ARCHEOLOGIA Il mare di Lissa le fu infausto IN QUESTO NUMERO Un’esplorazione nelle viscere della sfortunata «Re d’Italia» di Carla Rotta Posata di chiglia, un po’ inclinata a destra, i contorni ancora delineati anche se le parti in legno ormai le ha intaccate il mare. Con ogni probabilità è la “Re d’Italia”, sfortunata ammiraglia della flotta italiana sconfitta nella battaglia di Lissa dalle navi austriache. Giù, sui fondali dell’Adriatico, dal 20 luglio 1866. Un libro di storia, lo specchio di mare che lambisce le sassose coste di Lissa, una bara blu: accanto alla corazzata, navi di costruzione più recente, un aereo della Seconda Guerra Mondiale. E a cercare ancora, sicuramente dell’altro. Ma questa volta, a oltre cento metri di profondità, si è scesi per leggere la battaglia di Lissa. “È difficile verbalizzare la sensazione che si prova a oltre cento metri di profondità, in jeans e maglietta, – ci dice Jasen Mesić, esperto di archeologia subacquea, master in Italia, in un colloquio telefonico – concentrarsi, in un mondo così diverso, in una situazione estranea, surreale quasi: bisogna adattarsi al silenzio, alla luce che tale non è, ad un mondo che non è fatto di tanti colori ma di tante tonalità di un colore solo. È come conquista- re un’altissima vetta, credo. Sì, forse è paragonabile ad un’impresa di questo tenore.” Solo che invece di salire, si scende. Lentamente, a bordo di un sottomarino da ricerca che è attrazione di per sé. E che in un’immersione si è bloccato, anche, tenendo l’equipaggio con il fiato sospeso. Per poco: a cercare l’ammiraglia di una flotta, è andata un’ammiraglia della ricerca. La francese “Comex”. E la nave appoggio “Janus II” era là per garantire sicurezza. Perché proprio Lissa? Perché per scendere a quelle profondità, abbiamo bisogno di supporti tecnici di fuori. E l’aiuto è arrivato grazie ad una donazione di “uso” di supporti tecnici, appunto. Per arrivare ai relitti dell’Alto Adriatico – coste istriane, ad essere precisi, basta molto meno e ce la possiamo fare da soli in ogni momento. Per la flotta di Lissa, parafrasando, c’è voluta quasi un’altra flotta. Concentrata in un catamarano con sommergibile appresso che hanno mobilitato residenti e turisti di tutte le città di mare che la spedizione ha toccato. Un sito archeologico, Lissa, di quelli che fanno la felicità degli storici e archeologi. Un tesoro di per sé, al di là dei forzieri che si vogliono a bordo del relitto e dei quali non si ha prova ma che comunque, esistendo, al confronto, sarebbero ben poca cosa. Sito che intanto è stato localizzato con la precisione che finora era mancata per ovvi motivi. Ciò nonostante, proprio per la sua importanza, il Ministero alla Cultura della Repubblica di Croazia a suo tempo aveva provveduto a mettere sotto tutela l’area che presumibilmente era stata teatro della storica battaglia. Adesso è tutt’altra cosa: le coordinate sono ben definite e l’ordinanza ministeriale ne tiene debito conto. Ci saranno presumibilmente altre campagne di ricerca, questa appena conclusa non è che la prima, servita appunto a riconoscere il sito. Questo numero di Storia e Ricerca si apre con un'avventura nei fondali adriatici, al seguito di una straordinaria spedizione archeologica subacquea alla ricerca dei resti della "Re d'Italia", affondata nella battaglia di Lissa il 20 luglio 1866. Flavio Forlani ha intervistato Stefano Lusa, responsabile del Settore Università e Ricerca della Giunta esecutiva dell'Unione Italiana, mentre Roberto Palisca ha parlato con Giuliana Pirjavec, discendente di due antiche famiglie patrizie fiumane. Kristjan Knez ha ricostruito gli ultimi combattimenti nel Litorale adriatico della Seconda guerra mondiale, nonché alcuni aspetti dell'offensiva jugoslava; una mostra allestita a Trieste, fotografa i quaranta giorni dell'occupazione titina della città. Nel contributo di Orietta Moscarda Oblak, ricercatrice del CRS, è contenuta un'originale analisi della costituzione del potere popolare in Istria e dello smantellamento delle precedenti strutture nel 1945. L'inserto si chiude con un'immersione nella monografia (edizioni Cash) sui tremila (o quasi) anni di storia di Pola. Segue a pagina 2 ce vo /la .hr dit w.e ww storia e ricerca An no I • n. 4 • Sabato, 4 giugno 2005 Il dettaglio dello squarcio che ha fatto imbarcare l’acqua 2 storia e ricerca Sabato, 4 giugno 2005 J. Mesić e N. Boichot che “sciacquano” con acqua dolce la bussola tirata su dal relitto ARCHEOLOGIA Dalla prima pagina Punto di partenza e di arrivo, si potrebbe dire, la chiave di tutto, nello specifico, soprattutto in funzione della tutela. Finora, a garantire l’inviolabilità dei relitti ci ha pensato il mare con le sue profondità, ma è barriera che basta sempre meno. Accanto all’ammiraglia, dovrebbero esserci i resti della “Palestro”: indizi ce ne sono ma il relitto non è stato individuato con certezza. Come si sente l’esperto che ha, diciamo, toccato con mano, la “Re d’Italia”? “Orgoglioso”, non ha dubbi Mesić. Ma sono momenti indimenticabili anche quelli dell’entrata in porto del gigante francese, della bellissima collaborazione con i colleghi d’Oltralpe, del perfetto funzionamento di tutte le istituzioni (tante) e uomini (tanti anche questi) coinvolti nell’impegnativa campagna. Funzionamento ineccepibile anche quando qualcosa è giocoforza andato storto. Questa l’attualità. Ma a Lissa, com’erano andate le cose? Uno scontro da mettersi le mani nei capelli per i risvolti da operetta che ha avuto, ma i quasi settecento morti (620 da parte italiana, 38 austriaca) impongono rispetto nella lettura di fatti. Una battaglia incominciata male e finita peggio. Voluta fortemente dal Governo di allora per riscattare l’orgoglio, forse più politico che militare, andato miseramente a farsi friggere nella disastrosa disfatta terrestre di Custoza. Scontro strano, disfatta lampo: la guerra all’Austria (la Terza d’Indipendenza, per la precisione) era stata dichiarata il 20 giugno del 1866, il 24 già la disfatta di Custoza. L’Esercito decisamente non era in grado di sanare una ferita così vergognosa, e allora si pensò di investire la Marina del dovere del riscatto. Ma in un’Italia appena unificata, la Marina frutto della fusione di flotte di tre Stati (Regno di Sardegna, Granducato di Toscana, Regno di Napoli) con ammiragli provenienti da queste impegnati all’aspra corsa al posto, probabilmente nemmeno questa avrebbe potuto fare granché. Comunque all’ammiraglio Carlo Pellion di Persano venne ordinato di salpare alla ricerca della flotta austriaca e attaccarla “per provare che il suo mare non è suo.” Non che Persano ne avesse voglia. Levò le ancore solo quando fu messo alle strette (il Ministro Depretis ordinò la presa di Lissa) e quando Governo e Ministero promisero di unire alle navi che aveva (non poche, in verità: 28 con 650 cannoni e 16 mila uomini), l’”Affondatore”, ariete corazzato munito di torri a piastre d’acciaio e di cannoni Armstrong da 266 mm. Ma se solo le unità avessero fatto onore al nome che portavano! Formidabile, Affondatore, Terribile (poi, le protocollari Re d’Italia e la sorella Re di Portogallo, Carignano, Principe Umberto, Palestro, S, Martino…) La flotta italiana, partita ad Ancona il 16 luglio, era un’armata Brancaleone sul mare: confusa, disordinata. Fors’anche incapace. Davanti a Lissa Persano divise la flotta in quattro squadre: una ai suoi ordini (8 corazzate e una corvetta) doveva attaccare Porto San Giorgio; la seconda (3 corazzate e una corvetta) comandata da Vacca doveva attaccare Porto Comisa; la terza affidata all’ammiraglio Albini (4 fregate in legno e una corvetta ad elica) aveva il compito di smantellare le batterie austriache di San Vito e tentare lo sbarco, la quarta, con qualche cannoniera, nei pressi di Foto di Jasen Mesić, per gentile concessione dell’Istituto croato per il restauro (Hrvatski restauratorski zavod) Parte del relitto tranquillamente steso sul fondo dell’azzurro Adriatico che D’Annunzio, in riferimento proprio a Lissa, avrebbe definito “Amarissimo” La “Re d’Italia” Al processo, il racconto dell'ammiraglio Persano Nella primavera del 1867 l’ammiraglio Persano venne messo sotto processo per la sconfitta di Lissa. Così descrisse la battaglia (da “I fatti di Lissa”, 1866): “… il nemico intanto avanzava in 'ordine di fronte' su due file colla prora a 'scirocco – levante', le corazzate in prima fila, le non corazzate in seconda. Era il momento di disporsi in linea di battaglia per cannoneggiare d’infilata i legni avversari che s’avvicinavano a vista d’occhio, ed in pari tempo chiuder loro il passo verso le loro terre e verso le nostre navi non corazzate, che ancora non si erano ordinate in seconda linea. Segnalai quindi “Dirigete ad un tempo per greco-tramontana” formando per tal modo la linea di battaglia sui legni dell’avanguardia e riserva, che erano quelli del Contr’Ammiraglio Vacca. Dopo 'Serrate le distanze' e poi 'Attaccate il nemico appena a portata'… La formazione dell’armata al mio comando doveva essere disposta su tre linee. In tutto 22 legni per combattere. Se non che al momento di entrare in azione, mancava la 'Formidabile', il cui Comandante aveva chiesto, con segnale, di volgere per Ancona, non tenendo la sua nave atta ad entrare in combattimento per le avarie che aveva sofferto nella fazione del dì precedente. Opponevamo però sempre 10 corazzate al nemico, che sole 7 ne presentava in prima linea. Egli si avanzava compatto, avendo in seconda fila un buon numero di grosse navi, fra le quali contavasi un vascello di alto bordo di 92 cannoni. Numerando in tutto 27 navi, che si vedevano procedere risolute e disciplinate, mentre da noi la seconda squadra, forte di circa 400 cannoni, non si era ancora condotta al suo posto.” Altre immagini della Battaglia di Lissa, tratte da dipinti, stampe e giornali dell'epoca Lesina. Ancora, due esploratori. In totale 11 corazzate, 2 corvette a ruota, 1 ad elica, quattro fregate in legno e altri legni minori. Ed infine, e, doveva aarrivare va e il te temibile l’”Affondatore”. Ma a Lissa le batterie austriache erano situate talmente in alto da essere sicure oltre ogni dubbio: impossibile dare ai cannoni un’inclinazione troppo verticale, da distanze maggiori impossibile centrarle. Albini e Vacca si ritirarono presto dalla battaglia, poi, da Porto San Giorgio, si ritirò anche (poco formidabilmente) il “Formidabile”. Da Ancona arrivarono altre navi, ma i destini della battaglia erano già irrimediabilmente se- capì ed eseguì. Nella mischia delle navi italiane confuse (qualcuna si era ritirata!) piombò l’ammiraglia “Erzherzog Ferdinand Max”. Per e uun co colpo po aal ttimone, o e, laa “Ree d’Italia” era ferma, la “Erzherzog Ferdinand Max” la prese in pieno centro squarciandole la fiancata. Si dice che affondò con la bandiera al vento: 140 uomini e il comandante Faà di Bruno morirono. Tegetthoff e gli ufficiali austriaci si levarono il berretto a salutare la corazzata. La “Palestro”, comandata da Alfredo Cappellini, generosamente corse in aiuto alla “Re d’Italia” ma una cannonata austriaca finì nel deposito del carbone incendiandola. La battaglia Frederik Sorenson, “La Battaglia di Lissa”. Il dipinto, conservato nell’Heeresgeschichtliches Museum di Vienna, mostra la Re d’Italia mentre affonda dopo essere stata speronata dalla “Ferdinand Max”, dell’Ammiraglio Wilhelm von Tegetthoff gnati. Successe quello che Persano aveva in qualche modo preventivato: all’alba del 20 luglio, salpata dal porto di Pola giunse a Lissa, chiamata telegraficamente in aiuto, la flotta austriaca. Al suo comando il migliore uomo di mare che l’Europa continentale abbia mai dato: il contrammiraglio Wilhelm von Tegetthoff. Le navi italiane erano sparse un po’ dappertutto (qualcuna in ritirata), i legni austriaci navigano in ordine su tre angoli a lati paralleli, a cuneo. Persano decise di trasbordare: lasciata la “Re d’Italia” salì sul più affidabile “Affondatore”, arrivato in qualche modo dai cantiere inglesi. Per disdetta o fatale equivoco la flotta non fu informata del cambio di nave ammiraglia e in questo poi molti trovarono la giustificazione del disastro di Lissa. Per comodità, probabilmente: poi si disse e si scrisse che chi non volle “capire” quale fosse l’ammiraglia non capì e ignorò i segnali e comandi che da questa giungevano. Chi volle capire, era finita. Con 620 morti da parte italiana, 38 da parte austriaca. Tegetthoff si chiuse con la sua flotta a Porto San Giorgio. Un’imprudenza, ma Persano non la seppe sfruttare. Tornò ad Ancona, entrando in porto nel pomeriggio del 21 giugno preceduto da un telegramma perlomeno singolare nel quale si diceva rimasto “padrone del mare”. Il 15 aprile del 1867, il Senato in Alta Corte di Giustizia dichiarò Persano colpevole unico del disastro. Non ebbe onori in patria, per la battaglia, nemmeno von Tegetthoff: fu promosso viceammiraglio a furor di popolo ma visse con addosso malasorte e invidie. Lissa fu l’ultima battaglia del “periodo pre-dreadnought”, degli scontri alla vecchia maniera. Quelli spavaldi e audaci. E avvenne in un momento di grande passaggio della marina che si stava trasformando dalla vela al vapore, dal legno all’acciaio. Ma sembra che nessuno, allora, se ne desse pensiero. Carla Rotta storia e ricerca 3 Sabato, 4 giugno 2005 INTERVISTA Stefano Lusa, responsabile del Settore della Giunta esecutiva dell’UI La ricerca, fattore di crescita di Flavio Forlani Sarebbe molto difficile, quasi impossibile, cercare di individuare con certezza una data per segnare l’inizio dell’attività di ricerca della nostra Comunità nazionale italiana. Forse, la più veritiera, potrebbe coincidere con la tragica sorte della popolazione italiana di queste terre dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando da popolo di maggioranza si è trasformata in pochi giorni a minoranza. Fu allora che i pochi intellettuali rimasti videro la necessità di raccogliere e preservare le testimonianze storiche culturali e linguistiche degli italiani dell’Istria per trasmettere alle giovani generazioni l’identità ed il senso di appartenenza ad una terra che nel passato ha dato numerosi personaggi illustri in tutti i campi dello scibile umano. Da queste azioni si è poi sviluppata una rete importante di studiosi e ricercatori in quasi ogni Comunità degli Italiani. Crescendo si è sentita la necessità di creare una struttura specializzata per proseguire nella ricerca con quadri professionali, usciti dalle nostre scuole, laureati presso le migliori università sia italiane che croate o slovene. È nato così il Centro di Ricerche storiche di Rovigno che rappresenta oggi il fiore all’occhiello della Comunità nazionale italiana con oltre trentacinque anni di attività ininterrotta e miglioni di pagine scritte e pubblicate. È cresciuta anche l’Unione Italiana e negli anni ha sentito il bisogno di dotarsi di una giunta esecutiva che gestisse i vari settori di attività. In questo mandato il responsabile del settore Università e ricerca è il giovane dottore in storia Stefano Lusa di Pirano, serio, dinamico, preparato e molto attivo. Abbiamo voluto quindi realizzare questa intervista a oltre metà mandato per vedere e conoscere la vitalità di questo settore. Iniziamo come si usa fare di solito con una valutazione sull’attività di ricerca della CNI e delle sue Istituzioni ed Associazioni. Lusa: “Ho ereditato una situazione che dal punto di vista della ricerca era già ben avviata con una serie di progetti da realizzare, in particolare quelli della Pietas Julia sulla Legge 19/91, progetti che sono stati portati a termine. Mi riferisco alla ‘Lingua giovani’, la ‘Letteratura femminile’ e sempre con la Pietas Julia sono stati avviati anche altri progetti tra cui il più importante quello sulla ‘Letteratura della Comunità nazionale italiana’, un progetto che viene portato avanti principalmente da Nelida Milani assieme ad un suo gruppo di ricercatori che a conclusione sarà una delle pietre miliari, dovrà porre un quadro della situazione e soprattutto sarà un’opera che darà spazio e voce a tutta una serie di autorevoli autori connazionali. Ovviamente ci sono poi una serie di progetti del CIPO che abbiamo ereditato dal passato e che stiamo insistendo acciocchè vengano realizzati. Proprio recentemente la Giunta Esecutiva ha stabilito un ultimissimo termine per la consegna della documentazione necessaria per avviare questi progetti di ricerca, entro il 31 dicembre di quest’anno. Un tanto per sbloccare un periodo di stasi del CIPO che se non dovesse farcela i mezzi messi a disposizione andranno impegnati in altre iniziative. Perché il CIPO è un soggetto molto importante che ha prodotto finora delle eccellenti ricerche sociali ma anche convegni e seminari. Il soggetto principe della ricerca però è il centro di Ricerche storiche di Rovigno che sta producendo tutta una serie di opere, di iniziative che sono degne di nota e che proseguono in quello che è il tradizionale campo d’indagine del Centro.” Qual è secondo te l’importanza del lavoro di ricerca per una minoranza, un gruppo nazionale? Lusa: “Secondo me ha due aspetti. Da una parte la ricerca ha la funzione di svolgere un’analisi introspettiva all’interno della comunità e del territorio, della so- Gli spazi del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno cietà in cui si vive e quindi c’è questo momento di autoanalisi, di riflessione seria su tutta una serie di questioni. Può essere la ricerca storica, può essere la lingua, può essere la Società, le tradizioni, può essere anche un discorso più politico. Il secondo aspetto che a mio avviso è molto importante è della crescita intellettuale, culturale, dei singoli membri che svolgono ricerca. Molto spesso questa ricerca viene fatta attraverso istituzioni come il CRS o come la Facoltà di Filosofia di Pola, quindi con una crescita professionale qualitativa. Una crescita che comporta anche un lavoro di ricerca fatto con i canoni della ricerca scientifica classica ‘seria’, e accanto a questa una ricerca che si fa nelle Comunità degli Italiani che è una ricerca, sempre seria, però di altro tipo. Io credo che quest’anno grazie al settore quadri della GE sono state attivate borse di studio per studi post laurea che possono essere un importante punto per far crescere dei ricercatori, dei profili professionali e aumentare quindi la nostra produzione.” Uno dei problemi molto sentiti non solo da questo settore è quello della promozione dei nostri ricercatori e soprattutto dei loro lavori nel panorama scientifico italiano. Lusa: “Questo è secondo me uno degli aspetti centrali. Pubblicare in Italia a mio avviso è difficilissimo per un qualsiasi ricercatore anche italiano. Il nostro problema è stato molto spesso, pur pubblicando dei lavori anche pregevoli, quello di non poter far veicolare queste opere anche in Italia. È un problema di distrubizione che hanno tutte la piccole case editrici. Io so che l’Edit sta cercando di fare qualcosa per riuscxire a distribuire i prodotti, in questo caso dell’Edit, anche in qualche libreria in Italia. Credo che se ciò si riuscirà a fare sarà un ulteriore passo importante verso il riconoscimento del lavoro e delle persone che rappresentano la nostra comunità italiana. Anche la presenza a congegni e simposi in Italia di nostri ricercatori andrebbe potenziata. Qualcosa si sta muovendo anche in questo senso negli ultimi anni, soprattutto grazie alla presenza dei professionisti del nostro CRS.” All’inizio del tuo mandato c’era un’idea che avevi intenzione di realizzare e che mi sembrava davvero molto utile, importante, quella di creare una forma di associazione, di circolo che raggruppasse tutti i ricercatori e le persone che si occupano di ricerca della nostra CNI. Lusa: “Questa era un’idea, ma l’idea continua ad esistere sempre, nel senso che io sono convinto che noi dovremo riflettere a medio e lungo termine sulla costituzione di una specie di Istituto, di un qualcosa che riesca ad accorpare tutte le nostre istituzioni di ricerca, che riesca a fornire dei servizi tecnici ai ricercatori, che riesca a dare il supporto necessario per poter consentire ai ricercatori di occuparsi di ricerca e sgravarli di questioni burocratiche, amministrative. È un discorso che non credo sarà possibile affrontare concretamente in questo mandato. È un’idea che resta valida comunque anche per chi fa ricerca a livello di Comunità degli Italiani o sul piano locale. È importante poter contare su un supporto anche metodologico, interpretativo. Però attualmente esistono delle difficoltà nella presentazione e realizzazione di progetti nuovi al MAE.” Analizzando la situazione del territorio di insediamento storico si nota una lacuna nella parte dell’Istria slovena. C’è la Società Italiana di Ricerca con sede a Capodistria che riunisce una quindicina di connazionali che però trova difficoltà nel ritagliarsi uno spazio nell’area dell’Istria slovena. Forse non si sente ancora la necessità da parte dei connazionali per avere un associazione di questo tipo o almeno una filiale del CRS, anche per poter contrasta- re in qualche maniera ad una incredibile produzione da parte delle istituzioni slovene sulla storia di questi territori? Lusa: “Questo è uno dei problemi che era stato da me anche evidenziato sin dall’inizio del mandato di giunta. Noi nel bilancio del 2004 avevamo inserito 15 mila euro per la creazione di una sezione del CRS che avrebbe dovuto accorpare in qualche modo quelle che erano le realtà del territorio, però se si parlava di sezione del CRS le modalità avrebbero dovuto essere questione del CRS e non di interferenze della giunta e quindi si sarebbe lasciata piena libertà. Ci sono state delle forti opposizioni anche da parte del Console generale d’Italia a Capodistria a questo progetto. C’è stato il timore che si potesse creare un inutile doppione, cosa che non era asslutamente nelle nostre intenzioni. Si riteneva anzi che essendo diventata Capodistria un importante polo culturale e scientifico con l’apertura del terzo polo universitario, di dare un punto di riferimento ai nostri ricercatori che non trovano da altre parti. D’altronde bisogna tener conto che ci siamo scontrati con un nuovo parere negativo su una ricerca sulla popolazione di Capodistria molto importante che è stata definita dal console in un suo parere autoreferenziale e che a me sinceramente ha lasicato stupito. Noi riteniamo che quella ricerca sia assolutamente valida e che ricerche sul territorio di Capodistria vadano fatte ma soprattutto quando si tratta di ricerca fatta non da gruppi di amatori, ma da ricercatori professionisti in collaborazione anche con gli istituti sloveni. In questo caso poi si tratta di un nostro connazionale che ha un dottorato di ricerca conseguita all’Univesità di Trieste, che ha fatto ricerche su questo territorio in maniera egregia. Io ritengo che ricerche su questo territorio vadano fatte e sicuramente non ce ne sono troppe.” Anche per tutelare la nostra presenza storica visto che troppo spesso gli scienziati sloveni ommettono di parlare della componente italiana o ancora peggio cambiano addirittura i nomi a dei personaggi illustri del passato come Paolo Naldini o Santorio Santorio. Lusa: “Sì, tutelare la presenza storica, ma voglio dire quando si parla di ricerca scientifica è difficile parlare di approcci ideologici. La ricerca scientifica è una ricerca scientifica fatta con metodo scientifico che da poi dei risultati che hanno un minimo di soggettività.” Tu hai sottolineato prima anche il ruolo importante dei ricercatori delle varie Comunità degli Italiani che su alcuni argomenti delle realtà locali sono forse più preparati ma anche più sensibili dei professionisti. Soprattutto in alcuni settori che riguardano l’etnografia, il dialetto, le tradizioni popolari, gli usi e i costumi. Anche queste sono ricerche molto importanti e da appoggiare? Lusa: “Noi stiamo appoggiando anche delle iniziative che ci arrivano dalle varie Comunità degli Italiani. Vanno in qualche modo distinti dei livelli. Credo che nelle Comunità ci sia una tradizione di ottimi ricercatori soprattutto per quanto riguarda la Storia Patria tradizioni, costumi, Dignano sicuramente è un esempio, ma anche Rovigno, la stessa Pirano e Isola, stanno producendo delle cose importanti. Quindi questo aspetto non deve venir trascurato. Io credo però che alla fin fine noi abbiamo bisogno di un coordinamento. Se noi avessimo un qualcosa che riuscisse a convogliare e a filtrare tutte queste attività della base e portarle anche ad un livello qualitativo più alto sarebbe una cosa eccezionale. Io ho cercato di puntare sulla ricerca fatta da ‘professionisti’ e per quanto è possibile risolvere tutta una serie di problemi logistici e strutturali per la Pietas Julia cercando di aiutare questa Società di ricerca per dare una solida struttura per poter operare con il massimo impegno. Poi prenderemo in esame le altre associazioni. Dobbiamo procedere per gradi e cercare di dare stabilità a tutte le nostre strutture.” 4 storia e ricerca Sabato, 4 giugno 2005 STORIA POLITICA Sabato, 4 giugno 2005 5 La tenace resistenza del Corpo d’Armata tedesco e l’offensiva di Tito nella Venezia Giulia e in Carinzia Gli ultimi combattimenti nel Litorale adriatico: la resa del 97.esimo Corpo d’armata tedesco di Kristjan Knez Il Comando congiunto per la pianificazione delle operazioni militari di Londra, che esaminava i piani esistenti concernenti la capitolazione delle forze tedesche in Europa, dichiarò, nella sua relazione finale, che sarebbe stato il maresciallo Tito ad accogliere la resa tedesca nella Jugoslavia settentrionale.(1) Proprio nel territorio della Slovenia, in prossimità di quello che era il confine del Reich nel 1941, le forze militari tedesche opposero una ferrea resistenza, impegnando l’esercito jugoslavo sino alla metà di maggio, benché la Germania avesse capitolato da oltre una settimana. Al generale Alexander Löhr, comandante del Gruppo d’armata “E” nonché di quello di Sud-Est, era stata assegnata anche la difesa del Litorale Adriatico, della Stiria e della Carinzia. Si trattava di un compito arduo in quanto non poteva contare né sull’arrivo di rinforzi né su alcun tipo di approvvigionamento militare proveniente dalla Germania. L’artiglieria e i mezzi di trasporto delle sue divisioni avevano subito ingenti perdite a seguito degli incessanti attacchi degli jugoslavi nonché per via delle incursioni aeree da parte della “Balkan Air Force”. Per quanto concerne le truppe, oltre ai reparti dell’esercito, c’erano a disposizione una congerie di formazioni collaborazioniste sotto il comando tedesco. Si trattava di corpi di cavalleria cosacchi, bande cetniche, un corpo di volonari serbi messo in piedi da Nedić, un corpo provvisorio russo, formato in Serbia dai resti dell’armata di Wrangler. Oltre a queste eterogenee formazioni, c’era la vaga idea di costituire una divisione di SS slovene, nella quale sarebbero stati inclusi anche i gruppi antipartigiani. In più, va rammentato, i nazisti potevano contare sull’intero esercito dello Stato indipendente di Croazia di Ante Pavelić, che annoverava circa 200.000 unità.(2) Complessivamente vi erano circa 500.000 uomini, che si sarebbero potuti impegnare nella difesa della Slovenia ossia nello scontro finale con le divisioni jugoslave, per poi ripiegare in Austria. Löhr era austriaco e sognava di poter costituire una repubblica austriaca provvisoria, almeno sino all’arrivo degli inglesi con i quali avrebbe negoziato la resa formale.(3) Nell’ultimo mese di guerra l’esercito jugoslavo concentrò tutto il suo potenziale bellico nella lotta contro le divisioni tedesche, e al contempo preparò l’offensiva che avrebbe portato le armate di Tito nei territori della Venezia Giulia e della Carinzia, rivendicati e dichiarati parte integrante della Jugoslavia. Nelle regioni in prossimità dell’Adriatico i combattimenti avrebbero dovuto aprire un varco in direzione di Trieste, una città simbolo che doveva essere occupata in previsione della sua annessione al termine del conflitto mondiale. La storiografia jugoslava che ha analizzato le ultime operazioni in questo settore del fronte si è soffermata principalmente, per non dire esclusivamente, sullo sfondamento e la resa tedesca nei territori dell’Istria e della città di San Giusto. Al contempo, però, ha omesso, o meglio, ha affrontato in modo molto sommario la situazione militare ai confini del Litorale Adriatico cioè nella zona compresa tra il Monte Nevoso (Snežnik), Fiume ed i territori contermini, teatro di aspri combattimenti che si conclusero solo il 7 maggio del 1945 con la resa incondizionata del 97.esimo Corpo d’armata tedesco. Questo contributo è una sintesi che vuole inquadrare gli avvenimenti militari di siffatto fronte, ed in particolare un tratto di esso: quello compreso tra Ilirska Bistrica, Klana e il corso del fiume Eneo. Nella fase finale delle operazioni militari, la IV armata jugoslava aveva il compito di avanzare lungo la direttrice Gospić-Segna- La IV armata jugoslava a Ilirska Bistrica Fiume-Trieste, dopodiché avrebbe raggiunto l’Isonzo, mentre una parte della stessa sarebbe penetrata in Carinzia. La surricordata armata e le forze della I e della III armata, situata a settentrione, avrebbero dovuto distruggere la resistenza tedesca nell’area Trieste-Klagenfurt-Maribor-Zagabria. Il 16 aprile del 1945 la IV armata sfondò la linea difensiva germanica della Lika, attestandosi così tra Kraljevica e Lokve, a sud di Delnice. Questa regione era difesa dalla 237ª divisione del 97 .mo Corpo d’armata, appartenente al Gruppo d’armata “C”, che precedentemente aveva ricevuto il compito di sorvegliare l’Istria ed opporsi ad un eventuale sbarco alleato lungo quelle coste. L’avanzata verso il capoluogo quarnerino fu bloccata dalla Linea “Ingrid”, che correva lungo l’ex confine tra i regni d’Italia e di Jugoslavia. I tedeschi fortificarono la linea che dal Monte Nevoso (Snežnik) raggiungeva Klana e il tratto compreso tra la sorgente e la foce dell’Eneo, e al contempo rinforzarono ulteriormente i già esistenti capisaldi italiani.(4) Nella zona prospiciente tale linea, altresì, realizzarono rapidamente una serie di avamposti fortificati. A nord di quest’area, cioè tra il Monte Nevoso, Postumia e Lubiana, le forze di occupazione dislocarono cinque reggimenti di polizia e del corpo di volontari serbi nonché formazioni delle SS e della polizia, capeggiate dal comandante delle SS Globocnik.(5) Le forze militari jugoslave concentrarono la loro azione in due direzioni: da un lato impegnarono le truppe avversarie in una serie di combattimenti presso Klana, dall’altro raggiunsero le isole di Veglia, di Cherso e di Lussino. Dalle isole quarnerine la IV armata potè sbarcare sulla penisola istriana, a Bersezio e a Draga di Moschiena, e marciare verso Trieste e Fiume. Le unità jugoslave furono ingaggiate in intensi combattimenti in questo settore del fronte. Il capoluogo giuliano era una delle mete da raggiungere. Era in atto la co- MOSTRA Il periodo in cui Trieste fu in mano alla Jugoslavia Un tassello della travagliata questione giuliana TRIESTE - Comprendere l’impatto che sulla popolazione triestina ebbero i quaranta giorni della presenza in città dell’Armata jugoslava. A riportare indietro con la memoria, all’epilogo della seconda guerra mondiale a Trieste, sessant’anni fa, una mostra fotografica, “40 giorni”, realizzata dalla Lega nazionale e dall’I. R. C. I. di Trieste a Palazzo Costanzi (dall’11 al 28 maggio scorso) . E qual era l’aria che si respirava a Trieste fra la fine di aprile e il giugno del 1945? L’avvento delle forze popolari del maresciallo Tito a cosa avrebbe portato? “Gli italiani di Trieste tutti, dal 1 maggio al 12 giugno 1945, conobbero terrore, deportazione e morte. Trieste era diventata Jugoslavia già dal primo ordine del giorno emesso dal Komanda Mesta” – così Silvio Delbello nell’introduzione al catalogo della mostra. “L’esame della questione giuliana legata alle vicende della guerra e del dopoguerra è impresa poco semplice e controversa per le connotazioni che qualunque descrizione porta a raggiungere. Dovremmo pensare al luglio del ‘43, al settembre, riandare ai tragici fatti seguiti all’armistizio italiano, al dissolvimento dell’ordine, a quelle violenze e a quegli infoibamenti, i cui tristi recuperi delle salme sono ampiamente documentati. Chiederci il perché e il come i fatti sono accaduti” – si legge ancora – “Domandarci se la tesi, da taluni portata avanti, della jaquerie sia effettivamente percorribile, se corrisponde al vero che il dramma delle foibe sia divisibile e, sostanzialmente, distanziabile in due momenti. L’uno, appunto del settembre ‘43, legato a moto spontaneo popolare volto ad una ribellione dopo anni di soprusi, ovviamente fascisti, l’altro invece legato maggiormente a Trieste e Gorizia più che all’Istria del maggio ‘45, più pianificato e rispondente ad una volontà ‘ufficiale di normalizzazione diciamo jugoslava’ con le deportazioni e, spesso, il non ritorno. Dovremmo ancora considerate lo stato delle cose riguardo l’Istria legandoci a quel unico ‘documento ufficiale’, anche questo fra virgolette, che è la dichiarazione di Gilas per cui nel 1946 sarebbe stato mandato, da Tito, con Kardelj in Istria con il compito di indurre tutti gli italiani ad andar via con pressioni di ogni tipo”. nella zona tra Kočevje e Brod na Kupi. Tenendo impegnate le stesse la IV armata potè inviare nuove forze alle spalle della linea difensiva tedesca presso Fiume.(8) La 20ª divisione, approfittando dei combattimenti che si stavano svolgendo a nord di Fiume, puntò verso occidente. Da Prezid, attraverso la zona di Mašun, si aperse la strada verso il Carso e Trieste.(9) La 9ª divisione, che era sbarcata sulle coste orientali dell’Istria, penetrò sino a Knežak e Koritnica, due località di quasi nessuna importanza, ma, controllando le stesse, l’esercito jugoslavo potè accerchiare il 97.mo Corpo d’armata tedesco nel settore d’operazione Fiume-Ilirska Bistrica. Sino il 25 aprile, quest’ultimo era una riserva operativa del Gruppo d’armata “C” in Italia, in seguito passò al Gruppo d’armata “E”, che controllava il territorio compreso tra il Monte Nevoso ed il mare Adriatico. Nella zona attorno a Ilirska Bistrica nonché a Klana i tedeschi si erano installati nelle posizioni chiave. Le stesse erano controllate da alcune migliaia di SS nonché da reparti d’élite della Wehrmacht, il territorio circostante era controllato, inoltre, dalle forze collaborazioniste.(10) Il 29 aprile iniziava l’operazione d’accerchiamento. Attraverso Ilirska Bistrica in direzione di Prem, la 13ª divisione jugoslava aggirò le truppe tedesche; l’anello attorno al 97.mo Corpo d’armata si era completato. Le operazioni interessarono l’intera area: la 1ª brigata della 13ª divisione giunse nei villaggi di Podgrad e di Jelšane, la 3ª brigata invece arrivò a Sušak, anche Klana cadde nelle mani dell’esercito jugoslavo fuorché alcuni bunker. L’offensi- Ludwig Kubler, comandante del 97.esimo Corpo d’armata tedesco Parlare della questione giuliana, di fine della guerra, di liberazione a Trieste e nella provincia orientale d’Italia è dunque estremamente complesso, controverso. Pace e liberazione? S’interroga Delbello, e precisa: “Per Trieste non ci fu pace. La città conobbe 42 giorni infiniti di nulla. Dove non capivi se l’annullamento fisico contava di più di quello morale. Ed erano la stessa cosa. L’altra Trieste degli sloveni dei dintorni, di chi, pur non sloveno, ci aveva creduto moriva già, in alcune sue parti, durante quei quaranta giorni. ‘Trieste Settima repubblica nella federativa jugoslava’ e ‘non è Tito che vuole 1’Istria ma l’Istria che vuole Tito’ non erano solo affermazioni di propaganda, ma sarebbero state, per chi aveva quella buona fede, chimeriche illusioni che il tempo – e neanche tanto – avrebbero sconfessato. Oggi verrebbe da chiedersi quanti di coloro che il 3 maggio festeggiavano per l’annessione di Trieste alla Jugoslavia potrebbero, ragionevolmente, continuare a pensare allo stesso modo. Non solo fra i comunisti, presto disillusi nel loro ideale, ma anche fra gli sloveni di Trieste. Non fu necessario attendere il ‘48 per capire che la Jugoslava di Tito non era il paese del bengodi, ma uno stato di polizia, con i campi di internamento, con le deportazioni, con la privazione delle libertà personali, con i lavori coatti, con le purghe, con i ragazzi e le ragazze istriani, che ancora restavano, obbligati a costruire le strade per la grande Jugoslavia, con le sparizioni, con le opzioni negate, con le punizioni e, in molti casi, la morte”, ricorda concludendo: “Oggi, nel nome degli assoluti simbolici, ci siamo, però, scordati i perché della storia. Ci hanno aiutato a farlo. I nostri vecchi sono morti, così i vecchi dei nostri fratelli diversi. Restiamo noi, figli di fratelli diversi fra loro, incapaci di sapere se nostro padre era Caino o Abele, che dovremmo e vorremmo chiederci molte cose. Che dovremmo e vorremmo capire. Ma non è facile. Dovremmo e vorremmo, con quelli che sono ancora di un’altra generazione più fresca rispetto a noi, essere la gioventù d’Europa. Ma non è facile. Perché la memoria è memoria e non deve essere condivisa per forza. Non può essere condivisa se è diversa. Storia e memoria non sono sovrapponibili. Dovrebbero, ma non lo sono”. siddetta “corsa per Trieste”, un obiettivo di primaria importanza che andava conquistato prima dell’arrivo delle forze alleate. Lo sforzo bellico in tale direzione fu non indifferente, per i comandi militari jugoslavi bisognava annientare le resistenze tedesche in tempi brevi, lasciando a settentrione, ricordiamo, ingenti forze della Wehrmacht e rinviare così la liberazione di importanti centri come Zagabria, Lubiana, Celje, Maribor, ecc. Lo storico sloveno Tone Ferenc scrive che la liberazione e l’annessione dell’Istria, del Litorale e della Carinzia erano i principali obiettivi del movimento di liberazione, di conseguenza, tenendo in considerazione questo aspetto, appare chiaro perché la IV armata jugoslava avesse tanta premura a sfondare ad occidente. (6) Con la resa delle forze armate germaniche sul fronte italiano, avvenuta il 29 aprile del 1945, gli alleati si apersero la strada verso la Venezia Giulia e l’Austria. Edvard Kardelj, preoccupato, quello stesso giorno inviò un dispaccio al Comando generale dell’Armata jugoslava in Slovenia con il quale auspicava lo sfondamento del fronte in direzione di Trieste da parte del IX corpo e comunicava altresì che se nei successivi tre giorni non fossero giunti nel capoluogo giuliano, sarebbero stati gli alleati ad arrivare per primi, e sottolineò che Trieste era il principale obiettivo dettato dal partito.(7) Dato che l’attacco frontale contro le posizioni abbarbicate lungo il fiume Eneo (Riječina) fallì, quasi contemporaneamente iniziò l’operazione di accerchiamento. Il VII corpo formò la “Kočevska operativna skupina” (Gruppo operativo Kočevje) che affrontò le formazioni tedesche e cetniche Alexandre Löhr, comandante del Gruppo d’armata “E” e di quello di Sud-Est va puntava in direzione di Fiume. Il generale Ludwig Kübler ricevette l’ordine di continuare i combattimenti, che avrebbero agevolato il ritiro delle forze del Reich dai territori della Croazia.(11) In vista della perdita di Trieste il comandante delle forze di Sud-Est ordinò di sfondare, attraverso Ilirska Bistrica e Postumia, verso Lubiana. Ormai era troppo tardi. Il 2 maggio gli attacchi si concentrarono lungo l’asse Rupa-Jelšane-Ilirska Bistrica. Fu conquistata anche Šapjane, nodo stradale e ferroviario di notevole importanza, punto d’incrocio delle arterie di comunicazione di Fiume, di Trieste e di Lubiana. I tedeschi respinsero con fermezza gli attacchi in direzione del capoluogo quarnerino. Alexan- Carri armati jugoslavi a Trieste der Löhr fece notare che “una prematura rinuncia del compito relativo alla difesa della città portuale avrebbe significato un enorme pericolo per le truppe dislocate in Croazia; egli ordinò quindi a Kübler di difendere la zona di Fiume e, se necessario, di asserragliarsi lì con le sue truppe”.(12) Alla fine, però, quasi assediati, i reparti germanici dovettero abbandonare Fiume, minarono il porto ed iniziarono a ritirarsi verso nord, cercando di aprirsi un varco tra Ilirska Bistrica e Pivka. L’unità militare si muoveva mediante la tattica della “sacca mobile”, grazie alla quale i reparti combattenti proteggevano il nucleo logistico nonché i feriti.(13) Il comando tedesco quello stesso giorno tentò di aprirsi una breccia tra Ilirska Bistrica e Postumia, utilizzando parti della 188ª e della 237ª divisione nonché la formazione militare “Reidl”. La mattina del 3 maggio la 188ª divisione di montagna iniziò l’attacco contro la 26ª divisione jugoslava, rompendo il fronte tra la 12ª e la 3ª brigata, conquistando Šapjane.(14) Appoggiati dai carri armati i tedeschi sfondarono tra Rupa e Jelšane e conquistarono Sušak (villaggio di quell’area, da non confondere con il sobborgo di Fiume). Nonostante la manovra, i tedeschi non furono in grado di uscire dalla sacca. L’esercito jugoslavo entrò nella città di San Vito dopodiché anche a Volosca e a Mattuglie. Il comando della IV armata rinforzò le sue divisioni, con uomini che giunsero anche dal settore di Trieste, per l’atto finale che avrebbe portato alla resa tedesca in quella zona. Le forze così dislocate impedirono che i germanici sfondassero verso Pivka e Trieste. Il generale von Hösslin, comandante della 188ª divisione di montagna di riserva, che sostituiva il generale von Kübler ferito, aveva pianificato lo sfondamento verso occidente, cioè raggiungere il capoluogo giuliano ove si sarebbe arreso agli anglo-americani. Malgrado la situazione sfavorevole per i soldati del Reich, gli stessi tentarono nuovamente di capovolgere la situazione. Tra il 4 ed il 5 maggio si impegnarono in un nuovo contrattacco, riuscendo ad incunearsi sino a Prem, immediatamente, però, gli jugoslavi fermarono l’iniziativa tedesca. Era l’ultima mossa dei soldati della Wehrmacht intrappolati in quel settore. Nonostante l’elevato numero di vittime i nazisti rioccuparono Ilirska Bistrica e la tennero per un giorno. Era un bagliore, e come tale si sarebbe improvvisamente spento. Per le unità tedesche non rimaneva altro che capitolare. Le stesse erano sottoposte al fuoco violento dell’artiglieria jugoslava, che colpiva la ristretta area di appena cinque chilometri di diametro.(15) Nella notte tra il 5 e il 6 maggio la 26ª divisione jugoslava, stremata dai violenti combattimenti, fu sostituita dalla 7ª divisione. Il 6 maggio iniziava l’offensiva finale contro i tedeschi intrappolati in un angusto settore. È interessante notare che, proprio lo stesso giorno, il maresciallo Tito inviò un comunicato al capo della delegazione militare britannica, attraverso il quale rendeva noto che per tre giorni l’aviazione alleata aveva sorvolato la zona di Jelšane, ove era accerchiato il grosso delle truppe tedesche, ma non fu né bombardata né mitragliata.(16) I tedeschi al comando di Löhr dovettero affrontare quattro armate jugoslave, superiori per numero di effettivi e, soprattutto, bene equipaggiate con armi e munizioni inglesi, sostenute dall’aviazione e da reparti di carri armati.(17) Attaccati da ogni lato, ormai privi di munizioni e di viveri, e senza via d’uscita, quindi impossibilitati a ritirarsi nella Slovenia centrale, dovettero arrendersi alla IV Armata jugoslava. La sera stessa il comando militare del 97.mo Corpo d’armata chiese la sospensione delle ostilità. Le trattative durarono tutta la notte e la mattina del 7 maggio venne firmata la resa. I tedeschi proposero, in un primo momento, di cessare i combattimenti e di ripiegare verso settentrione, ossia in direzione di Lubiana per poi prendere la strada della Germania, in più erano pronti a cedere agli jugoslavi tutti gli armamenti pesanti in loro possesso.(18) Le proposte non furono prese in considerazione. Gli jugoslavi pretesero la resa incondizionata. I combattimenti, comunque, perdurarono sino alle 12 circa dello stesso giorno. All’8ª divisione si arresero complessivamente 16. 000 uomini con tutti gli ufficiali (tra cui quaranta alti ufficiali), i sottoufficiali nonché tre generali, cioè, Ludwig Kübler, comandante delle unità tedesche nel Litorale Adriatico, Hans von Hösslin, comandante della 188ª divisione e Hans Grawenitz, comandante della 237ª divisione. Altre migliaia di soldati germanici furono catturati e disarmati dalle altre unità della IV armata jugoslava. Note (1) W. Deakin, Vdaja nemške vojske na Balkanu (april-maj 1945) (trad. slo), in D. Biber (a cura di ), Konec druge svetovne vojne v Jugoslaviji, “Borec”, a. XXXVIII, n. 12, Lubiana 1986, p. 802 (2) Ibidem. (3) Ibidem. (4) K. Levičnik, voce Riječka bitka, in Vojna Enciklopedija, vol. VIII, Belgrado 1964, p. 294 (5) R. Kaltenegger, Zona d’operazione Litorale Adriatico (trad. it.), Gorizia 1996, p. 202. (6) T. Ferenc, Predaja nemške vojske iz jugovzhodne Evrope. Konec druge svetovne vojne v Jugoslaviji, in D. Biber (a cura di), op. cit, p. 810. (7) T. Ferenc, Sklepne operacije za osvoboditev Slovenije, in Osvoboditev Slovenije 1945, Lubiana 1977, p. 123. (8) Z. Klanjšček, Oris narodnoosvobodilne vojne na Slovenskem 1941-1945, Lubiana 1982, p. 116. (9) Z. Klanjšček, Pregled narodnoosvobodilne vojne 1941-1945 na Slovenskem, Lubiana 1989, p. 313. (10) Č. Šinkovec, Uporni svet pod Snežnikom, Nova Gorica 1966, p. 309. (11) I. Dolničar, Z. Klanjšček, L. Kocijan, Kako se je končala druga svetovna vojna na Slovenskem, Lubiana 2001, p. 25. (12) R. Kaltenegger, op. cit., p. 244. (13) J. Lucas, Gli ultimi giorni del Reich (trad. it.), Milano 1998, p. 145. (14) K. Levičnik, cit., p. 296. (15) Narodnoosvobodilna vojna na Slovenskem, II ediz., Ljubljana 1977, p. 961. (16) D. Biber (a cura di), Tito-Churchill strogo tajno, Zagabria 1981, p. 529. (17) R. Kaltenegger, op. cit., p. 245. (18) Č. Šinkovec, p. 316. 6 storia e ricerca Sabato, 4 giugno 2005 SAGGI Un contributo all’analisi del «potere popolare» in Istria e a Rovigno (1945) CPL, la rottura con le forme amministrative del passato di Orietta Moscarda Oblak Il saggio, parte di una ricerca più ampia svolta presso l'Archivo di Stato di Pisino (vedi i Quaderni XV del Centro di Ricerche Storiche di Rovigno), affronta uno dei temi ancora poco esplorati nel campo della ricerca storica sull’Istria nel secondo dopoguerra, quello relativo alla costruzione del “potere popolare”, vale a dire l’instaurazione e l’organizzazione del nuovo potere civile e politico nei territori contesi fra Italia e Jugoslavia dopo la fine del secondo conflitto mondiale. L'intento principale è stato quello di prendere in esame alcuni aspetti dei comitati popolari di liberazione (in seguito CPL), gli organismi che divennero la base dell'organizzazione statale jugoslava, in particolare sulla loro origine, organizzazione e strutturazione prima della fine della guerra e nei primi mesi di amministrazione jugoslava. Un tema questo che in parte è già stato affrontato dalla storiografia regionale, basti ricordare il volume di Roberto Spazzali sull'epurazione in Istria, il contributo della sottoscritta sull'epurazione a Fiume, quelli di Luciano Giuricin relativi al periodo settembre '43 – maggio '45 in Istria (pubblicati sui "Quaderni" del CRS di Rovigno), e il volume di Darko Dukovski "Rat i mir istarski". La ricerca è in particolare sostenuta dai materiali reperiti presso l'Archivio di Stato di Pisino, nel fondi denominati Oblasni narodni odbor za Istru (1945-1947)/Comitato popolare regionale per l'Istria (1945-1947) e Gradski narodni odbor Rovinj/Comitato popolare cittadino di Rovigno, materiali ora depositati presso l'archivio del Centro di ricerche storiche di Rovigno. Origini e funzioni dei Comitati popolari di liberazione Sin dalla primavera del 1945, secondo uno schema attuato in tutta la Jugoslavia, in Istria fu instaurato un "potere popolare", che traeva la propria legittimazione nella difesa della guerra di liberazione, che gli jugoslavi consideravano anche “rivoluzione”, nell’edificazione del socialismo e, non ultimo, nell’annessione dei territori contesi. Esso si fondava sui comitati popolari di liberazione, organismi politici che in regione erano nati nella seconda metà del 1943, quale emanazione del Fronte popolare antifascista, con compiti di rifornimento. Nell’Istria cosiddetta croata, il massimo organo era rappresentato dal Comitato popolare di liberazione regionale (Oblasni narodni oslobodilački odbor za Istru), nato con la delibera del Comitato regionale del PCC a Pisino, nella seduta del 25-26 luglio 1943. In alcuni documenti venne definito CPL circondariale o provinciale. Primo presidente fu Joakim Rakovac e segretario Anton (Ante) Cerovac, entrambi d’origine istriana, moderati, che godettero la fidu- cia degli antifascisti italiani. Inizialmente, esso ebbe il compito di organizzare e coordinare l’attività dei comitati di liberazione locali che stavano sorgendo sul territorio istriano. Con l’inizio dell’offensiva tedesca in Istria, questi primi organismi del potere popolare subirono forti perdite, e in pratica, furono spazzati via. La loro riorganizzazione ebbe inizio verso la fine del 1943 e nel corso del 1944 avevano già raggiunto una capillare diffusione su tutto il territorio istriano, con una complessa strutturazione interna. Per gli aderenti al MPL, i CPL diventarono i nuovi organi del potere statale nella primavera del 1944, quando alla III sessione del Consiglio territoriale antifascista di liberazione della Croazia (Zavnoh), il massimo organo della resistenza croata, i CPL furono proclamati organi del potere statale o del “potere popolare”, strutturati, secondo un sistema piramidale, in CPL di villaggio, cittadini, distrettuali, circondariali, con al vertice quelli regionali, fino allo ZAVNOH, come supremo organo del potere statale della Croazia. Diventavano così organi esecutivi che potevano apportare risoluzioni e ordinanze nei limiti consentiti “dalle leggi” della Croazia e della Jugoslavia, ma erano tenuti ad eseguire le risoluzioni e le ordinanze degli organi esecutivi superiori. Nel maggio 1945, i CPL progressivamente assunsero il controllo di tutti i settori della vita sociale, politica e economica dei centri a loro sottoposti, nonché emanarono tutta una serie di provvedimenti, decreti e ordinanze finalizzati alla legittimazione del proprio potere e alla trasformazione strutturale della situazione esistente, in vista della costruzione di una società socialista. Essi deliberavano sulle materie più diverse, tra cui confische ed epurazioni. Vi erano sottoposti, almeno in un primo periodo, i tribunali e la polizia. Fu così avviato un processo rivoluzionario che implicò la cancellazione delle forme amministrative del passato, una riorganizzazione dell’apparato finanziario, l’attuazione di rigide misure economiche, e una serie di altri provvedimenti. In pratica, i CPL controllavano ogni aspetto della vita civile e istituzionale. Nel maggio del 1945 così risultava la divisione amministrativa del territorio sottoposto al CPL regionale dell’Istria (Istria croata): 15 erano i CPL distrettuali (Buie, Pinguente, Cherso, Pedena, Carso (con sede a Lupogliano), Albona, Lussino, Montona, Pisino, Parenzo, Rovigno, Antignana, Umago, Dignano e Gimino), 4 quelli cittadini (Pola, Parenzo, Rovigno e Dignano). Ma il nuovo ordinamento politico-istituzionale jugoslavo che trovava espressione sul suolo istriano, di “popolare “aveva solo la facciata, in quanto la sostanza rimaneva “bolscevica”. Dal maggio 1945 il partito e la polizia segreta condussero in tutta la Jugoslavia, ma specialmente in Istria, una linea politica rigida e spregiudicata, che puntò all’eliminazione dei nemici veri o potenziali, contrari alla Jugoslavia comunista e in particolare all’annessione dei territori contesi. Furono il partito, la polizia segreta e l’esercito a costituire la realtà su cui si fondò tale potere. In questo contesto, si creò di fatto un’iden- Nuovo ordinamento politico-istituzionale: l'identità tra partito e stato Dal giugno 1945 al febbraio 1947, allorché venne firmato il Trattato di pace tra Italia e le potenze alleate, l'Istria croata, assieme al Litorale o costa slovena e a Fiume (la cosiddetta zona B), vennero poste sotto amministrazione militare jugoslava. A capo c’era il generale Holjevac, che rappresentava la zona B all’estero e ne rispondeva di fronte al governo jugoslavo. L’amministrazione militare emanava decreti per lo sviluppo economico e sociale dei territori, controllava le dogane, le finanze, i traffici e le maggiori industrie; allo stesso tempo costituiva la massima autorità giudiziaria. La massima autorità a livello di amministrazione civile in Istria era rappresentata dal comitato popolare di liberazione (CPL) per l'Istria, il quale si organizzò in varie sezioni: segreteria; economia; sociale; comunicazioni; commercio e rifornimento; sanitario e culturale. Accanto alla figura del capo-sezione, vi erano uno o più referenti, vale a dire dei tecnici esperti nel proprio campo, e alcuni impiegati. Si trattava di applicare un sistema molto complesso e complicato, con molti funzionari e impiegati. tità tra partito e stato. L’apparato statale e quello del partito si intrecciarono, relegando l’azione dei CPL in posizione subordinata rispetto a quella del partito. E, siccome nel dopoguerra l’obiettivo principale del PCJ fu quello di assicurare ad ogni costo l’annessione dei territori alla Jugoslavia socialista, gli sforzi maggiori dei CPL, quindi, sul piano economico, sociale e legislativo furono rivolti a tal fine. La priorità conferita all’obiettivo politico dell’annessione condizionò l’organizzazione interna dei CPL, che divennero pertanto organismi politici di partito. Infatti, il ruolo guida spettava al Comitato esecutivo (CE), composto da elementi comunisti o comunque politicamente fidati. Nell’estate del 1945, a fronte della dichiarata fratellanza italoslava, grossi problemi esistevano proprio nella composizione nazionale dei comitati distrettuali, che si riflettevano anche nei rapporti di gerarchia con quelli cittadini, composti quasi esclusivamente da italiani. Ma la questione più problematica per i dirigenti regionali, era rappresentata dal mancato consenso della popolazione in generale, e di quell’italiana in particolare. I CPL cittadini, che operavano a rango di distretto e quindi direttamente dipendenti dal comitato regionale, erano quattro, precisamente Pola (sotto gli angloamericani, e quindi inattivo), Fiume, Parenzo e Rovigno. In particolar modo, quest’ultimo operava in completa autonomia rispetto al distretto, che pur esisteva. Ma esisteva anche la tendenza da parte dei comitati distrettuali a non lasciare sufficiente autonomia a quelli cittadini, a frenare le loro iniziative, così come si osservava l’inoperatività di alcuni comitati cittadini, che esistevano soltanto sulla carta, perché tutti i loro affari venivano gestiti dal distrettuale. In questo contesto, la realtà sociale di Rovigno rappresenta un punto focale nell’indagine sulla costruzione del potere popolare, dal momento che la cittadina istriana, con una consistente classe operaia, di forte tradizione socialista, poi comunista, era stata il centro principale della resistenza italiana in Istria - dove si era costituita la I compagnia di partigiani italiani, da cui poi si era sviluppato il battaglione “Pino Budicin” – presentando un nucleo compatto di dirigenti comunisti italiani. Furono proprio questi esponenti e rappresentanti italiani che a guerra finita costituirono i vari organismi del nuovo potere popolare (Comitato popolare cittadino, UAIS, SKOJ, Fronte delle donne antifasciste, ecc.). Ma come in altre parti dell’Istria, anche qui nel dopoguerra si verificarono fortissime espressioni di quell’intransigenza e di quel radicalismo contro gli oppositori del nuovo potere. Evidentemente, le spinte che muovevano il nuovo gruppo dirigente erano essenzialmente di natura ideologica, non certamente nazionale, come succedeva in alcune cittadine dell’Istria. In questo senso, l'analisi dei criteri e delle scelte attuate dagli organi di governo regionale e, di riflesso, la situazione pratica che venne a crearsi in un contesto sociale e politico come Rovigno nei primi mesi di amministrazione jugoslava, e quindi gli effetti e le conseguenze di tale processo, portano nuova luce sulla politica jugoslava nei confronti della popolazione istriana, in particolare di quella italiana. storia e ricerca 7 Sabato, 4 giugno 2005 PATRIMONIO Fiume riscopre e onora i personaggi illustri del proprio passato L’eredità blasonata di Giuliana Pirjavec discendente dei de Adamich e dei de Benzoni Servizio di Roberto Palisca - Foto di Graziella Tatalović Non sono molti i fiumani oggi che possono vantarsi di discendere da una famiglia nobile e illustre, e ancor meno quelli di ben due casati patrizi, come i de Benzoni e gli Adamich. Come per l'appunto Giuliana Pirjavec e Wanda Stilinović il cui bisnonno Francesco de Benzoni prese in moglie quella Cornelia de Adamich, di padre Leopoldo, quest'ultimo figlio dell'ancor più celebre e benemerito Andrea Lodovico de Adamich, a cui le principali istituzioni museali della città hanno dedicato una serie di mostre e iniziative culturali. Considerando che degli "eredi" dell'illustre concittadino ancora esistono a Fiume, a nostro modesto parere andavano invitati alla cerimonia inaugurale dell'esposizione, quale gesto simbolico di stima, e soprattutto di rispetto della memoria del grande Andrea Lodovico de Adamich. Ma non si è pensato a questo. Noi comunque l'abbiamo saputo. E Giuliana Pirjavec, dopo un'opera di convincimento – attuata con la complicità della figlia Tamara, che insieme a sua sorella Sandra e alla cugina Eva è una delle ultime tre discendenti del ceppo – ha acconsentito a parlare e "mostrarsi" sulle pagine di “Storia e ricerca”. Con la simpatia e la cordialità che la contraddistinguono, ci ha accolti cortesemente in casa con già a portata di mano tutti i vecchi documenti d'archivio che a ragione lei conserva come preziosi cimeli, in quanto confermano le nobili radici di discendenza della famiglia. Estratti di registri di stato civile vecchi oltre cent'anni, atti di nascita e di morte bilingui scritti in lingua italiana e ungherese, copie e ritagli di giornale ingialliti in cui nostri validissimi colleghi, oggi in pensione parlano della storia della città, dei tanti meriti dell'illustre Andrea Lodovico e della nobile ed antica famiglia fiumana dei de Adamich. Sfogliamo insieme anche le pagine del terzo volume delle Memorie per la storia della liburnica città di Fiume di Giovanni Kobler, in cui nella sezione VI, dedicata alle “Notizie intorno ad alcune famiglie patriziali di Fiume”, a proposito di Andrea Lodovico, lo storico fiumano scrive: “Uomo di grande impegno e di patriottismo emi- L’estratto bilingue ungherese e italiano dal libro dei decessi per Giovanni Benzoni, figlio di Cornelia de Adamich Giuliana Pirjavec davanti all’albero genealogico della famiglia de Benzoni che si è tramandato di generazione in generazione dal 1744 nente, era negoziante di molto credito. Fu fatto patrizio consigliere nel 1802 e comandante del battaglione civico nel 1809. Nel 1796 diede impulso alla costruzione della strada Ludovicea, fabbricò a sue spese un nuovo teatro e nel 1806 vi fece aprire un casino sociale, progettò nel 1807 la costruzione di una casa per locanda, acquistò la possessione Merzlavodica e vi pose una fabbrica di vetrami, nel 1802 comperò la villa dietro il Castello, nel 1807 la realità ove è ora l’accademia militare di marina e la casa con vigna e bosco di lauri presso Sant’Andrea, nel 1816 la casa detta Rotonda sulla piazza del corpo della guardia. Nel 1821 comperò il molino Liciza e vi attivò una fabbrica di carta, la quale fu proseguita da William Moline ed ingrandita sino all’odierna prosperità da Smith e Meynier. Nel 1825 era deputato di Fiume alla dieta ungarica ed in quel tempo fece stampare un progetto per promuovere il commercio ungarico verso Fiume. Morì nell'ottobre del 1828, lasciando di sé ottima memoria a cui fu data espressione dalla municipalità col dare il nome Adamich alla più bella piazza della città. L'imperatore Francesco I aveva stabilito di conferirgli la nobiltà ungarica ma lentezza dicasteriale fu cagione del ritardo, sicché, mediante diploma del 14 Gli atti di nascita di Francesco Benzoni e Cornelia Adamich luglio del 1834, furono fatti nobili ungarici i di lui figli, Leopoldo e Primo”. Nel suo libro Kako čitati grad (Come leggere la città), la compianta professoressa Radmila Matejčić dice di lui: “Era uomo di mondo; viaggiò in tutta Europa dalla fine del XVIII fino agli anni '30 del XIX secolo e fu un uomo che a Fiume aveva enormi influenze sia a livello politico, sia industriale ed economico. Parlava correntemente il latino, l'italiano, il tedesco, il francese, l''illirico' e l'inglese. Dotato di lucida intelligenza, formatosi culturalmente nel clima dell'illuminismo riformatore, volle portare Fiume al livello delle più importanti città adriatiche. Sapeva di poter farlo perchè era ricco e potente ed aveva facoltà di imporre alle autorità cittadine di allora tutto ciò che voleva". Segue a pagina 8 La leggenda dei quattordici testimoni contro Simone A proposito della popolare leggenda dei quattordici fiumani che testimoniarono il falso pur di far incarcerare Simone Adamich, il compianto Giacinto Laszy nel suo libro Storie e leggende della città di Fiume racconta: I tredici testimoni di Adamich: ne manca uno che è purtroppo andato perduto “Il ricco Simone Adamich, padre del nostro benemerito e astuto concittadino Andrea Lodovico, acquistava nel 1780 la valle di Martinščica ed in questa occasione faceva restaurare l’ivi esistente vecchia cappella dedicata a San Martino. Subito dopo si sparse la diceria, avallata da 14 persone degne di stima, che nelle fondamenta della chiesuola l’Adamich avesse rinvenuto ed estratto un ingente tesoro. Il fatto era grave e l’Adamich venne denunciato per omissione di notifica del rinvenimento alle autorità. Arrestati insieme lui e sua moglie Anna vennero condotti nelle carceri di Crikvenica. Il figlio Andrea non perse tempo e verosimilmente, con l’appoggio come diremmo oggi delle ‘veze’, ottenne dall’imperatore Giuseppe II la scarcerazione. Ma, secondo il Kobler, ‘dell’informazione uffiziale il caso non fu chiarito’. Ci chiediamo dopo due e più secoli – scrive Laszy – come si spie- ga che lì 14 persone e per di più degne di stima, non finirono per spergiuro in carcere? Però subirono lì beffe dell’Adamich che si vendicò facendoli scolpire in somiglianza in 14 statuette di pietra esponendoli nella via al ludibrio dei passanti. Lì fece rizzare in Fiumara, lungo l’orlo dei marciapiedi davanti la sua casa (l’ex Ginnasio croato, drogheria Benco poi) e avanti a intervalli distanziati e unite con grosse funi a protezione dei passanti del traffico. Vi rimasero fin verso la fine del secolo” (scorso ndr). Sta di fatto che, anche secondo Giovanni Kobler, appena uscito dal carcere il 24 aprile del 1787, grazie all’intervento di suo figlio Andrea Lodovico, Simone Adamich acquistò dalle suore benedettine l’orto e il lotto terriero che dal loro convento andava fino all’odierno canal morto, per dare il via, in questa centralissima zona della Fiume di allora, alla costruzione del lungo pa- lazzo in stile neoclassico barocco che ultimato gli venne a costare la bellezza di 100.378 fiorini. Sul lungo fiume dinanzi alla sua nuova residenza Adamich fece scolpire lì 14 statue. Secondo la dottoressa Radmila Matejčić, pubblicista, appassionata ricercatrice del passato di Fiume e riconosciuto storico dell’arte, quelle figure restarono là fino al 1882 ovvero fino a che il sindaco Giovanni Ciotta, che era pronipote di Simone Adamich, le fece togliere per trasportare le statuine fatte erigere dal bisnonno nel giardino della sua villa. Da lì vennero sottoposte a trasloco una seconda volta negli anni del dopoguerra, per finire dinanzi al lapidario del parco dell’ex Palazzo del governo, dove si trovano tutt’oggi. Purtroppo ne restano tredici: una è andata persa “strada facendo”. Tra le effigi dei testimoni rimasti si riconoscono una nobildonna, un ufficiale, un cocchiere, una serva e una balia. 8 storia e ricerca PATRIMONIO Dalla pagina 7 Ultimati gli studi a Vienna, presso la Reale Accademia di Commercio, de Adamich capì subito che l'avvenire economico di Fiume dipendeva dai traffici con i paesi del bacino danubiano che erano il vero hinterland della città. Nel 1800, in un'epoca travagliata, contrassegnata dalle guerre napoleoniche, de Adamich grazie alla sua potenza ed influenza ottenne dall'Imperatore la licenza per poter iniziare i lavori della strada che univa Fiume a Karlovac. Per ultimare con successo quest'impresa costituì a Vienna un consorzio diretto dal conte Vincenzo Batthyani e dall'ingegner Vukasovic. La nuova strada fu aperta al traffico nel 1813 e in onore dell'imperatrice Ludovica fu chiamata Ludovicea. Non fu soltanto un abile imprenditore. Fu egli a promuovere l'idea di congiungere con una ferrovia Fiume a Budapest e in quell'occasione l'autorevole giornale ungherese "Pesti Hirlap" la raccolse favorevolmente lanciando il motto "Tengerre magyar!" ovvero "Ungheresi tutti al mare!" che più tardi verrà ripreso anche dal politico magiaro Layos Kossuth, leader della rivoluzione del 184849 contro l’Austria che nel 1848 diventerà ministro del Tesoro nel governo di Layos Batthyány. Andrea Lodovico Adamich capì insomma ai suoi tempi che Fiume meritava un decoro particolare per cui fondò nella sua città natale un grande teatro che restò attivo per quasi tutto l'Ottocento e che nel 1885 fu demolito per far spazio a Palazzo Modello. E nel suo ritratto tutt’oggi custodito presso il dipartimento storico culturale del Museo della marineria e del mare di Fiume, viene raffigurato non a caso con nella mano sinistra il progetto del suo teatro, mentre con l’indice della mano destra indica la pianta di quell'edificio culturale che fece erigere. Il contratto per la costruzione del teatro venne sottoscritto il 10 novembre del 1803 mentre la sua inaugurazione ebbe luogo già due anni dopo: il 3 ottobre del 1805. Morirà 23 anni più tardi lasciando tutte le sue fortune al figlio Leopoldo. Sulla famiglia degli Adamich, grazie al Kobler, oggi sappiamo anche che i primi a portare questo cognome tra i cittadini che popolavano Fiume nel 1700 e che con molta probabilità erano avi di Andrea Lodovico, erano i coniugi Bartolo e Giulia. “Donde fossero venuti non consta; ma in un atto del 1701, riguardante la visita canonica del vescovo di Pola, si fa cenno di un Giuseppe Adamich che da dodici anni era parroco di Chersano” – spiega Kobler e aggiunge: “Giorgio, figlio di detti coniugi, nel 1722 prese in moglie Orsola Giacich di Abbazia e da questa ebbe i figli Andrea e Simone. Egli possedeva due case nella contrada Santa Barbara e una vigna presso la via del Calvario. Simone di Giorgio era cittadino fiumano e negoziante all’ingrosso. Egli deve esser stato fortunato nelle imprese poiché nel 1774 troviamo che possedeva una casa nella contrada di Santa Maria, e poco dopo fabbricò la grande casa a tre piani in Sussak, presso la scalinata conducente a Tersatto, acquistò la possessione Martinschizza ed intorno l’anno 1785 fabbricò un’altra grande casa in contrada della Fiumara. Dalla moglie Anna ebbe i figli Francesco, Vincenzo, Tommaso, Andrea Lodovico e Matteo. Morì nel 1813. Nel 1777 uno degli altri figli di Simone, Francesco, si unì in matrimonio con Orsola Slogar da cui ebbe poi il figlio Giuseppe e la figlia Anna la quale nel 1799 andò in moglie a Giovanni Anderlich. Andrea Lodovico invece il 13 gennaio del 1788 prese in moglie Elisabetta Barcich, da cui ebbe i figli Adamo, Leopoldo Primo e Secondo, e le figlie Maria, Cristina, Regina, Andriana, Giovanna e Barbara. Il figlio Leopoldo nel 1826 si univa in matrimonio a Maria Henke". Fin qui Giovanni Kobler. È a questo punto che a continuare ad illustrarci il complesso albero genealogico della famiglia subentra Giuliana Pirjavec. “Da Leopoldo de Adamich e Maria Henke – ci spiega la nostra simpatica interlocutrice – nacque Cornelia che si unì in matrimonio a Francesco Saverio de Benzoni, anche lui consigliere municipale e tra l'altro proprietario del bel palazzo adiacente la Cattedrale di San Vito in cui c'è oggi la moschea di Fiume. Ed erano i miei bisnonni, in quanto il figlio loro, Giovanni de Benzoni che sposò mia nonna Silvia Duimich, era ovviamente il padre di mio padre Aladar-Alfredo de Benzoni che sposò mia madre Aurora. Dal loro matrimonio nacquero Lucia de Benzoni, maritata Benato, Wanda Eugenia de Benzoni, coniugata Stilinović e la sottoscritta, maritata Pirjavec”. Ecco dunque rivelato l'arcano. Facendo ricerche negli archivi, nel tentativo di risalire ai propri avi e di ricostruire quanto più dettagliatamente la cronologia di discendenza della dinastia per il ramo che riguarda gli Adamich – in quanto per quello dei de Benzoni la famiglia si tramandava già da generazione a generazione un “cimelio” più raro che unico, che è un albero genealogico di rara fattura, che parte dal 900 e che fu compilato nel lontanissimo 1744 il quale ha dunque oramai oltre due secoli, rappresenta l'orgoglio delle vecchie, nuove, e anche future generazioni ed oggi fa bella mostra di sé nell'attico di casa Pirjavec – i discendenti di Andrea Lodovico sono riusciti a risalire negli archivi agli estratti di nascita e di morte di Francesco Benzoni, Cornelia Adamich e dei loro figli e all'estratto di morte di Giovanni Benzoni, figlio di Cornelia de Adamich che tutti i discendenti del ceppo del ventesimo e ventunesimo secolo hanno custodito per tramandarlo gelosamente anche in futuro ai propri figli. Non ci sembra poco. Ben rari sono coloro che oggi indagando e facendo ricerche su ricerche in archivio, riescono a risalire ai propri discendenti. E pochissimi sono coloro che, pur riuscendoci, dopo averli trovati possono vantarsi di essere diretti discendenti di personalità illustri talmente benemerite da aver segnato con il proprio esistere e con il proprio agire, la storia di una città intera e del nostro comune passato. Roberto Palisca Sabato, 4 giugno 2005 MONOGRAFIE La Cash pensa alla storia di Pola Città che trae forza dai resti monumentali del suo passato Prima o poi Pola avrà 3000 anni. Con un difetto in eccesso, una manciata di anni, per fare promotion, per dare un comune denominatore a una serie di accadimenti di più o meno vasta portata, premendo sull’acceleratore del tempo, si sono fatti arrivare questi tre millenni. “Pola. Tremila anni di storia, tre millenni di miti e realtà” è la monografia che l’Urbe ha voluto regalarsi (per la Cash): supporto finanziario della Città, Regione Istriana e Ministero alla Cultura. Elegante nella veste grafica, parla subito agli occhi per il verde e il giallo oro della copertina. I colori di Pola, in un giusto dosaggio, per un simbolismo calibrato ed equilibrato. La copertina è per il libro quello che è l’imballaggio per la merce: la fa vendere. Ma se il contenuto delude, non c’è contenente che lo salva. Il contenuto, nel nostro caso, si venderebbe anche da sé. Intanto con la garanzia di chi firma gli interventi: Miroslav Bertoša, Robert Matijašić, Attilio Krizmanić, Bruno Dobrić, Herman Buršić, Raul Marsetič, Darko Dukovski, Srđa Orbanić e Josip Bratulić, “studiosi nostrani… il loro desiderio è stato non tanto quello di presentare la storia dei regnanti e dei potenti quanto la storia della città e dei suoi abitanti” (J. Bratulić). Il primo tentativo di raccogliere tra due copertine la metamorfosi storico-economico-socioculturaleurbana della città. Una lettura multidisciplinare, si potrebbe dire. Una città costretta al futuro, Pola. Ma a partire da quando? Non c’è una prima pietra – dice Miroslav Bertoša ragionando sul numero di candeline da sistemare su un’ipotetica torta. Difficile contarle, ne conveniamo, queste benauguranti candeline, ma quello che Pola lascia emergere dal sottosuolo, ci autorizza a dire che la torta deve per forza essere grande. “Pola trae energia dai monumentali resti del suo passato, e ancor sempre immagina le lontane radici della nascita” (sempre Bertoša). Una storia, quella di Pola, lunga ventitré secoli, per l’archeologo e storico Branko Marušić; per un Anonimo (forse non troppo: potrebbe trattarsi di Horatio Moreschi, parroco a Sissano e vice vicario generale della Diocesi nella seconda metà del XVII sec.) la città, una data di nascita l’avrebbe: 1220 a.C. In questo caso i tre millenni sarebbero frutto di uno sconto incredibile al passare del tempo. Tra i 2300 anni di una fonte ed i 3225 dell’altra si è imboccata la strada di centro. Ma non è barare questo: né in aggiunta, né in sottrazione. Non sono uno scherzo 3000 anni. Intanto bisogna percorrerli tutti. E la Storia, a Pola, non ha risparmiato niente, né il Tempo è stato galantuomo. Pietro Kandler, Carlo De Franceschi, Carlo Combi, Giovanni Carrara e altri intellettuali del XIX secolo hanno in qualche modo fissato tessere del Mosaico Pola dicendo di scritti e testimonianze di predecessori, inchiostro andato perduto. Una città senza data di nascita, senza parecchie cose di sé andate distrutte. Come leggere oltre la nebbia? Del resto, nemmeno i miti lasciano traccia che non sia fantastica memoria. Devotissimo affetto della città… potrebbe essere questo il fil rouge che lega l’urbe e quanti l’hanno abitata, l’abitano e l’abiteranno. Perché, parafrasando Miroslav Bertoša, Pola ha nel suo destino il futuro. Facendo grazia del genetliaco segnato in rosso sul calendario che in qualche modo le è stato negato, l’urbe ha anche un passato di tutto rispetto. Fatto di miti dai contorni sfumati (ma guai se i miti non avessero la sottile, impalpabile nebbia a proteggerli!), fatto di accadimenti reali che ne hanno fatto una civitas precorritrice dei tempi ma che l’hanno imprigionata, spesso, in una sorta di infausta sabbia mobile. Dai dinosauri in poi, ha avuto tutto. Ha avuto gli “uomini” che hanno abitato le grotte di San Daniele, Giasone e gli Argonauti, ha avuto un abbraccio di isole nate da dei o giù di li, ha avuto gli (H)Istri ed Epulo, ha avuto sette colli sui quali nascere e crescere. Come Roma. Ha avuto imperi e Imperi. È stata preda e magnifica signora. Ha avuto padroni, ha avuto amori. Ha incantato Grandi Viaggiatori, ha incantato Poeti e Scrittori: il cartografo Idrisi la definì “bella con navi sempre pronte a salpare”, Dante le ha dedicato versi della Commedia, è nel Confinamento, prezioso documento diplomatico medievale. “Dalle origini alla Serenissima”: percorso che nella Monografia ha una guida magistrale ed impagabile. Robert Matijašić. Non da meno il cicerone che ci conduce sull’accidentata strada degli alti e bassi, della Gloria e del Fango (“Ascese e tramonti”). Miroslav Bertoša. Di quanto bassi fossero i bassi, dice l’appellativo di città cadavero che Rettori e viandanti cucirono sul vestito di Pola. Una decadenza annunciata dalla peste bubbonica: mentre su Pola sventolava la bandiera della Serenissima, si contarono una quarantina di pestilenze. Terribili quelle del 1371, 1437, 1527, 1631. Erano più i suoi morti che i suoi vivi, l’economia era un dolce-doloroso ricordo, le mura e gli edifici venivano giù. Città cadavero, appunto. La sua grandezza poteva sembrare un mito anch’essa, se a documentarla non fossero stati i monumenti. Pola ha fatto a braccio di ferro con la morte parecchie volte, sfidando epidemie, miserie, guerre: da tutte è uscita con il tessuto sociale squarciato, un etnos che di volta in volta cambiava e che spesso ha faticato a capirsi. La sua geografia sociale, economica, architettonica, urbana hanno subito sconquassi (nel passato lontano come in quello più recente: insegna la decadenza degli Anni Novanta) che avrebbero cancellato i più. Se Pola fosse un cappotto rattoppato, non sarebbe cosa facile individuare la stoffa originale. Sincretismo, acculturamento, assimilazione. Questo, in buona sostanza e tagliando il superfluo con l’accetta, sul cammino della città. Riprendiamolo, questo cammino sfogliando le 396 pagine del libro e gustando gli oltre 500 documenti tra foto, mappe, piani: dopo la Serenissima (Matijašić), le Albe ed i tramonti (Miroslav Bertoša), Attilio Krizmanić ha trattato dello “Sviluppo ambientale ai tempi dell’Austria”, Bruno Dobrić ha sviluppato il discorso sulla “K.uK. Kriegsmarine a Pola”, Herman Buršić ha affrontato l’arco di tempo dalla caduta dell’Austria al secondo dopoguerra (la caduta dell’Austria, la venuta dell’Italia, il Movimento operaio, il primo dopoguerra, il Fascismo, l’Antifascismo, Seconda guerra mondiale, Trattato di pace, Esodo); Raul Marsetič ha elaborato “I bombardamenti alleati su Pola”. Dell’identità della città (“Una città alla ricerca dell’identità”) ha ragionato Darko Dukovski (incluso di sanità, educazione – istruzione, cultura, sport). L’ultimo tratto di strada viene illustrato da Srđa Orbanić (“Pola a cavallo dei millenni”): si ferma all’oggi preciso. Il resto della storia che è futuro va prima creato, vissuto e poi scritto. Ancora, Attilio Krizmanić e Srđa Orbanić sui reggitori della res pubblica dal 1186 ad oggi. Da tale Andrea (è l’epoca dei Comuni medievali) a Luciano Delbianco. E per chiudere Josip Bratulić con l’Excerptum de rebus Polensibus. Adesso è già – o di nuovo – un’altra storia. Carla Rotta Anno 1 / n. 4 4 giugno 2005 “LA VOCE DEL POPOLO” - Caporedattore responsabile: Errol Superina IN PIÙ, supplementi a cura di Errol Superina, progetto editoriale di Silvio Forza edizione: STORIA E RICERCA Redattore esecutivo: Ilaria Rocchi / Art director: Daria Vlahov Horvat Collaboratori: Flavio Forlani, Kristjan Knez, Orietta Moscarda Oblak, Roberto Palisca, Carla Rotta Redattore grafico: Tiziana Raspor Foto: Jasen Mesić, Graziella Tatalović