 22 legni per combattere. Se non che al momento di
entrare in azione, mancava la 'Formidabile', il cui Comandante
aveva chiesto, con segnale, di volgere per Ancona, non tenendo
la sua nave atta ad entrare in combattimento per le avarie che
aveva sofferto nella fazione del dì precedente. Opponevamo però
sempre 10 corazzate al nemico, che sole 7 ne presentava in prima
linea. Egli si avanzava compatto, avendo in seconda fila un buon
numero di grosse navi, fra le quali contavasi un vascello di alto
bordo di 92 cannoni. Numerando in tutto 27 navi, che si vedevano
procedere risolute e disciplinate, mentre da noi la seconda
squadra, forte di circa 400 cannoni, non si era ancora condotta al
suo posto.”
Altre immagini della Battaglia di Lissa, tratte da dipinti, stampe e giornali dell'epoca
Lesina. Ancora, due esploratori.
In totale 11 corazzate, 2 corvette a ruota, 1 ad elica, quattro fregate in legno e altri legni minori.
Ed infine,
e, doveva aarrivare
va e il te
temibile l’”Affondatore”. Ma a Lissa
le batterie austriache erano situate talmente in alto da essere sicure oltre ogni dubbio: impossibile
dare ai cannoni un’inclinazione troppo verticale, da distanze
maggiori impossibile centrarle.
Albini e Vacca si ritirarono presto dalla battaglia, poi, da Porto
San Giorgio, si ritirò anche (poco
formidabilmente) il “Formidabile”. Da Ancona arrivarono altre
navi, ma i destini della battaglia
erano già irrimediabilmente se-
capì ed eseguì. Nella mischia delle navi italiane confuse (qualcuna
si era ritirata!) piombò l’ammiraglia “Erzherzog Ferdinand Max”.
Per
e uun co
colpo
po aal ttimone,
o e, laa “Ree
d’Italia” era ferma, la “Erzherzog
Ferdinand Max” la prese in pieno centro squarciandole la fiancata. Si dice che affondò con la
bandiera al vento: 140 uomini e
il comandante Faà di Bruno morirono. Tegetthoff e gli ufficiali austriaci si levarono il berretto a salutare la corazzata. La “Palestro”,
comandata da Alfredo Cappellini,
generosamente corse in aiuto alla
“Re d’Italia” ma una cannonata
austriaca finì nel deposito del carbone incendiandola. La battaglia
Frederik Sorenson, “La Battaglia di Lissa”. Il dipinto, conservato
nell’Heeresgeschichtliches Museum di Vienna, mostra la Re d’Italia mentre affonda dopo essere stata speronata dalla “Ferdinand
Max”, dell’Ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff
gnati. Successe quello che Persano aveva in qualche modo preventivato: all’alba del 20 luglio,
salpata dal porto di Pola giunse
a Lissa, chiamata telegraficamente in aiuto, la flotta austriaca. Al
suo comando il migliore uomo di
mare che l’Europa continentale
abbia mai dato: il contrammiraglio Wilhelm von Tegetthoff. Le
navi italiane erano sparse un po’
dappertutto (qualcuna in ritirata),
i legni austriaci navigano in ordine su tre angoli a lati paralleli, a
cuneo. Persano decise di trasbordare: lasciata la “Re d’Italia” salì
sul più affidabile “Affondatore”,
arrivato in qualche modo dai cantiere inglesi. Per disdetta o fatale
equivoco la flotta non fu informata del cambio di nave ammiraglia
e in questo poi molti trovarono la
giustificazione del disastro di Lissa. Per comodità, probabilmente:
poi si disse e si scrisse che chi
non volle “capire” quale fosse
l’ammiraglia non capì e ignorò
i segnali e comandi che da questa giungevano. Chi volle capire,
era finita. Con 620 morti da parte
italiana, 38 da parte austriaca. Tegetthoff si chiuse con la sua flotta
a Porto San Giorgio. Un’imprudenza, ma Persano non la seppe
sfruttare. Tornò ad Ancona, entrando in porto nel pomeriggio
del 21 giugno preceduto da un
telegramma perlomeno singolare
nel quale si diceva rimasto “padrone del mare”. Il 15 aprile del
1867, il Senato in Alta Corte di
Giustizia dichiarò Persano colpevole unico del disastro. Non ebbe
onori in patria, per la battaglia,
nemmeno von Tegetthoff: fu promosso viceammiraglio a furor di
popolo ma visse con addosso malasorte e invidie.
Lissa fu l’ultima battaglia del
“periodo pre-dreadnought”, degli scontri alla vecchia maniera.
Quelli spavaldi e audaci. E avvenne in un momento di grande passaggio della marina che si
stava trasformando dalla vela al
vapore, dal legno all’acciaio. Ma
sembra che nessuno, allora, se ne
desse pensiero.
Carla Rotta
storia e ricerca 3
Sabato, 4 giugno 2005
INTERVISTA Stefano Lusa, responsabile del Settore della Giunta esecutiva dell’UI
La ricerca, fattore di crescita
di Flavio Forlani
Sarebbe molto difficile, quasi impossibile, cercare di individuare con certezza
una data per segnare l’inizio dell’attività
di ricerca della nostra Comunità nazionale italiana. Forse, la più veritiera, potrebbe coincidere con la tragica sorte della
popolazione italiana di queste terre dopo
la Seconda Guerra Mondiale, quando da
popolo di maggioranza si è trasformata in
pochi giorni a minoranza. Fu allora che i
pochi intellettuali rimasti videro la necessità di raccogliere e preservare le testimonianze storiche culturali e linguistiche degli italiani dell’Istria per trasmettere alle
giovani generazioni l’identità ed il senso
di appartenenza ad una terra che nel passato ha dato numerosi personaggi illustri
in tutti i campi dello scibile umano. Da
queste azioni si è poi sviluppata una rete
importante di studiosi e ricercatori in quasi ogni Comunità degli Italiani. Crescendo
si è sentita la necessità di creare una struttura specializzata per proseguire nella ricerca con quadri professionali, usciti dalle
nostre scuole, laureati presso le migliori
università sia italiane che croate o slovene. È nato così il Centro di Ricerche storiche di Rovigno che rappresenta oggi il
fiore all’occhiello della Comunità nazionale italiana con oltre trentacinque anni
di attività ininterrotta e miglioni di pagine scritte e pubblicate. È cresciuta anche
l’Unione Italiana e negli anni ha sentito il
bisogno di dotarsi di una giunta esecutiva che gestisse i vari settori di attività. In
questo mandato il responsabile del settore
Università e ricerca è il giovane dottore in
storia Stefano Lusa di Pirano, serio, dinamico, preparato e molto attivo. Abbiamo
voluto quindi realizzare questa intervista
a oltre metà mandato per vedere e conoscere la vitalità di questo settore.
Iniziamo come si usa fare di solito
con una valutazione sull’attività di ricerca della CNI e delle sue Istituzioni ed
Associazioni.
Lusa: “Ho ereditato una situazione
che dal punto di vista della ricerca era già
ben avviata con una serie di progetti da
realizzare, in particolare quelli della Pietas Julia sulla Legge 19/91, progetti che
sono stati portati a termine. Mi riferisco
alla ‘Lingua giovani’, la ‘Letteratura femminile’ e sempre con la Pietas Julia sono
stati avviati anche altri progetti tra cui il
più importante quello sulla ‘Letteratura della Comunità nazionale italiana’, un
progetto che viene portato avanti principalmente da Nelida Milani assieme ad un
suo gruppo di ricercatori che a conclusione sarà una delle pietre miliari, dovrà porre un quadro della situazione e soprattutto sarà un’opera che darà spazio e voce a
tutta una serie di autorevoli autori connazionali. Ovviamente ci sono poi una serie
di progetti del CIPO che abbiamo ereditato dal passato e che stiamo insistendo
acciocchè vengano realizzati. Proprio recentemente la Giunta Esecutiva ha stabilito un ultimissimo termine per la consegna della documentazione necessaria per
avviare questi progetti di ricerca, entro il
31 dicembre di quest’anno. Un tanto per
sbloccare un periodo di stasi del CIPO
che se non dovesse farcela i mezzi messi
a disposizione andranno impegnati in altre iniziative. Perché il CIPO è un soggetto molto importante che ha prodotto finora
delle eccellenti ricerche sociali ma anche
convegni e seminari.
Il soggetto principe della ricerca però è
il centro di Ricerche storiche di Rovigno
che sta producendo tutta una serie di opere, di iniziative che sono degne di nota e
che proseguono in quello che è il tradizionale campo d’indagine del Centro.”
Qual è secondo te l’importanza del
lavoro di ricerca per una minoranza, un
gruppo nazionale?
Lusa: “Secondo me ha due aspetti. Da
una parte la ricerca ha la funzione di svolgere un’analisi introspettiva all’interno
della comunità e del territorio, della so-
Gli spazi del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno
cietà in cui si vive e quindi c’è questo momento di autoanalisi, di riflessione seria su
tutta una serie di questioni. Può essere la
ricerca storica, può essere la lingua, può
essere la Società, le tradizioni, può essere
anche un discorso più politico. Il secondo
aspetto che a mio avviso è molto importante è della crescita intellettuale, culturale, dei singoli membri che svolgono ricerca. Molto spesso questa ricerca viene fatta
attraverso istituzioni come il CRS o come
la Facoltà di Filosofia di Pola, quindi con
una crescita professionale qualitativa.
Una crescita che comporta anche un lavoro di ricerca fatto con i canoni della ricerca scientifica classica ‘seria’, e accanto a
questa una ricerca che si fa nelle Comunità degli Italiani che è una ricerca, sempre
seria, però di altro tipo. Io credo che quest’anno grazie al settore quadri della GE
sono state attivate borse di studio per studi
post laurea che possono essere un importante punto per far crescere dei ricercatori,
dei profili professionali e aumentare quindi la nostra produzione.”
Uno dei problemi molto sentiti non
solo da questo settore è quello della
promozione dei nostri ricercatori e soprattutto dei loro lavori nel panorama
scientifico italiano.
Lusa: “Questo è secondo me uno degli
aspetti centrali. Pubblicare in Italia a mio
avviso è difficilissimo per un qualsiasi ricercatore anche italiano. Il nostro problema è stato molto spesso, pur pubblicando
dei lavori anche pregevoli, quello di non
poter far veicolare queste opere anche in
Italia. È un problema di distrubizione che
hanno tutte la piccole case editrici. Io so
che l’Edit sta cercando di fare qualcosa
per riuscxire a distribuire i prodotti, in
questo caso dell’Edit, anche in qualche libreria in Italia. Credo che se ciò si riuscirà
a fare sarà un ulteriore passo importante
verso il riconoscimento del lavoro e delle persone che rappresentano la nostra comunità italiana. Anche la presenza a congegni e simposi in Italia di nostri ricercatori andrebbe potenziata. Qualcosa si sta
muovendo anche in questo senso negli ultimi anni, soprattutto grazie alla presenza
dei professionisti del nostro CRS.”
All’inizio del tuo mandato c’era
un’idea che avevi intenzione di realizzare e che mi sembrava davvero molto utile, importante, quella di creare
una forma di associazione, di circolo
che raggruppasse tutti i ricercatori e le
persone che si occupano di ricerca della
nostra CNI.
Lusa: “Questa era un’idea, ma l’idea
continua ad esistere sempre, nel senso che
io sono convinto che noi dovremo riflettere a medio e lungo termine sulla costituzione di una specie di Istituto, di un qualcosa che riesca ad accorpare tutte le nostre
istituzioni di ricerca, che riesca a fornire
dei servizi tecnici ai ricercatori, che riesca a dare il supporto necessario per poter consentire ai ricercatori di occuparsi
di ricerca e sgravarli di questioni burocratiche, amministrative. È un discorso che
non credo sarà possibile affrontare concretamente in questo mandato. È un’idea
che resta valida comunque anche per chi
fa ricerca a livello di Comunità degli Italiani o sul piano locale. È importante poter
contare su un supporto anche metodologico, interpretativo. Però attualmente esistono delle difficoltà nella presentazione e
realizzazione di progetti nuovi al MAE.”
Analizzando la situazione del territorio di insediamento storico si nota
una lacuna nella parte dell’Istria slovena. C’è la Società Italiana di Ricerca
con sede a Capodistria che riunisce una
quindicina di connazionali che però
trova difficoltà nel ritagliarsi uno spazio nell’area dell’Istria slovena. Forse
non si sente ancora la necessità da parte
dei connazionali per avere un associazione di questo tipo o almeno una filiale del CRS, anche per poter contrasta-
re in qualche maniera ad una incredibile produzione da parte delle istituzioni
slovene sulla storia di questi territori?
Lusa: “Questo è uno dei problemi che
era stato da me anche evidenziato sin dall’inizio del mandato di giunta. Noi nel
bilancio del 2004 avevamo inserito 15
mila euro per la creazione di una sezione del CRS che avrebbe dovuto accorpare in qualche modo quelle che erano
le realtà del territorio, però se si parlava
di sezione del CRS le modalità avrebbero dovuto essere questione del CRS e non
di interferenze della giunta e quindi si sarebbe lasciata piena libertà. Ci sono state
delle forti opposizioni anche da parte del
Console generale d’Italia a Capodistria a
questo progetto. C’è stato il timore che si
potesse creare un inutile doppione, cosa
che non era asslutamente nelle nostre intenzioni. Si riteneva anzi che essendo diventata Capodistria un importante polo
culturale e scientifico con l’apertura del
terzo polo universitario, di dare un punto
di riferimento ai nostri ricercatori che non
trovano da altre parti. D’altronde bisogna
tener conto che ci siamo scontrati con un
nuovo parere negativo su una ricerca sulla popolazione di Capodistria molto importante che è stata definita dal console
in un suo parere autoreferenziale e che a
me sinceramente ha lasicato stupito. Noi
riteniamo che quella ricerca sia assolutamente valida e che ricerche sul territorio
di Capodistria vadano fatte ma soprattutto quando si tratta di ricerca fatta non da
gruppi di amatori, ma da ricercatori professionisti in collaborazione anche con gli
istituti sloveni. In questo caso poi si tratta
di un nostro connazionale che ha un dottorato di ricerca conseguita all’Univesità di
Trieste, che ha fatto ricerche su questo territorio in maniera egregia. Io ritengo che
ricerche su questo territorio vadano fatte e
sicuramente non ce ne sono troppe.”
Anche per tutelare la nostra presenza storica visto che troppo spesso gli
scienziati sloveni ommettono di parlare della componente italiana o ancora
peggio cambiano addirittura i nomi a
dei personaggi illustri del passato come
Paolo Naldini o Santorio Santorio.
Lusa: “Sì, tutelare la presenza storica,
ma voglio dire quando si parla di ricerca
scientifica è difficile parlare di approcci
ideologici. La ricerca scientifica è una ricerca scientifica fatta con metodo scientifico che da poi dei risultati che hanno un
minimo di soggettività.”
Tu hai sottolineato prima anche il
ruolo importante dei ricercatori delle
varie Comunità degli Italiani che su alcuni argomenti delle realtà locali sono
forse più preparati ma anche più sensibili dei professionisti. Soprattutto in
alcuni settori che riguardano l’etnografia, il dialetto, le tradizioni popolari, gli
usi e i costumi. Anche queste sono ricerche molto importanti e da appoggiare?
Lusa: “Noi stiamo appoggiando anche
delle iniziative che ci arrivano dalle varie
Comunità degli Italiani. Vanno in qualche
modo distinti dei livelli. Credo che nelle
Comunità ci sia una tradizione di ottimi
ricercatori soprattutto per quanto riguarda
la Storia Patria tradizioni, costumi, Dignano sicuramente è un esempio, ma anche
Rovigno, la stessa Pirano e Isola, stanno
producendo delle cose importanti. Quindi
questo aspetto non deve venir trascurato.
Io credo però che alla fin fine noi abbiamo
bisogno di un coordinamento. Se noi avessimo un qualcosa che riuscisse a convogliare e a filtrare tutte queste attività della
base e portarle anche ad un livello qualitativo più alto sarebbe una cosa eccezionale.
Io ho cercato di puntare sulla ricerca fatta
da ‘professionisti’ e per quanto è possibile
risolvere tutta una serie di problemi logistici e strutturali per la Pietas Julia cercando di aiutare questa Società di ricerca per
dare una solida struttura per poter operare
con il massimo impegno. Poi prenderemo
in esame le altre associazioni. Dobbiamo
procedere per gradi e cercare di dare stabilità a tutte le nostre strutture.”
4
storia e ricerca
Sabato, 4 giugno 2005
STORIA POLITICA
Sabato, 4 giugno 2005
5
La tenace resistenza del Corpo d’Armata tedesco e l’offensiva di Tito nella Venezia Giulia e in Carinzia
Gli ultimi combattimenti nel Litorale adriatico:
la resa del 97.esimo Corpo d’armata tedesco
di Kristjan Knez
Il Comando congiunto per la pianificazione delle operazioni militari di Londra,
che esaminava i piani esistenti concernenti
la capitolazione delle forze tedesche in Europa, dichiarò, nella sua relazione finale, che
sarebbe stato il maresciallo Tito ad accogliere la resa tedesca nella Jugoslavia settentrionale.(1) Proprio nel territorio della Slovenia,
in prossimità di quello che era il confine del
Reich nel 1941, le forze militari tedesche opposero una ferrea resistenza, impegnando
l’esercito jugoslavo sino alla metà di maggio, benché la Germania avesse capitolato da
oltre una settimana.
Al generale Alexander Löhr, comandante del Gruppo d’armata “E” nonché di quello
di Sud-Est, era stata assegnata anche la difesa del Litorale Adriatico, della Stiria e della
Carinzia. Si trattava di un compito arduo in
quanto non poteva contare né sull’arrivo di
rinforzi né su alcun tipo di approvvigionamento militare proveniente dalla Germania.
L’artiglieria e i mezzi di trasporto delle sue
divisioni avevano subito ingenti perdite a seguito degli incessanti attacchi degli jugoslavi nonché per via delle incursioni aeree da
parte della “Balkan Air Force”. Per quanto
concerne le truppe, oltre ai reparti dell’esercito, c’erano a disposizione una congerie di
formazioni collaborazioniste sotto il comando tedesco. Si trattava di corpi di cavalleria
cosacchi, bande cetniche, un corpo di volonari serbi messo in piedi da Nedić, un corpo
provvisorio russo, formato in Serbia dai resti
dell’armata di Wrangler. Oltre a queste eterogenee formazioni, c’era la vaga idea di costituire una divisione di SS slovene, nella quale
sarebbero stati inclusi anche i gruppi antipartigiani. In più, va rammentato, i nazisti potevano contare sull’intero esercito dello Stato
indipendente di Croazia di Ante Pavelić, che
annoverava circa 200.000 unità.(2) Complessivamente vi erano circa 500.000 uomini,
che si sarebbero potuti impegnare nella difesa della Slovenia ossia nello scontro finale
con le divisioni jugoslave, per poi ripiegare in Austria. Löhr era austriaco e sognava
di poter costituire una repubblica austriaca
provvisoria, almeno sino all’arrivo degli inglesi con i quali avrebbe negoziato la resa
formale.(3)
Nell’ultimo mese di guerra l’esercito jugoslavo concentrò tutto il suo potenziale bellico nella lotta contro le divisioni tedesche, e
al contempo preparò l’offensiva che avrebbe portato le armate di Tito nei territori della
Venezia Giulia e della Carinzia, rivendicati
e dichiarati parte integrante della Jugoslavia. Nelle regioni in prossimità dell’Adriatico i combattimenti avrebbero dovuto aprire un varco in direzione di Trieste, una città
simbolo che doveva essere occupata in previsione della sua annessione al termine del
conflitto mondiale. La storiografia jugoslava che ha analizzato le ultime operazioni
in questo settore del fronte si è soffermata
principalmente, per non dire esclusivamente,
sullo sfondamento e la resa tedesca nei territori dell’Istria e della città di San Giusto.
Al contempo, però, ha omesso, o meglio, ha
affrontato in modo molto sommario la situazione militare ai confini del Litorale Adriatico cioè nella zona compresa tra il Monte
Nevoso (Snežnik), Fiume ed i territori contermini, teatro di aspri combattimenti che si
conclusero solo il 7 maggio del 1945 con la
resa incondizionata del 97.esimo Corpo d’armata tedesco. Questo contributo è una sintesi
che vuole inquadrare gli avvenimenti militari di siffatto fronte, ed in particolare un tratto
di esso: quello compreso tra Ilirska Bistrica,
Klana e il corso del fiume Eneo.
Nella fase finale delle operazioni militari,
la IV armata jugoslava aveva il compito di
avanzare lungo la direttrice Gospić-Segna-
La IV armata jugoslava a Ilirska Bistrica
Fiume-Trieste, dopodiché avrebbe raggiunto l’Isonzo, mentre una parte della stessa sarebbe penetrata in Carinzia. La surricordata
armata e le forze della I e della III armata, situata a settentrione, avrebbero dovuto
distruggere la resistenza tedesca nell’area
Trieste-Klagenfurt-Maribor-Zagabria. Il 16
aprile del 1945 la IV armata sfondò la linea
difensiva germanica della Lika, attestandosi
così tra Kraljevica e Lokve, a sud di Delnice. Questa regione era difesa dalla 237ª divisione del 97 .mo Corpo d’armata, appartenente al Gruppo d’armata “C”, che precedentemente aveva ricevuto il compito di sorvegliare l’Istria ed opporsi ad un eventuale
sbarco alleato lungo quelle coste. L’avanzata verso il capoluogo quarnerino fu bloccata dalla Linea “Ingrid”, che correva lungo
l’ex confine tra i regni d’Italia e di Jugoslavia. I tedeschi fortificarono la linea che dal
Monte Nevoso (Snežnik) raggiungeva Klana e il tratto compreso tra la sorgente e la
foce dell’Eneo, e al contempo rinforzarono
ulteriormente i già esistenti capisaldi italiani.(4) Nella zona prospiciente tale linea, altresì, realizzarono rapidamente una serie di
avamposti fortificati. A nord di quest’area,
cioè tra il Monte Nevoso, Postumia e Lubiana, le forze di occupazione dislocarono
cinque reggimenti di polizia e del corpo di
volontari serbi nonché formazioni delle SS
e della polizia, capeggiate dal comandante
delle SS Globocnik.(5) Le forze militari jugoslave concentrarono la loro azione in due
direzioni: da un lato impegnarono le truppe avversarie in una serie di combattimenti
presso Klana, dall’altro raggiunsero le isole di Veglia, di Cherso e di Lussino. Dalle
isole quarnerine la IV armata potè sbarcare
sulla penisola istriana, a Bersezio e a Draga di Moschiena, e marciare verso Trieste e
Fiume. Le unità jugoslave furono ingaggiate in intensi combattimenti in questo settore del fronte. Il capoluogo giuliano era una
delle mete da raggiungere. Era in atto la co-
MOSTRA Il periodo in cui Trieste fu in mano alla Jugoslavia
Un tassello della travagliata questione giuliana
TRIESTE - Comprendere l’impatto che sulla popolazione triestina ebbero i quaranta giorni della presenza in città dell’Armata jugoslava. A riportare indietro con la memoria, all’epilogo della seconda
guerra mondiale a Trieste, sessant’anni fa, una mostra fotografica,
“40 giorni”, realizzata dalla Lega nazionale e dall’I. R. C. I. di Trieste
a Palazzo Costanzi (dall’11 al 28 maggio scorso) .
E qual era l’aria che si respirava a Trieste fra la fine di aprile e il
giugno del 1945? L’avvento delle forze popolari del maresciallo Tito
a cosa avrebbe portato? “Gli italiani di Trieste tutti, dal 1 maggio al
12 giugno 1945, conobbero terrore, deportazione e morte. Trieste era
diventata Jugoslavia già dal primo ordine del giorno emesso dal Komanda Mesta” – così Silvio Delbello nell’introduzione al catalogo
della mostra. “L’esame della questione giuliana legata alle vicende
della guerra e del dopoguerra è impresa poco semplice e controversa
per le connotazioni che qualunque descrizione porta a raggiungere.
Dovremmo pensare al luglio del ‘43, al settembre, riandare ai tragici fatti seguiti all’armistizio italiano, al dissolvimento dell’ordine, a
quelle violenze e a quegli infoibamenti, i cui tristi recuperi delle salme sono ampiamente documentati. Chiederci il perché e il come i fatti sono accaduti” – si legge ancora – “Domandarci se la tesi, da taluni
portata avanti, della jaquerie sia effettivamente percorribile, se corrisponde al vero che il dramma delle foibe sia divisibile e, sostanzialmente, distanziabile in due momenti. L’uno, appunto del settembre
‘43, legato a moto spontaneo popolare volto ad una ribellione dopo
anni di soprusi, ovviamente fascisti, l’altro invece legato maggiormente a Trieste e Gorizia più che all’Istria del maggio ‘45, più pianificato e rispondente ad una volontà ‘ufficiale di normalizzazione diciamo jugoslava’ con le deportazioni e, spesso, il non ritorno. Dovremmo ancora considerate lo stato delle cose riguardo l’Istria legandoci
a quel unico ‘documento ufficiale’, anche questo fra virgolette, che è
la dichiarazione di Gilas per cui nel 1946 sarebbe stato mandato, da
Tito, con Kardelj in Istria con il compito di indurre tutti gli italiani ad
andar via con pressioni di ogni tipo”.
nella zona tra Kočevje e Brod na Kupi. Tenendo impegnate le stesse la IV armata potè
inviare nuove forze alle spalle della linea
difensiva tedesca presso Fiume.(8)
La 20ª divisione, approfittando dei combattimenti che si stavano svolgendo a nord
di Fiume, puntò verso occidente. Da Prezid,
attraverso la zona di Mašun, si aperse la
strada verso il Carso e Trieste.(9) La 9ª divisione, che era sbarcata sulle coste orientali
dell’Istria, penetrò sino a Knežak e Koritnica, due località di quasi nessuna importanza, ma, controllando le stesse, l’esercito
jugoslavo potè accerchiare il 97.mo Corpo
d’armata tedesco nel settore d’operazione
Fiume-Ilirska Bistrica. Sino il 25 aprile,
quest’ultimo era una riserva operativa del
Gruppo d’armata “C” in Italia, in seguito
passò al Gruppo d’armata “E”, che controllava il territorio compreso tra il Monte Nevoso ed il mare Adriatico. Nella zona
attorno a Ilirska Bistrica nonché a Klana i
tedeschi si erano installati nelle posizioni
chiave. Le stesse erano controllate da alcune migliaia di SS nonché da reparti d’élite della Wehrmacht, il territorio circostante
era controllato, inoltre, dalle forze collaborazioniste.(10) Il 29 aprile iniziava l’operazione d’accerchiamento. Attraverso Ilirska
Bistrica in direzione di Prem, la 13ª divisione jugoslava aggirò le truppe tedesche;
l’anello attorno al 97.mo Corpo d’armata si
era completato. Le operazioni interessarono l’intera area: la 1ª brigata della 13ª divisione giunse nei villaggi di Podgrad e di
Jelšane, la 3ª brigata invece arrivò a Sušak,
anche Klana cadde nelle mani dell’esercito
jugoslavo fuorché alcuni bunker. L’offensi-
Ludwig Kubler, comandante del 97.esimo
Corpo d’armata tedesco
Parlare della questione giuliana, di fine della guerra, di liberazione
a Trieste e nella provincia orientale d’Italia è dunque estremamente
complesso, controverso. Pace e liberazione? S’interroga Delbello, e
precisa: “Per Trieste non ci fu pace. La città conobbe 42 giorni infiniti di nulla. Dove non capivi se l’annullamento fisico contava di più
di quello morale. Ed erano la stessa cosa. L’altra Trieste degli sloveni
dei dintorni, di chi, pur non sloveno, ci aveva creduto moriva già, in
alcune sue parti, durante quei quaranta giorni.
‘Trieste Settima repubblica nella federativa jugoslava’ e ‘non è
Tito che vuole 1’Istria ma l’Istria che vuole Tito’ non erano solo affermazioni di propaganda, ma sarebbero state, per chi aveva quella buona fede, chimeriche illusioni che il tempo – e neanche tanto – avrebbero sconfessato. Oggi verrebbe da chiedersi quanti di coloro che il
3 maggio festeggiavano per l’annessione di Trieste alla Jugoslavia
potrebbero, ragionevolmente, continuare a pensare allo stesso modo.
Non solo fra i comunisti, presto disillusi nel loro ideale, ma anche fra
gli sloveni di Trieste.
Non fu necessario attendere il ‘48 per capire che la Jugoslava di
Tito non era il paese del bengodi, ma uno stato di polizia, con i campi
di internamento, con le deportazioni, con la privazione delle libertà
personali, con i lavori coatti, con le purghe, con i ragazzi e le ragazze istriani, che ancora restavano, obbligati a costruire le strade per
la grande Jugoslavia, con le sparizioni, con le opzioni negate, con le
punizioni e, in molti casi, la morte”, ricorda concludendo: “Oggi, nel
nome degli assoluti simbolici, ci siamo, però, scordati i perché della
storia. Ci hanno aiutato a farlo. I nostri vecchi sono morti, così i vecchi dei nostri fratelli diversi. Restiamo noi, figli di fratelli diversi fra
loro, incapaci di sapere se nostro padre era Caino o Abele, che dovremmo e vorremmo chiederci molte cose. Che dovremmo e vorremmo capire. Ma non è facile. Dovremmo e vorremmo, con quelli che
sono ancora di un’altra generazione più fresca rispetto a noi, essere
la gioventù d’Europa. Ma non è facile. Perché la memoria è memoria e non deve essere condivisa per forza. Non può essere condivisa
se è diversa. Storia e memoria non sono sovrapponibili. Dovrebbero,
ma non lo sono”.
siddetta “corsa per Trieste”, un obiettivo di
primaria importanza che andava conquistato prima dell’arrivo delle forze alleate.
Lo sforzo bellico in tale direzione fu non
indifferente, per i comandi militari jugoslavi bisognava annientare le resistenze tedesche in tempi brevi, lasciando a settentrione, ricordiamo, ingenti forze della Wehrmacht e rinviare così la liberazione di importanti centri come Zagabria, Lubiana, Celje,
Maribor, ecc. Lo storico sloveno Tone Ferenc scrive che la liberazione e l’annessione dell’Istria, del Litorale e della Carinzia
erano i principali obiettivi del movimento
di liberazione, di conseguenza, tenendo in
considerazione questo aspetto, appare chiaro perché la IV armata jugoslava avesse tanta premura a sfondare ad occidente. (6)
Con la resa delle forze armate germaniche sul fronte italiano, avvenuta il 29 aprile del 1945, gli alleati si apersero la strada
verso la Venezia Giulia e l’Austria. Edvard
Kardelj, preoccupato, quello stesso giorno inviò un dispaccio al Comando generale dell’Armata jugoslava in Slovenia con il
quale auspicava lo sfondamento del fronte
in direzione di Trieste da parte del IX corpo
e comunicava altresì che se nei successivi
tre giorni non fossero giunti nel capoluogo
giuliano, sarebbero stati gli alleati ad arrivare per primi, e sottolineò che Trieste era il
principale obiettivo dettato dal partito.(7)
Dato che l’attacco frontale contro le
posizioni abbarbicate lungo il fiume Eneo
(Riječina) fallì, quasi contemporaneamente iniziò l’operazione di accerchiamento. Il
VII corpo formò la “Kočevska operativna
skupina” (Gruppo operativo Kočevje) che
affrontò le formazioni tedesche e cetniche
Alexandre Löhr, comandante del Gruppo
d’armata “E” e di quello di Sud-Est
va puntava in direzione di Fiume. Il generale Ludwig Kübler ricevette l’ordine di continuare i combattimenti, che avrebbero agevolato il ritiro delle forze del Reich dai territori della Croazia.(11)
In vista della perdita di Trieste il comandante delle forze di Sud-Est ordinò di sfondare, attraverso Ilirska Bistrica e Postumia,
verso Lubiana. Ormai era troppo tardi. Il 2
maggio gli attacchi si concentrarono lungo l’asse Rupa-Jelšane-Ilirska Bistrica. Fu
conquistata anche Šapjane, nodo stradale
e ferroviario di notevole importanza, punto d’incrocio delle arterie di comunicazione
di Fiume, di Trieste e di Lubiana. I tedeschi
respinsero con fermezza gli attacchi in direzione del capoluogo quarnerino. Alexan-
Carri armati jugoslavi a Trieste
der Löhr fece notare che “una prematura rinuncia del compito relativo alla difesa della
città portuale avrebbe significato un enorme
pericolo per le truppe dislocate in Croazia;
egli ordinò quindi a Kübler di difendere la
zona di Fiume e, se necessario, di asserragliarsi lì con le sue truppe”.(12) Alla fine,
però, quasi assediati, i reparti germanici
dovettero abbandonare Fiume, minarono
il porto ed iniziarono a ritirarsi verso nord,
cercando di aprirsi un varco tra Ilirska Bistrica e Pivka.
L’unità militare si muoveva mediante la
tattica della “sacca mobile”, grazie alla quale i reparti combattenti proteggevano il nucleo logistico nonché i feriti.(13) Il comando
tedesco quello stesso giorno tentò di aprirsi
una breccia tra Ilirska Bistrica e Postumia,
utilizzando parti della 188ª e della 237ª divisione nonché la formazione militare “Reidl”. La mattina del 3 maggio la 188ª divisione di montagna iniziò l’attacco contro la
26ª divisione jugoslava, rompendo il fronte tra la 12ª e la 3ª brigata, conquistando
Šapjane.(14) Appoggiati dai carri armati i tedeschi sfondarono tra Rupa e Jelšane e conquistarono Sušak (villaggio di quell’area,
da non confondere con il sobborgo di Fiume). Nonostante la manovra, i tedeschi non
furono in grado di uscire dalla sacca.
L’esercito jugoslavo entrò nella città di
San Vito dopodiché anche a Volosca e a
Mattuglie. Il comando della IV armata rinforzò le sue divisioni, con uomini che giunsero anche dal settore di Trieste, per l’atto
finale che avrebbe portato alla resa tedesca
in quella zona. Le forze così dislocate impedirono che i germanici sfondassero verso Pivka e Trieste. Il generale von Hösslin,
comandante della 188ª divisione di montagna di riserva, che sostituiva il generale von
Kübler ferito, aveva pianificato lo sfondamento verso occidente, cioè raggiungere il
capoluogo giuliano ove si sarebbe arreso
agli anglo-americani. Malgrado la situazione sfavorevole per i soldati del Reich, gli
stessi tentarono nuovamente di capovolgere la situazione. Tra il 4 ed il 5 maggio si
impegnarono in un nuovo contrattacco, riuscendo ad incunearsi sino a Prem, immediatamente, però, gli jugoslavi fermarono
l’iniziativa tedesca. Era l’ultima mossa dei
soldati della Wehrmacht intrappolati in quel
settore.
Nonostante l’elevato numero di vittime i nazisti rioccuparono Ilirska Bistrica
e la tennero per un giorno. Era un bagliore, e come tale si sarebbe improvvisamente spento. Per le unità tedesche non rimaneva altro che capitolare. Le stesse erano
sottoposte al fuoco violento dell’artiglieria jugoslava, che colpiva la ristretta area
di appena cinque chilometri di diametro.(15)
Nella notte tra il 5 e il 6 maggio la 26ª divisione jugoslava, stremata dai violenti combattimenti, fu sostituita dalla 7ª divisione.
Il 6 maggio iniziava l’offensiva finale contro i tedeschi intrappolati in un angusto settore. È interessante notare che, proprio lo
stesso giorno, il maresciallo Tito inviò un
comunicato al capo della delegazione militare britannica, attraverso il quale rendeva
noto che per tre giorni l’aviazione alleata
aveva sorvolato la zona di Jelšane, ove era
accerchiato il grosso delle truppe tedesche,
ma non fu né bombardata né mitragliata.(16)
I tedeschi al comando di Löhr dovettero affrontare quattro armate jugoslave, superiori
per numero di effettivi e, soprattutto, bene
equipaggiate con armi e munizioni inglesi,
sostenute dall’aviazione e da reparti di carri
armati.(17) Attaccati da ogni lato, ormai privi
di munizioni e di viveri, e senza via d’uscita, quindi impossibilitati a ritirarsi nella
Slovenia centrale, dovettero arrendersi alla
IV Armata jugoslava.
La sera stessa il comando militare del
97.mo Corpo d’armata chiese la sospensione delle ostilità. Le trattative durarono tutta la notte e la mattina del 7 maggio venne
firmata la resa. I tedeschi proposero, in un
primo momento, di cessare i combattimenti e di ripiegare verso settentrione, ossia in
direzione di Lubiana per poi prendere la
strada della Germania, in più erano pronti
a cedere agli jugoslavi tutti gli armamenti pesanti in loro possesso.(18) Le proposte
non furono prese in considerazione. Gli
jugoslavi pretesero la resa incondizionata.
I combattimenti, comunque, perdurarono
sino alle 12 circa dello stesso giorno. All’8ª divisione si arresero complessivamente
16. 000 uomini con tutti gli ufficiali (tra cui
quaranta alti ufficiali), i sottoufficiali nonché tre generali, cioè, Ludwig Kübler, comandante delle unità tedesche nel Litorale
Adriatico, Hans von Hösslin, comandante
della 188ª divisione e Hans Grawenitz, comandante della 237ª divisione. Altre migliaia di soldati germanici furono catturati
e disarmati dalle altre unità della IV armata jugoslava.
Note
(1) W. Deakin, Vdaja nemške vojske na Balkanu
(april-maj 1945) (trad. slo), in D. Biber (a cura di ),
Konec druge svetovne vojne v Jugoslaviji, “Borec”,
a. XXXVIII, n. 12, Lubiana 1986, p. 802
(2) Ibidem.
(3) Ibidem.
(4) K. Levičnik, voce Riječka bitka, in Vojna Enciklopedija, vol. VIII, Belgrado 1964, p. 294
(5) R. Kaltenegger, Zona d’operazione Litorale Adriatico (trad. it.), Gorizia 1996, p. 202.
(6) T. Ferenc, Predaja nemške vojske iz jugovzhodne
Evrope. Konec druge svetovne vojne v Jugoslaviji, in D. Biber (a cura di), op. cit, p. 810.
(7) T. Ferenc, Sklepne operacije za osvoboditev Slovenije, in Osvoboditev Slovenije 1945, Lubiana
1977, p. 123.
(8) Z. Klanjšček, Oris narodnoosvobodilne vojne na
Slovenskem 1941-1945, Lubiana 1982, p. 116.
(9) Z. Klanjšček, Pregled narodnoosvobodilne vojne
1941-1945 na Slovenskem, Lubiana 1989, p. 313.
(10) Č. Šinkovec, Uporni svet pod Snežnikom, Nova
Gorica 1966, p. 309.
(11) I. Dolničar, Z. Klanjšček, L. Kocijan, Kako se je
končala druga svetovna vojna na Slovenskem,
Lubiana 2001, p. 25.
(12) R. Kaltenegger, op. cit., p. 244.
(13) J. Lucas, Gli ultimi giorni del Reich (trad. it.), Milano 1998, p. 145.
(14) K. Levičnik, cit., p. 296.
(15) Narodnoosvobodilna vojna na Slovenskem, II ediz.,
Ljubljana 1977, p. 961.
(16) D. Biber (a cura di), Tito-Churchill strogo tajno,
Zagabria 1981, p. 529.
(17) R. Kaltenegger, op. cit., p. 245.
(18) Č. Šinkovec, p. 316.
6 storia e ricerca
Sabato, 4 giugno 2005
SAGGI Un contributo all’analisi del «potere popolare» in Istria e a Rovigno (1945)
CPL, la rottura con le forme
amministrative del passato
di Orietta Moscarda Oblak
Il saggio, parte di una ricerca più ampia svolta presso l'Archivo di Stato di Pisino (vedi i
Quaderni XV del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno), affronta uno dei temi ancora poco
esplorati nel campo della ricerca
storica sull’Istria nel secondo dopoguerra, quello relativo alla costruzione del “potere popolare”,
vale a dire l’instaurazione e l’organizzazione del nuovo potere civile e politico nei territori contesi
fra Italia e Jugoslavia dopo la fine
del secondo conflitto mondiale.
L'intento principale è stato
quello di prendere in esame alcuni aspetti dei comitati popolari di
liberazione (in seguito CPL), gli
organismi che divennero la base
dell'organizzazione statale jugoslava, in particolare sulla loro
origine, organizzazione e strutturazione prima della fine della
guerra e nei primi mesi di amministrazione jugoslava. Un tema
questo che in parte è già stato affrontato dalla storiografia regionale, basti ricordare il volume di
Roberto Spazzali sull'epurazione
in Istria, il contributo della sottoscritta sull'epurazione a Fiume,
quelli di Luciano Giuricin relativi
al periodo settembre '43 – maggio '45 in Istria (pubblicati sui
"Quaderni" del CRS di Rovigno),
e il volume di Darko Dukovski
"Rat i mir istarski". La ricerca è
in particolare sostenuta dai materiali reperiti presso l'Archivio
di Stato di Pisino, nel fondi denominati Oblasni narodni odbor
za Istru (1945-1947)/Comitato
popolare regionale per l'Istria
(1945-1947) e Gradski narodni
odbor Rovinj/Comitato popolare cittadino di Rovigno, materiali ora depositati presso l'archivio
del Centro di ricerche storiche di
Rovigno.
Origini e funzioni
dei Comitati popolari di liberazione
Sin dalla primavera del 1945,
secondo uno schema attuato in
tutta la Jugoslavia, in Istria fu
instaurato un "potere popolare",
che traeva la propria legittimazione nella difesa della guerra
di liberazione, che gli jugoslavi
consideravano anche “rivoluzione”, nell’edificazione del socialismo e, non ultimo, nell’annessione dei territori contesi. Esso
si fondava sui comitati popolari
di liberazione, organismi politici che in regione erano nati nella seconda metà del 1943, quale
emanazione del Fronte popolare
antifascista, con compiti di rifornimento. Nell’Istria cosiddetta croata, il massimo organo era
rappresentato dal Comitato popolare di liberazione regionale
(Oblasni narodni oslobodilački
odbor za Istru), nato con la delibera del Comitato regionale del
PCC a Pisino, nella seduta del
25-26 luglio 1943. In alcuni documenti venne definito CPL circondariale o provinciale. Primo
presidente fu Joakim Rakovac
e segretario Anton (Ante) Cerovac, entrambi d’origine istriana,
moderati, che godettero la fidu-
cia degli antifascisti italiani. Inizialmente, esso ebbe il compito
di organizzare e coordinare l’attività dei comitati di liberazione
locali che stavano sorgendo sul
territorio istriano.
Con l’inizio dell’offensiva tedesca in Istria, questi primi organismi del potere popolare subirono forti perdite, e in pratica,
furono spazzati via. La loro riorganizzazione ebbe inizio verso la
fine del 1943 e nel corso del 1944
avevano già raggiunto una capillare diffusione su tutto il territorio
istriano, con una complessa strutturazione interna. Per gli aderenti
al MPL, i CPL diventarono i nuovi organi del potere statale nella
primavera del 1944, quando alla
III sessione del Consiglio territoriale antifascista di liberazione
della Croazia (Zavnoh), il massimo organo della resistenza croata, i CPL furono proclamati organi del potere statale o del “potere popolare”, strutturati, secondo
un sistema piramidale, in CPL di
villaggio, cittadini, distrettuali,
circondariali, con al vertice quelli regionali, fino allo ZAVNOH,
come supremo organo del potere
statale della Croazia. Diventavano così organi esecutivi che potevano apportare risoluzioni e ordinanze nei limiti consentiti “dalle
leggi” della Croazia e della Jugoslavia, ma erano tenuti ad eseguire le risoluzioni e le ordinanze
degli organi esecutivi superiori.
Nel maggio 1945, i CPL progressivamente assunsero il controllo di tutti i settori della vita
sociale, politica e economica
dei centri a loro sottoposti, nonché emanarono tutta una serie
di provvedimenti, decreti e ordinanze finalizzati alla legittimazione del proprio potere e alla
trasformazione strutturale della
situazione esistente, in vista della costruzione di una società socialista. Essi deliberavano sulle
materie più diverse, tra cui confische ed epurazioni. Vi erano sottoposti, almeno in un primo periodo, i tribunali e la polizia. Fu
così avviato un processo rivoluzionario che implicò la cancellazione delle forme amministrative
del passato, una riorganizzazione
dell’apparato finanziario, l’attuazione di rigide misure economiche, e una serie di altri provvedimenti. In pratica, i CPL controllavano ogni aspetto della vita civile
e istituzionale.
Nel maggio del 1945 così risultava la divisione amministrativa del territorio sottoposto al
CPL regionale dell’Istria (Istria
croata): 15 erano i CPL distrettuali (Buie, Pinguente, Cherso,
Pedena, Carso (con sede a Lupogliano), Albona, Lussino, Montona, Pisino, Parenzo, Rovigno,
Antignana, Umago, Dignano e
Gimino), 4 quelli cittadini (Pola,
Parenzo, Rovigno e Dignano).
Ma il nuovo ordinamento
politico-istituzionale jugoslavo
che trovava espressione sul suolo istriano, di “popolare “aveva
solo la facciata, in quanto la sostanza rimaneva “bolscevica”.
Dal maggio 1945 il partito e la
polizia segreta condussero in tutta la Jugoslavia, ma specialmente
in Istria, una linea politica rigida
e spregiudicata, che puntò all’eliminazione dei nemici veri o potenziali, contrari alla Jugoslavia
comunista e in particolare all’annessione dei territori contesi. Furono il partito, la polizia segreta e
l’esercito a costituire la realtà su
cui si fondò tale potere. In questo
contesto, si creò di fatto un’iden-
Nuovo ordinamento
politico-istituzionale: l'identità tra
partito e stato
Dal giugno 1945 al febbraio
1947, allorché venne firmato il
Trattato di pace tra Italia e le potenze alleate, l'Istria croata, assieme al Litorale o costa slovena e a Fiume (la cosiddetta zona
B), vennero poste sotto amministrazione militare jugoslava. A
capo c’era il generale Holjevac,
che rappresentava la zona B all’estero e ne rispondeva di fronte
al governo jugoslavo. L’amministrazione militare emanava decreti per lo sviluppo economico
e sociale dei territori, controllava
le dogane, le finanze, i traffici e
le maggiori industrie; allo stesso
tempo costituiva la massima autorità giudiziaria.
La massima autorità a livello di amministrazione civile in
Istria era rappresentata dal comitato popolare di liberazione
(CPL) per l'Istria, il quale si organizzò in varie sezioni: segreteria; economia; sociale; comunicazioni; commercio e rifornimento; sanitario e culturale.
Accanto alla figura del capo-sezione, vi erano uno o più referenti, vale a dire dei tecnici esperti
nel proprio campo, e alcuni impiegati. Si trattava di applicare
un sistema molto complesso e
complicato, con molti funzionari
e impiegati.
tità tra partito e stato. L’apparato
statale e quello del partito si intrecciarono, relegando l’azione
dei CPL in posizione subordinata rispetto a quella del partito. E,
siccome nel dopoguerra l’obiettivo principale del PCJ fu quello
di assicurare ad ogni costo l’annessione dei territori alla Jugoslavia socialista, gli sforzi maggiori dei CPL, quindi, sul piano
economico, sociale e legislativo
furono rivolti a tal fine. La priorità conferita all’obiettivo politico dell’annessione condizionò
l’organizzazione interna dei CPL,
che divennero pertanto organismi
politici di partito. Infatti, il ruolo
guida spettava al Comitato esecutivo (CE), composto da elementi
comunisti o comunque politicamente fidati.
Nell’estate del 1945, a fronte
della dichiarata fratellanza italoslava, grossi problemi esistevano
proprio nella composizione nazionale dei comitati distrettuali,
che si riflettevano anche nei rapporti di gerarchia con quelli cittadini, composti quasi esclusivamente da italiani. Ma la questione più problematica per i dirigenti regionali, era rappresentata dal
mancato consenso della popolazione in generale, e di quell’italiana in particolare.
I CPL cittadini, che operavano
a rango di distretto e quindi direttamente dipendenti dal comitato
regionale, erano quattro, precisamente Pola (sotto gli angloamericani, e quindi inattivo), Fiume,
Parenzo e Rovigno. In particolar modo, quest’ultimo operava
in completa autonomia rispetto
al distretto, che pur esisteva. Ma
esisteva anche la tendenza da parte dei comitati distrettuali a non
lasciare sufficiente autonomia a
quelli cittadini, a frenare le loro
iniziative, così come si osservava l’inoperatività di alcuni comitati cittadini, che esistevano
soltanto sulla carta, perché tutti
i loro affari venivano gestiti dal
distrettuale.
In questo contesto, la realtà
sociale di Rovigno rappresenta
un punto focale nell’indagine sulla costruzione del potere popolare, dal momento che la cittadina
istriana, con una consistente classe operaia, di forte tradizione socialista, poi comunista, era stata il
centro principale della resistenza
italiana in Istria - dove si era costituita la I compagnia di partigiani italiani, da cui poi si era sviluppato il battaglione “Pino Budicin” – presentando un nucleo
compatto di dirigenti comunisti
italiani. Furono proprio questi
esponenti e rappresentanti italiani che a guerra finita costituirono
i vari organismi del nuovo potere popolare (Comitato popolare
cittadino, UAIS, SKOJ, Fronte
delle donne antifasciste, ecc.).
Ma come in altre parti dell’Istria,
anche qui nel dopoguerra si verificarono fortissime espressioni di
quell’intransigenza e di quel radicalismo contro gli oppositori del
nuovo potere. Evidentemente, le
spinte che muovevano il nuovo
gruppo dirigente erano essenzialmente di natura ideologica, non
certamente nazionale, come succedeva in alcune cittadine dell’Istria. In questo senso, l'analisi
dei criteri e delle scelte attuate
dagli organi di governo regionale
e, di riflesso, la situazione pratica
che venne a crearsi in un contesto
sociale e politico come Rovigno
nei primi mesi di amministrazione jugoslava, e quindi gli effetti e
le conseguenze di tale processo,
portano nuova luce sulla politica
jugoslava nei confronti della popolazione istriana, in particolare
di quella italiana.
storia e ricerca 7
Sabato, 4 giugno 2005
PATRIMONIO Fiume riscopre e onora i personaggi illustri del proprio passato
L’eredità blasonata di Giuliana Pirjavec
discendente dei de Adamich e dei de Benzoni
Servizio di Roberto Palisca - Foto di Graziella Tatalović
Non sono molti i fiumani
oggi che possono vantarsi di discendere da una famiglia nobile
e illustre, e ancor meno quelli di
ben due casati patrizi, come i de
Benzoni e gli Adamich. Come
per l'appunto Giuliana Pirjavec e
Wanda Stilinović il cui bisnonno
Francesco de Benzoni prese in
moglie quella Cornelia de Adamich, di padre Leopoldo, quest'ultimo figlio dell'ancor più celebre e benemerito Andrea Lodovico de Adamich, a cui le principali istituzioni museali della
città hanno dedicato una serie
di mostre e iniziative culturali.
Considerando che degli "eredi"
dell'illustre concittadino ancora
esistono a Fiume, a nostro modesto parere andavano invitati alla
cerimonia inaugurale dell'esposizione, quale gesto simbolico
di stima, e soprattutto di rispetto della memoria del grande Andrea Lodovico de Adamich. Ma
non si è pensato a questo. Noi
comunque l'abbiamo saputo.
E Giuliana Pirjavec, dopo
un'opera di convincimento – attuata con la complicità della figlia Tamara, che insieme a sua
sorella Sandra e alla cugina Eva
è una delle ultime tre discendenti del ceppo – ha acconsentito a
parlare e "mostrarsi" sulle pagine di “Storia e ricerca”. Con la
simpatia e la cordialità che la
contraddistinguono, ci ha accolti cortesemente in casa con già a
portata di mano tutti i vecchi documenti d'archivio che a ragione
lei conserva come preziosi cimeli, in quanto confermano le nobili radici di discendenza della
famiglia. Estratti di registri di
stato civile vecchi oltre cent'anni, atti di nascita e di morte bilingui scritti in lingua italiana e
ungherese, copie e ritagli di giornale ingialliti in cui nostri validissimi colleghi, oggi in pensione parlano della storia della città, dei tanti meriti dell'illustre
Andrea Lodovico e della nobile
ed antica famiglia fiumana dei de
Adamich.
Sfogliamo insieme anche le
pagine del terzo volume delle Memorie per la storia della liburnica città di Fiume di
Giovanni Kobler, in cui nella sezione VI, dedicata alle “Notizie
intorno ad alcune famiglie patriziali di Fiume”, a proposito di
Andrea Lodovico, lo storico fiumano scrive: “Uomo di grande
impegno e di patriottismo emi-
L’estratto bilingue ungherese e
italiano dal libro dei decessi per
Giovanni Benzoni, figlio di Cornelia de Adamich
Giuliana Pirjavec davanti all’albero genealogico della famiglia de
Benzoni che si è tramandato di generazione in generazione dal 1744
nente, era negoziante di molto
credito. Fu fatto patrizio consigliere nel 1802 e comandante del
battaglione civico nel 1809. Nel
1796 diede impulso alla costruzione della strada Ludovicea,
fabbricò a sue spese un nuovo
teatro e nel 1806 vi fece aprire
un casino sociale, progettò nel
1807 la costruzione di una casa
per locanda, acquistò la possessione Merzlavodica e vi pose una
fabbrica di vetrami, nel 1802
comperò la villa dietro il Castello, nel 1807 la realità ove è ora
l’accademia militare di marina e
la casa con vigna e bosco di lauri presso Sant’Andrea, nel 1816
la casa detta Rotonda sulla piazza del corpo della guardia. Nel
1821 comperò il molino Liciza e
vi attivò una fabbrica di carta, la
quale fu proseguita da William
Moline ed ingrandita sino all’odierna prosperità da Smith e
Meynier. Nel 1825 era deputato
di Fiume alla dieta ungarica ed
in quel tempo fece stampare un
progetto per promuovere il commercio ungarico verso Fiume.
Morì nell'ottobre del 1828, lasciando di sé ottima memoria a
cui fu data espressione dalla municipalità col dare il nome Adamich alla più bella piazza della
città. L'imperatore Francesco I
aveva stabilito di conferirgli la
nobiltà ungarica ma lentezza dicasteriale fu cagione del ritardo,
sicché, mediante diploma del 14
Gli atti di nascita di Francesco Benzoni e Cornelia Adamich
luglio del 1834, furono fatti nobili ungarici i di lui figli, Leopoldo e Primo”.
Nel suo libro Kako čitati
grad (Come leggere la città),
la compianta professoressa Radmila Matejčić dice di lui: “Era
uomo di mondo; viaggiò in tutta Europa dalla fine del XVIII
fino agli anni '30 del XIX secolo
e fu un uomo che a Fiume aveva enormi influenze sia a livello
politico, sia industriale ed economico. Parlava correntemente
il latino, l'italiano, il tedesco,
il francese, l''illirico' e l'inglese. Dotato di lucida intelligenza,
formatosi culturalmente nel clima dell'illuminismo riformatore, volle portare Fiume al livello
delle più importanti città adriatiche. Sapeva di poter farlo perchè era ricco e potente ed aveva
facoltà di imporre alle autorità
cittadine di allora tutto ciò che
voleva".
Segue a pagina 8
La leggenda dei quattordici testimoni contro Simone
A proposito della popolare
leggenda dei quattordici fiumani che testimoniarono il falso
pur di far incarcerare Simone
Adamich, il compianto Giacinto Laszy nel suo libro Storie e
leggende della città di Fiume
racconta:
I tredici testimoni
di Adamich: ne manca
uno che è purtroppo
andato perduto
“Il ricco Simone Adamich,
padre del nostro benemerito e
astuto concittadino Andrea Lodovico, acquistava nel 1780 la
valle di Martinščica ed in questa
occasione faceva restaurare l’ivi
esistente vecchia cappella dedicata a San Martino. Subito dopo
si sparse la diceria, avallata da
14 persone degne di stima, che
nelle fondamenta della chiesuola l’Adamich avesse rinvenuto ed
estratto un ingente tesoro. Il fatto
era grave e l’Adamich venne denunciato per omissione di notifica del rinvenimento alle autorità.
Arrestati insieme lui e sua moglie
Anna vennero condotti nelle carceri di Crikvenica. Il figlio Andrea non perse tempo e verosimilmente, con l’appoggio come
diremmo oggi delle ‘veze’, ottenne dall’imperatore Giuseppe
II la scarcerazione. Ma, secondo
il Kobler, ‘dell’informazione uffiziale il caso non fu chiarito’. Ci
chiediamo dopo due e più secoli – scrive Laszy – come si spie-
ga che lì 14 persone e per di più
degne di stima, non finirono per
spergiuro in carcere? Però subirono lì beffe dell’Adamich che si
vendicò facendoli scolpire in somiglianza in 14 statuette di pietra esponendoli nella via al ludibrio dei passanti. Lì fece rizzare
in Fiumara, lungo l’orlo dei marciapiedi davanti la sua casa (l’ex
Ginnasio croato, drogheria Benco poi) e avanti a intervalli distanziati e unite con grosse funi
a protezione dei passanti del traffico. Vi rimasero fin verso la fine
del secolo” (scorso ndr).
Sta di fatto che, anche secondo Giovanni Kobler, appena
uscito dal carcere il 24 aprile del
1787, grazie all’intervento di suo
figlio Andrea Lodovico, Simone
Adamich acquistò dalle suore
benedettine l’orto e il lotto terriero che dal loro convento andava fino all’odierno canal morto,
per dare il via, in questa centralissima zona della Fiume di allora, alla costruzione del lungo pa-
lazzo in stile neoclassico barocco
che ultimato gli venne a costare la bellezza di 100.378 fiorini.
Sul lungo fiume dinanzi alla sua
nuova residenza Adamich fece
scolpire lì 14 statue. Secondo
la dottoressa Radmila Matejčić,
pubblicista, appassionata ricercatrice del passato di Fiume e
riconosciuto storico dell’arte,
quelle figure restarono là fino al
1882 ovvero fino a che il sindaco
Giovanni Ciotta, che era pronipote di Simone Adamich, le fece
togliere per trasportare le statuine fatte erigere dal bisnonno
nel giardino della sua villa. Da lì
vennero sottoposte a trasloco una
seconda volta negli anni del dopoguerra, per finire dinanzi al lapidario del parco dell’ex Palazzo
del governo, dove si trovano tutt’oggi. Purtroppo ne restano tredici: una è andata persa “strada
facendo”. Tra le effigi dei testimoni rimasti si riconoscono una
nobildonna, un ufficiale, un cocchiere, una serva e una balia.
8 storia e ricerca
PATRIMONIO
Dalla pagina 7
Ultimati gli studi a Vienna,
presso la Reale Accademia di
Commercio, de Adamich capì subito che l'avvenire economico di
Fiume dipendeva dai traffici con
i paesi del bacino danubiano che
erano il vero hinterland della città. Nel 1800, in un'epoca travagliata, contrassegnata dalle guerre napoleoniche, de Adamich grazie alla sua potenza ed influenza
ottenne dall'Imperatore la licenza
per poter iniziare i lavori della
strada che univa Fiume a Karlovac. Per ultimare con successo quest'impresa costituì a Vienna un consorzio diretto dal conte
Vincenzo Batthyani e dall'ingegner Vukasovic. La nuova strada fu aperta al traffico nel 1813
e in onore dell'imperatrice Ludovica fu chiamata Ludovicea. Non
fu soltanto un abile imprenditore. Fu egli a promuovere l'idea
di congiungere con una ferrovia
Fiume a Budapest e in quell'occasione l'autorevole giornale ungherese "Pesti Hirlap" la raccolse favorevolmente lanciando il
motto "Tengerre magyar!" ovvero "Ungheresi tutti al mare!" che
più tardi verrà ripreso anche dal
politico magiaro Layos Kossuth,
leader della rivoluzione del 184849 contro l’Austria che nel 1848
diventerà ministro del Tesoro nel
governo di Layos Batthyány. Andrea Lodovico Adamich capì insomma ai suoi tempi che Fiume
meritava un decoro particolare
per cui fondò nella sua città natale un grande teatro che restò
attivo per quasi tutto l'Ottocento
e che nel 1885 fu demolito per
far spazio a Palazzo Modello. E
nel suo ritratto tutt’oggi custodito presso il dipartimento storico
culturale del Museo della marineria e del mare di Fiume, viene
raffigurato non a caso con nella
mano sinistra il progetto del suo
teatro, mentre con l’indice della
mano destra indica la pianta di
quell'edificio culturale che fece
erigere. Il contratto per la costruzione del teatro venne sottoscritto
il 10 novembre del 1803 mentre
la sua inaugurazione ebbe luogo
già due anni dopo: il 3 ottobre del
1805. Morirà 23 anni più tardi lasciando tutte le sue fortune al figlio Leopoldo.
Sulla famiglia degli Adamich,
grazie al Kobler, oggi sappiamo
anche che i primi a portare questo
cognome tra i cittadini che popolavano Fiume nel 1700 e che con
molta probabilità erano avi di
Andrea Lodovico, erano i coniugi Bartolo e Giulia. “Donde fossero venuti non consta; ma in un
atto del 1701, riguardante la visita canonica del vescovo di Pola,
si fa cenno di un Giuseppe Adamich che da dodici anni era parroco di Chersano” – spiega Kobler e aggiunge: “Giorgio, figlio
di detti coniugi, nel 1722 prese in
moglie Orsola Giacich di Abbazia e da questa ebbe i figli Andrea
e Simone. Egli possedeva due
case nella contrada Santa Barbara e una vigna presso la via del
Calvario. Simone di Giorgio era
cittadino fiumano e negoziante
all’ingrosso. Egli deve esser stato fortunato nelle imprese poiché
nel 1774 troviamo che possedeva
una casa nella contrada di Santa
Maria, e poco dopo fabbricò la
grande casa a tre piani in Sussak,
presso la scalinata conducente a
Tersatto, acquistò la possessione
Martinschizza ed intorno l’anno
1785 fabbricò un’altra grande
casa in contrada della Fiumara.
Dalla moglie Anna ebbe i figli
Francesco, Vincenzo, Tommaso,
Andrea Lodovico e Matteo. Morì
nel 1813. Nel 1777 uno degli altri
figli di Simone, Francesco, si unì
in matrimonio con Orsola Slogar
da cui ebbe poi il figlio Giuseppe
e la figlia Anna la quale nel 1799
andò in moglie a Giovanni Anderlich. Andrea Lodovico invece
il 13 gennaio del 1788 prese in
moglie Elisabetta Barcich, da cui
ebbe i figli Adamo, Leopoldo Primo e Secondo, e le figlie Maria,
Cristina, Regina, Andriana, Giovanna e Barbara. Il figlio Leopoldo nel 1826 si univa in matrimonio a Maria Henke".
Fin qui Giovanni Kobler. È a
questo punto che a continuare ad
illustrarci il complesso albero genealogico della famiglia subentra
Giuliana Pirjavec. “Da Leopoldo
de Adamich e Maria Henke – ci
spiega la nostra simpatica interlocutrice – nacque Cornelia che
si unì in matrimonio a Francesco Saverio de Benzoni, anche
lui consigliere municipale e tra
l'altro proprietario del bel palazzo adiacente la Cattedrale di San
Vito in cui c'è oggi la moschea di
Fiume. Ed erano i miei bisnonni,
in quanto il figlio loro, Giovanni
de Benzoni che sposò mia nonna
Silvia Duimich, era ovviamente
il padre di mio padre Aladar-Alfredo de Benzoni che sposò mia
madre Aurora. Dal loro matrimonio nacquero Lucia de Benzoni,
maritata Benato, Wanda Eugenia
de Benzoni, coniugata Stilinović
e la sottoscritta, maritata Pirjavec”.
Ecco dunque rivelato l'arcano. Facendo ricerche negli archivi, nel tentativo di risalire ai propri avi e di ricostruire quanto più
dettagliatamente la cronologia di
discendenza della dinastia per il
ramo che riguarda gli Adamich
– in quanto per quello dei de Benzoni la famiglia si tramandava già
da generazione a generazione un
“cimelio” più raro che unico, che
è un albero genealogico di rara
fattura, che parte dal 900 e che fu
compilato nel lontanissimo 1744
il quale ha dunque oramai oltre
due secoli, rappresenta l'orgoglio
delle vecchie, nuove, e anche future generazioni ed oggi fa bella
mostra di sé nell'attico di casa Pirjavec – i discendenti di Andrea
Lodovico sono riusciti a risalire
negli archivi agli estratti di nascita e di morte di Francesco Benzoni, Cornelia Adamich e dei loro
figli e all'estratto di morte di Giovanni Benzoni, figlio di Cornelia
de Adamich che tutti i discendenti del ceppo del ventesimo e ventunesimo secolo hanno custodito
per tramandarlo gelosamente anche in futuro ai propri figli. Non
ci sembra poco. Ben rari sono coloro che oggi indagando e facendo ricerche su ricerche in archivio, riescono a risalire ai propri
discendenti. E pochissimi sono
coloro che, pur riuscendoci, dopo
averli trovati possono vantarsi di
essere diretti discendenti di personalità illustri talmente benemerite da aver segnato con il proprio
esistere e con il proprio agire, la
storia di una città intera e del nostro comune passato.
Roberto Palisca
Sabato, 4 giugno 2005
MONOGRAFIE La Cash pensa alla storia di Pola
Città che trae forza dai resti
monumentali del suo passato
Prima o poi Pola avrà 3000
anni. Con un difetto in eccesso, una manciata di anni, per
fare promotion, per dare un
comune denominatore a una
serie di accadimenti di più o
meno vasta portata, premendo sull’acceleratore del tempo,
si sono fatti arrivare questi tre
millenni.
“Pola. Tremila anni di storia, tre millenni di miti e realtà” è la monografia che l’Urbe ha voluto regalarsi (per la
Cash): supporto finanziario
della Città, Regione Istriana
e Ministero alla Cultura. Elegante nella veste grafica, parla subito agli occhi per il verde
e il giallo oro della copertina.
I colori di Pola, in un giusto
dosaggio, per un simbolismo
calibrato ed equilibrato. La copertina è per il libro quello che è l’imballaggio per la merce: la fa
vendere. Ma se il contenuto delude, non c’è contenente che lo salva. Il contenuto, nel nostro caso,
si venderebbe anche da sé. Intanto con la garanzia
di chi firma gli interventi: Miroslav Bertoša, Robert Matijašić, Attilio Krizmanić, Bruno Dobrić,
Herman Buršić, Raul Marsetič, Darko Dukovski,
Srđa Orbanić e Josip Bratulić, “studiosi nostrani…
il loro desiderio è stato non tanto quello di presentare la storia dei regnanti e dei potenti quanto la
storia della città e dei suoi abitanti” (J. Bratulić).
Il primo tentativo di raccogliere tra due copertine
la metamorfosi storico-economico-socioculturaleurbana della città. Una lettura multidisciplinare, si
potrebbe dire.
Una città costretta al futuro, Pola. Ma a partire
da quando? Non c’è una prima pietra – dice Miroslav Bertoša ragionando sul numero di candeline
da sistemare su un’ipotetica torta. Difficile contarle, ne conveniamo, queste benauguranti candeline,
ma quello che Pola lascia emergere dal sottosuolo,
ci autorizza a dire che la torta deve per forza essere grande. “Pola trae energia dai monumentali resti
del suo passato, e ancor sempre immagina le lontane radici della nascita” (sempre Bertoša).
Una storia, quella di Pola, lunga ventitré secoli, per l’archeologo e storico Branko Marušić; per
un Anonimo (forse non troppo: potrebbe trattarsi
di Horatio Moreschi, parroco a Sissano e vice vicario generale della Diocesi nella seconda metà del
XVII sec.) la città, una data di nascita l’avrebbe:
1220 a.C. In questo caso i tre millenni sarebbero
frutto di uno sconto incredibile al passare del tempo. Tra i 2300 anni di una fonte ed i 3225 dell’altra
si è imboccata la strada di centro. Ma non è barare
questo: né in aggiunta, né in sottrazione. Non sono
uno scherzo 3000 anni. Intanto bisogna percorrerli
tutti. E la Storia, a Pola, non ha risparmiato niente,
né il Tempo è stato galantuomo.
Pietro Kandler, Carlo De Franceschi, Carlo
Combi, Giovanni Carrara e altri intellettuali del
XIX secolo hanno in qualche modo fissato tessere
del Mosaico Pola dicendo di scritti e testimonianze
di predecessori, inchiostro andato perduto.
Una città senza data di nascita, senza parecchie
cose di sé andate distrutte. Come leggere oltre la
nebbia? Del resto, nemmeno i miti lasciano traccia
che non sia fantastica memoria. Devotissimo affetto della città… potrebbe essere questo il fil rouge
che lega l’urbe e quanti l’hanno abitata, l’abitano e l’abiteranno. Perché, parafrasando Miroslav
Bertoša, Pola ha nel suo destino il futuro.
Facendo grazia del genetliaco segnato in rosso sul calendario che in qualche modo le è stato
negato, l’urbe ha anche un passato di tutto rispetto. Fatto di miti dai contorni sfumati (ma guai se i
miti non avessero la sottile, impalpabile nebbia a
proteggerli!), fatto di accadimenti reali che ne hanno fatto una civitas precorritrice dei tempi ma che
l’hanno imprigionata, spesso, in una sorta di infausta
sabbia mobile.
Dai dinosauri in poi, ha
avuto tutto. Ha avuto gli
“uomini” che hanno abitato le grotte di San Daniele,
Giasone e gli Argonauti, ha
avuto un abbraccio di isole
nate da dei o giù di li, ha
avuto gli (H)Istri ed Epulo,
ha avuto sette colli sui quali nascere e crescere. Come
Roma. Ha avuto imperi e
Imperi. È stata preda e magnifica signora. Ha avuto
padroni, ha avuto amori.
Ha incantato Grandi Viaggiatori, ha incantato Poeti e Scrittori: il cartografo
Idrisi la definì “bella con
navi sempre pronte a salpare”, Dante le ha dedicato versi della Commedia, è
nel Confinamento, prezioso documento diplomatico medievale.
“Dalle origini alla Serenissima”: percorso che
nella Monografia ha una guida magistrale ed impagabile. Robert Matijašić. Non da meno il cicerone
che ci conduce sull’accidentata strada degli alti e
bassi, della Gloria e del Fango (“Ascese e tramonti”). Miroslav Bertoša. Di quanto bassi fossero i
bassi, dice l’appellativo di città cadavero che Rettori e viandanti cucirono sul vestito di Pola. Una
decadenza annunciata dalla peste bubbonica: mentre su Pola sventolava la bandiera della Serenissima, si contarono una quarantina di pestilenze. Terribili quelle del 1371, 1437, 1527, 1631. Erano più
i suoi morti che i suoi vivi, l’economia era un dolce-doloroso ricordo, le mura e gli edifici venivano giù. Città cadavero, appunto. La sua grandezza
poteva sembrare un mito anch’essa, se a documentarla non fossero stati i monumenti. Pola ha fatto a
braccio di ferro con la morte parecchie volte, sfidando epidemie, miserie, guerre: da tutte è uscita
con il tessuto sociale squarciato, un etnos che di
volta in volta cambiava e che spesso ha faticato a
capirsi. La sua geografia sociale, economica, architettonica, urbana hanno subito sconquassi (nel passato lontano come in quello più recente: insegna la
decadenza degli Anni Novanta) che avrebbero cancellato i più. Se Pola fosse un cappotto rattoppato,
non sarebbe cosa facile individuare la stoffa originale. Sincretismo, acculturamento, assimilazione.
Questo, in buona sostanza e tagliando il superfluo
con l’accetta, sul cammino della città.
Riprendiamolo, questo cammino sfogliando
le 396 pagine del libro e gustando gli oltre 500
documenti tra foto, mappe, piani: dopo la Serenissima (Matijašić), le Albe ed i tramonti (Miroslav Bertoša), Attilio Krizmanić ha trattato dello
“Sviluppo ambientale ai tempi dell’Austria”, Bruno Dobrić ha sviluppato il discorso sulla “K.uK.
Kriegsmarine a Pola”, Herman Buršić ha affrontato l’arco di tempo dalla caduta dell’Austria al secondo dopoguerra (la caduta dell’Austria, la venuta dell’Italia, il Movimento operaio, il primo dopoguerra, il Fascismo, l’Antifascismo, Seconda
guerra mondiale, Trattato di pace, Esodo); Raul
Marsetič ha elaborato “I bombardamenti alleati su
Pola”. Dell’identità della città (“Una città alla ricerca dell’identità”) ha ragionato Darko Dukovski
(incluso di sanità, educazione – istruzione, cultura,
sport). L’ultimo tratto di strada viene illustrato da
Srđa Orbanić (“Pola a cavallo dei millenni”): si ferma all’oggi preciso. Il resto della storia che è futuro
va prima creato, vissuto e poi scritto. Ancora, Attilio Krizmanić e Srđa Orbanić sui reggitori della res
pubblica dal 1186 ad oggi. Da tale Andrea (è l’epoca dei Comuni medievali) a Luciano Delbianco. E
per chiudere Josip Bratulić con l’Excerptum de rebus Polensibus. Adesso è già – o di nuovo – un’altra storia.
Carla Rotta
Anno 1 / n. 4 4 giugno 2005
“LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina
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