Luiss Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli CERADI Centro di ricerca per il diritto d’impresa Vincoli internazionali e norma tributaria interna Giuseppe Melis [giugno 2005] © Luiss Guido Carli. La riproduzione è autorizzata con indicazione della fonte o come altrimenti specificato. Qualora sia richiesta un’autorizzazione preliminare per la riproduzione o l’impiego di informazioni testuali e multimediali, tale autorizzazione annulla e sostituisce quella generale di cui sopra, indicando esplicitamente ogni altra restrizione (*) SOMMARIO. - 1. Introduzione: la riforma del Titolo V tra limiti alla potestà legislativa e “treaty making power”. - 2. I vincoli internazionali nell’art. 117 Cost.: il quadro di riferimento. - 3. Segue: loro interpretazione. - 4. I vincoli all’interprete: l’interpretazione adeguatrice e i trattati internazionali. - 5. I vincoli al legislatore tributario derivanti dal diritto internazionale consuetudinario: loro contenuto e loro rapporto con il diritto internazionale pattizio. - 6. I vincoli al legislatore tributario derivanti dal diritto convenzionale, in particolare dalle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione. - 7. Segue. Natura delle norme contenute nelle convenzioni contro la doppia imposizione e conseguenze sulla operatività del vincolo. - 8. Segue. Osservazioni preliminari sul rapporto tra norma internazionale tributaria e norma interna. - 9. Segue. L'adattamento del diritto interno alle convenzioni contro la doppia imposizione. - 10. Segue. “Treaty overriding” e interpretazione “evolutiva”. - 11. Soft law e legislatore nazionale. 1. Introduzione: la riforma del Titolo V tra limiti alla potestà legislativa e “treaty making power”. – La riforma del Titolo V della Costituzione ha riacceso i riflettori su un tema, quello dei vincoli internazionali nel sistema delle fonti, sul quale era ormai da tempo calato il sipario. In relazione ai limiti alla potestà legislativa di Stato e regioni, il nuovo art. 117 co. 1 Cost. – con una formulazione talmente generica da dare vita ad una molteplicità di ipotesi interpretative sulla relativa portata – afferma infatti che detta potestà “è esercitata nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”, specificamente individuati dall’art. 1, L. 5 giugno 2003, n. 131 in quelli che originano “dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute, di cui all’art. 10 della Costituzione, da accordi di reciproca limitazione della sovranità, di cui all’art. 11 della Costituzione, dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali” (1). (*) Il presente lavoro nasce dalla relazione tenuta al Seminario di studio su “I vincoli internazionali nel sistema delle fonti del diritto tributario” coordinato dai Proff. A. Fantozzi e A. Fedele, svoltosi in data 30 gennaio 2004 presso la Luiss “Guido Carli” nell’ambito del Dottorato di ricerca in Diritto tributario dell’Università “La Sapienza” di Roma. Esso è già stato pubblicato su Rivista di diritto tributario, 2004, I, p. 1083 ss. (1) Nel testo inizialmente approvato dal Senato tale disposizione era ulteriormente precisata nel senso che i trattati internazionali di riferimento fossero solo quelli “ratificati a La riforma ha tuttavia interessato il diritto internazionale anche sotto altro profilo, in particolare quello della partecipazione di detti enti alla formazione ed attuazione delle norme di diritto internazionale. Il nuovo art. 117 attribuisce alla potestà esclusiva e piena dello Stato le materie della politica estera e dei rapporti internazionali dello Stato, dei rapporti dello Stato con l’Unione Europea, del diritto di asilo e della condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea (co. 2); riconosce alle regioni – salvo che per la determinazione dei principi fondamentali riservata alla legislazione dello Stato – una potestà legislativa concorrente, tra le altre, in materia di “rapporti internazionali e con l’Unione europea delle regioni” ed in materia di commercio con l’estero (co. 3); prevede per le regioni e province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro competenza, la partecipazione alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e la loro facoltà di provvedere all’attuazione degli accordi internazionali e degli altri atti dell’Unione europea, nel rispetto delle procedure stabilite da legge dello Stato (co. 5); dispone, infine, la potestà delle regioni, nelle materie di loro competenza, di concludere accordi con Stati, nei casi e con le forme disciplinate da leggi dello Stato (co. 9). Tali previsioni hanno formato oggetto delle norme attuative contenute nell’art. 6 della L. 5 giugno 2003, n. 131 (2). Si tratta di un aspetto che non intendiamo esaminare nel presente lavoro, dedicato al solo problema dei vincoli internazionali nel sistema normativo tributario. E’ interessante tuttavia svolgere qualche minima seguito di legge di autorizzazione”: tale espressione è stata poi espunta dal testo definitivo per il pregiudizio che essa avrebbe arrecato all’attuazione degli accordi stipulati in forma semplificata. (2) Sugli effetti del nuovo art. 117 sul “treaty making power” regionale vedi RUGGERI, Riforma del titolo V e “potere estero” delle regioni (notazioni di ordine metodico-ricostruttivo), in www.federalismi.it (2002); PALERMO, Titolo V e potere estero delle Regioni. I vestiti nuovi dell’imperatore, in Le istituzioni del federalismo, 2002, p. 709 ss.; DICKMANN, Osservazioni in tema di limiti al “potere estero” delle regioni e delle province autonome alla luce del nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione e della legge “La Loggia”, in www.federalismi.it (12.6.2003); CARETTI, Potere estero e ruolo “comunitario” delle Regioni nel nuovo Titolo V della Costituzione, in Le Regioni, 2003, p. 555 ss.; CAFARO PANICO, La nuova competenza delle Regioni nei rapporti internazionali, in Dir. pubbl. comp. ed europeo, 2002, p. 1325 ss.; BOCCI, Il potere estero delle Regioni e la partecipazione alle politiche comunitarie, in Le istituzioni del federalismo, 2002, p. 29 ss.; BILANCIA, Ancora sulle competenze delle regioni in materia di rapporti internazionali, in www.statutiregionali.it; ID., Un nuovo ruolo per le regioni in materia di rapporti internazionali?, in www.statutiregionali.it (6.12.2001); ANZON, I poteri delle regioni dopo la riforma costituzionale, Torino, 2002, p. 223 ss. In giurisprudenza, vedi Corte cost., 15 luglio 2003, n. 242, in Giur. cost., 2003, p. 817 ss.; Corte cost., 30 gennaio 2003, n. 13, in Giur. cost., 2003, p. 53 ss. con nota di AMBROSI, Le attività all’estero delle Regioni al tempo del “federalismo a Costituzione invariata”. riflessione su di esso, potendosi assistere alla partecipazione di enti diversi dallo Stato alla formazione di vincoli in materia internazionale tributaria. A tale riguardo, l’art. 2 del Modello OCSE di convenzione bilaterale in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio, nel definirne l’ambito di applicazione oggettivo, si limita a stabilire che la convenzione si applica alle imposte sul reddito e sul capitale “prelevate per conto di ciascuno degli Stati contraenti, o loro suddivisioni politiche o autorità locali, qualunque sia il sistema di prelevamento”, precisando che sono considerate tali “tutte le imposte prelevate sul reddito complessivo o sul capitale complessivo, su elementi del reddito o del capitale comprese le imposte sugli utili derivanti dall'alienazione di beni mobili o immobili, le imposte sull’ammontare dei salari corrisposti dalle imprese, nonché le imposte sulle plusvalenze di capitale”. Dunque, purché si tratti di “imposte” aventi le richiamate caratteristiche – ivi comprese quelle prelevate mediante il sistema di ritenuta alla fonte, a titolo sostitutivo o in forma di addizionali – è indifferente quale ente eserciti la potestà tributaria d’imposizione, potendosi trattare di imposte prelevate dallo Stato, da Stati federati o da enti territoriali minori, quali regioni, province e via dicendo. Il riconoscimento “internazionale” del prelievo tributario operato su base locale ha talvolta trovato espressione nella partecipazione di enti diversi dallo Stato alla formazione di trattati in materia tributaria, come nel caso dei cantoni svizzeri, tra i cui trattati stipulati taluni riguardano le imposte dirette e il divieto della doppia imposizione (3), oppure della Francia, che ha stipulato una convenzione internazionale con il Canada e una con il Québec (4), coprendo così le imposte canadesi federali e provinciali; altre volte, invece, nell’inclusione, in una convenzione stipulata tra Stati, delle imposte locali, come ad esempio accaduto nella convenzione tra Italia e Svizzera del 9 marzo 1976, relativa alle imposte federali, cantonali e comunali. 2548. (3) Vedi MALINVERNI, Le autonomie territoriali in Svizzera, in Giur. Cost., 1991, p. (4) E’ la stessa convenzione con il Canada (art. 29 par. 7) che ha autorizzato la conclusione di accordi fiscali tra la Francia e le province canadesi, purché non in contrasto con la convenzione stessa. Sul punto, vedi GEST-TIXIER, Droit fiscal international, 2° ed., Paris, 1990, p. 79 e ARNOLD-YOUNG, International Taxation and Federalism: the Canadian Perspective, in Revue de droit des affaires internationales, 1985, p. 541 ss., che spiega la scelta canadese in termini di “dual treaty-making power lying with both the federal and provincial authorities in areas in which there is concurrent legislative power, such as income tax”. Vi sono invece casi in cui il diritto costituzionale non consente al governo federale di stipulare accordi internazionali vincolanti per gli Stati della federazione: è questo il motivo per il quale, da un lato, il Modello del Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti si riferisce unicamente alle imposte federali e, dall’altro, Stati Uniti, Canada e Australia hanno apposto una riserva alla già richiamata previsione del Modello OCSE relativa all'inclusione delle imposte delle suddivisioni politiche o autorità locali. Pertanto, relativamente agli Stati in questione, per evitare la doppia imposizione derivante dal prelievo effettuato a livello locale sarà necessario fare riferimento alla legislazione interna dei singoli Stati (5). Se il contesto delle convenzioni in materia di imposizione diretta non appare dunque idoneo ad escludere di per sé il coinvolgimento di enti diversi dallo Stato alla loro formazione (6), tale possibilità deve tuttavia ad oggi escludersi nell’ordinamento italiano. A tacer del sostanziale “svuotamento” del treaty making power operato dal sopra menzionato art. 6 della L. 131/2003 (7), è sufficiente osservare al riguardo che i forti limiti all’autonomia tributaria di regioni e comuni – così come ulteriormente delineati nella recente pronunzia della Corte costituzionale in tema di Irap (8) – privano per il momento tale profilo di qualsiasi interesse. (5) Vedi DEGROUX, Fédéralisme et conventions de double imposition: le choc des souverainetés fiscales, in Revue de droit des affaires internationales, 1985, p. 613. Osserva tuttavia MIRAULO, Doppia imposizione internazionale, Milano, 1990, p. 26, in relazione alla convenzione conclusa tra Italia e Canada nel 1977, che nonostante la convenzione escluda dal proprio campo di applicazione le imposte prelevate dalle province, il fatto che in forza dei “federal provincial fiscal arrangements” le imposte provinciali vengano a configurarsi come addizionali gravanti sul medesimo imponibile federale (ad eccezione dei governi dell'Ontario e del Québec), fa sì che le disposizioni convenzionali siano applicabili anche a queste ultime. (6) Vedi FANTOZZI-VOGEL, Doppia imposizione internazionale, in Dig. disc. priv. sez. comm., Torino, V, 1989, p. 186, i quali osservano come rilevi anche la doppia imposizione che si verifica tra enti territoriali minori di diversi Stati e quella tra uno Stato e l’ente territoriale minore di un altro Stato. (7) Vedi PALERMO, Titolo V e potere estero delle Regioni. I vestiti nuovi dell’imperatore, cit., p. 728, per il quale si tratterebbe di un treaty making power regionale solo nella forma. (8) Corte Cost., 22 settembre – 26 settembre 2003, n. 296, in Il Fisco, 2003, n. 36, 2, p. 14956 ss., dove la Corte precisa che l’espressione “tributo proprio della Regione” non può che riferirsi ai soli tributi istituiti dalle regioni con propria legge, nel rispetto dei principi del coordinamento con il sistema tributario statale. 2. I vincoli internazionali nell’art. 117 Cost.: il quadro di riferimento. – Venendo ora al profilo in esame, in particolare i limiti derivanti dal diritto internazionale alla potestà legislativa a seguito dell’introduzione dell’art. 117 Cost., occorre immediatamente evidenziarne la notevole complessità, come dimostra la straordinaria eterogeneità delle posizioni dottrinali sul punto se tale disposizione abbia inteso operare sulle modalità di adattamento al diritto internazionale pattizio e/o sul rango delle convenzioni internazionali nel nostro ordinamento ovvero su alcuno dei due indicati piani. Ora, per una migliore comprensione del dibattito svoltosi sull’art. 117 Cost., dobbiamo brevemente ricordare che la formazione del vincolo internazionale coinvolge un quadruplice livello di indagine. Il primo – rispetto al quale la riforma del Titolo V certamente nulla innova – è quello della formazione del trattato sul piano internazionale e della nascita su tale piano di obblighi e diritti in capo agli Stati contraenti. Le regole, contenute nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, relative al processo di formazione dei trattati, sono talmente note da non meritare richiami in questa sede. Può essere solo interessante osservare, con specifico riferimento alla fonte classica del diritto internazionale tributario, vale a dire le convenzioni contro la doppia imposizione, che tra le due possibili tipologie di procedimenti di formazione del trattato – quello ordinario o solenne da un lato e quelli particolari dall’altro – la scelta sia sempre caduta sulla stipulazione in forma ordinaria, ritenendosi in tale ambito esclusa la possibilità di stipulare in forma semplificata. Nell’ordinamento italiano prevale infatti la tesi secondo la quale la possibilità di stipulare in forma semplificata deve ritenersi esclusa almeno nelle ipotesi contemplate dall'art. 80 della Costituzione; nel caso delle convenzioni di diritto internazionale tributario, ora si tratterebbe di oneri alle finanze, in virtù della limitazione alla potestà impositiva dello Stato, ora di modificazione di leggi, integrandosi le norme internazionali con le norme interne e modificandone la portata (9). (9) Ritiene prevalente il profilo della modificazione di leggi su quello della determinazione di oneri alle finanze, GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, Padova, 1990, p. 495. Una situazione analoga a quella italiana è quella francese, prevedendosi l’autorizzazione alla ratifica con legge per quelle convenzioni che “modifient des dispositions de nature législative” o per quelle che “engagent les finances de l’Etat” (art. 53 Cost.). Sul punto, vedi GEST-TIXIER, Droit fiscal international, cit., p. 49 e MARTINEZ, Teorie générale des conventions fiscales, Juris Classeurs (Droit international), fasc. 350, 1984, p. 14. E’ interessante anche notare che pur non essendo certamente ignoti trattati stipulati in forma semplificata ancorché riconducibili all’art. 80 Cost., la prassi in materia di stipulazioni delle convenzioni contro la doppia imposizione è strettamente informata ai canoni della forma solenne. Ciò non Il secondo livello d’indagine riguarda l'efficacia dell'accordo sul piano interno, che attiene alla possibilità per i giudici dell'ordinamento interessato di applicare la norma internazionale e, dunque, alla possibilità del singolo di avvalersene. Sempre per quanto riguarda le convenzioni contro la doppia imposizione, tra le due forme alternative di adattamento del diritto interno alle fonti del diritto internazionale – procedimento ordinario e procedimento speciale – si è sempre privilegiata nel nostro ordinamento la seconda forma, immettendosi tali convenzioni mediante il c.d. “ordine di esecuzione” (10), peraltro contenuto nella stessa legge che autorizza la ratifica (11). L’adattamento al diritto consuetudinario (anche tributario) è invece, come noto, automatico, in forza dell’art. 10 Cost. Mentre nulla è stato certamente innovato sul piano del diritto consuetudinario dalla Riforma del Titolo V della Costituzione, assai accesa – come vedremo – è la disputa riguardo al diritto pattizio. Il terzo livello di indagine riguarda il rango delle norme internazionali immesse nell'ordinamento interno, individuato in quello della norma in cui si toglie, peraltro, che per alcuni accordi di attuazione dei precetti contenuti nelle convenzioni contro la doppia imposizione possa adottarsi il procedimento in forma semplificata, come è accaduto nel caso degli accordi di attuazione della disposizione convenzionale sullo scambio di informazioni, i quali, attesa la loro natura prettamente amministrativa, non sono stati soggetti a ratifica (vedi Circ. Min. Fin., 25 luglio 1983, n. 42/12/895, in Dir. prat. trib., 1983, p. 2031; Circ. Min. Fin., 15 dicembre 1989, n. 18/12/1293, in Dir. prat. trib., 1990, p. 122 ss.; Circ. Min. Fin., 19 ottobre 1989, n. 15/12/1100, in Dir. prat. trib., 1990, p. 113 ss.; Circ. Min. Fin., 6 giugno 1981, n. 22/12/700, in Dir. prat. trib., 1981, I, p. 1277 ss.; Circ. Min. Fin., 18 settembre 1981, n. 30/12/923, in Dir. prat. trib., 1981, p. 1507 ss.). Con riferimento agli accordi di tipo “interpretativo” e “applicativo” conclusi in esito alla procedura amichevole, sia consentito rinviare a MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003, p. 611, nota 47. (10) In mancanza del quale la norma internazionale è inapplicabile, a nulla rilevando l'inadempimento così determinatosi agli obblighi internazionali. Vedi Cass. Sez. Un., 8 giugno 1972, n. 1773, in Riv. dir. int., 1973, p. 600; Cass. Sez. Un., 17 aprile 1972, n. 1196, in Dir. sc. int., 1972, p. 453 ss.; Cass. Sez. Un., 23 marzo 1972, n. 867, in Giust. civ., 1972, I, 1595 ss.; Cass., sez. I, 22 marzo 1984, n. 1920, in Riv. dir. int., 1984, p. 671. Rileva tuttavia CONFORTI, Diritto internazionale, VI ed., Napoli, 2002, p. 320, come alla norma internazionale non immessa possa almeno attribuirsi una funzione sul piano interpretativo delle norme interne, al fine di renderle il più possibili aderenti alle norme internazionali. (11) Si ha con ciò l'inserimento nell'ordine di esecuzione di una sorta di “clausola di condizione”, per la quale il trattato entrerà in vigore con lo scambio o il deposito delle ratifiche, conformemente alla natura tipica del procedimento mediante rinvio, che condiziona l'applicazione della norma internazionale negli ordinamenti interni alla verifica circa la relativa esistenza. sostanzia l'ordine di esecuzione (12). La scelta del rango della norma in cui si sostanzia quest'ultimo non è arbitraria, bensì dipende dal rango delle norme interne che per effetto del trattato vengono ad essere modificate, al fine di consentire l’operare del principio cronologico nella risoluzione delle antinomie. Tale principio rimane tuttavia affiancato da quello della competenza ad emanare atti nelle materie alle quali le norme del trattato si riferiscono. Essendo dunque possibile un ordine di esecuzione di rango amministrativo qualora la norma interna incisa dall'ingresso della norma internazionale sia di rango amministrativo, oppure ove sussista una competenza degli organi amministrativi nella materia oggetto del trattato, il principio di riserva di legge operante in materia tributaria esclude la possibilità di immettere a livello meramente amministrativo le convenzioni contro la doppia imposizione, incidendo esse per lo più su norme impositive, salvo che per quei successivi accordi di esse attuativi situati al di fuori della sfera di operatività della riserva medesima. Immessa la norma internazionale pattizia nell'ordinamento interno con il rango dell'ordine di esecuzione (o della norma di riproduzione) che tale immissione ha determinato, viene in rilievo il quarto ed ultimo livello di indagine – strettamente correlato al profilo del “rango” – riguardante il coordinamento con le fonti interne. Sino all’introduzione del nuovo 117 Cost. è mancata al riguardo qualsiasi metanorma (o “presunta tale”, come si vedrà) nel nostro ordinamento. La presenza di una siffatta norma, peraltro, può non sempre rivelarsi risolutiva, come la dottrina ha sottolineato con riferimento a quegli ordinamenti in cui si rinvengono clausole a livello costituzionale che sanciscono la prevalenza della norma convenzionale (13). Prima di indagare sulla portata di tale norma, giova ricordare che le vicende configurabili in punto di coordinamento sono due. Innanzitutto, può darsi che la norma internazionale innovi rispetto a leggi interne precedenti. In questo caso, nulla quaestio anche prima della modifica all’art. 117 Cost., imponendosi la norma internazionale sulla norma interna già in base al criterio cronologico. Ciò non significa peraltro che la norma interna (12) Oppure della norma con la quale si procede ad adattamento ordinario. Vedi Corte cost., 6 giugno 1989, n. 323, in Riv. dir. int., 1989, p. 402 e, da ultimo, Corte cost., 22 marzo 2001, n. 73. (13) Vedi CATALDI, Rapporti tra norme internazionali e norme interne, in Dig. disc. pubbl., Torino, XII, 1997, p. 403, con specifico riferimento all’art. 55 Cost. francese. venga necessariamente espulsa dall'ordinamento interno, dal momento che nella normalità dei casi essa continuerà ad applicarsi alle fattispecie non coperte dalla convenzione. In secondo luogo, può darsi che la norma internazionale, immessa e impostasi sulle norme interne, entri in conflitto con norme interne successive. Questa ipotesi, assai più controversa, ha come noto dato origine a svariate tesi interpretative prima della modifica all’art. 117 Cost. Solo per richiamare quelle più importanti, vi è chi ha sostenuto l'esistenza di una “forza di resistenza speciale” della norma pattizia (14), tale da determinare comunque la prevalenza della stessa sulle norme interne successive di pari rango; chi ha avanzato la tesi dell’applicabilità del principio di specialità (15) della norma di adattamento rispetto alla successiva norma interna con essa contrastante, ratione personarum (avendo come destinatari una più ristretta cerchia di soggetti) o ratione materiae (disciplinando una materia più specifica); chi ha parlato di “presunzione di conformità” dell'ordinamento interno alla norma internazionale immessa (16), dovendosi presumere che lo Stato non abbia inteso sottrarsi all'impegno (14) Così QUADRI, Diritto internazionale pubblico, Napoli, 1968, p. 79, secondo il quale “sembra piuttosto da ritenere che le norme di cui è parola abbiano un rango superiore rispetto alle altre, essendo esse prodotte da un principio costituzionale che domina ogni altra fonte di produzione normativa”. (15) ANZILOTTI, Il diritto internazionale nei giudizi interni (1905), riprodotto in Scritti di diritto internazionale pubblico, I, Padova, 1956, p. 285 ss.; FABOZZI, L’attuazione dei trattati internazionali mediante ordine di esecuzione, Milano, 1961, p. 158 ss.; LA PERGOLA, Costituzione e adattamento del diritto interno al diritto internazionale, Milano, 1961, p. 225 ss.; in giurisprudenza, vedi Cass. civ., 5 gennaio 1972, n. 16, in Riv. dir. int. priv. proc., 1972, p. 605. Contra, PAU, Considerazioni sul valore dei trattati internazionali nel diritto interno, in Riv. dir. int., 1984, p. 748 e ID., Le norme di diritto internazionale e le garanzie costituzionali della loro osservanza, in Riv. dir. int., 1968, p. 249 ss., secondo il quale “Tale concetto di specialità (...) non è in sé formalmente sufficiente, tenuto conto che vi sono norme di attuazione di trattati che vengono emanate in forma ordinaria, né è sostanzialmente fondato, tenuto conto del fatto che le norme attuate con l'ordine di esecuzione di un trattato non hanno necessariamente in sé, nel loro contenuto materiale, il crisma della specialità rispetto ad altre norme di carattere generale”. Vedi anche CATALDI, Rapporti tra norme internazionali e norme interne, cit., p. 404. (16) In questo senso, soprattutto la giurisprudenza. Vedi ad esempio Cass. civ., 4 luglio 1953, n. 2085, in Foro It., 1953, I, 1087 ss., secondo cui “l'esistenza di un impegno internazionale e, più ancora, l'esecuzione di esso da parte del legislatore non possono non valere come elemento di interpretazione delle leggi posteriori, nel senso, cioè, di far ritenere, in difetto di un'evidente e chiara volontà della legge di abrogare la legge di esecuzione, e cioè di rinnegare gli impegni internazionali, che il legislatore abbia inteso attenersi alla fondamentale e generale norma del diritto internazionale che impone l'osservanza dei trattati”. Vedi anche Cass. civ., 20 ottobre 1976, n. 3616, in Foro. it., 1977, I, c. 1231 ss.; Cass. civ., 8 giugno 1972, in 1771, in Giust. civ., 1972, I, p. 1808 ss.; Cass. civ., 26 luglio 1960, n. 2164, in Dir. maritt., 1961, p. 519 ss.; Cass. civ., 16 luglio 1954, n. 2539, in Giur. it., 1956, I, I, c. 941 ss. assunto sul piano internazionale ed incorrere nella relativa responsabilità da inadempimento dei trattati, con l’effetto di doversi interpretare la norma interna in modo da assicurare il rispetto degli obblighi internazionali; infine, chi ha parlato, peraltro ricollegandosi alla tesi appena riportata, di specialità sui generis (17), occorrendo, al fine di disapplicare la norma internazionale, che la norma posteriore riveli non solo e non tanto la volontà di disciplinare in modo diverso gli stessi rapporti, quanto quella di ripudiare gli impegni internazionali già contratti, potendosi questa volontà ricavare anche in modo implicito, ma soltanto nell'ipotesi di perfetta coincidenza tra norma interna ed internazionale sotto il profilo soggettivo e della materia regolata. Torneremo sul punto diffusamente quando tratteremo dell’art. 169 t.u.i.r. (18). 3. Segue: loro interpretazione. – La breve premessa svolta sui quattro livelli di indagine in cui si articola la formazione del vincolo internazionale consente di affrontare con maggiore consapevolezza le posizioni dottrinali sull’art. 117 Cost. Secondo qualche autore, la norma avrebbe inciso sia sulle modalità di adattamento del diritto interno alle convenzioni internazionali, sia sul loro rango. Da un lato, l’art. 117 avrebbe inteso modificare la tradizionale impostazione “dualista” del rapporto tra diritto interno e diritto internazionale (19) estendendosi il “trasformatore permanente” anche agli obblighi derivanti da accordi internazionali, tradizionalmente privi di una garanzia costituzionale (17) In giurisprudenza, vedi Cass. civ., 8 giugno 1979, n. 5274, in Riv. dir. int. priv. proc., 1980, p. 82; Cass. civ., 11 ottobre 1972, n. 1773, in Riv. dir. int., 1973, p. 600. In dottrina, vedi GIULIANO-SCOVAZZI-TREVES, Diritto internazionale, Parte generale, Milano, 1991, p. 581 e CONFORTI, Diritto internazionale, cit., p. 322. (18) Un ulteriore problema riguarda il rapporto tra le norme introdotte per effetto dell'ordine di esecuzione di rango legislativo e la Costituzione: sul punto, vedi GIULIANOSCOVAZZI-TREVES, Diritto internazionale, cit., p. 582; GIULIANO, Una recente sentenza della Corte Costituzionale e l'ordine di esecuzione dei trattati internazionali, in Riv. dir. int. priv. proc., 1985, p. 225 ss. Per un caso “tributario”, sul quale ci soffermeremo nel prosieguo, vedi Comm. trib. I° grado di Roma, ord. 17 ottobre 1983, in Dir. prat. trib., 1987, II, p. 3 ss. con nota di GARBARINO, Adattamento del diritto tributario interno alle convenzioni contro le doppie imposizioni. Sul rapporto tra norme consuetudinarie e norme costituzionali, vedi CATALDI, Rapporti tra norme internazionali e norme interne, cit., p. 396 ss. (19) Sulla dicotomia tra teoria c.d. “monista” e teoria c.d. “dualista” o “pluralista”, vedi QUADRI, Diritto internazionale pubblico, cit., p. 42 ss.; BISCOTTINI, Questioni vecchie e nuove in tema di ordine di esecuzione dei trattati, in Riv. dir. int., 1974, p. 204 ss.; GIULIANOSCOVAZZI-TREVES, Diritto internazionale, cit., p. 539 ss. Per una visione comparatistica, vedi MARTINEZ, Teorie générale des conventions fiscales, cit., p. 26. e come tali bisognosi di ricostruzioni volte a valorizzarne l’origine internazionale nella definizione del rapporto con altre norme interne (20). Dall’altro, la modifica avrebbe operato sul rango delle disposizioni pattizie, risolvendosi la violazione di una norma convenzionale ad opera di una norma interna in un vizio rilevante sul piano costituzionale, secondo il collaudato modello della norma interposta (21). Più in particolare, si sarebbe accolto quel principio già presente in altri ordinamenti (ad esempio, l’art. 55 della Costituzione francese: “Les traités ou accords régulièrement ratifiés ou approuvés ont, dès leur pubblication, une autorité supérieure à celle des lois, sous réserve, pour chaque accord ou traité, de son application par l’autre partie”) volto ad impedire che lo Stato, violando impegni liberamente assunti nei confronti di altri Stati commetta – in modo legittimo dal punto di vista dell’ordinamento interno – illecito internazionale (22). Per altri, la legge avrebbe operato sul “rango”, riconoscendo ai trattati rango “superprimario” (23), mentre non avrebbe invece agito sulle modalità di adattamento al diritto internazionale pattizio. (20) Vedi D’ATENA, La nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione europea, in Rass. parl., 2002, p. 924. (21) D’ATENA, La nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione europea, cit., p. 923. Prospetta la rilevanza degli obblighi internazionali non appena sorti nell’ambito del diritto internazionale, indipendentemente dall’ordine di esecuzione, nonché l’esistenza di un vizio di legittimità costituzionale nel mancato rispetto degli obblighi assunti sul piano internazionale, F. PIZZETTI, I nuovi elementi “unificanti” del sistema costituzionale italiano, in Le istituzioni del federalismo, 2002, p. 242. Vedi anche G.U. RESCIGNO, Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, in Dir. pubbl., 2002, p. 782. (22) D’ATENA, La nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione europea, cit., p. 924. (23) SANDULLI, Due aspetti della recente riforma al titolo V della Costituzione, in Rass. parl., 2001, p. 949. Vedi anche CONFORTI, Diritto internazionale, cit., p. 321: “deve pertanto ritenersi che sia viziata da illegittimità costituzionale, per violazione indiretta della Costituzione, e possa come tale essere annullata dalla Corte costituzionale, la legge ordinaria che non rispetti i vincoli derivanti da un trattato”. Per Conforti, tuttavia, il vincolo non andrebbe enfatizzato, non potendo l’intervento della Corte costituzionale che essere “eccezionale” e dovendo la prevalenza del trattato essere attuata innanzitutto sul piano interpretativo tramite la c.d. “presunzione di conformità” delle norme interne al diritto internazionale, ovvero mediante l’applicazione dei criteri del diritto speciale “ratione materiae” o mediante il criterio della “specialità sui generis”. Vedi anche CARAVITA, La costituzione dopo la riforma del Titolo V. Stato, regioni e autonomie fra Repubblica e Unione Europea, Torino, 2002, p. 117, per il quale l’art. 117 non avrebbe innovato sulle modalità di ingresso nel nostro ordinamento delle norme internazionali – dovendosi riconoscere, ai fini della formazione di un vincolo efficace, la necessità sia della ratifica, sia dell’atto di esecuzione – bensì sottratto gli obblighi internazionali introdotti con legge (e solo con quella) a successivi interventi legislativi statali contrari: le norme così introdotte potranno dunque essere superate solo denunziando il trattato ovvero con legge Per altri ancora, l’art. 117 Cost. conterrebbe un limite al potere legislativo statuale e regionale a favore di impegni internazionali anche non resi esecutivi, dovendosi invece certamente escludere l’estensione alle norme internazionali pattizie dell’adeguamento automatico previsto per quelle generalmente riconosciute dal primo comma dell’art. 10 Cost. (24). Si determinerebbe cioè un effetto di vincolo costituzionale per il legislatore di adeguamento anche ai trattati non ancora immessi nell’ordinamento, purché ovviamente perfezionatisi sul piano internazionale. Si tratterebbe con ciò di un obbligo non solo negativo (divieto di porre norme in contrasto con gli obblighi internazionali), bensì anche positivo (porre quanto necessario per l’adempimento degli obblighi internazionali). Ciò varrebbe non soltanto per i trattati legittimamente stipulati in forma semplificata, ma anche per quelli stipulati in violazione di norme interne ove tale violazione fosse ritenuta irrilevante sul piano internazionale. In ogni caso alle convenzioni non spetterebbe rango costituzionale, talché il relativo contenuto ben potrebbe formare oggetto di sindacato costituzionale (25). V’è poi altra dottrina “minimalista” che esclude che il nuovo 117 primo comma abbia inciso sui rapporti tra legge statale e leggi di esecuzione dei trattati internazionali. Per alcuni, la nuova norma opererebbe infatti sul rapporto tra ordinamenti e non tra fonti (26). Mentre Stato e regioni sarebbero direttamente tenuti a rispettare la Costituzione, non altrettanto accadrebbe per i “vincoli derivanti dagli obblighi internazionali”. Il significato di questi ultimi, infatti, andrebbe ricercato altrove, e precisamente nelle disposizioni che la costituzionale. Vedi anche ANZON, I poteri delle regioni dopo la riforma costituzionale, cit., p. 225 per la quale la legge di esecuzione, una volta validamente adottata, vincolerebbe tutte le leggi successive, che non potrebbero disporre in modo incompatibile con essa, e funzionerebbe così da parametro interposto per valutare la legittimità di tutta la normazione futura. (24) SORRENTINO, Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale e comunitario, in www.associazionedeicostituzionalisti.it, par. 2 e in Dir. pubbl. comp. ed eur., 2002, p. 1356. (25) SORRENTINO, Nuovi profili costituzionali dei rapporti tra diritto interno e diritto internazionale e comunitario, cit. Esclude che la disposizione in esame attribuisca forza costituzionale ai trattati come tali, ANZON, I poteri delle regioni dopo la riforma costituzionale, cit., p. 224. (26) Una presa di posizione favorevole a tale tesi, sia pure con riferimento al diritto comunitario, si rinviene in Cass., sez. trib., 10 dicembre 2002, n. 17564, in Giur. Cost., 2003, p. 459 ss., con nota di A. GUAZZAROTTI, Niente di nuovo sul fronte comunitario? La Cassazione in esplorazione del nuovo art. 117, comma 1, Cost. Costituzione stessa, fonte dell’ordinamento generale, dedica ai rapporti dello Stato con l’ordinamento costituzionale (27). Per altri, il principio della superiorità degli obblighi internazionali, stabilito dall’art. 117, 1° comma, sarebbe funzionale al mero riparto di competenze, per completare e garantire l’assetto di competenze tra Stato e regioni che vede non già una ripartizione, ma un vero e proprio concorso di poteri sul piano esterno (28). Dovrebbe pertanto ritenersi esclusa sia l’esistenza di un nuovo meccanismo di adattamento automatico – presupponendosi semmai il funzionamento dei vari meccanismi utilizzati per attuare obblighi internazionali nell’ordinamento interno – sia un’alterazione del rango formale delle norme di origine internazionale (29). Anziché quello di alterare l’assetto consolidato dei rapporti fra ordinamento interno e obblighi internazionali, si tratterebbe di una norma tesa a bilanciare il sistema della ripartizione delle competenze, ad evitare che la distribuzione della potestà legislativa fra Stato e regioni possa comportare l’impossibilità pratica di osservare obblighi internazionali (30). Le critiche che questa ultima tesi muove a quelle che riconoscono effetti sul piano delle fonti alla modifica intervenuta all’art. 117 sono le seguenti. Per quanto riguarda la tesi sulla modifica all’art. 10, si osserva come sarebbe quanto mai singolare che una norma costituzionale quale l’art. 10 fosse (27) Così PINELLI, I limiti generali alla potestà legislativa statale e regionale e i rapporti con l’ordinamento internazionale e con l’ordinamento comunitario, in Foro it., 2001, V, c. 194 ss. Lo stesso autore, in Attuazione dell’art. 117, primo e terzo comma, della Costituzione in materia di legislazione regionale, in AA. VV., Legge “La Loggia”. Commento alla L. 5 giugno 2003, n. 131 di attuazione del Titolo V della Costituzione, Rimini, 2003, p. 20, riconosce tuttavia come la tesi della non (necessaria) innovatività non sia stata accolta dalla disposizione di attuazione, che includendo i “trattati internazionali” tra le fonti destinate a vincolare la potestà legislativa statale e regionale rispecchierebbe piuttosto l’opinione secondo cui l’art. 117, primo comma, Cost. abbia dato vita a un dispositivo di adattamento automatico al diritto internazionale. (28) Vedi CANNIZZARO, Gli effetti degli obblighi internazionali e le competenze estere di Stato e Regioni, in Le istituzioni del federalismo, 2002, p. 13 ss. (29) CANNIZZARO, La riforma “federalista” della Costituzione e gli obblighi internazionali, in Riv. dir. internaz., 2001, p. 921 ss. (30) La norma servirebbe pertanto ad esplicitare e a bilateralizzare il vincolo del rispetto degli obblighi internazionali, che nel preesistente ordinamento – imperniato su un potere tendenzialmente esclusivo dello Stato nei rapporti internazionali – era, pur se solo implicitamente, disposto nei confronti delle regioni: CANNIZZARO, La riforma “federalista” della Costituzione e gli obblighi internazionali, cit., p. 931. L’art. 117 co. 1 avrebbe la funzione di stabilire che l’assunzione di obblighi internazionali ad opera di ciascuno degli enti titolari di tale potere costituisca un limite di legittimità per l’esercizio di competenze normative interne dell’altro. stata implicitamente modificata da una norma, quale l’art. 117, co. 1, inserita in un titolo destinato a disciplinare i rapporti tra enti territoriali (31). Tesi cui si eccepisce la chiara riferibilità della norma al rapporto tra fonti e non tra ordinamenti, in quanto esplicitamente riferita alla funzione legislativa. Per quanto riguarda il rango delle convenzioni internazionali, si osserva poi come l’elevazione a rango costituzionale dei limiti derivanti da trattati internazionali si riverbererebbe sul piano della tutela giudiziaria, posto che situazioni di conflitto tra norma interna e norma internazionale dovrebbero essere azionate dinanzi al giudice delle leggi, con un notevole aggravio dei compiti ad esso spettanti. Quanto alla tesi sul vincolo ai trattati non ancora “adottati” nell’ordinamento interno, essa assicurerebbe tutela ai trattati internazionali ben più ampia di quella assicurata in numerosi altri ordinamenti e si assisterebbe ad uno sbilanciamento a favore della competenza a stipulare dell’esecutivo o finanche di singoli esponenti ministeriali, dal momento che la garanzia dovrebbe considerarsi estesa anche ad obblighi assunti senza l’osservanza dei procedimenti interni sulla competenza a stipulare, purché la loro validità si sia affermata sul piano internazionale, contraddicendo quel controllo preventivo sull’assunzione di obblighi internazionali frutto di un processo storico teso a salvaguardare la sfera legislativa dagli effetti intrusivi del potere governativo di stipulare trattati (32). A tale obiezione si risponde nel senso che la modifica all’art. 117 Cost. deve pur sempre inserirsi nel sistema costituzionale, in particolare nell’art. 80 Cost., richiedendosi l’autorizzazione alla ratifica per quei trattati che intendano vincolare la legislazione futura (33). Non sarebbero dunque fondate le preoccupazioni circa l’assoggettamento delle leggi interne a qualunque obbligo internazionale, anche a quelli contratti in violazione delle (31) Anzi, si è anche sostenuta l’incostituzionalità del decreto “La Loggia”, in quanto avrebbe finito per modificare l’art. 10 della Costituzione, nonostante la netta volontà dei Costituenti nel senso di escludere l’equiparazione tra diritto consuetudinario e diritto pattizio. Contra, GEMMA, Rispetto dei trattati internazionali: un nuovo obbligo del legislatore statale, in Quaderni cost., 2002, p. 605; A. GUAZZAROTTI, Niente di nuovo sul fronte comunitario? La Cassazione in esplorazione del nuovo art. 117, comma 1, Cost., cit., p. 471, nota 10. (32) Per queste considerazioni, vedi CANNIZZARO, La riforma “federalista” della Costituzione e gli obblighi internazionali, cit., p. 924. Peraltro, nei confronti degli obblighi comunitari, si assisterebbe ad un contrasto con quel meccanismo di “non applicazione”, concepito come disposto automaticamente dall’ordinamento interno, al fine di evitare conflitti di competenza con l’ordinamento comunitario. (33) D’ATENA, La nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione europea, cit., p. 926; G.U. RESCIGNO, Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, cit., p. 782. norme internazionali, essendo possibile l’utilizzazione dell’obbligo internazionale come parametro (e cioè come norma interposta) solo a condizione che se ne sia previamente scrutinata la conformità a Costituzione. Contro il riferimento al riparto di competenze tra Stato e regioni si osserva, infine, che così facendo le regioni potrebbero ampliare la portata degli impegni internazionali contratti per ridurre la “intrusione” da parte del potere centrale, così divenendo dominae delle attribuzioni dello Stato (34). Anche su questo punto torneremo nel prosieguo, quando esamineremo gli effetti delle tesi appena esposte sul problema del rapporto tra norma internazionale e norma tributaria interna. Ci pare opportuno soltanto osservare, per il momento, che le tesi “minimaliste” e quelle che ritengono operante la norma (anche) sul piano dell’adattamento al diritto internazionale pattizio appaiono indubbiamente dotate di minor fondamento, anche se l’eterogeneità degli orientamenti induce legittimamente a dubitare circa la consapevolezza (e volontà) del legislatore di incidere sul sistema costituzionale delle fonti. Dimostrazione inequivocabile ne è, a mio avviso, la vicenda normativa della c.d. “Bozza di Lorenzago”, che nel testo approvato dal Senato ha visto l’eliminazione del riferimento ai vincoli derivanti dagli “obblighi internazionali” (35). 4. I vincoli all’interprete: l’interpretazione adeguatrice e i trattati internazionali. – Prima di passare ai contenuti dei vincoli internazionali al legislatore tributario e alle modalità con le quali essi operano, occorre evidenziare che il problema di tali vincoli non si esaurisce sul piano legislativo, ma coinvolge anche il piano interpretativo. (34) LUCIANI, Le nuove competenze legislative delle Regioni a statuto ordinario. Prime osservazioni sui principali nodi problematici della l. cost. n. 3 del 2001, testo della relazione presentata al Convegno su “Il nuovo Titolo V della Costituzione. Lo Stato delle autonomie”, tenutosi a Roma il 19 dicembre 2001, p. 3 del dattiloscritto. Va peraltro osservato che la bozza Amato conteneva il seguente testo: “La potestà legislativa è ripartita fra lo Stato e le Regioni, nel rispetto dei vincoli derivanti (…) dagli obblighi internazionali”. Vedi D’ATENA, La nuova disciplina costituzionale dei rapporti internazionali e con l’Unione europea, cit., p. 923. (35) Si tratta del disegno di legge costituzionale n. 4862 approvato in prima deliberazione dal Senato della Repubblica in data 25 marzo 2004 (vedi stampato Senato n. 2544), il cui art. 34 sostituisce l’art. 117 co. 1 Cost. con la seguente formulazione: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”. Le convenzioni internazionali contro la doppia imposizione svolgono infatti un ruolo importante anche nella ricostruzione del “sistema” interno, dovendosi l’ordinamento inserire e armonizzare nel sistema internazionale delle fonti. Ciò si sostanzia nella necessità da un lato di tenere conto, in sede di giudizio di validità e di interpretazione, del diverso ordinamento di origine, e dall’altro di considerare le interrelazioni a livello interpretativo che operano tra le diverse fonti normative. Si riconosce, invero, che se di una norma sono possibili più interpretazioni, va preferita quella che in maggior misura consente l’adempimento dei doveri internazionali dello Stato, anche se relativi a trattati non ancora recepiti nell’ordinamento interno. Principio, questo, la cui esistenza e validità, oltre ad essere generalmente ammessa in dottrina, è comunemente riconosciuta dai tribunali interni (36). Si pensi, quanto alle interrelazioni interpretative che si possono determinare tra fonti normative, al caso della riviviscenza dell’Ilor sulle royalties corrisposte da imprese italiane a società residenti negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove l’interpretazione del termine “assoggettate” da parte dei giudici di merito prima e della Suprema Corte poi, ha determinato l’applicabilità dell’Ilor sui redditi in questione, certamente in contrasto con le relative convenzioni contro la doppia imposizione per quanto riguarda l’emersione di un prelievo di un’imposta che le convenzioni stesse non avrebbero voluto legittimare (37). E’ infatti da ritenere che i giudici di legittimità avrebbero dovuto tener conto, in qualche modo, di un principio di “conservazione” della disciplina convenzionale, pur sempre immessa nel nostro ordinamento giuridico e come (36) Vedi CATALDI, Rapporti tra norme internazionali e norme interne, cit., p. 394. (37) Vedi Cass., sez. I civ., 8 aprile 1992, n. 4301, in Dir. prat. trib., 1993, II, p. 879 ss., con nota di CARPENTIERI, Appunti in tema di rapporti tra imposta sostitutiva e imposta sostituita. Vedi anche Cass., nn. 3637/1993; 1872/1995; 8320/1997; 9547/1997; 810/2000. Come è noto, tale posizione ha recentemente formato oggetto di riconsiderazione da parte della Suprema Corte, con sent. 2 febbraio 2000, n. 1122, in Boll. trib., 2000, p. 1026, con nota di A. PACE, La tassazione Ilor delle royalties al vaglio del principio comunitario di “non discriminazione”, avendo il giudice di legittimità ritenuto che l’applicazione dell’Ilor alle royalties, pur consentita dal diritto interno e dalle convenzioni allora vigenti, si porrebbe in contrasto con il principio di non discriminazione contenuto nel diritto comunitario. Vedi anche Cass., sez. trib., nn. 5768/2000; 9942/2000; 12997/2000; 14197/2000; 14253/2000. Successivamente, la Suprema Corte è tornata all’orientamento originario (Cass., sez. trib., nn. 1523/02 e 3410/02), sino alla richiesta di rimettere gli atti alle Sezioni Unite (Cass., sez. trib., 21 febbraio 2003, n. 2684, ove traspare una critica alla lettura eccessivamente formale del dato normativo propria dell’orientamento originario; Cass., sez. trib., 15 aprile 2003, n. 6005), che hanno tuttavia ritenuto di accogliere l’orientamento originario (Cass., sez. un., 20 novembre 2003, n. 17632). vedremo prevalente sulla norma interna, la cui interpretazione in tanto è legittima in quanto dall’applicazione che ne discende non risulti violata la convenzione. Ciò si prospetta dunque non tanto nell’attribuzione alla norma interna del significato proprio di una norma internazionale – ipotesi peraltro difficile da immaginare, visto lo scarso grado di autonomia dal diritto interno che vedremo caratterizzare le convenzioni in esame – quanto piuttosto nell’attribuzione alla norma interna di uno dei suoi possibili significati non incompatibili con il dettato convenzionale. Ove ciò non sia possibile, ne dovrebbe discendere automaticamente l’inapplicabilità della norma interna, pena la violazione degli obblighi assunti sul piano internazionale. Non intendiamo indugiare su tale punto. Tre ulteriori osservazioni meritano tuttavia di essere effettuate. Innanzitutto, il problema del vincolo per l’interprete è strettamente connesso al profilo dell'adattamento del diritto interno al diritto internazionale. La riformulazione della norma operata nel procedimento di adattamento “in forma ordinaria” pone il giudice chiamato ad applicarla di fronte ad una norma che ha perso molti dei suoi caratteri di internazionalità; costui dovrà applicarla, in quanto definitivamente propria dell'ordinamento interno, anche se la norma internazionale sia venuta meno oppure si sia nel frattempo modificata. Ciò aumenta sicuramente la propensione del giudice interno a dare alla norma una interpretazione di carattere interno, alla luce sia dei concetti giuridici del proprio ordinamento, sia delle regole ermeneutiche dello stesso. Il rinvio sic et simpliciter alla norma internazionale attribuisce di contro, agli occhi del giudice chiamato ad applicarla, connotati di internazionalità alla norma stessa di gran lunga superiori rispetto al primo caso. Il giudice, infatti, dovrà verificare se la norma sia parte dell'ordinamento internazionale e solo in caso di risposta affermativa potrà tenerne conto nella soluzione della fattispecie concreta sulla quale è chiamato a pronunziarsi. In secondo luogo, la dipendenza, almeno fattuale, dell'interpretazione dal metodo di adattamento, non consente né interpretazioni unilateralistiche né l’applicazione di canoni ermeneutici previsti dal diritto interno in sede di interpretazione delle convenzioni internazionali. Dai trattati discendono invero diritti e doveri, la cui identità di contenuto – presupposto fondamentale per una parità tra Stati rispetto a tali diritti e doveri – dipende strettamente dalla uniformità del metodo interpretativo e dei materiali su cui il processo interpretativo si fonda. Infine, “interpretazione” e “legislazione” non possono essere pensati come momenti tra loro scollegati. Lo stesso legislatore, nel momento di posizione della norma, tiene conto dei “vincoli” alla sua azione sul piano internazionale non già in quanto enunciati normativi, bensì in quanto significati. L’attività interpretativa è dunque elemento essenziale anche nella fase legislativa. 5. I vincoli al legislatore tributario derivanti dal diritto internazionale consuetudinario: loro contenuto e loro rapporto con il diritto internazionale pattizio. – Passando ora al contenuto dei vincoli internazionali al legislatore tributario, vengono in rilievo innanzitutto i vincoli derivanti dalle fonti consuetudinarie, come comportamento costante ed uniforme tenuto dalla più gran parte dei membri della Comunità internazionale (c.d. “diuturnitas”) con la convinzione che corrisponda ad un obbligo giuridico (c.d. “opinio juris sive necessitatis”) (38). Una prima fonte tradizionalmente qualificata come di diritto internazionale consuetudinario concerne il trattamento ai fini tributari dei redditi degli Stati e degli agenti diplomatici e comporta il non assoggettamento ad imposte di tali redditi da parte dello Stato in cui i redditi sono stati prodotti o in cui opera l'agente diplomatico (c.d. “immunità fiscale”), purché tali redditi siano ottenuti nell'esercizio delle funzioni pubbliche. Ambedue gli aspetti sono controversi in dottrina: mentre tuttavia l’immunità degli Stati ha ricevuto autorevole conforto da parte della Suprema Corte (39), non altrettanto è accaduto per l’esenzione accordata ad agenti diplomatici, che taluno ha inteso ricondurre ad atto di mera cortesia internazionale (40). (38) Sul punto, vedi CONFORTI, Diritto internazionale, cit., p. 36 ss.; CONDORELLI, Consuetudine internazionale, in Dig. disc. pubbl., III, 1989, Torino, p. 490 ss. (39) In giurisprudenza, vedi Cass., sez I civ., 3 maggio 1978, n. 2051, in Dir. prat. trib., 1981, p. 463 ss., secondo la quale “posto che per consuetudine costituente principio del diritto internazionale generale, fra le immunità riconosciute a favore degli Stati e dei soggetti sovrani di diritto internazionale è da ricomprendersi quella tributaria, e che detta immunità si estende agli enti pubblici da tali soggetti costituiti secondo il proprio ordinamento, va negata l'assoggettabilità a prelievi tributari delle attività svolte, nel perseguimento, anche indiretto, dei propri fini istituzionali, dall'Associazione dei Cavalieri italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta”. Vedi anche Cass., sez. I, 5 novembre 1991, n. 11788. (40) Secondo UDINA, Diritto internazionale tributario, Padova, 1949, p. 157, si tratterebbe infatti di un comportamento dettato da mera cortesia e non derivante da un obbligo giuridico; così anche CROXATTO, Diritto internazionale tributario, in Dig. disc. priv. sez. comm., IV, 1989, p. 645; SACCHETTO, Territorialità, in Enc. dir., Milano, XLIV, 1992, p. 327 ss. Ai c.d. “principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili” di cui all'art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia, quali principi esistenti ed uniformemente applicati nella maggior parte degli Stati e sentiti come obbligatori e necessari anche dal punto di vista del diritto internazionale (41), vengono ricondotti il principio del “reddito mondiale” e della “fonte” (42), il principio di “non discriminazione” (43) e il principio di “territorialità della potestà amministrativa d'imposizione” (c.d. “territorialità in senso formale”). Si tratta in verità di ipotesi, non sempre confortate da quella compiuta indagine che un simile accertamento richiederebbe: indagine, tuttavia, che in considerazione dell’elevato numero di Stati nella Comunità internazionale si dimostrerebbe assai lunga e complessa, dando conto della prassi, anche della Corte di Giustizia UE, di riferirsi non di rado a principi generali di diritto senza darne adeguata dimostrazione. Mi pare che si possa al riguardo osservare: a) con riferimento al principio della “residenza” e della “fonte”, che non solo ancora oggi si assiste a scelte al riguardo diverse se non opposte tra ordinamenti, ma che si tratta di principi astratti, non forieri di conseguenze giuridiche precise sino al momento della specificazione dei criteri di Secondo CONFORTI, Diritto internazionale, cit., p. 216, si tratterebbe invece di un limite previsto dal diritto consuetudinario. (41) Vedi CONFORTI, Diritto internazionale, cit., p. 45, il quale li considera una categoria sui generis di norme internazionali consuetudinarie. (42) Vedi GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, cit., p. 39 ss.; ID., Le convenzioni contro la doppia imposizione, in AA.VV. (a cura di C. Sacchetto e L. Alemanno), Materiali di diritto tributario internazionale, Milano, 2002, p. 68 ss. In verità, gli Stati dell'America Latina, per motivi eminentemente politici, hanno sempre sostenuto che il diritto internazionale consentisse soltanto la tassazione sulla base della fonte. Questa impostazione è superata dalla realtà empirica, che vede una diffusione sempre più forte del principio della residenza a scapito del principio della fonte. Sul punto, CROXATTO, Diritto internazionale tributario, cit., p. 642 ss.; VOGEL, On Double Taxation Conventions, Kluwer, Deventer, 1991, p. 4; ID., World-wide or source taxation of income?, in Rass. trib., 1987, p. 259 ss. (43) Vedi VAN RAAD, Non Discrimination in International Tax Law, Kluwer, Deventer, 1986, p. 7 ss., che ritiene che quello che può essere invocato sulle basi dei principi del diritto consuetudinario internazionale è un modello di non discriminazione quale esito di accordo o quale concessione sulla base di reciprocità. Si tende tuttavia a disconoscere l'inclusione del principio di non discriminazione fiscale tra i “principi generali”: vedi CROXATTO, Diritto internazionale tributario, cit., p. 644 ss.; ADONNINO, Il principio di divieto di discriminazione nella fiscalità internazionale, in Dir. prat. trib., 1999, III, p. 178; AMATUCCI, Il principio di non discriminazione fiscale, Padova, 1998, p. 24; DELL’ANESE, Il principio di non-discriminazione nel diritto internazionale tributario, in Dir. prat. trib. int., 2001, p. 48 ss. collegamento rilevanti per ciascuna categoria reddituale. Essi sono certamente suscettibili di rilevare nell’ordinamento interno per giustificare l’imposizione da un punto di vista costituzionale dei residenti per i redditi ovunque prodotti e dei non residenti per i redditi prodotti all’interno del territorio dello Stato se e nella misura in cui si concretizzano in criteri di collegamento effettivi; ma altrettanto non accade sul piano strettamente internazionale, salvo quanto si dirà tra breve per gli stranieri ove difetti un criterio di collegamento “effettivo” relativamente ad un obbligo che viene loro imposto; b) con riferimento al principio di “non discriminazione”, a parte la possibile rilevanza già sul piano (interno) del principio di eguaglianza, la sua importanza appare assai sminuita sia dall’esistenza di un ampio network di convenzioni, sia dalla forza assai più pregnante dell’omologo principio comunitario; c) quanto al principio di “territorialità” della pretesa amministrativa di imposizione, esso resiste tuttora su un piano teorico generale, ma comincia a subire deroghe sempre più rilevanti di ordine internazionale pattizio e comunitario. La dottrina, lungamente interrogatasi sull’esistenza o meno nell’ordinamento giuridico internazionale di un divieto della doppia imposizione internazionale, è pervenuta a conclusioni negative (44), verificandosi solo un divieto di doppia imposizione sul piano interno (45). Questa tesi si sostiene anche per motivi pratici, in considerazione del vuoto normativo che un siffatto divieto comporterebbe, mancando a livello internazionale quelle norme di ripartizione contenute nelle convenzioni (44) Vedi VITALE, Doppia imposizione (diritto internazionale), in Enc. dir., Milano, XIII, 1964, p. 1011 (nota 19); CROXATTO, Diritto internazionale tributario, cit., p. 645; MIRAULO, Doppia imposizione internazionale, cit., p. 11; MICHELI, Problemi attuali di diritto tributario nei rapporti internazionali, in Dir. prat. trib., 1965, p. 227 ss.; DEL GIUDICE, Gli accordi fiscali come strumento per lo sviluppo delle relazioni economiche internazionali, in Il Fisco, 1985, p. 2721; VOGEL, On Double Taxation Conventions, cit., p. 4; GEST-TIXIER, Droit fiscal international, cit., p. 45. (45) Si verifica, in pratica, ciò che accade nel diritto penale, dove la regola del ne bis in idem – come ha affermato la Corte costituzionale con sent. 18 aprile 1967, n. 48, con riferimento alla presunta illegittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1 c.p. (il quale permette di sottoporre nuovamente a giudizio in Italia chi sia già stato giudicato all’estero per reati commessi in Italia) – è prevista nei vari ordinamenti unicamente per le sentenze penali interne e non anche straniere; non esiste pertanto un “principio generale di diritto riconosciuto dalle nazioni civili” che vieti di sottoporre nuovamente a giudizio in uno Stato un soggetto già sottoposto a giudizio in un altro Stato (così come non esiste, appunto, un principio che vieti di sottoporre nuovamente a tassazione in uno Stato un reddito già sottoposto a tassazione in un altro Stato, naturalmente in presenza di un opportuno criterio di collegamento). internazionali in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio (46). Il legislatore tributario italiano sarebbe così tenuto al solo rispetto del divieto di doppia imposizione interna ex art. 163 t.u.i.r. (o del “ne bis in idem”) e il contribuente non potrebbe far valere il mancato rispetto di una norma internazionale. La tesi sembra fondata. Invero, se si suppone che Tizio sia residente nello Stato “A”, è legittimo ammettere che “A” sia legittimato a tassare i redditi ovunque prodotti a motivo del criterio di collegamento della “residenza”. Sicché, se si verificano casi di doppia imposizione, delle due l’una: o lo Stato “B” della fonte si astiene dall’imposizione, ma ciò ad esso non può chiedersi se l’imposizione è fondata su un ragionevole criterio di collegamento; oppure si obbliga “A” a concedere un credito per l’imposta pagata all’estero, ma ciò – oltre a presupporre nuovamente che lo Stato “B” abbia tassato sulla base di un ragionevole criterio di collegamento, legittimandosi altrimenti la prevalenza di un criterio di collegamento non effettivo su uno effettivo (la residenza) – richiederebbe un principio per il quale lo Stato “A” è obbligato a rinunziare ad una quota della propria imposta a favore dello Stato “B”, che abbia tassato sulla base di un criterio di collegamento effettivo. In altri termini, il problema non riguarda soltanto i contribuenti, ma anche la ripartizione del gettito complessivo tra Stati, dei cui criteri (prevalenza del criterio della residenza o della fonte) occorrerebbe in ogni caso una specificazione rispetto alla quale le convenzioni internazionali non mostrano uniformità di soluzioni. Quanto ai limiti derivanti dal principio di territorialità “in senso materiale”, mentre parte della dottrina ha sostenuto la tesi dell'inesistenza di limiti alla potestà impositiva tributaria (47), verificandosi dei vincoli unicamente sul piano dell'esercizio concreto di tale potestà, altra parte di essa ha sostenuto la necessità della sussistenza nella norma impositrice di un criterio di (46) Vedi FANTOZZI-VOGEL, Doppia imposizione internazionale, cit., p. 183. Si osserva inoltre che non esiste alcuna sentenza che abbia mai condannato la doppia imposizione come violazione del diritto internazionale: VITALE, Doppia imposizione (diritto internazionale), cit., p. 1008. Secondo MIRAULO, Doppia imposizione internazionale, cit., p. 12, un implicito riconoscimento del divieto della doppia imposizione internazionale potrebbe ravvisarsi nelle misure unilaterali contro tale fenomeno. Si potrebbe però osservare che tali disposizioni sono necessarie sia perché un tale divieto non sussiste, sia in quanto parte di un discorso più ampio, finalizzato a non sfavorire le imprese che operano all’estero. Sulla doppia imposizione internazionale, vedi anche MIRAULO, Imposizione doppia, in Nss. dig. it., App., Torino, III, 1982, p. 1284 ss. (47) Così STEVE, Sulla tutela internazionale della potestà tributaria, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1940, p. 256. collegamento effettivo o ragionevole (“genuine and reasonable link”), soggettivo o oggettivo, del presupposto con il territorio dello Stato (48). Tale ultima tesi, certamente indiscutibile sotto il profilo costituzionale interno, è ad oggi priva di riscontro concreto sul piano internazionale. Ciò che il diritto internazionale pacificamente ammette è il solo principio – sopra accennato – che vuole che allo straniero non possano imporsi prestazioni o comportamenti non giustificati da un sufficiente collegamento di costui con il territorio dello Stato (49). L’applicazione di un tale principio alla materia tributaria potrebbe peraltro in taluni casi rivelarsi di un qualche interesse. Si pensi, ad esempio, alla nozione di “residenza fiscale” esistente nel nostro ordinamento, il cui riferimento alla “iscrizione anagrafica” può determinare, in capo ad un soggetto che abbia trasferito residenza e domicilio civilistici all'estero rimanendo semplicemente iscritto nell'anagrafe della popolazione residente, la tassazione sui redditi ovunque prodotti. A tacer dei profili costituzionali interni, non v’è dubbio che anche sul piano internazionale l'iscrizione anagrafica mal s'attagli a legittimare un prelievo tributario sui redditi ovunque prodotti, avendo essa finalità essenzialmente statistiche per consentire alla pubblica amministrazione di avere in ogni momento una relativa certezza sulla composizione e sui movimenti della popolazione. La mancanza nella norma impositrice di un criterio di collegamento effettivo o ragionevole (“genuine and reasonable link”) con il territorio dello Stato, si tradurrebbe dunque nella possibilità per un cittadino straniero di invocare il predetto principio consuetudinario dinnanzi ai giudici interni e, in caso di esito negativo (50), di ricorrere – in linea del tutto teorica – all'istituto della protezione diplomatica per violazione del principio consuetudinario medesimo. Tratteremo successivamente del principio c.d. di “non aggravamento”, per il quale le convenzioni internazionali contro la doppia imposizione non potrebbero mai peggiorare la situazione del contribuente. (48) Per una ricostruzione del dibattito, vedi FANTOZZI, Diritto tributario, III ed., Torino, 2003, p. 212; CROXATTO, Diritto internazionale tributario, cit., p. 643; SACCHETTO, Territorialità, cit., p. 324 ss. Si veda anche il caso Nottebohm (C.I.G., 1955), nel quale la Corte internazionale di giustizia elaborò il concetto di legame effettivo o “genuine link”. (49) Vedi CONFORTI, Diritto internazionale, cit., p. 201, per il quale “non potranno essere richieste prestazioni di carattere fiscale se non nei limiti in cui lo straniero eserciti attività o possegga beni che giustifichino siffatta imposizione”. (50) Ciò per il principio del previo esaurimento dei ricorsi interni. Qualche osservazione conclusiva va invece effettuata con riferimento al rapporto tra diritto consuetudinario internazionale tributario e le convenzioni internazionali contro la doppia imposizione. Ora, su un piano generale tale collegamento può consistere nella circostanza che il diritto pattizio può essere, per volontà delle parti contraenti, codificazione del diritto consuetudinario, traducendo per iscritto principi consuetudinari, oppure può configurarsi, ove consti in una pluralità di norme convenzionali bilaterali di identico contenuto ripetute nel tempo, quale fatto costitutivo di una consuetudine. Ambedue i profili appaiono meritevoli di interesse con riferimento agli accordi contro la doppia imposizione, anzi tendono per certi versi a confondersi tra di loro. Se è infatti vero che tali trattati hanno natura essenzialmente bilaterale, la loro base di partenza (il “modello”) rappresenta pur sempre il frutto del lavoro di organizzazioni internazionali, sia pure di carattere c.d. “regionale” (Ocse, Patto Andino, ecc.). Certo, non basta la mera “somma” degli accordi per poterne trarre una consuetudine, perché è pur sempre necessaria una verifica degli atteggiamenti che essi sono suscettibili di esprimere, delle reazioni di terzi e di ogni altro tipo di conferma riscontrabile (51). Occorre cioè distinguere ciò che potrebbe costituire semplice prassi da ciò che è invece avvertito come obbligo di diritto internazionale. Non è sufficiente la sussistenza di un comportamento uniforme da parte degli Stati, se manca tale secondo elemento (52). Affermare, con specifico riferimento alle convenzioni contro la doppia imposizione, se esse siano in qualche misura dichiarative di diritto internazionale consuetudinario è certamente difficile. A tal fine, mentre mi pare, per quanto abbiamo detto sopra, che debba escludersi la formazione di un principio che vieti la doppia imposizione internazionale, qualche profilo interessante potrebbe emergere con riferimento ad aspetti diversi dalle norme di ripartizione in quanto tali. Un esempio potrebbe rinvenirsi nel concetto di stabile organizzazione, che svolge una funzione sostanziale quale criterio di collegamento per il reddito di impresa. Significativa in tal senso appare la circostanza che l’amministrazione finanziaria italiana, in mancanza di una nozione interna di stabile organizzazione, ha sempre operato riferimento al (51) CONDORELLI, Consuetudine internazionale, cit., p. 499. (52) Sul punto, ampiamente, CONFORTI, Diritto internazionale, cit., p. 36 ss. Modello OCSE e altrettanto ha fatto la giurisprudenza. Certo, si tratta di una definizione ampia e non sempre uniforme, ma potrebbe sostenersi che su un contenuto minimo possa essersi formato diritto consuetudinario. Così, ad esempio, ci si potrebbe chiedere se e in quale misura una norma interna che stabilisse come rilevante ai fini della configurazione di un cantiere quale stabile organizzazione una sua durata eccezionalmente breve (ad esempio, una settimana), possa considerarsi legittima nel diritto internazionale tributario, dove la durata è fissata in un periodo almeno trimestrale. 6. I vincoli al legislatore tributario derivanti dal diritto convenzionale, in particolare dalle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione. – I vincoli internazionali più importanti che si pongono al legislatore tributario nazionale sono tuttavia quelli derivanti dai trattati, tra i quali dominano – come accennato – le convenzioni internazionali contro la doppia imposizione in materia di imposte dirette e sul patrimonio (53), cui saranno dedicate le riflessioni che seguono. (53) Tali convenzioni non esauriscono le fonti pattizie. Esistono anche convenzioni bilateriali contro la doppia imposizione in materia di successioni, nonché trattati che, pur non concernendo direttamente la materia tributaria, contengono alcune norme che possono avere grande importanza sotto il profilo tributario, come ad esempio la clausola della “nazione più favorita”, con la quale gli Stati contraenti si obbligano a concedere all'altra parte contraente il trattamento accordato ad uno Stato terzo. Sul punto, vedi UDINA, Diritto internazionale tributario, cit., p. 234; UCKMAR, La tassazione degli stranieri in Italia, Padova, 1955, p. 128; CROXATTO, Diritto internazionale tributario, cit., p. 646; VITALE, Doppia imposizione (diritto internazionale), cit., p. 1011 (nota 19); BETTEN, Lower Courts Deny Application of Most-FavouredNation-Clause: A Lost Opportunity?, in European Taxation, 1997, p. 417 ss.; SCHUCH, Most Favoured Nation Clause in Tax Treaty Law, in EC Tax Review, 1996, p. 161 ss.; DELL’ANESE, Il principio di non-discriminazione nel diritto internazionale tributario, cit., p. 48 ss.; HUGHES, Withholding Taxes and the Most Favoured Nation Clause, in Bulletin of IBFD, 1997, p. 126 ss. In giurisprudenza, un richiamo si ritrova in Cass., sez. trib., 2 febbraio 2000, n. 1122, in Boll. trib., 2000, p. 1026 ss., che ha negato che il principio della nazione più favorita sia idoneo a consentire, in mancanza di una clausola espressa inserita nella convenzione contro la doppia imposizione, l’automatica estensione della convenzione stessa all’Ilor. E’ anche possibile ravvisare alcuni esempi di convenzioni multilaterali, come nel caso della Convenzione sull'assistenza amministrativa e sullo scambio di informazioni in materia tributaria, conclusa nel 1988 tra gli Stati membri del Consiglio d'Europa e dell'OCSE (pubblicata in Riv. dir. fin. sc. fin., 1987, I, p. 168 ss. e 339 ss.) e della Convenzione 90/436/CEE sulla procedura arbitrale in caso di rettifica degli utili di imprese associate residenti fiscalmente in Stati membri della CEE. Tra le convenzioni multilaterali sono altresì da annoverare la Convenzione dell'OCAM del 29 gennaio 1971 fra gli Stati africani, la Nordic Tax Convention del 22 marzo 1983 contro la doppia imposizione in materia di imposte dirette fra gli Stati scandinavi, il Patto Andino del 16 novembre 1971 fra alcuni Stati del Sudamerica, la Convenzione europea di estradizione del 13 gennaio 1957, concernente tra l'altro i reati in materia fiscale, doganale e valutaria. Sul punto, vedi MIRAULO, Doppia imposizione internazionale, cit., p. 130 ss. Ora, con riferimento ai vincoli derivanti dalle convenzioni in esame, mi pare che gli aspetti che devono essere esaminati sono i seguenti: a) il contenuto e la funzione delle singole norme previste in tali convenzioni, potendo il vincolo atteggiarsi diversamente a seconda delle caratteristiche e funzioni delle singole norme interessate; b) la natura delle norme convenzionali, scaturendo da tale natura ulteriori conseguenze in ordine alla effettività del vincolo; c) i principi costituzionali, i principi del diritto internazionale consuetudinario, le specifiche norme di diritto internazionale pattizio e di diritto interno che regolano il rapporto tra diritto interno e diritto convenzionale, potendo da esse emergere talune peculiarità nel processo di adattamento del diritto tributario interno ai vincoli internazionali rispetto alle regole generali del diritto internazionale in precedenza tracciate; d) il ruolo del diritto interno nel procedimento interpretativo delle convenzioni, potendo modifiche al diritto interno ora operare sul piano interpretativo, ora riverberarsi sulla corretta attuazione degli obblighi assunti sul piano internazionale. Iniziando dal primo profilo – quello del contenuto e della funzione delle norme convenzionali tributarie – si assiste ad una realtà normativa assai eterogenea. Un primo gruppo di articoli definisce l'ambito di applicazione soggettivo, oggettivo e territoriale delle convenzioni. Si stabilisce dunque in queste norme l’estensione del vincolo internazionale. Un secondo gruppo contiene norme di definizione (imposte sul reddito e sul capitale, traffico internazionale, autorità competente, residente di uno Stato contraente, stabile organizzazione, norme di qualificazione di redditi, ecc.). Si assiste qui alla precisazione del vincolo internazionale mediante norme di definizione dei termini utilizzati nelle convenzioni internazionali. Un terzo gruppo – che costituisce l’essenza delle convenzioni – è rappresentato dalle norme che ripartiscono il potere impositivo tra gli Stati, localizzando le varie fattispecie reddituali all'interno dell'uno o dell'altro sulla base di determinati criteri di collegamento. Più in particolare, a ciascuna categoria reddituale – definita autonomamente o per effetto di rinvio agli ordinamenti interni – si abbina un criterio di collegamento rilevante (54), stabilendosi poi a quale Stato spetti il diritto di imposizione. A tal fine, le Convenzioni possono alternativamente: a) assegnare il diritto di imposizione al (54) Sul rapporto di specialità tra le varie norme convenzionali, vedi FANTOZZIVOGEL, Doppia imposizione internazionale, cit., p. 191 ss. solo Stato di residenza: in tal modo lo Stato della fonte deve astenersi dall’esercitare qualsiasi imposizione; b) assegnare il diritto di imposizione al solo Stato della fonte: in tal caso è lo Stato della residenza che deve astenersi dal tassare il reddito (55); c) assegnare il diritto di imposizione sia allo Stato della fonte – ora senza limiti, ora con un tetto massimo di ritenuta – sia allo Stato di residenza, prevedendo l’obbligo di quest’ultimo di concedere un credito per le imposte pagate nell’altro Stato oppure l’esenzione dei redditi ivi prodotti (56). Ora, con riferimento ai vincoli determinati dalle norme di localizzazione si possono fare le seguenti osservazioni. La prima è che il vincolo che esse creano non può essere inteso nel senso di rendere applicabile in uno Stato contraente il diritto tributario di un altro Stato contraente. E’ stato infatti attentamente evidenziato che pur consistendo la struttura tipica delle norme di ripartizione, a) nella individuazione della fattispecie reddituale e b) nella determinazione del criterio di collegamento rilevante ai fini della imponibilità del reddito, non ne è possibile l’assimilazione alle norme di diritto internazionale privato (57), mancando la funzione propria della norma di diritto internazionale privato di stabilire il diritto applicabile ad una determinata fattispecie, sia esso il diritto (55) Numerose Convenzioni prevedono infatti l'operare del meccanismo del credito d'imposta “a meno che espresse disposizioni della presente Convenzione non stabiliscono diversamente”. Questo inciso deve essere riferito a quei redditi imponibili “soltanto” nello Stato della fonte, i quali devono ritenersi implicitamente “esenti” da imposta nello Stato di residenza. In alcune Convenzioni esiste peraltro una norma (ad esempio, l'art. 22 par. 4 della Convenzione con la Spagna) che consente di tener conto di tali redditi esentati ai fini della determinazione dell'imposta così da rispettare il principio di “progressività”. Sul punto, vedi FANTOZZI-VOGEL, Doppia imposizione internazionale, cit., p. 193 ss. e Nota Min. Fin., 15 febbraio 1984, n. 12/1259, in Dir. prat. trib., 1984, p. 552. E’ interessante notare che l’esenzione del reddito si estende anche alla ritenuta alla fonte: con riferimento ai dividendi corrisposti a società italiana da società brasiliana, esenti da imposizione in Italia ai sensi dell’art. 23, par. 3 della Convenzione Italia-Brasile del 3 ottobre 1978, vedi Ris. Min. fin., 4 giugno 1985, n. 12/250, in Dir. prat. trib., 1985, p. 1303, dove si sottolinea che “sarebbe illogico, oltre che contrario alla ratio dell’ordinamento, assoggettare ad un prelievo fiscale anticipato singoli redditi che, non concorrendo alla determinazione dell’imposta (complessivamente) dovuta, neppure possono usufruire dello scomputo del prelievo subito”. (56) Come noto, esse utilizzano l’espressione “shall be taxed only” quando intendono riferirsi ad una ipotesi di tassazione “esclusiva”, mentre utilizzano l’espressione “may be taxed” quando intendono riferirsi ad una ipotesi di tassazione “concorrente”. (57) VOGEL, On Double Taxation Conventions, cit., p. 11 ss. e ID., Diritto tributario internazionale, in Trattato di diritto tributario diretto da A. Amatucci, Vol. I, tomo II, Padova, 1994, p. 697 ss. interno oppure il diritto straniero. In particolare, da un lato il prelievo del tributo avverrebbe unicamente in base alla legge interna, essendo del tutto eccezionali le ipotesi di imposizione in base a fattispecie previste da ordinamenti stranieri (58). Dall'altro, le norme di localizzazione contenute nelle convenzioni contro la doppia imposizione non determinerebbero l'applicabilità del diritto straniero ad una determinata fattispecie tributaria, ma limiterebbero l'operatività delle norme interne (c.d. “Grenznormen”), al fine di eliminare la doppia imposizione. Le fattispecie previste nelle convenzioni in questione, cioè, si aggiungerebbero alle norme di diritto interno, agendo sotto due diversi fronti: o escludendo l'obbligazione nascente da uno degli ordinamenti interni in presenza della fattispecie convenzionale (metodo dell'esenzione), ovvero compensando tra i due ordinamenti interessati l'obbligazione tributaria (metodo dell'imputazione). L'obbligazione tributaria dipenderebbe, pertanto, sia dai presupposti della legislazione interna, rimanendo la competenza all'imposizione dello Stato “originaria” e non derivata, sia da quelli della legislazione convenzionale, avente la funzione di limitare questa potestà ripartendo (c.d. “norma di distribuzione”, “Verteilungsnorm”, “distributive rule”) tra i due Stati i presupposti d'imposta rispetto ai quali sulla base dei rispettivi ordinamenti sono da attendersi sovrapposizioni (59). La seconda considerazione riguarda l’ampiezza del vincolo che le norme di localizzazione vengono a determinare, nel senso che esso non si estende alla misurazione del presupposto e alla determinazione del quantum debeatur. Le Convenzioni non quantificano infatti mai l'ammontare di imposta che può essere prelevato nello Stato della fonte (o della residenza) sui redditi ivi localizzati, rinviando a tal fine all'ordinamento tributario di tali Stati. Laddove le Convenzioni intervengono sul “quantum” (ad esempio, nei pagamenti di dividendi, interessi e royalties), non si tratta di vere e proprie “taxing rules”, poiché in tali casi l'imposizione prescinde dalla localizzazione del reddito, attribuendosi allo Stato del pagatore un limitato diritto di prelievo sui redditi invece localizzati, ergo imponibili, nello Stato del beneficiario. La sovranità dello Stato nel quale il reddito viene convenzionalmente localizzato non viene così (58) Sotto questo profilo è pertanto da escludere l'operatività delle norme di diritto internazionale privato in ambito tributario: vedi FANTOZZI, Diritto tributario, I ed., Torino, 1991, p. 158 ss.; MICHELI, Problemi attuali di diritto tributario nei rapporti internazionali, cit., p. 217 ss.; UCKMAR, La tassazione degli stranieri in Italia, cit., p. 22 ss.; UDINA, Diritto internazionale tributario, cit., p. 103 ss.; BÜHLER, Prinzipien des internationalen Steuerrechts, cit., p. 70 ss.; CROXATTO, L'imposizione delle imprese con attività internazionale, Padova, 1965, p. 116 ss. (59) VOGEL, On Double Taxation Conventions, cit., p. 12. ad essere incisa nella determinazione dell'ammontare del prelievo, sicché esso sarà libero di applicare le proprie norme interne di trattamento, coordinate con le norme convenzionali di localizzazione, e riguardanti sia la determinazione della base imponibile del tributo che l'aliquota d'imposta. La terza ed ultima considerazione riguarda il problema se il vincolo possa consistere nella creazione di un nuovo presupposto di imposta, vale a dire se la localizzazione in un determinato Stato di un determinato reddito, sancendo l’imponibilità del reddito così localizzato, sia idonea a creare ex novo un presupposto di imposta ove tale presupposto non sia previsto dalla legislazione interna. E’ il tema del già richiamato principio c.d. di “non aggravamento”, sul quale ci soffermeremo diffusamente quando tratteremo dell’art. 169 (già 128) t.u.i.r. Un quarto gruppo di norme è costituito dalle c.d. “misure bilaterali” contro la doppia imposizione. A questo proposito, il Modello OCSE propone due diversi metodi. Da un lato, il metodo della “esenzione”, “integrale” o “con progressività”; dall'altro, il metodo del credito d'imposta “limitato”, cioè non superiore all'imposta che sarebbe stata pagata nello Stato di residenza sul reddito in esame. Un ultimo gruppo consiste, infine, a) nelle norme regolanti lo strumento della procedura amichevole, finalizzate alla soluzione di conflitti interpretativi e di lacune del trattato, rispetto alla cui attivazione e/o conclusione si nega l’esistenza di un vincolo internazionale, salvo per i casi di conflitto da “doppia residenza”, poiché questi precluderebbero in radice l’applicazione della convenzione; b) nel principio di non discriminazione, anche al fine di superare le incertezze riguardanti la sua natura di principio generale di diritto internazionale tributario; c) nel già richiamato principio dei limiti alla potestà amministrativa d'imposizione (60) e nel suo correttivo consistente nel c.d. “scambio di informazioni” (art. 26); d) nelle norme che regolano l’entrata in vigore e la cessazione del vincolo internazionale; e) in altre disposizioni procedurali. (60) In particolare, l'art. 26 par. 6 del Modello OCSE dispone che “Le disposizioni del paragrafo 1 non potranno essere in nessun caso interpretate nel senso di imporre ad uno degli Stati contraenti l'obbligo di adottare provvedimenti amministrativi in deroga alla propria legislazione od alla propria prassi amministrativa o a quella dell'altro Stato contraente”. 7. Segue. Natura delle norme contenute nelle convenzioni contro la doppia imposizione e conseguenze sulla operatività del vincolo. – Esaminate le caratteristiche del vincolo derivante dalle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione sotto il profilo del contenuto delle disposizioni in esse previste, dobbiamo ora esaminare l’influenza della natura di tali disposizioni sulle modalità con le quali il vincolo opera. Ora, in alcuni casi si assiste ad una forte integrazione tra norme interne e norme convenzionali per effetto del “rinvio” alla normativa interna (61). Ad esempio, con riferimento all’ambito di applicazione della convenzione si afferma che con l'espressione “residente di uno Stato contraente” si designa quel soggetto “che, in virtù della legislazione di detto Stato contraente, è assoggettato ad imposta a motivo del suo domicilio, della sua residenza, della sede della sua direzione o di ogni altro criterio di natura analoga”. Alla tecnica del rinvio si ricorre di regola anche per quanto attiene agli aspetti procedurali. Così ad esempio avviene in materia di rimborso, dove si opera normalmente riferimento, per quanto attiene alle “istanze di rimborso”, all'osservanza dei termini stabiliti e delle modalità prescritte dalla legislazione dello Stato contraente tenuto ad effettuare il rimborso stesso (62). Ai casi di rinvio esplicito alla normativa interna, si aggiunge poi un generalizzato rinvio implicito alla normativa interna. Le norme di localizzazione, in particolare, non fanno che attribuire la potestà d’imposizione su determinate fattispecie reddituali in presenza di determinati criteri di collegamento, e nulla di più. Dalla lettura delle disposizioni delle convenzioni contro la doppia (61) Sulla distinzione tra norme di “rinvio”, “autonome” e di carattere “misto”, vedi MIRAULO, Doppia imposizione internazionale, cit., p. 226. (62) In giurisprudenza, vedi Cass., sez. trib., 30 settembre 2003 – 30 gennaio 2004, in Il Fisco, 2004, 1, p. 3264, che con riferimento al rinvio per i termini entro i quali inoltrare istanza di rimborso, contenuto all’art. 29 par. 2 della Convenzione tra Italia e Regno Unito, a quelli “stabiliti dalla legislazione dello Stato contraente nel quale l’imposta è stata prelevata”, ritiene che esso debba necessariamente riferirsi all’art. 38, d.p.r. n. 602/73, trattandosi della norma generale interna di riferimento in tema di rimborso delle imposte corrisposte mediante versamento diretto. La Suprema Corte motiva la diversa conclusione cui è pervenuta rispetto a quanto affermato con riferimento alla Convenzione tra Italia e Francia (Cass., sez. trib., 19 maggio 2003, n. 7804; Cass., sez. trib., 7 maggio 2003, n. 6913; Cass., sez. trib., 27 marzo 2001 – 4 novembre 2002, n.15373, in Riv. Dir. trib., 2003, IV, p. 3 ss., con nota di PAROLINI, Sul termine di decadenza ai fini della restituzione del credito d’imposta sui dividendi ai sensi di una Convenzione per evitare le doppie imposizioni) con il diverso tenore della norma ivi contenuta, la quale fa riferimento non già alla riscossione di un credito di imposta (come nella Convenzione tra Italia e Regno Unito), bensì al diritto al pagamento di una somma di ammontare ad esso corrispondente da parte del Tesoro italiano. imposizione si scorge un elevato grado di genericità delle stesse, che richiede necessariamente un riferimento all’ordinamento interno dei due Stati contraenti per quanto attiene a tutti gli elementi della fattispecie. Determinata la potestà d’imposizione, la disciplina della singola fattispecie reddituale dovrà essere ricercata nell’ambito della normativa interna, nei suoi risvolti sostanziali e procedimentali. L’attuazione del prelievo resta così quasi interamente affidata alla normativa interna, la quale assume ampio spazio nell’applicazione delle convenzioni contro la doppia imposizione. Accanto alle disposizioni di rinvio è dato riscontrare anche disposizioni di carattere “autonomo”. A questa categoria appartengono innanzitutto le stesse disposizioni di localizzazione dei redditi quanto alla previsione di criteri autonomi per la ripartizione del potere impositivo tra gli Stati contraenti, cioè di criteri di collegamento unitari che mirano a comporre il potenziale conflitto tra i criteri previsti dai singoli ordinamenti tributari. Vi rientrano poi le norme che forniscono delle definizioni terminologiche di espressioni utilizzate nel testo convenzionale; le norme concernenti il metodo per evitare la doppia imposizione; le norme che definiscono l’ambito di applicazione temporale e territoriale delle convenzioni. Esistono, infine, disposizioni di carattere “misto”, contenenti sia elementi di rinvio agli ordinamenti interni, sia elementi di carattere autonomo. In questo senso, significativa è la norma in materia di residenza fiscale che, dopo aver rinviato all'ordinamento interno, fornisce criteri autonomi per la soluzione dei conflitti normativi. La distinzione appena fatta è assai rilevante in materia di applicazione della norma internazionale, nel suo coordinamento con la norma interna. Si tratta, infatti, di vedere sino a che punto la norma internazionale sia applicabile, una volta entrata nell'ordinamento interno, indipendentemente dalle norme interne. In altri termini, occorre indagare se la norma convenzionale sia autonomamente applicabile (c.d. “self executing”), ovvero necessiti comunque la “stampella” della norma interna per potersi dire effettivamente operante nel nostro ordinamento. Laddove la norma internazionale operi come mera norma di rinvio, esplicito o implicito, essa presuppone la norma interna; questa consente pertanto alla norma internazionale, non self-executing, di diventare applicabile nell'ordinamento interno. La possibilità di invocare la norma convenzionale rimane cioè subordinata all’esistenza della norma di appoggio e, in sua mancanza, alla predisposizione dei relativi mezzi di attuazione della stessa all'interno dell'ordinamento statuale, soprattutto dal punto di vista procedurale. Laddove, invece, la norma convenzionale abbia carattere “autonomo”, dovrebbe ammettersene di regola la natura self-executing. Ciò non toglie, peraltro, la possibilità di letture “discordanti” relativamente a norme di carattere autonomo. Si pensi alla norma sul credito d'imposta, che afferma solo il diritto ad ottenere il credito per le imposte pagate all'estero, ma nulla dice sul come ottenerlo. Potrebbe infatti alternativamente sostenersi: a) che la norma sia come tale inoperante, dovendosi trovare nell'ordinamento interno la norma di appoggio, nella specie consistente nell’art. 168 t.u.i.r., con tutte le limitazioni in esso contenute; b) che, al contrario, il diritto al credito d’imposta sia un diritto perfetto, non suscettibile di ulteriori condizionamenti da parte della norma interna, con la conseguenza, ad esempio, che modalità limitative della possibilità di fruirne (ad esempio, previsioni decadenziali o di “timing”) dovrebbero considerarsi incompatibili con il diritto riconosciuto dal testo convenzionale (63). Carattere “self-executing” deve essere anche riconosciuto alle norme di localizzazione che stabiliscono la tassazione “esclusiva” in uno dei due Stati contraenti. Infatti, allorché una norma di origina pattizia si risolve in un divieto, essa è sicuramente “self-executing”, non essendo per la sua attuazione necessario alcun ulteriore intervento legislativo (64), e certamente possono qualificarsi in termini di divieto quelle norme che prevedono la tassazione “soltanto” in un determinato Stato. Per quelle che prevedono una tassazione concorrente vi è senz’altro diretta applicabilità per il metodo dell’esenzione (che consiste, in sostanza, in un divieto di tassazione), mentre per quel che (63) Sul punto, vedi SACCARDO, Brevi note in tema di credito per le imposte assolte all’estero, in Riv. dir. trib., 2002, IV, p. 55 ss., che ricorda anche una sentenza emessa dalla Suprema Corte amministrativa austriaca che ha riconosciuto l’inapplicabilità delle disposizioni interne relative alla determinazione del credito d’imposta qualora maggiormente penalizzanti rispetto alle modalità di determinazione del credito sancite in termini generali dalla convenzione. Uno spunto interessante si trova anche in Cass., sez. trib., 26 ottobre 2000 – 29 gennaio 2001, in Riv. dir. trib., 2001, IV, p. 37 ss., con nota di PIAZZA, Rimborso delle ritenute applicabili sui dividendi corrisposti a non residenti. Conflitto fra la norma interna e la norma applicabile, che ritiene non applicabili le condizioni previste dall’art. 27, co. 3 per l’ottenimento del rimborso dei 4/9 della ritenuta (dimostrazione dell’avvenuto pagamento all’estero dell’imposta) nell’ipotesi in cui il rimborso venga richiesto in applicazione di una convenzione internazionale che tali condizioni non preveda. Con specifico riferimento ai problemi di “timing” delle exit taxes, sia consentito rinviare a MELIS, Profili sistematici del “trasferimento” della residenza fiscale delle società, in Dir. prat. trib. int., 2004, p. 47. (64) CATALDI, Rapporti tra norme internazionali e norme interne, cit., p. 401. concerne il credito di imposta valgono le osservazioni sopra riportate. Ciò, ovviamente, nei limiti propri della natura delle norme di localizzazione, la cui funzione si riduce alla determinazione del criterio di collegamento rilevante, nulla disponendo circa le modalità sostanziali e procedimentali dell’obbligazione d’imposta. Da ciò risulta, pertanto, che una prevalenza sul diritto interno deve essere circoscritta al presupposto d’imposta, e in particolare al criterio di collegamento rilevante, dove quello stabilito convenzionalmente prevale su quello previsto dalle disposizioni interne. Si è talvolta ritenuto che l’asserita caratteristica delle convenzioni contro la doppia imposizione di rivolgersi agli Stati e non agli individui, inficiasse la natura direttamente applicabile di tali convenzioni. Tale distinzione, come è stato correttamente osservato (65), è tuttavia del tutto irrilevante, essendo evidente che una convenzione non può che rivolgersi agli Stati ed essere invocabile, a proprio vantaggio, dai singoli soggetti dell’ordinamento interno. Né tali disposizioni si pongono in termini di “facoltà”. Peraltro, a favore della diretta applicabilità delle norme contenute nelle convenzioni contro la doppia imposizione milita anche una considerazione sistematica, in particolare la circostanza che il legislatore adotti l'adattamento in forma ordinaria. E’ da ritenere, infatti, che il voler rinviare alla norma internazionale sia espressione di una predisposizione del legislatore a ritenere le norme internazionali, una volta immesse nell'ordinamento, suscettibili di essere applicate indipendentemente da un'attività normativa integrativa delle stesse. Se così non fosse, se ne dovrebbe dedurre che il legislatore, nel dare esecuzione in forma speciale al trattato, avrebbe inteso sistematicamente sottrarsi all'esecuzione dello stesso, il che appare assurdo. Altra norma cui può essere assegnata una funzione immediatamente precettiva, in quanto espressa in forma di divieto (66), è quella sulla “non discriminazione”. La stessa norma sulla tassazione limitata di dividendi, interessi e royalties nello Stato del soggetto erogante detti redditi assume un contenuto (65) CATALDI, Rapporti tra norme internazionali e norme interne, cit., p. 401. (66) “I nazionali di uno Stato contraente, non sono assoggettati nell’altro stato contraente ad alcuna imposizione od obbligo ad essa relativo, diversi o più onerosi di quelli che sono o potranno essere assoggettati i nazionali di detto Stato che si trovino nella stessa situazione”. immediatamente precettivo. E’ noto al riguardo il problema se il soggetto che percepisce tali redditi abbia diritto ad ottenere l’applicazione “diretta” dell'aliquota ridotta convenzionale, ovvero soltanto il successivo rimborso dell'eccedenza d'imposta prelevata in base alla legislazione interna, eventualmente provando l’avvenuta percezione dei dividendi e l’effettivo pagamento dell’imposta nel Paese di residenza. La norma convenzionale assume invero qui un significato direttamente precettivo, consistente nell'obbligo dello Stato di non poter operare – o nel divieto di operare – una ritenuta superiore ad una certa aliquota. Questa norma pertanto limita immediatamente la potestà impositiva dello Stato cui appartiene il soggetto erogante e non necessita di altro per poter operare (67). La diretta applicabilità della norma relativa alla tassazione “limitata” nello Stato del pagatore non va peraltro intesa nel senso di attribuire a tale Stato una mera facoltà, da esercitarsi in via discrezionale mediante l’adozione di successivi atti normativi interni, di procedere a tale tassazione, bensì quale mera limitazione rispetto ad una tassazione già esistente, la quale può dunque essere esercitata incondizionatamente nei soli limiti segnati dalla norma convenzionale (68). In conclusione, deve pertanto ammettersi in linea di principio la natura di norme “self-executing” delle norme contenute nelle convenzioni contro la doppia imposizione, anche se non mancano profili di non diretta applicabilità delle norme in esse contenute (69). (67) L'Amministrazione finanziaria italiana si è sempre dimostrata aperta alla possibilità di applicare direttamente la ritenuta convenzionale, dovendo tuttavia conciliare ciò con la responsabilità del sostituto d'imposta per omessa o insufficiente ritenuta, nonché con l’accertamento dei presupposti sostanziali per l’applicazione della ritenuta in misura ridotta. Essa ha pertanto riconosciuto l'efficacia degli accordi anche nella fase di applicazione della ritenuta da parte dei sostituti d'imposta, consentendo al sostituto stesso di applicare direttamente la misura convenzionale della ritenuta sui dividendi, interessi e royalties erogati a soggetti non residenti, subordinando tuttavia ciò al rispetto delle regole procedurali e alla produzione di adeguata documentazione da parte del sostituito. Per una visione di insieme, vedi ROCCATAGLIATA, Proposte di semplificazione delle procedure applicative delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni, in AA.VV. (a cura di C. Garbarino), Aspetti fiscali delle operazioni internazionali, Milano, 1995, p. 437 ss. (68) In giurisprudenza, Cass., sez. trib., 20 marzo 2000, n. 3251; Cass., sez. trib., 30 settembre 2003 – 30 gennaio 2004, in Il Fisco, 2004, 1, p. 3262. Vedi, sul punto, anche Ris. Min. Fin., 19 marzo 1984, n. 12/1503, in Dir. prat. trib., 1984, p. 1078. (69) Ritiene che la caratteristica di norma “self-executing” sia normalmente riscontrabile in materia di convenzioni contro la doppia imposizione, C. SACCHETTO, Le fonti del diritto internazionale tributario, in AA.VV. (a cura di C. Sacchetto e L. Alemanno), Materiali di diritto tributario internazionale, Milano, 2002, p. 15. 8. Segue. Osservazioni preliminari sul rapporto tra norma internazionale tributaria e norma interna. – Venendo ora al problema del rapporto tra norma internazionale pattizia e norma interna, esso si presenta piuttosto complesso. Le convenzioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio costituiscono, innanzitutto, trattati internazionali, derivano cioè da un incontro di volontà manifestate da più Stati nell'esercizio della rispettiva sovranità. Ciò è importante sia sul piano della validità, sia sul piano dell’interpretazione. Infatti, il problema del “vincolo” su tali piani deve essere risolto, al pari di qualsiasi altro trattato internazionale, in base alle norme contenute nella Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, in larga parte dichiarative di diritto internazionale consuetudinario (70). Se ciò è vero, dobbiamo però sottolineare come a questa componente di ordine internazionalistico si aggiunga una forte componente di diritto interno. Infatti, come appena visto, le convenzioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio presentano un elevato grado di genericità, che rende estremamente frequente la necessità di provvedere all'integrazione del testo convenzionale ricorrendo al diritto interno. Poche sono le norme veramente autonome contenute nelle convenzioni. Per di più si opera tramite rinvio, esplicito od implicito, agli ordinamenti dei singoli Stati contraenti, che riempiono la fattispecie impositiva degli elementi in essa mancanti. Anche ciò è particolarmente importante sul piano della validità e dell’interpretazione. Dal (70) Nella dottrina internazional-tributaristica nessuno dubita sulla necessità di applicare alle convenzioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio le norme in questione. Vedi AVERY JONES e altri, The interpretation of Tax Treaties with Particular Reference to Article 3[2] of the Oecd Model, in Dir. prat. trib., 1984, p. 1626 e 1669 ss.; VOGEL, Interpretation of Double Taxation Treaties. In particular the Problem of Qualification, in Rass. trib., 1988, p. 176 ss.; ID., Double Taxation Conventions, cit., p. 29 ss.; MIRAULO– GALLI, National Report al Convegno IFA di Firenze, in Cahiers de droit fiscal international, 1993, LXXVIIIa, p. 385; VOGEL– PROKISCH, General Report al Convegno IFA di Firenze, in Cahiers de droit fiscal international, 1993, LXXVIIIa, p. 66 ss.; XAVIER, Il problema delle qualificazioni nel diritto tributario internazionale, in Riv. dir. trib., 1994, p. 523 ss.; GARBARINO, Note a margine del “caso Onduline”: interpretazione funzionale delle convenzioni contro le doppie imposizione e procedura amichevole, in Dir. prat. trib., 1989, p. 973; ID., La tassazione del reddito transnazionale, cit., p. 524 ss.; FANTOZZI – VOGEL, Doppia imposizione internazionale, cit., p. 194 ss.; MIRAULO, Doppia imposizione internazionale, cit., p. 173 ss.; GOUTHIÈRE, Les impôts dans les affaires internationales, Paris, Lefebvre, 1995, par. 534; EDWARDES-KER, Tax Treaty Interpretation, Irlanda, edizione a fogli mobili, par. 1.01.; LEHNER, Interpretation of Tax Treaties according to German Theory and Practice, in AA.VV. (a cura di K. Vogel), Interpretation of Tax Law and Treaties and Transfer Pricing in Japan and Germany, Kluwer, 1998, p. 90; BIZIOLI, Tax Treaty Interpretation in Italy, in AA.VV. (a cura di M. Lang), Tax Treaty Interpretation, Kluwer, The Netherlands, 2001, p. 208. primo punto di vista, occorre infatti comprendere come questa forte integrazione possa riverberare i propri effetti sul rapporto tra norme interne e convenzionali; dal secondo punto di vista, si tratta di esaminare sino a che punto un'interpretazione del trattato basata sul diritto interno, disgiunta o congiunta all'interpretazione effettuata in base ai canoni sanciti dal diritto internazionale, possa assumere una propria validità in tema di interpretazione delle convenzioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio. Il profilo dell’integrazione si avverte particolarmente ove si pone riguardo al problema delle “qualificazioni” nel diritto internazionale tributario, in particolare alla clausola, contenuta nell'art. 3 par. 2 del Modello OCSE e tra l'altro riprodotta in tutte le convenzioni contro la doppia imposizione stipulate dall'Italia, che ricerca nei diritti interni il significato dei termini non definiti nella convenzione, quasi nuovamente a sottolineare la peculiarità di tali convenzioni. Ebbene, proprio da tale rinvio ai diritti interni nascono problemi sul piano dell’adeguamento, ponendosi da un lato il problema se questo rinvio debba intendersi al diritto interno vigente all'epoca in cui fu concluso il trattato (“static meaning”), ovvero all'epoca nel quale esso trova applicazione (“ambulatory meaning”) e dall’altro quello dei confini tra interpretazione evolutiva del trattato e modifiche alle legislazioni interne. Si tratta infatti di un tema contiguo a quello del “treaty overriding”, vale a dire la possibilità da parte di una norma interna di “violare” il trattato, poiché se si modifica la legislazione interna si pone il problema di verificare se tale modifica configuri sic et simpliciter una violazione del trattato oppure possa darsi luogo, appunto, ad una interpretazione “evolutiva” del trattato. Ci occuperemo successivamente di questo problema. Per il momento dobbiamo affrontare il profilo più generale del rapporto tra norma internazionale tributaria pattizia e ordinamento interno. 9. Segue. L'adattamento del diritto interno alle convenzioni contro la doppia imposizione. – La questione dell’applicabilità della norma convenzionale tributaria nell'ordinamento interno sotto il profilo “dinamico” va esaminata dal duplice punto di vista dell’immissione di convenzioni contro la doppia imposizione (contenenti norme più favorevoli o più sfavorevoli rispetto a quelle interne) in presenza di norme interne regolanti medesime fattispecie, ovvero dell’immissione di nuove norme interne (più favorevoli o più sfavorevoli rispetto al regime convenzionale) in presenza di convenzioni contro la doppia imposizione già stipulate. Ora, la norma internazionale può vincolare gli ordinamenti interni sotto molteplici profili. In alcuni casi la convenzione agisce sull’estensione del criterio di collegamento personale. Si pensi, ad esempio, all’applicazione del principio del “world-wide principle” ai soggetti residenti in Italia, rispetto alla quale le convenzioni contro la doppia imposizione pongono un limite laddove esse stabiliscono la tassabilità di un reddito soltanto nello Stato della fonte, con ciò obbligando lo Stato italiano ad astenersi dall’imposizione. In altri casi, la norma convenzionale modifica il criterio di collegamento reale rilevante. Si pensi a tutti quei casi in cui i criteri di collegamento interni, previsti all'art. 23 co. 1 lett. d) t.u.i.r., siano diversi da quelli previsti a livello convenzionale. In altri casi ancora, la norma convenzionale limita il quantum del prelievo. L’esempio tipico è quello dei redditi per i quali la convenzione, dopo aver assegnato il diritto di imposizione allo Stato di residenza del percipiente, consente allo Stato del soggetto erogante di prelevare una ritenuta non superiore ad una certa percentuale. In questi casi, la norma convenzionale limita la potestà impositiva dello Stato integrandone la norma interna sotto il profilo dell'aliquota, fermi restando gli altri elementi della fattispecie. In tutti questi casi, la convenzione prevale sulla norma interna precedente, peraltro più in termini di “specialità” che di “successione delle leggi nel tempo” (71). La norma interna, infatti, rimane in vita, pronta ad applicarsi non solo a quei rapporti non rientranti nell'ambito di applicazione soggettivo della convenzione contro la doppia imposizione, ma anche a fattispecie non coperte dalla convenzione sotto il profilo oggettivo oppure territoriale. Inoltre, come appena detto, la norma internazionale “integra” la fattispecie interna, non (71) Si esprimono in termini di “specialità”, anche GEST-TIXIER, Droit fiscal international, cit., p. 65. Vedi anche CROXATTO, Diritto internazionale tributario, cit., p. 646, che ha rilevato come l'effetto nei confronti del diritto vigente sia quello di “stabilire una disciplina speciale in ciascuno Stato contraente dei presupposti di fatto in relazione ai quali si verifica la doppia imposizione in deroga al regolamento generale degli analoghi presupposti d’imposta” la sostituisce, sicché sovente la norma interna serve a rendere applicabile la norma internazionale (72). Quid juris, tuttavia, per le norme convenzionali successive più sfavorevoli di quelle interne? Prevarrà la norma interna (più favorevole) oppure quella convenzionale (più sfavorevole)? Nessuna indicazione ci proviene purtroppo dalla dottrina internazionalistica, che non mi pare distinguere tra norme più favorevoli e norme più sfavorevoli per i destinatari. Ora, i punti di riferimento nella soluzione di tale problema sono essenzialmente tre. Innanzitutto, la verifica circa l’esistenza di un principio generale del diritto internazionale generalmente riconosciuto per il quale le convenzioni internazionali contro la doppia imposizione non potrebbero mai peggiorare la situazione del contribuente. In secondo luogo, la collocazione dei trattati nel sistema delle fonti interne. In terzo luogo, la presenza, nel diritto tributario interno o in quello pattizio internazionale, di apposite norme che regolino il rapporto tra fonti tributarie interne e internazionali. Iniziando dal principio c.d. di “non aggravamento” (73), la sua esistenza è piuttosto controversa. Alcuni ritengono, infatti, non esservi ad oggi alcuna prova sull'esistenza nel diritto internazionale di una siffatta norma consuetudinaria (74). Anzi, si (72) L’amministrazione finanziaria italiana ha sempre affermato la prevalenza della norma internazionale su quella interna. Vedi, a titolo di esempio, Nota Min. Fin., 15 giugno 1983, n. 8/765, in Dir. prat. trib., 1983, I, p. 1721; Circ. Min. Fin., 12 settembre 1977, n. 85/12/969, in Dir. prat. trib., 1978, p. 654, dove si afferma che “gli artt. 75 e 41, rispettivamente dei D.P.R. 29 settembre 1973, nn. 600 e 601 contengono entrambi una clausola di salvaguardia per quanto concerne l’applicazione degli accordi internazionali e le relative esenzioni in essi previste”; Ris. Min. Fin., 13 aprile 1977, n. 12/036, in Dir. prat. trib., 1977, p. 1710; Circ. Min. Fin., 12 settembre 1977, n. 85/12/969; Ris. Min. Fin., 18 marzo 1978, n. 12/1182, in Dir. prat. trib., 1978, p. 1236; Nota Min. Fin., 29 marzo 1978, n. 12/635, in Boll. trib., 1978, p. 748 ss. Sull'art. 41, d.p.r. n. 600/73, vedi in particolare Ris. Min. Fin., 12 dicembre 1980, n. 12/1028, in tema di interessi su conti correnti sui quali affluiscono fondi offerti all'Unicef. Così anche la giurisprudenza: vedi, ad esempio, Cass., Sez. I civ., 24 maggio 1988, n. 3610, in Dir. prat. trib., 1989, p. 553, dove si legge che “si osserva, in linea di principio, che esattamente la commissione centrale ha applicato la già citata Convenzione italo-francese, perché a norma dell'art. 75 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, nell'applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia”; Cass., sez. trib., 26 ottobre 2000 – 29 gennaio 2001, cit. (73) In Francia si parla di principio di “préservation des avantages du droit interne” o di “non aggravation”. osserva che le convenzioni prevedono esse stesse trattamenti più sfavorevoli quando introducono l’istituto dello scambio di informazioni, e che esistono norme interne che consentono alle convenzioni contro la doppia imposizione di creare “presupposti” non previsti dal diritto interno. Il riferimento è alla L. 28.12.1959, n. 1472 dell’ordinamento francese, che consente espressamente di tassare ai fini delle imposte sui redditi un reddito ivi localizzato in base ad una convenzione contro la doppia imposizione anche laddove le disposizioni interne non prevedano tale tassazione (75). Così, ad esempio, una società (74) Contrario all’esistenza di un tale principio è GOUTHIÈRE, Les impôts dans les affaires internationales, cit., par. 536.3, per il quale la legge n.1472/1959 (vedi infra) “suffit, selon nous, a battre en brêche l’existence d’un pseudo-principe de non aggravation”. Sollevano dubbi sull’esistenza di un tale principio VITALE, Doppia imposizione (diritto internazionale), cit., p. 1010; GEST-TIXIER, Droit fiscal international, cit., p. 45: “si en pratique le respect de cette règle semble largement assuré, il est difficile de dégager une opinio juris impliquant reconnaissance de son caractère obbligatorie”. Favorevoli all’esistenza di un tale principio, sono invece FANTOZZI-VOGEL, Doppia imposizione internazionale, cit., p. 191; MIRAULO, Doppia imposizione internazionale, cit., p. 22, 31 e 59, la quale afferma che “il principio secondo cui la legge generale (fonti tributarie di diritto interno) non può derogare ad una legge speciale o eccezionale (il regime delle Convenzioni), la quale deve di regola prevalere sulla prima (...) può essere temperato da norme correttive quale quella, prevista nel nostro ordinamento, dell'opzione per il regime più favorevole al contribuente. Si tratta, tuttavia, di disposizioni pur sempre di coordinamento scaturenti dalla legge generale (le norme dell'ordinamento interno); non già di un'inversione o sovvertimento dell'anzidetto rapporto di prevalenza”; ID., I metodi per evitare la doppia imposizione nella Convenzione italo-tedesca del 18 ottobre 1989 in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio, in Rass. trib., 1990, p. 457, che riconosce l'applicabilità dell'art. 169 t.u.i.r. “sempreché non ne risulti pregiudicato il potere impositivo riconosciuto dalla Convenzione all'altro Stato contraente, né derogato il principio secondo cui in presenza di convenzione un reddito non può sfuggire a tassazione in entrambi gli Stati contraenti, il che sarebbe contrario alle finalità delle Convenzioni stesse di prevenire anche le evasioni fiscali”; DALIMIER, Droit fiscal international francais, Juris Classeurs, Paris, 1992, p. 18, per il quale tale principio consuetudinario prevale anche sull’art. 55 Cost. e impone una interpretazione restrittiva della L. n. 1472/1959. (75) “Nonobstant toute disposition contraire du Code général des impôts, sont passibles en France de l’impôt sur le revenu des personnes physiques où de l’impôt sur les sociétés, tous revenus dont l’imposition est attribuée à la France par une convention internationale relative aux doubles impositions”. Tale norma, che è stata anche trasfusa negli artt. 4-bis, 165-bis e 209-I del Code général des impôts, è stata introdotta, come risulta dai lavori parlamentari, con il fine di “faciliter la conclusion des conventions internationales relatives aux doubles impositions, en permettant à la France d’accepter l’insertion, dans les accords de cette nature, de clauses attribuant à notre pays le droit d’imposer certaines catégories de revenus, même s’il s’agit de revenus non imposables d’après la législation française interne (…). Il supprimera, d’autre part, les anomalies telles que les doubles exemptions (…)”. Vedi ZELLER Qu’en est-il du principe de subsidiarité et du principe de non-aggravation en droit fiscal international français?, in Revue des affaires internationales, 2002, p. 124, nota 6. Si ritiene tuttavia che tale norma debba formare oggetto di interpretazione restrittiva, risultando applicabile nei soli casi in cui la Convenzione preveda espressamente, e senza riserve, la tassazione in Francia del reddito e, al contempo, questo reddito non formi oggetto in Francia di una apposita norma di esenzione. francese che produce redditi di impresa all’estero senza una stabile organizzazione verrebbe tassata su tali redditi di impresa anche se questi non sarebbero stati tassati, stante il principio di territorialità ivi vigente per tale tipologia reddituale (76). Ora, pur non essendo ovviamente possibile condurre in questa sede una analisi comparatistica, esistono indicazioni importanti circa l’esistenza di un tale principio. Con riferimento all’ordinamento italiano, esso non solo ha trovato spazio in diverse pronunzie ministeriali (77), e anche in una sentenza piuttosto recente della Suprema Corte (78), così dimostrando l’adesione a tale principio degli organi deputati all’applicazione delle convenzioni contro la doppia imposizione, ma – anche e soprattutto – è il legislatore stesso che ha dimostrato di ritenere un tale principio esistente nel nostro ordinamento (79). Invero, la prevalenza del diritto internazionale sul diritto interno in materia tributaria derivante dal principio di specialità fu ribadita dal legislatore della riforma tributaria in due distinte norme. Da un lato, con l'art. 75 d.p.r. n. 600/1973 in base al quale “nell'applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia”; dall'altro, con l'art. 41 D.P.R. 601/1973, a mente del quale “continuano (76) Così GOUTHIÈRE, Les impôts dans les affaires internationales, cit., par. 538. (77) Vedi Circ. Min. Fin., 4 ottobre 1984, n. 33/12/1154, in Dir. prat. trib., 1984, p. 125 ss.; Ris. Min. Fin., 6 settembre 1980, n. 9/2357, in Dir. prat. trib., 1980, p. 1632 ss., relativa al caso di una partecipazione ad una joint-venture greca, dove si legge che “risultando le norme interne più favorevoli rispetto a quelle convenzionali, si ritiene che la predetta società potrà validamente far ricorso alla procedura interna”; Circ. Min. Fin., 4 gennaio 1968, n. 24 (Cap. VII, par. 2b), in Dir. prat. trib., 1968, p. 253 e Circ. Min. Fin., 22 maggio 1971, n. 28, cit. Nella Circ. Min. Fin., 4 ottobre 1984, cit., l’Amministrazione finanziaria ha addirittura riconosciuto al contribuente, sia pure con talune limitazioni, la facoltà di applicare congiuntamente norme interne e norme convenzionali, al fine di ottenere il trattamento più favorevole. Vedi anche PISANO, Il rapporto tra norme interne, diritto convenzionale e diritto comunitario, in AA.VV. (a cura di V. Uckmar e C. Garbarino), Aspetti fiscali delle operazioni internazionali, Milano, 1995, p. 411 ss. (78) Cass., sez. trib., 10 dicembre 1999 – 8 maggio 2000, n. 5768, in Riv. dir. trib., 2000, II, p. 316-317, con particolare riferimento all’Ilor sulle royalties corrisposte ad imprese statunitensi. Per un precedente, vedi Comm. trib. I grado Sanremo, sez. II, 21 marzo 1996, n. 256, in Dir. prat. trib., 1997, III, p. 368 ss., con nota di N. LANTERI, Interrelazioni tra norma interna e norma convenzionale nel trattato contro le doppie imposizioni stipulato tra l’Italia e la Francia: il caso dei lavoratori frontalieri. (79) Sulla assoluta centralità della legislazione, della giurisprudenza e della prassi amministrativa interne nella ricostruzione delle consuetudini internazionali, vedi CONDORELLI, Consuetudine internazionale, in Dig. disc. pubbl., Torino, III, 1989, p. 498. ad applicarsi le esenzioni ed agevolazioni previste dagli accordi internazionali resi esecutivi in Italia e dalle leggi relative ad enti ed organismi internazionali”. Tali norme sono sempre state sostanzialmente considerate pleonastiche, in quanto affermazione di un generico principio di “specialità”. Il legislatore italiano, pertanto, con l'art. 128 (ora 169) t.u.i.r., stabilì che “le disposizioni del presente Testo Unico si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione” (80), assegnando a tale norma la funzione di “esplicitare l’unico significato fondatamente attribuibile all’art. 75 d.p.r. n. 600/73”. Si legge, infatti, nella relazione governativa allo schema di Testo Unico, in relazione all’art. 75 D.P.R. 600/73, che “se intesa alla lettera, la disposizione sarebbe del tutto superflua, perché l'obbligo di osservare gli accordi internazionali, anche in deroga alla legislazione interna, deriva dalle leggi che li rendono esecutivi in Italia. E’ perciò che la disposizione è stata costantemente riferita agli accordi contro la doppia imposizione internazionale, e interpretata nel senso che questi, ai fini delle imposte dovute in Italia, non pregiudicano l'applicazione di norme interne più favorevoli al contribuente (quali possono risultare, tipicamente, le disposizioni che regolano il credito per imposte pagate all'estero). La norma è perciò riformulata in conformità a questa interpretazione e collocata in considerazione della sua portata sostanziale” (81). Con riferimento all’ordinamento internazionale, un conforto significativo è rinvenibile nelle modifiche effettuate alla Convenzione-tipo OCSE in data 29 aprile 2000 (82), con le quali è stato aggiunto un nuovo paragrafo (n. 4) all’art. 23. Ai sensi di tale paragrafo, lo Stato della residenza (80) E’ interessante anche ricordare l’art. 2, co. 1, lett. b) della legge delega per la riforma del sistema tributario, che dispone che “le norme fiscali (…) non pregiudicano l’applicazione delle convenzioni internazionali in vigore per l’Italia”. Sul punto, vedi MAISTO, Profili internazionalistici dell’imposizione delle imprese nella delega per la riforma tributaria, in Riv. dir. trib., 2003, p. 703 ss., che rilevata la non irresistibilità delle tesi sulla prevalenza delle norme internazionali su quelle interne, ritiene estremamente importante la previsione contenuta nella delega, che eleva a rango costituzionale il rispetto dei trattati da parte del legislatore delegato. Ad avviso di Maisto, il vincolo sussisterebbe anche nei confronti di atti normativi diversi dai decreti legislativi di attuazione, anche se soltanto sul piano interpretativo, nel senso di privilegiare l’interpretazione della norma interna conforme alla normativa convenzionale. Peraltro, nuove disposizioni in espresso contrasto con la legge delega dovrebbero manifestare espressamente la volontà di derogare agli impegni assunti sul piano internazionale. (81) Vedi anche GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, cit., p. 517 ss. (82) Sulle quali vedi SACCARDO, Le recenti modifiche alla Convenzione-tipo dell’OCSE e al Commentario, in Riv. dir. trib., 2000, IV, p. 261 ss. non può esentare il reddito qualora lo Stato della fonte abbia applicato le disposizioni convenzionali nel senso di non assoggettare a tassazione tale reddito mentre, secondo l’interpretazione dal lato dello Stato della residenza, lo Stato della fonte avrebbe potuto tassare tale reddito. Infatti, tale disposizione non si applica proprio nel caso in cui lo Stato della fonte abbia interpretato la Convenzione nel senso di considerare da esso tassabile quel reddito, ma poi, a motivo della propria legislazione interna, tale reddito non si sia reso di fatto tassabile. In tal caso, lo Stato della residenza dovrà comunque concedere l’esenzione. Con ciò viene dunque sostanzialmente legittimato il principio sopra indicato, inducendo a ritenere che la prassi italiana, e l’evidente opinio juris che l’accompagna, non costituisca eccezione nel panorama internazionale. Del resto, tale principio sembra essere direttamente deducibile dallo scopo delle convenzioni, che è quello di prevenire la doppia imposizione, e dunque di operare in senso limitativo nei confronti dei vari ordinamenti. Talvolta, anzi, lo si ritrova anche espressamente riprodotto nelle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione (83). Tale impostazione serve a risolvere anche il profilo dell’introduzione di una norma interna più favorevole successivamente all’avvenuto adeguamento del diritto interno ad una convenzione contro la doppia imposizione. Abbiamo già esposto le tesi volte ad affermare in via interpretativa la prevalenza della norma internazionale su quella interna successiva. Tali tesi non sono certamente pacifiche. Per quanto riguarda il criterio di specialità, ratione personarum o materiae, si è ritenuto che una norma interna successiva potrebbe presentare caratteri di specialità rispetto ad una norma internazionale precedente (84). Anche il principio della specialità “sui generis” è stato criticato, ritenendosi non possibile individuare nell’ordine di esecuzione (83) Vedi GEST-TIXIER, Droit fiscal international, cit., p. 66, che richiamano l’art. 22 par. 3 della Convenzione franco-americana del 1967: “Les dispositions de la présente convention ne peuvent être interprétées comme réduisant d’une manière quelconque les exonérations, abattements, crédits ou autres déductions qui sont ou seront accordés : a) par la législation d’un Etat contractant pour la détermination de l’impôt prélevé par cet Etat (…)”. Nello stesso senso devono essere lette quelle clausole convenzionali (come, ad esempio, l’art. 15 del Protocollo alla Convenzione tra Italia e Francia del 5 ottobre 1989), per le quali nei casi in cui, conformemente alle disposizioni della convenzione, un reddito debba essere esentato da parte di uno dei due Stati, l’esenzione debba essere accordata se e nei limiti in cui tale reddito sia imponibile nell’altro Stato: norma evidentemente inutile ove la mera assegnazione del potere di imposizione in via convenzionale fosse idoneo a creare il presupposto di imposta. (84) CONFORTI, Diritto internazionale, cit., p. 321. una distinta volontà normativa dello Stato di tener fede agli impegni assunti (85). Si evidenzia, inoltre, che anche i sostenitori della specialità “sui generis” non disconoscono la possibilità di deroghe tacite nel caso di perfetta coincidenza tra norma internazionale e norma interna: il che appare tuttavia, nel caso delle convenzioni contro la doppia imposizione, del tutto irrilevante. Tuttavia, se riteniamo di accoglierle (dimenticando, per un attimo, l’eventuale operatività dell’art. 117 Cost. sul piano delle fonti, sulla quale torneremo tra breve), e dunque che la norma internazionale prevalga sulla norma interna successiva in ogni caso (anche se più favorevole), in quanto norma speciale, viene nuovamente in rilievo l’art. 169 t.u.i.r. Infatti, laddove non si ritenesse l’art. 169 espressione di un principio consuetudinario, occorrerebbe nuovamente far riferimento, in tema di rapporti tra norma di diritto interno e norma di diritto internazionale, ai principi appena illustrati circa la prevalenza della seconda rispetto alla prima, il che determinerebbe la soccombenza in ogni caso della norma interna. Il fatto che la norma internazionale prevalga su quella interna, in quanto norma speciale, significa infatti che il giudice, nelle controversie, deve applicare la norma speciale qualora ne ricorrano le condizioni. All'organo giudicante, dunque, non è data discrezionalità in tema di applicazione di norme regolanti identica fattispecie, la prima delle quali presenti elementi specializzanti rispetto alla seconda. Così come non può applicare ambedue le norme, il giudice non può applicare la norma generale nella quale si sussume una fattispecie che, tuttavia, per i soggetti che essa coinvolge o per la materia che essa regola, si inquadra in una seconda, più specifica norma. Dunque, il primato del diritto internazionale dovrebbe implicare l’applicazione tout court della norma convenzionale anche ove peggiorativa della situazione risultante dalla mera applicazione del diritto interno (86). In questo senso, l'art. 169 t.u.i.r. non ribadisce un generico principio di specialità, ma ne tempera gli effetti, consentendo al contribuente di effettuare una scelta in merito alla norma applicabile. Dunque, laddove la norma interna sia più favorevole al contribuente questi potrà applicare la norma interna (87). (85) CAPOTORTI, Corso di diritto internazionale, Milano, 1995, p. 192. (86) Così GEST-TIXIER, Droit fiscal international, cit., p. 62. (87) L’art. 169 non specifica, peraltro, se per norma più favorevole debba intendersi quella “in astratto” più favorevole, oppure quella “in concreto” più favorevole. Mi pare che la E’ ovvio, altresì, che solo riconoscendo l’esistenza di un tale principio consuetudinario di “non aggravamento” che l’art. 169 assume un senso. Si tratta, infatti, di una norma situata a livello legislativo, sicché di per sé inidonea a risolvere le antinomie normative di cui si discute (88). E’ peraltro chiaro che l'esistenza di un siffatto principio di diritto internazionale deve conciliarsi con l'esistenza di un preciso obbligo contratto dallo Stato sul piano internazionale. Questo obbligo, pertanto, deve essere rispettato a pena di responsabilità sul piano internazionale, il che postula che l'art. 169 t.u.i.r. in tanto consente questo rispetto, in quanto non incida sul potere impositivo dell'altro Stato contraente così come convenzionalmente determinato. Sotto questo profilo, pertanto, l'art. 169 t.u.i.r. può solo comportare una diminuzione del gettito in capo allo Stato italiano e mai in capo all'altro Stato contraente. Ciò precisato, dobbiamo fare alcune considerazioni conclusive sul rapporto con l'art. 75 d.p.r. 600/1973, idealmente abrogato dell’art. 169 t.u.i.r., ma tuttora vigente, secondo il quale “nell'applicazione delle disposizioni concernenti le imposte sui redditi sono fatti salvi gli accordi internazionali resi esecutivi in Italia”. Questa norma, infatti, risultava effettivamente superflua, in quanto sanciva un principio di specialità della norma internazionale che non aveva certo bisogno di essere ribadito, sicché sotto questo profilo la nuova formulazione della norma appare in tutta la sua forza innovativa. Tuttavia, essa coinvolgeva, ancorché in modo superfluo, tutta la normativa internazionale, mentre l'art. 169 t.u.i.r. ha limitato la propria operatività alle norme delle convenzioni contro la doppia imposizione che incidono sulle norme contenute nel t.u.i.r. Ciò significa, pertanto, che un riconoscimento legislativo del principio della norma “più favorevole” può rinvenirsi solo in relazione a dette norme convenzionali, e non anche in relazione ad altre, e cioè né per le norme contenute in accordi internazionali di diverso tipo, né per quelle contenute nelle convenzioni contro la doppia imposizione che non si sovrappongono a quelle contenute nel t.u.i.r. Abbiamo premesso come la soluzione del problema che ci occupa sia influenzata anche dai principi costituzionali che regolano la collocazione dei trattati nel sistema delle fonti interne. logica conclusione della ricostruzione operata in termini di vera e propria “scelta” del contribuente debba far propendere per la seconda ipotesi. (88) Sul punto, FEDELE, Appunti dalle lezioni di diritto tributario, I, Torino, 2003, p. 86. A tale riguardo, il Report dell’OCSE sul “Tax Treaty Override” del 2 novembre 1989 (89) distingue quattro ipotesi: 1) sistemi costituzionali che accordano espressa preferenza a livello costituzionale alle previsioni contenute in Convenzioni internazionali (Francia, Paesi Bassi), nei quali non si pongono problemi di “treaty overriding”; 2) sistemi costituzionali che riconoscono tale prevalenza deducendola da principi costituzionali non scritti (Lussemburgo, Belgio), nei quali pure non si pongono problemi di “treaty overriding”; 3) sistemi costituzionali nei quali norme interne e norme internazionali hanno pari rango (Stati Uniti), applicandosi pertanto il criterio cronologico nella risoluzione delle antinomie; 4) sistemi che affermano la supremazia del Parlamento (Regno Unito), e che dunque subordinano l’operatività dei trattati internazionali (stipulati dall’esecutivo) alla volontà di esso, che è libero sia di recepire o meno il trattato, sia di emanare norme con esso contrastanti (90) Ora, con specifico riferimento all’ordinamento italiano, sono invero ancora da esplorare gli effetti di ciascuna delle possibili ricostruzioni dell’art. 117 Cost. sulle conclusioni raggiungibili a proposito dell’art. 169 t.u.i.r. In effetti, se si ritiene di accogliere la tesi sul rango “superprimario” delle norme pattizie, nel senso che si è sopra precisato, l’ipotesi per la quale la prevalenza della norma del trattato andrebbe affermata in ogni caso, anche se per ipotesi più sfavorevole, ne uscirebbe certamente rafforzata. Anzi, ne uscirebbero rafforzate anche le pretese circa la possibilità da parte delle convenzioni di creare “ex novo” un presupposto di imposta (91). Ne risulta, allora, che l’unica ancora di salvezza sarebbe data, ancora una volta, dal (89) Il Report OCSE del 1989 è riprodotto nella Section R(8) del Volume II del Modello di Convenzione OCSE. (90) Sul punto, vedi HACCIUS, Irish Tax Treaties, in European Taxation, 1998, p. 115 ss; VOGEL, New Europe Bids Farewell to Treaty Override, in Bulletin – Tax Treaty Monitor, 2004, p. 5 ss., il quale sottolinea come nell’ambito dei 43 Stati europei, ben 28 tra di essi prevedono oggi la prevalenza dei trattati, di cui 17 in base ad una espressa norma costituzionale. E’ curioso notare che Vogel non inserisce l’Italia tra tali Stati! (91) Con riferimento all’art. 55 Cost. francese, GEST-TIXIER, Droit fiscal international, cit., p. 62. Sulla sostanziale riconducibilità logica della legge n. 1472/1959 all’art. 55 Cost. francese, vedi MARTINEZ, Teorie générale des conventions fiscales, cit., p. 26 e GOUTHIÈRE, Les impôts dans les affaires internationales, cit., par. 536.3. Merita peraltro evidenziare che la stessa interpretazione dell’art. 55 Cost. è stata in Francia tutt’altro che pacifica. Si è infatti verificato un contrasto tra Cour de Cassation e Conseil d’Etat, poiché mentre la prima ha da sempre riconosciuto la superiorità della Convenzione e ritenuto che le norme interne successive non possano derogarvi, non altrettanto è accaduto al Conseil d’Etat, che ha fatto non di rado prevalere la legge posteriore al trattato anche se ad esso contraria. Vedi GEST-TIXIER, Droit fiscal international, cit., p. 63. riconoscimento di un principio di diritto internazionale consuetudinario che vieti alle convenzioni internazionali di “peggiorare” la situazione del contribuente (92). Dunque, sul piano della posizione dei trattati nell’ordinamento, il rafforzamento delle convenzioni internazionali contro la doppia imposizione nel sistema delle fonti rischia di determinare molti più problemi di quelli che esso appare idoneo a risolvere. L’ultimo livello del quale dobbiamo tenere conto nella soluzione del problema che ci occupa è, infine, quello delle scelte adottate nei singoli sistemi tributari o in singole convenzioni internazionali. Se pensiamo ad esempio agli Stati Uniti, l'Internal Revenue Code (93) dispone che nessuna disposizione interna deve essere applicata se contraria alle norme convenzionali in vigore, così sancendo la prevalenza del diritto internazionale sulle disposizioni interne, ancorché successive. Ma a questa regola di carattere generale è prevista un'eccezione rilevante, data dal fatto che una legge tributaria ordinaria, emanata successivamente ad una Convenzione, e che preveda espressamente la propria portata abrogativa rispetto allo strumento convenzionale, prevale sulla norma convenzionale medesima (94). Si (92) Non potranno invece prodursi effetti rilevanti sui rapporti tra norma convenzionale e Costituzione, posto che in ogni caso i trattati si situano ad un livello inferiore rispetto alla Costituzione: vedi G.U. RESCIGNO, Note per la costruzione di un nuovo sistema delle fonti, cit., p. 784 e CONFORTI, Diritto internazionale, cit., p. 324. La casistica tributaria su tale problema, ad ogni buon conto, è assai scarsa. L’unico caso a me noto è Comm. trib. I° grado di Roma, ord. 17 ottobre 1983, cit., la quale ha rimesso alla Corte Costituzionale la questione di legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3 e 53 Cost., dell'art. 15 par. 1 della Convenzione con gli Stati Uniti d'America contro la doppia imposizione del 1955, nella parte in cui prevedeva la detraibilità delle imposte pagate all'estero sui dividendi provenienti da fonti situate negli Stati Uniti, ed ivi tassati, nella misura fissa dell'8%. Nella specie, il contribuente aveva subito delle ritenute del 30%, sicché sul restante 22% veniva a realizzarsi una doppia imposizione, ritenuta dalla corte di merito in contrasto con il precetto costituzionale di eguaglianza e con quello di capacità contributiva. Si tratta di un caso interessante sotto un duplice profilo. Da un lato, infatti, la Commissione rileva che tale situazione era stata determinata dalla rivoluzione legislativa in Italia consistente nella abolizione della cedolare secca e nell’introduzione del credito di imposta, che aveva determinato una sostanziale “inadeguatezza” della regolamentazione convenzionale in essere, censurabile sotto il profilo costituzionale. Dall’altro, si tratta dell'unico caso di pretesa incostituzionalità avanzato dalle corti di merito, conformemente ai principi generali in tema di adattamento dei trattati precedentemente illustrati, secondo i quali è ben ammissibile un giudizio di costituzionalità della normativa convenzionale. (93) Section 7852 (d). (94) Si tratta del principio della specialità sui generis cui opera riferimento il Conforti. accoglie, in altri termini, la tesi per la quale la volontà di violare la convenzione deve essere verificata esaminando la volontà del Congresso, anche attraverso i lavori preparatori. Il legislatore statunitense, peraltro, si è spinto ancora oltre. Con il “Technical Correction Act” del 1987, infatti, ha disposto che le modifiche introdotte dal “Tax Reform Act” del 1986 sono vincolanti indipendentemente da ogni obbligo promanante da disposizioni pattizie (95), così elevando a regola generale quella che consentiva, in via eccezionale, l'esercizio del potere di non adempiere agli obblighi derivanti dal trattato contro la doppia imposizione (96). In generale, però, gli Stati Uniti adottano il principio della “lex posterior”, sicché la norma successiva, quale essa sia, prevale sulla precedente; spesso è tuttavia il legislatore a statuire che la nuova legge non ha portata abrogativa o modificativa nei riguardi delle convenzioni in essere (97). Interessante è anche la c.d. “tax saving clause”, che gli Stati Uniti sovente inseriscono nelle convenzioni da loro stipulate, in base alla quale essi si riservano di tassare i loro cittadini o i loro residenti come se il trattato non esistesse. Tale clausola nasce dall’idea che le convenzioni internazionali possano limitare solo la tassazione dei non residenti, e comporta la sostanziale inoperatività di quelle clausole convenzionali che assegnano il diritto esclusivo di imposizione sui residenti o cittadini statunitensi all’altro Stato contraente (98) (99). (95) Vedi il Notiziario di diritto finanziario comparato, in Dir. prat. trib., 1988, I, p. 315. Vedi anche GEST-TIXIER, Droit fiscal international, cit., p. 70. (96) In particolare, il Technical Correction Act precisa quali norme interne prevalgono sulla convenzione, individuando queste nelle norme in materia di determinazione dei redditi ai fini della disciplina del foreign tax credit, nelle norme sulla localizzazione dei c.d. “transportation income” e degli interessi corrisposti da filiali estere di banche nazionali, qualora siano applicate ai fini della determinazione degli ammontari dei foreign tax credit detraibile, in talune norme in materia di localizzazione di interessi, nella Sect. 861 (c) in materia di “foreign business requirements” e, infine, nelle norme in materia di branch profit tax. (97) Vedi GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, cit., p. 520. (98) Essi devono tuttavia comunque riconoscere un credito per le imposte pagate nell’altro Stato: sul punto, VOGEL, On Double Taxation Conventions, cit., p. 77 ss. Vedi anche MELOT, Territorialité et mondialité de l’impôt, Paris, Dalloz, 2004, p. 668, che ne sottolinea l’importanza in caso di applicazione delle regole sulle CFC. (99) Le ipotesi in cui l’art. 169 può trovare applicazione non sono invero molto numerose. Un primo caso si ha in presenza di redditi esteri esenti per convenzione, poiché da tale esenzione possono derivare diversi inconvenienti, sia in relazione alla limitazione alla deducibilità dei costi afferenti congiuntamente ricavi imponibili ed esenti oppure degli interessi passivi, sia in relazione ai dividendi, allorquando siano previste forme compensative di imposizione al momento della distribuzione dei redditi esenti agli azionisti (ipotesi peraltro venuta meno nel nostro ordinamento dal 1.1.2004). In tali casi, ove non vengano previsti correttivi a livello interno (come ad esempio avviene ai sensi dell’art. 96 t.u.i.r. per i dividendi e gli interessi di provenienza estera, che si computano per l'intero ammontare anche se per disposizione convenzionale non concorrono in tutto o in parte a formare il reddito), può essere interessante valutare l’eventuale utilizzazione del meccanismo del credito di imposta avvalendosi dell’art. 169 t.u.i.r. (sul punto, vedi MAISTO, Le innovazioni apportate per i rapporti internazionale, in AA.VV., Il reddito d'impresa nel nuovo Testo Unico, Padova, 1988, p. 250 ss.). Si segnala, peraltro, con riferimento all’esenzione dei dividendi prevista dalla Convenzione tra Italia e Brasile, Cass., sez. trib., 24 novembre 2000, n. 15205, per la quale non si tratterebbe di una “esenzione” in senso stretto, quanto invece di una misura finalizzata esclusivamente ad evitare una doppia imposizione sul piano internazionale. Ad avviso della Suprema Corte “un reddito, in relazione al quale uno degli Stati contraenti s’impegni a non esercitare – in tutto o in parte – la potestà impositiva, riservando tale esercizio all’altro Stato, non può definirsi esente ai fini della determinazione della percentuale di interessi detraibile”. E’ interessante notare che il Conseil d’Etat francese (CE, 28 luglio 2000, req. n. 178834, Monsieur Paulin, in RJF, n. 11/2000, n. 1194, p. 774 e in Droit fiscal, n. 8/2001, p. 357 ss) ha invece sostenuto l’impossibilità di “sostituire” al metodo per l’eliminazione previsto a livello convenzionale quello previsto dal diritto interno, ove più favorevole: sul punto, ZELLER, Qu’en est-il du principe de subsidiarité et du principe de non-aggravation en droit fiscal international français ?, cit., p. 121. Un altro caso riguarda le stabili organizzazioni di soggetti non residenti, dove la maggiore intensità della c.d. “forza di attrazione” della stabile organizzazione prevista nel diritto interno per i soggetti IRES rispetto a quella prevista nelle convenzioni internazionali, può far propendere, in taluni casi, per l’applicazione della forza di attrazione prevista dalla norma interna (con riferimento ai dividendi, anche alla luce delle modifiche intervenute all’art. 27, co. 3 d.p.r. n. 600/73, vedi MAYR, Società estera con stabile organizzazione in Italia e con partecipazioni in società italiane, in Boll. trib., 2000, p. 731 ss., ove l’autore distingue il concetto di “forza di attrazione” da quello di “riserva”, assoluta o relativa; con riferimento agli interessi e alle royalties, vedi SIMONI, La forza di attrazione della stabile organizzazione, in AA. VV., Il reddito d'impresa nel nuovo Testo Unico, Milano, 1988, p. 745 ss.). Un caso ulteriore di operatività del 169 t.u.i.r. potrebbe rinvenirsi in materia di doppia residenza fiscale, consentendo al contribuente di mantenere in vita la doppia residenza nonostante la presenza dello strumento convenzionale (vedi MAISTO, Brevi riflessioni sul concetto di residenza fiscale di società ed enti nel diritto interno e convenzionale, in Dir. prat. trib., 1988, p. 1363 ss.), o comunque di passare più agevolmente da una residenza all'altra a seconda della convenienza sul piano operativo. Un altro caso in cui la normativa interna potrebbe rivelarsi più favorevole è dato dall’applicazione dell’art. 27 co. 3 d.p.r. n. 600/73, che prevede il rimborso ai non residenti dell’imposta pagata all’estero in via definitiva su dividendi di fonte italiana, fino a concorrenza dei 4/9 della ritenuta applicata in Italia a titolo d’imposta sui dividendi stessi; anche in questo caso, infatti, la norma interna può rivelarsi più favorevole per il contribuente non residente rispetto al regime convenzionale, che pertanto può avvalersene ai sensi dell’art. 169 t.u.i.r. (vedi Circ. Min. Fin., 4 gennaio 1968, n. 24 (Cap. VII, par. 2b), cit. e Circ. Min. Fin., 22 maggio 1971, n. 28, cit.). Discutibile è se un ulteriore caso possa ipotizzarsi con riferimento all’applicazione delle ritenute convenzionali. Infatti, al fine di evitare che il contribuente italiano, per beneficiare della ritenuta estera ridotta, sia costretto ad attendere i tempi necessari per ottenere il rimborso, potrebbe ipotizzarsi l’applicazione della ritenuta più elevata prevista dalla legislazione estera per poi avvalersi, ex art. 165 t.u.i.r., del credito per le imposte pagate 10. Segue. “Treaty overriding” e interpretazione “evolutiva”. – Problema diverso da quello regolato dall’art. 169 è quello della possibilità di “violare” il trattato con una successiva modifica alla legislazione interna. Quindi, la norma interna successiva non è “più favorevole”, bensì “più sfavorevole” di quella internazionale. all’estero. In base a tale norma, infatti, il contribuente avrebbe diritto allo scomputo delle imposte interamente pagate all’estero, con i soli limiti della quota di imposta italiana ad essa corrispondente. Si osserva, tuttavia, che l’eccedenza della ritenuta operata rispetto a quella operabile in base a convenzione sarebbe priva dei requisiti della “definitività”, sia per la natura indebita del prelievo eccedente, sia per la possibilità che il contribuente manterrebbe di richiedere il rimborso all’amministrazione finanziaria estera, sicché se una convenzione limita il prelievo alla fonte in una certa misura, soltanto in tale misura potrà essere portata in detrazione, ai sensi dell’art. 165 t.u.i.r., l’imposta estera effettivamente pagata (ROCCATAGLIATA, Proposte di semplificazione delle procedure applicative delle convenzioni per evitare le doppie imposizioni, cit., p. 444). Infine, l’art. 169 t.u.i.r. potrebbe essere adoperato quale ulteriore modalità di soluzione del problema del rapporto tra diritto tributario internazionale e comunitario, nel caso in cui la norma comunitaria sia stata recepita in forma ordinaria. Si pensi al noto caso della compresenza, nella Direttiva “madre-figlia” e nelle convenzioni contro la doppia imposizione stipulate dall'Italia con Francia e Regno Unito, di apposite disposizioni volte a fronteggiare il fenomeno della c.d. “doppia imposizione economica” degli utili societari. In tale caso, si pone il problema di coordinare le due discipline, o facendone prevalere una in ogni caso, oppure dando al contribuente facoltà di avvalersi alternativamente di una disciplina piuttosto che dell'altra, oppure ravvisando tra le due discipline una compatibilità tale da consentire addirittura un'applicazione congiunta di ambedue le discipline. Ora, ferma restando in base ai principi del diritto comunitario la teorica prevalenza della norma comunitaria su quella internazionale (vedi NUZZO, Riflessioni in margine ai rapporti tra trattati contro le doppie imposizioni e talune regole impositive del diritto comunitario e del diritto interno, in Rass. trib., 1993, p. 746; PISANO, Il rapporto tra norme interne, diritto convenzionale e diritto comunitario, cit., p. 431 ss.), si potrebbe sostenere, su un piano strettamente formalista, che essendovi stato adattamento ordinario alla disciplina comunitaria, e avendo questo adattamento comportato, in particolare, l'inserimento di tale disciplina nel Testo Unico, potrebbe ritenersi applicabile alternativamente questa disciplina oppure quella convenzionale a seconda di quale di essa risulti più favorevole al contribuente. E’ peraltro interessante notare che talvolta gli stessi atti comunitari fanno salva l’applicabilità di difformi disposizioni nazionali o convenzionali: così accade, ad esempio, con l’art. 7, par. 2 della direttiva n. 90/435/CEE. Non costituiscono invece ipotesi rientranti nell’art. 169 quelle norme di favore che operano ove il diritto di imposizione sia stato attribuito, ai sensi della convenzione, all’Italia. Così accade per l’ipotesi regolata dall’ex art. 96 t.u.i.r., dove il contribuente, per evitare la doppia imposizione economica del dividendo estero, poteva procedere alla tassazione del reddito per il solo 40% del relativo ammontare. Oppure, nell’ipotesi, ormai abrogata, dei redditi da lavoro dipendente “prestato all'estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto”, che l'art. 3 co. 3 t.u.i.r. escludeva dalla base imponibile. Si tratta(va), infatti, non già di norme più favorevoli, bensì di semplici norme di determinazione del quantum imponibile (o finanche di relativa esenzione) di un reddito convenzionalmente localizzato in Italia. Il problema è assai complesso, in quanto si intreccia con quello dell’interpretazione “evolutiva” del trattato. Come è noto, l’art. 31 par. 3 lett. c) della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati attribuisce rilievo interpretativo a “ogni regola pertinente di diritto internazionale applicabile nelle relazioni tra le parti”. Esso rappresenta una norma a carattere storico-evolutivo che consente di adattare la convenzione ai mutamenti delle norme proprie dell'ordinamento internazionale, conferendo importanza al diritto internazionale generale, oltreché al diritto pattizio vincolante gli Stati contraenti (100). Essa non deve tuttavia trarre in inganno. Il principio del diritto internazionale rimane infatti sempre quello di attribuire ai termini il significato che essi avevano nel momento in cui la convenzione fu conclusa (c.d. “principle of contemporaneity”), sicché l'attribuzione di un significato diverso rimane pur sempre l'eccezione. Se ciò è vero, è però anche vero che il principio di contemporaneità non postula necessariamente un’interpretazione “statica”. Ben può accadere, infatti, che il significato dei termini subisca una evoluzione, che si riveli compatibile con le aspettative ed intenzioni delle parti al momento in cui esse conclusero il trattato. Si pensi ad esempio ai termini “artista, “atleta”, “entertainer”, oppure alla nozione di “stabile organizzazione” o alle “royalties” con riferimento alle nuove problematiche del commercio elettronico (101). Il problema più delicato non riguarda tuttavia le interpretazioni evolutive, quanto invece, come si accennava, le modifiche alle legislazioni interne, notoriamente frequenti in materia tributaria. Con particolare riferimento alle convenzioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio, il problema dell'interpretazione “statica” od “evolutiva” si è posto relativamente all'art. 3 par. 2 del Modello OCSE. Questa norma rinvia agli ordinamenti interni degli Stati contraenti al fine della definizione dei termini non definiti nella convenzione stessa, ponendosi pertanto il problema se questo rinvio debba intendersi al diritto interno vigente all'epoca in cui fu concluso il trattato (“static meaning”), ovvero all'epoca nel quale esso trova applicazione (“ambulatory meaning”). Si tratta dunque di un tema contiguo a quello del “treaty overriding”, vale a dire la possibilità da parte di una norma interna di “violare” il trattato. Se (100) Su questa funzione, vedi SALERNO, Principi generali di diritto, cit., p. 551 ss. (101) E lo stesso vale, ovviamente, per i termini utilizzati nel Commentario. infatti si modifica la legislazione interna, si pone il problema di verificare se tale modifica configuri sic et simpliciter una violazione del trattato, oppure possa darsi luogo ad una interpretazione “evolutiva” del trattato. Appare dunque eccessivamente semplicistica l’affermazione per la quale ove dovesse propendersi per un'interpretazione “evolutiva”, l'effetto abrogante sarebbe ammesso dal trattato stesso, mentre nel caso inverso le eventuali modifiche non opererebbero punto, così eliminando alla radice il problema (102). La soluzione non può infatti essere risolta radicalmente in un senso oppure nell’altro, ma occorre distinguere caso per caso. La “ambulatory meaning” non può costituire un pretesto per il “treaty overriding”. Né vale richiamare le tesi relative al rapporto tra diritto internazionale e diritto interno e, in particolare, quella secondo la quale una prevalenza di quest'ultimo debba ammettersi soltanto in caso di espressa volontà di derogare agli impegni assunti sul piano internazionale. Si è infatti pur sempre in presenza di una disposizione che espressamente rinvia al diritto interno, sicché da tale dato non può prescindersi. La dottrina internazional-tributaristica ha esaminato attentamente il dilemma tra interpretazione “statica” ovvero “evolutiva” dei termini utilizzati nelle convenzioni. A favore dell'interpretazione “statica”, si è osservato come essa non consentirebbe agli Stati contraenti di ampliare a proprio piacimento le definizioni dei termini (103); che essa favorirebbe la certezza del diritto per il contribuente, potendo esso conoscere l'esatto significato di un termine; che essa corrisponderebbe alla necessità di dover interpretare una convenzione nel A favore dell'interpretazione contesto della sua negoziazione (104). “evolutiva” si è invece osservato come essa corrisponda ad esigenze di praticità, evitando di dover ricercare quale fosse la legge in vigore al momento in cui il trattato fu concluso (105); che il riferimento a quest'ultima legge sarebbe comunque non più attuale (106) e dunque renderebbe la convenzione (102) AVERY JONES, The interpretation of tax treaties with particular reference to article 3[2] of the OECD Model, cit., p. 1638 ss. (103) AVERY JONES, The interpretation of Tax Treaties with Particular Reference to Article 3[2] of the OECD Model, cit., p. 1654 ss. (104) GOUTHIÈRE, Fiscalité internationale: Les solutions proposées par le nouveau modèle OCDE, in BF, 1993, p. 80. (105) AVERY JONES, The interpretation of Tax Treaties with Particular Reference to Article 3[2] of the Oecd Model, cit., p. 1655. (106) MIRAULO–GALLI, National Report al Convegno IFA di Firenze, cit., p. 394. inoperante (107), che alcune clausole convenzionali comunque richiedono un’interpretazione evolutiva (108); che, infine, essa consentirebbe di operare aggiustamenti e adattamenti delle rispettive posizioni nel quadro del rapporto bilaterale definito dallo strumento convenzionale e senza ricorrere a procedure istituzionali apposite (109). Le convenzioni in materia di imposte sul reddito e sul patrimonio, dal canto loro, si erano tradizionalmente occupate soltanto incidentalmente del problema in questione. Così, ad esempio, con la regola per la quale “la convenzione si applicherà anche alle imposte di natura identica o analoga che entreranno in vigore dopo la data della firma della presente convenzione e che si aggiungeranno alle imposte attuali o che le sostituiranno” (art. 2 par. 4 Modello OCSE). Ipotesi, questa, verificatasi in Italia a seguito della riforma tributaria del ‘73, dove l’introduzione di nuove imposte spinse l'Amministrazione finanziaria italiana ad adottare un’interpretazione appunto “evolutiva” del trattato (110). I segni del cambiamento cominciarono a mostrarsi nell’ambito del Commentario all'art. 3 par. 2 del Modello OCSE, che nella versione del 1992 optò a favore dell'interpretazione c.d. “evolutiva”, affermando la necessità di ricorrere al significato dei termini nel momento in cui si procede (107) VOGEL–PROKISCH, General Report al Convegno IFA di Firenze, cit., p. 80. (108) VOGEL, On Double Taxation Conventions, cit., p. 138 ss. (109) Così GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, cit., p. 535. (110) A tale proposito, il Ministero delle Finanze, ove le convenzioni non prevedessero già la loro applicabilità alle imposte di natura identica o analoga istituite in uno degli Stati contraenti in aggiunta o in sostituzione alle imposte esistenti, ha riconosciuto la necessità di provvedere all’aggiornamento delle restanti convenzioni interessate “mediante negoziati da intraprendere il più presto possibile con le competenti autorità” (vedi Ris. Min. Fin., 25 febbraio 1976, n. 12/50261), consentendo tuttavia l’applicazione delle convenzioni stesse ai nuovi tributi nelle more di tali negoziati, alcune volte in via unilaterale, altre volte mediante apposito scambio di note o altre intese (vedi lo scambio di Note con gli Stati Uniti del 13 dicembre 1974; vedi anche l’adattamento alla Convenzione con la Germania del 31 ottobre 1925, dove le norme convenzionali sono state interpretate intendendo per “imposta reale” l’imposta locale sui redditi e per “imposta personale”, a seconda dei casi, l’imposta sul reddito delle persone fisiche e l’imposta sulle persone giuridiche). Soltanto nel caso della Convenzione con gli Stati Uniti del 1955 fu necessario un apposito scambio di note, per poi procedere alla stipula di una nuova convenzione: vedi MIRAULO–GALLI, National Report al Convegno IFA di Firenze, cit., p. 391. Il problema si è riproposto a seguito dell’istituzione dell’Irap, che ha nuovamente richiesto la rinegoziazione della Convenzione con gli Stati Uniti. Sul punto, vedi LUDOVICI, L’accordo temporaneo italo-statunitense in materia di Irap, in Riv. dir. trib., 1998, IV, p. 192 ss.; MAYR, La nuova Convenzione Italia-USA per evitare le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito, in Boll. trib., 1999, p. 1662 ss. all'applicazione della convenzione (111). Tale indirizzo si è concretizzato nella modifica, attuata con la versione del Modello dell’anno 1995, dell’art. 3, par. 2, che ha stabilito, nella parte qui di interesse, che “per l’applicazione della Convenzione in qualunque momento da parte di uno stato contraente, le espressioni non ivi definite hanno, a meno che il contesto non richieda una diversa interpretazione, il significato che ad esse è attribuito in quel momento dalla legislazione di detto Stato (…)”. Ora, non sembra dubitabile che l'interpretazione “evolutiva” sia da preferire a quella “statica”, al fine di non sclerotizzare le convenzioni in esame (112), stante anche l'elevata volatilità della legislazione tributaria. In alcuni casi, la “ambulatory interpretation” rappresenta anzi una soluzione obbligata. Si pensi ad esempio alle ipotesi nelle quali il riferimento agli ordinamenti interni sia “naturale” (es. “nazionali”, “residenti”, ecc.), ove è giocoforza ritenere che il significato debba essere quello esistente al momento in cui si verifica il presupposto. Oppure ai casi in cui la legislazione interna abbia funzione integrativa del precetto internazionale. D’altro canto, è evidente che poiché le convenzioni internazionali in materia di imposizione sul reddito hanno funzione di limitazione dei presupposti interni, esse lasciano impregiudicato il potere dei vari Stati relativamente alla misura dell’imposizione, sicché ben saranno possibili mutamenti nella legislazione interna nel livello dell’aliquota d’imposta, con l’unico limite della non discriminazione. La “ambulatory interpretation” necessita tuttavia di talune precisazioni. In primo luogo, deve ricordarsi come il contribuente prenda delle decisioni in base ad un determinato stato del diritto, sicché le modifiche (111) Questo favor del Modello OCSE per la “ambulatory interpretation” già si evinceva dal Commentario al Modello OCSE del 1977: ad esempio, il punto 19 del Commentario all'art. 11, trattando della definizione autonoma di interessi, affermava che “la formula impiegata offre maggior sicurezza dal punto di vista legale e assicura che le convenzioni non saranno influenzate da futuri cambiamenti nelle leggi interne di alcun Paese”, così implicitamente riconoscendo la rilevanza dei futuri cambiamenti legislativi. (112) In questa direzione, vedi la Circ. Min. Fin., 12 dicembre 1981, n. 42, in Dir. prat. trib., 1982, p. 139 ss. dove, in relazione alle modifiche introdotte dal d.p.r. n. 897/80 alla disciplina per l'utilizzazione di marchi, opere dell'ingegno e simili, nonché per l'uso di veicoli, macchine e altri beni mobili, si afferma, circa la possibilità di estendere il trattamento convenzionale delle royalties ai compensi per l'uso di beni mobili, che “né vale obiettare che la mancanza, in qualche accordo internazionale, di un riferimento espresso alle fattispecie considerate, ancorché queste siano di natura analoga a quelle esplicitamente richiamate, è sufficiente per escluderle dal particolare trattamento convenzionale, in quanto va tenuta presente la circostanza che, all'epoca della conclusione degli accordi in parola, tali fattispecie non erano ancora nell'uso corrente della pratica commerciale internazionale” (corsivo nostro). legislative sopravvenute finiscono per incidere sulla disciplina applicabile, magari ampliando una categoria reddituale, in modo tale da attrarvi anche la fattispecie precedentemente esclusa o comunque rientrante in altra categoria reddituale. Ciò richiede non tanto la protezione dei rapporti di durata, ancora lontani dall’essere tutelati anche a livello interno, quanto invece che il significato cui operare riferimento sia quello esistente nel momento in cui si è verificato il presupposto di imposta. In secondo luogo, l'interpretazione evolutiva deve ritenersi sottoposta agli stessi limiti ai quali è sottoposto, nell'ambito dell'art. 3 par. 2 del Modello OCSE, il rinvio al diritto interno, potendo ad esempio emergere dal “contesto” la necessità di non fare riferimento alla disciplina sopravvenuta, bensì a quella ad essa antecedente (113). Così, ad esempio, dovrà ritenersi incompatibile con il “contesto” una norma interna che equipari la cessione delle quote in una società immobiliare alla cessione di un immobile, onde farla rientrare nella disciplina dei redditi fondiari anziché delle plusvalenze azionarie (114). Occorrerà pertanto tenere in dovuto conto l'entità delle modificazioni apportate alla legislazione interna, che non dovranno essere tali da determinare rilevanti ripercussioni sulla disciplina convenzionalmente stabilita circa la ripartizione dei redditi transnazionali (115), potendosi esse altrimenti risolvere in un inadempimento degli obblighi assunti sul piano internazionale (116). In terzo e ultimo luogo, dovrà verificarsi se, a livello della singola convenzione, gli Stati abbiano deciso di fissare pro futuro il significato di un (113) AVERY JONES, The interpretation of Tax Treaties with Particular Reference to Article 3[2] of the Oecd Model, cit., p. 1662 e GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, cit., p. 536. Il par. 12 del Commentario all’art. 3, par. 2 del Modello OCSE così si esprime: “However, paragraph 2 specifies that this applies only if the context does not require an alternative interpretation. The context is determined in particular by the intention of the Contracting States when signing the Convention as well as the meaning given to the term in question in the legislation of the other contracting State (an implicit reference to the principle of reciprocity on which the Convention is based)”. (114) Sul punto, EDWARDES-KER, Tax Treaty Interpretation, cit., par. 10.13. (115) Vedi AVERY JONES, The interpretation of Tax Treaties with Particular Reference to Article 3[2] of the Oecd Model, cit., p. 1662 ss., il quale contrappone una “express limitation”, data dal contesto, ad una “implied limitation”, data dal fatto che le modificazioni non dovranno “imparing the balance or affecting the substance of the convention”. (116) Vedi, ad esempio, quanto emerge dal Commentario all'art. 25 del Modello OCSE, punto 31, che autorizza la procedura amichevole “interpretativa” in caso di modificazione della legislazione di uno Stato, senza tuttavia “toccare l'equilibrio e la sostanza della convenzione”. termine, ancorandolo al suo significato originario e rendendolo così non modificabile (117). Per quanto attiene infine alle conseguenze del “treaty overriding”, è stato evidenziato che le tradizionali conclusioni della dottrina internazionalistica in tema di illecito internazionale – in base alle quali dal compimento di un atto o fatto illecito da parte di uno Stato contraente che si risolve nella violazione dei diritti spettanti all’altro Stato contraente nasce un obbligo risarcitorio – non sarebbero adeguate in materia tributaria (118). Nelle convenzioni tributarie non esisterebbero norme che direttamente ascrivono un obbligo a determinati soggetti (Stato o contribuenti), poiché esse si limiterebbero ad esprimere l’obbligo generale di conformarsi allo strumento pattizio che pone in collegamento due giurisdizioni fiscali per l’ipotesi in cui sorgano controversie aventi ad oggetto la portata delle relative pretese fiscali. Farebbero a ciò eccezione solo alcune norme, quali quelle che prevedono il principio di non discriminazione e lo scambio di informazioni. Negli altri casi, invece, il problema si porrebbe piuttosto in termini interpretativi e di coordinamento tra la convenzione e le rispettive legislazioni nazionali e non direttamente nell’inadempimento di obblighi promananti dalla convenzione. Dunque, non già in un “risarcimento”, bensì in meccanismi di aggiustamento dell’originario equilibrio contrattuale. La tesi coglie con precisione le dinamiche del treaty overriding sopra indicate. Si è visto, infatti, come i mutamenti delle legislazioni interne non siano vietati, nei limiti in cui non alterino sostanzialmente gli equilibri convenzionali, e ferma restando la necessità che la violazione del trattato sia espressamente voluta come tale dallo Stato che procede alla modifica rilevante sul piano interno. Agli stessi Stati è consentito sinanche modificare il proprio sistema fiscale, procedendo ad un adeguamento in via interpretativa oppure, ove si renda necessario (eventualmente anche in quanto richiesto dalla controparte), alla rinegoziazione del trattato. In ogni caso, le conseguenze non 9.09. (117) Per alcuni esempi, vedi EDWARDES-KER, Tax Treaty Interpretation, cit., par. (118) GARBARINO, La tassazione del reddito transnazionale, cit., p. 496 ss. si situano sul piano del risarcimento del danno, bensì – più semplicemente – sul piano dell’interruzione degli effetti del trattato (119). (119) Nell’ambito della casistica relativa alla compatibilità di norme interne con le convenzioni contro la doppia imposizione, notevole importanza assume il rapporto con le clausole interne – generali e speciali – antielusive. Per quanto riguarda le norme interne antielusive generali, nulla vieta in realtà che esse possano estendere i loro effetti a fattispecie articolate su base internazionale, purché collegate – soggettivamente od oggettivamente – con il territorio dello Stato. Il fine di tali norme è infatti quello di tutelare l'Erario dello Stato da cui tale norma promana e sotto tale profilo non appare certamente invasivo della sovranità fiscale degli altri Stati. Tuttavia, in presenza di convenzioni internazionali, è dubbia la possibilità che la norma di diritto interno possa incidere sulla disciplina pattizia. Vero è, come detto, che il rispetto degli accordi assunti in ambito internazionale si misura dal grado di uniformità che detti accordi trovano sul piano applicativo nei vari Stati contraenti; e tale uniformità applicativa rischia di essere seriamente compromessa laddove si ammetta sic et simpliciter l'applicazione di clausole interne anti-abuso i cui confini sono spesso poco definiti e come tali suscettibili di ambiti di applicazione assai differenziati. Emblematica di queste preoccupazioni si rivela l'evoluzione giurisprudenziale della Suprema Corte olandese che, elaborando il concetto di “fraus conventionis”, ne aveva fatto inizialmente applicazione in un'ipotesi di abuso del BKR, ovverosia del Trattato regolante i rapporti tra i Paesi Bassi, le Antille Olandesi ed Aruba (HR 08.01.1986, in BNB 1986/127; HR 28.06.1989, in BNB 1990/45): in tale caso, infatti, una società canadese aveva interposto una società residente nelle Antille Olandesi tra sé e la propria società-figlia olandese, al fine di beneficiare delle disposizioni del predetto Trattato. Operazione, questa, che la Corte Suprema ha ritenuto avere come unico fine l'ottenimento di rilevanti benefici fiscali, mancando qualsiasi valida ragione economica. Successivamente, la Corte ha tuttavia operato un parziale revirement (HR 15.12.1993, in BNB 1994/259), limitandone l'applicazione ai soli casi in cui dal testo del trattato, ivi compreso il relativo Protocollo di applicazione, risulti l'intenzione di fare salve le norme interne antielusive, con l’effetto di costringere il Ministero delle Finanze olandese a includere ove possibile nelle proprie convenzioni una clausola che consente l'applicazione dell'istituto della “fraus conventionis” nell'ipotesi di abuso del trattato. Nella stessa direzione si è mossa la Germania, la quale ha stipulato apposite clausole convenzionali che consentono l'utilizzo delle clausole interne antielusive, e anche l’Italia, che nella convenzione con gli Emirati Arabi Riuniti ha previsto, all'art. 24 par. 6, che il principio di non discriminazione pattuito non deve comunque limitare l'applicazione delle disposizioni interne volte ad impedire l'evasione e l'elusione fiscale. Il problema in verità rimane aperto. Alcune Amministrazioni finanziarie europee, come ad esempio quella francese, pongono infatti in particolare rilievo la circostanza che nell'ambito degli scopi enunciati nel preambolo delle Convenzioni contro la doppia imposizione, vi è un espresso riferimento alla finalità di “prevenire le evasioni fiscali” che, quale rinvio implicito alle norme interne anti-abuso, consentirebbe a queste ultime di trovare una propria legittimazione nell'ambito dei trattati. Lo stesso “report” dell'OCSE del 2728 aprile 1998, finalizzato alla lotta alla concorrenza fiscale sleale, ha indicato tra le 19 raccomandazioni ai propri Stati membri, quella di chiarire lo status delle clausole interne antiabuso nell'ambito delle Convenzioni internazionali contro la doppia imposizione, così evidenziando chiaramente l'incertezza ancora sussistente al riguardo. Anzi, nelle modifiche apportate nel 2003 al commentario dell’OCSE si è espressa la convinzione che le legislazioni nazionali siano applicabili anche relativamente a CFC residenti in Stati con cui sono in vigore disposizioni pattizie: sul punto, BRACCO, CFC legislation e trattati internazionali: le recenti integrazioni al Commentario OCSE e il loro valore ermeneutico, in Riv. dir. trib., 2004, p. 179 ss. e MARTIN JIMENEZ, The 2003 Revision of the OECD Commentaries on the Improper Use of Tax 11. Soft law e legislatore nazionale. – Si sono sin qui esaminati i vincoli derivanti al legislatore tributario dalle consuetudini e dai trattati internazionali. Treaties: A Case for the declining Effect of the OECD Commentaries?, in Bulletin – Tax Treaty Monitor, 2004, p. 17 ss. Anche per quanto riguarda le norme antielusive speciali, pur essendo in re ipsa l'applicabilità di tali norme a fattispecie internazionali, sussistono non trascurabili problemi in ordine alla compatibilità di tali clausole con le convenzioni contro la doppia imposizione laddove esse si traducano in una modifica sostanziale dei criteri di localizzazione contenuti in tali convenzioni. La misura più discussa è certamente la disciplina delle CFC, rispetto alla quale si è affermata l’incompatibilità con talune disposizioni pattizie, in particolare l’art. 7 par. 1 relativo alla tassazione dei redditi di impresa nel solo Stato della residenza, l’art. 10 par. 5 relativo al divieto di tassazione degli utili non distribuiti da una società residente in un altro Stato e all’art. 5 par. 7, relativo all’impossibilità di configurare una stabile organizzazione nel mero possesso di partecipazioni. Va qui ricordata l'esperienza della Francia proprio con riferimento all'art. 209-B (sul punto, vedi DIBOUT, L'Article 209-B est-il compatible avec les conventions fiscales internationales et le Droit Communautaire?, in Droit Fiscal, 1990, p. 1485 ss.), del quale l’Amministrazione finanziaria francese ha affermato la piena compatibilità con la normativa internazionale (Instruction del 6 marzo 1992, 4 H-9-92, in Droit fiscal, n. 17), osservando come scopo dei trattati sia anche quello di combattere l'evasione e l'elusione fiscale internazionale, al quale pertanto l'art. 209-B si attaglierebbe perfettamente. Deve tuttavia osservarsi come il riferimento all’oggetto e allo scopo del trattato costituisca una tesi eccessivamente debole, sicché, nel dubbio, alcune convenzioni stipulate dalla Francia prevedono espressamente l’applicabilità dell’art. 209-B o di clausole equivalenti (vedi, ad esempio, il punto 13 del Protocollo alla Convenzione tra Francia e Messico del 7 novembre 1991, che fa espressamente salva l’applicazione dell’art. 209-B, e la Convenzione con il Canada del 2 maggio 1975, il cui art. 29 prevede l’applicazione dell’art. 91 della legge canadese sull’imposta sui redditi, di contenuto equivalente a quello dell’art. 209-B. Sul punto, MELOT, Territorialité et mondialité de l’impôt, cit., p. 696 ss.). Anzi, lo stesso Conseil d’Etat francese, nel caso Schneider Electric, ha ritenuto incompatibile tale disciplina con la convenzione stipulata tra Francia e Svizzera (da ultimi BRACCO, CFC legislation e trattati internazionali: le recenti integrazioni al Commentario OCSE e il loro valore ermeneutico, cit. e ANTONINI, The compatibility of CFC legislation with tax treaties, in Il Fisco, Rassegna di fiscalità internazionale, 2004, p. 8229 ss.). Sul punto, vedi C. SACCHETTO – S. PLEBANI, Compatibilità della legislazione CFC italiana con le norme convenzionali e con l’ordinamento comunitario, in Dir. prat. trib. int., 2002, p. 13 ss; C. ROTONDARO, Note minime in tema di compatibilità dei regimi CFC con il diritto comunitario. Alcune riflessionisul caso italiano, in Riv. dir. trib., 2000, p. 517 ss. Per un caso di “treaty overriding” da parte dell’Austria con riferimento al trattamento di favore previsto nella convenzione con la Spagna per gli interessi derivanti da obbligazioni, vedi HEINRICH-MORITZ, Interpretation of Tax Treaties, in European Taxation, 2000, p. 146, nota 35. Due ipotesi normative interne che meritano infine attenzione riguardano la disciplina relativa all’inversione dell’onere della prova per i soggetti che trasferiscono la propria residenza in un paese a fiscalità privilegiata (art. 2, co. 2 bis t.u.i.r.), nell’ipotesi in cui esso sia legato all’Italia da una convenzione contro la doppia imposizione, nonché la “exit tax” di cui all’art. 166 t.u.i.r. Sul punto, sia consentito rinviare a MELIS, Riflessioni intorno alla presunzione di residenza fiscale di cui all’art. 10 della L. 23 dicembre 1998, n. 448, in Rass. trib., 1999, p. 1090 ss. e ID., Profili tributari del “trasferimento” della residenza fiscale delle società, cit., p. 43 ss. Qualche riflessione va infine effettuata sui vincoli derivanti dai c.d. “codici di condotta” in materia tributaria promossi dalle organizzazioni internazionali. Intendiamo in particolare riferirci al c.d. “codice di condotta” emanato dall’OCSE in esito al lavoro del Committee on Fiscal Affairs e contenente raccomandazioni dirette agli Stati membri sulla lotta ai “tax havens” e ai “regimi fiscali preferenziali dannosi” (120). Per quanto riguarda i “tax havens”, essi consistevano, nella prima versione del codice di condotta, in quegli Stati nei quali il livello di imposizione fosse nullo o praticamente irrilevante ovvero mancasse un effettivo scambio di informazioni o di trasparenza nell’applicazione delle norme fiscali (es. “secret rulings”). Nella nuova versione del 2001, a seguito di un articolato, e per certi versi drammatico (121), dibattito in seno alla Comunità internazionale, l’OCSE ha eliminato dalle caratteristiche per essere definito “tax haven” il riferimento al livello di tassazione, ritenendo di dover basare la qualificazione esclusivamente sul grado di cooperazione dello Stato nei confronti delle Amministrazioni degli altri Stati e sul grado di trasparenza circa le caratteristiche dei regimi fiscali. Il primo Report dell’OCSE includeva tra i tax havens 35 Stati, prevedendo azioni di contrasto nei loro confronti, quali l’adozione di ritenute alla fonte particolarmente gravose, l’applicazione di “transfer pricing rules”, regole contro la “thin capitalization”, l’indeducibilità dei costi sostenuti nei “paradisi fiscali” e via dicendo. Sotto un profilo generale, si tratta di una “raccomandazione”, come tale non vincolante per gli Stati aderenti, che rimangono liberi di conformarvisi o (120) Sul punto, OSTERWEIL, OECD Report on Harmful Tax Competition and European Union Code of Conduct Compared, in European Taxation, 1999, p. 198 ss.; HAMAEKERS, Tackling Harmful Tax Competition – a Round Table on the Code of Conduct - Introduction, in European Taxation, 2000, p. 398 ss.; PINTO, The OECD 2001 Progress Report on Harmful Tax Competition, in European Taxation, 2002, p. 41 ss.; OCCHIUTO, “Concorrenza fiscale dannosa” in ambito OCSE e collegamenti con il diritto tributario interno, in Corr. trib., 2002, p. 2227 ss. (121) Riporta la dura presa di posizione del segretario di Stato americano, Paul O’Neill, sulla inaccettabilità del criterio del “livello di tassazione”, e il delicato lavoro svolto dalle diplomazie nella revisione delle strategie in seno all’OCSE, M. MEAZZA, Paradisi fiscali, l’OCSE corregge la rotta, in Il Sole 24-Ore, 25 giugno 2001, p. 3. Si evidenzia in tale sede come la presa di posizione sopra indicata sia stata dovuta ad un’alleanza trasversale tra i deputati democratici afro-americani e di origine caraibica e l’ala più radicalmente anti-tasse del partito repubblicano. I primi hanno ritenuto che la linea dura dell’OCSE si sarebbe tradotta in altre sofferenze per i paesi in via di sviluppo; i secondi che si trattasse “di un complotto globale per aumentare il carico fiscale sulle imprese”. meno (122). Peraltro, alcuni Stati OCSE – tra cui Svizzera, Lussemburgo, Belgio e Portogallo – si sono astenuti al momento dell’approvazione della raccomandazione. Tuttavia, da un lato si è sottolineato che tale atto non è “privo di valore o comunque non riportabile al genere delle attività normative”, producendo comunque, nel caso di spontanea esecuzione della raccomandazione, il c.d. “effetto di liceità” che vale a rendere lecito il comportamento raccomandato anche quando si concreta nella violazione di preesistenti norme internazionali, ad esempio di origine pattizia (123), tra gli Stati membri dell’organizzazione internazionale dalla quale promana tale raccomandazione (124). Dall’altro, va rilevato come la raccomandazione OCSE sui “regimi fiscali preferenziali dannosi” comporti una “autolimitazione” degli Stati membri, che si sono impegnati a non adottare nuove misure (o ad ampliare quelle esistenti) incompatibili con i principi enunciati nella raccomandazione. Dunque, da un lato le eventuali misure adottate nei confronti di regimi fiscali di favore adottati dagli Stati membri potrebbero aggirare eventuali vincoli esistenti sul piano internazionale, in quanto appunto coperte dal c.d. “effetto di liceità”, così giustificando il “treaty overriding” in caso di introduzione di norme antielusive contrastanti con trattati stipulati con Stati membri inclusi nella “black list” (125); dall’altro, dalla “autolimitazione” nasce (122) Vedi ROLLE, Mercato interno e fiscalità diretta nel Trattato di Roma e nelle recenti iniziative della Commissione Europea, in Dir. prat. trib., 1999, III, p. 57 ss. (123) Così CONFORTI, Organizzazione internazionale, in Enc. del novecento, Roma, IV, 1979, p. 960, che cita l’esempio delle raccomandazioni ONU alla rottura delle relazioni commerciali con taluni Stati, la cui esecuzione sarebbe sempre lecita anche se comportante l’inosservanza di trattati bilaterali o multilaterali di commercio; RINOLDI, Atti delle organizzazioni internazionali, in Enc. giur., Roma, III, 1988, p. 17. Vedi anche, con riferimento alla “raccomandazione” di cui all’art. 249 del Trattato CE, MENGOZZI, Istituzioni di diritto comunitario e dell’Unione Europea, Padova, 2003, p. 184; G. STROZZI, Diritto dell’Unione Europea. Parte istituzionale, Torino, 2001, p. 204. p. 189. (124) CONFORTI, Raccomandazione internazionale, in Enc. dir., Milano, XXXVIII, 1987, (125) Tali modifiche opererebbero infatti certamente sul piano interno ove si accogliesse la tesi della “doppia volontà” nella risoluzione delle antinomie tra norma internazionale e norma interna, poiché tale introduzione varrebbe proprio ad indicare la volontà di venir meno agli impegni assunti sul piano internazionale in esecuzione della raccomandazione OCSE. senz’altro un vincolo “politico” alla non introduzione di altre misure dannose e alla eliminazione di quelle esistenti (126). Infine, è interessante notare che contro le prospettate misure di “isolamento” sul piano internazionale, gli Stati terzi considerati “paradisi fiscali” hanno avuto atteggiamenti diversificati, ora raccogliendo la sfida, ora invece adottando un atteggiamento conciliativo, che li ha portati a sottoscrivere delle “dichiarazioni di impegno” (committment letters) per essere espunti dalla lista (127). Ebbene, ci si potrebbe cominciare ad interrogare – e qui chiudo – almeno sulla opportunità (e magari in futuro, ove potrà dirsi formata una consuetudine, sulla legittimità) dell’inclusione nelle “black list” interne di Stati, non ricompresi oppure espunti a livello OCSE dall’elenco dei tax havens, in base a criteri, quale il livello di tassazione generale, il cui disvalore inizia a non essere più riconosciuto come tale nella Comunità internazionale degli Stati. GIUSEPPE MELIS Professore Associato di Diritto Tributario nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi del Molise (126) Si esprime in termini di obbligo “morale”, quale stimolo ad agire in una certa direzione o di astenersi da comportamenti contrastanti con l’interesse generale o con gli obiettivi della comunità, V. GUIZZI, Manuale di diritto e politica dell’Unione Europea, Napoli, 2003, p. 313. Evidenzia D’ALFONSO, Evoluzione delle inchieste OCSE sulla concorrenza fiscale dannosa, in Il Fisco, 2004, 1, p. 5003 ss, come dei 47 regimi fiscali potenzialmente dannosi, 18 siano stati eliminati, 14 modificati in maniera tale da non risultare più dannosi e 13 riscontrati, a seguito di ulteriori analisi, come non dannosi. (127) Vedi MEAZZA, Paradisi in corsa per la trasparenza, in Il Sole 24-Ore, 27 marzo 2002, p. 25 e D’ALFONSO, Evoluzione delle inchieste OCSE sulla concorrenza fiscale dannosa, cit., p. 5006, che riporta il dato per il quale 30 Stati su 35 si sono impegnati formalmente a conseguire a breve maggiore trasparenza e sistemi di scambio di informazioni, mentre alcuni già hanno adottato consistenti modifiche nei loro preesistenti regimi fiscali.