Il sionismo non è l`ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia

Il sionismo non è l'ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE
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NO AL SUPERMAN...ISMO ISRAELIANO
Il sionismo non è l’ebraismo!!! Lettera di Moni
Ovadia a ISRAELE
sabato 5 agosto 2006.
[...] Israele è tutto fuorché un paese «normale». La sua collocazione geografica è
in Medio Oriente ma in questo momento la sua vocazione è occidentale. Per certi
aspetti potrebbe essere uno stato degli Stati Uniti, anche se più di metà della sua
popolazione viene da stati arabi e il 17% di essa è arabo-palestinese. La sua
politica, in grande misura coincide con quella delle amministrazioni americane.
[...]
Lettera di un ebreo a Israele di Moni Ovadia *
Yad Vashem è il museo dell’Olocausto di Gerusalemme, il sacrario della Shoah, ma per gli
israeliani è ben altro che questo. Quel luogo è per molti aspetti, il topos del senso stesso
dell’esistenza di Israele come stato ebraico. Ogni cittadino, ogni fanciullo, ogni soldato, si
reca in pellegrinaggio in quel luogo per assumere il pieno statuto identitario di ebreo
israeliano. Ogni persona, dal semplice turista o viaggiatore, al più illustre politico in visita in
Israele, quale che sia la ragione della sua presenza, sa che ha il dovere di rendere omaggio
alle vittime dello sterminio nazista recandosi a Yad Vashem.
Con quel solenne pellegrinaggio, il visitatore riconosce il suggello con cui lo stato d’Israele
assume su di sé un’intera eredità. Per un grandissimo numero di ebrei che si riconoscono
nelle istituzioni ufficiali, Israele diviene acriticamente e senza mediazioni, passato, presente
e futuro. Per essi la diaspora perde significato in sé per divenire appendice di un ritorno in
pectore anche se procrastinato sine die. Di fatto, essi si sentono israeliani in standby.
Le recenti drammatiche vicende mediorientali, richiedono una rimessa in questione di questi
assetti israelo-ebraici e delle dinamiche psicologico-culturali che vi sottostanno. Il
movimento sionista ha avuto fra i suoi obbiettivi primari quello di normalizzare gli ebrei,
collocandoli in una terra con la quale avevano un’antico legame e facendone un popolo come
gli altri. Quando il primo ebreo fu arrestato per furto e messo in prigione nella neonata entità
statuale ebraica, il padre fondatore e primo capo del governo, David Ben Gurion, esultò:
«Siamo un paese normale!». Mai affermazione fu più rovinosamente scentrata. Israele è
tutto fuorché un paese «normale». La sua collocazione geografica è in Medio Oriente ma in
questo momento la sua vocazione è occidentale. Per certi aspetti potrebbe essere uno stato
degli Stati Uniti, anche se più di metà della sua popolazione viene da stati arabi e il 17% di
essa è arabo-palestinese. La sua politica, in grande misura coincide con quella delle
amministrazioni americane. È stato fondato da scampati alle persecuzioni antisemite zariste
e degli stati autoritari centro-orientali e da sopravvissuti alla Shoà, ha piena dunque titolarità
a quella eredità, ma gli ebrei sterminati dai nazisti erano quanto c’è di più lontano da quello
che è oggi l’ebreo israeliano. Quelli parlavano lo yiddish ed erano a proprio agio in molte
altre lingue, vivevano a cavallo dei confini, erano cosmopoliti, ubiqui, inquieti, refrattari alle
logiche militari, poco interessati, quando non ostili ai nazionalismi, erano smunti, fragili,
dediti allo studio, alle professioni liberali, intellettuali, al piccolo o grande commercio,
appartenevano alla categoria dei paria perseguitati emarginati, erano dalla parte degli
sconfitti. L’israeliano delle nuove generazioni si esprime in ebraico moderno, una lingua
costruita desantificando l’ebraico biblico e piegandolo alle esigenze di una nazione e la sua
seconda lingua è l’inglese.
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L’israeliano sta con i vincitori, è forte, determinato, orgogliosamente nazionale, militarmente
molto preparato, capace di essere agricoltore e soldato quanto intellettuale e tecnico, ma
anche taxista, ingegnere, negoziante o impiegato, operaio e persino occupante e poliziotto di
un altro popolo, cosa inconcepibile per un ebreo della diaspora che subì lo sterminio.
Oggi, che nuovamente un leader fanatico di un paese islamico chiede la cancellazione dello
stato sionista dalla carta geografica, in Israele e nella diaspora, si evoca il legame con la Shoà
in modo univoco e schematico quasi a volere stabilire un parallelo inaccettabile con il ghetto
di Varsavia. Ma ancorché Israele viva in stato di grande difficoltà e subisca il terrorismo e
l’aggressione di Hezbollah sulla carne della propria gente, pensare di rappresentare la tragica
eredità dello sterminio solo con un modello rigido per giustificare l’uso indiscriminato della
propria soverchia forza militare e radere al suolo intere città provocando quasi
esclusivamente morti civili, è scambiare etica per propaganda.
Se Israele vuole assumere l’eredità di quell’ebraismo ridotto in cenere, deve assumerne la
piena eredità morale, cessare di vessare ed imprigionare un altro popolo, diventare più
piccolo, molto più democratico, abbandonare la mistica della potenza, diventare leader del
processo di pace ed assumere la funzione di ponte fra occidente e Medio Oriente.
* www.unita.it, Pubblicato il 05.08.06
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18 novembre 2006, di Federico La Sala [mailto:[email protected]]
Le parole di Grossman e il coraggio della pace
di Moni Ovadia *
Ho aderito alla manifestazione per la pace che si terrà oggi a Milano e vi
parteciperò personalmente. Le mie ragioni, nell’ordine, sono queste: fine
dell’occupazione e della colonizzazione delle terre palestinesi, compresa
Gerusalemme est, concordata nei tempi e nei modi dalle due parti con pari dignità e
sotto l’egida delle istituzioni della comunità internazionale, cessazione delle ostilità
in ogni forma, garantita dall’interposizione di una forza di pace sotto le bandiere
dell’Onu, trattativa con tutte le parti in causa del conflitto medio orientale nel
quadro di una conferenza internazionale, creazione dello Stato Palestinese con
massicci investimenti culturali, sociali ed economico-finanziari per riattivare il
circuito virtuoso dello sviluppo, pace definitiva nel quadro della riconosciuta
esistenza e piena sicurezza di ogni paese dell’area.
Ritengo che questo sia l’ordine logico in cui procedere. Non è sensato chiedere alla
dirigenza sotto assedio o in prigione, di un popolo ridotto in condizioni disperate, che
vive sotto occupazione, colonizzato ed imprigionato, di assumersi responsabilità
definitive. Ma se qualcuno sapesse arrivare agli stessi risultati per altre vie
riceverebbe ugualmente la mia approvazione e, verosimilmente, quella di quanti in
tutto il mondo si battono per vedere la fine dello spargimento di sangue, delle
violenze e dell’ingiustizia, in quelle terre martoriate. Fatta questa premessa, è
molto importante a mio parere fare chiarezza su alcuni punti chiave. Se qualcuno
intende trasformare questa occasione in una dimostrazione contro Israele tout court,
mi dissocerò da chiunque lo faccia.
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Io manifesto aspramente contro la politica del governo israeliano, non contro lo Stato
d’Israele e tanto meno contro il suo popolo. Ripudio sin d’ora qualsiasi forma di
violenza, pratica o simbolica, tipo il rogo delle bandiere, che trovo stupida, indegna,
controproducente, figlia di una logica narcisistica e non politica. Non mi farò tuttavia
intimidire dalle eventuali reprimende o criminalizzazioni di chi strumentalizza i gesti
violenti per liquidare un intero movimento e continuerò con tutte le mie forze a
sostenere le ragioni della pace. Sarò con i suoi stendardi
come essere umano universale,
come cittadino italiano e
come ebreo.
Come essere umano universale perché la pace è la più grande delle benedizioni che
l’umanità possa ricevere, come cittadino italiano in piena sintonia con la nostra
mirabile Costituzione ed in questo momento con l’ottima azione diplomatica del
nostro governo rappresentato egregiamente dal ministro degli Esteri Massimo
D’Alema, di D’Alema condivido anche la sollecitazione rivolta agli ebrei democratici
ad unirsi all’appello dello scrittore israeliano David Grossman e trovo le critiche
rivoltegli da molti esponenti della comunità ebraica ingenerose e surrettizie, segno di
una iper reattività immotivata e un po’ sterile. Come ebreo sfilerò perché l’amore
per l’altro e particolarmente per lo straniero è l’humus fondante di tutta l’etica che
promana dalla Torah e perché, senza l’afflato universalista e la passione per
l’accoglimento dell’alterità nelle forme più alte della giustizia, l’intero ebraismo
regredisce ad un pensiero tribale.
La pace è l’imperativo categorico che fa uscire il nostro simile dalle tenebre del non
uomo, la pace in Medio Oriente unisce ai valori intrinseci propri di ogni pace un
significato simbolico dirompente di cui oggi abbiamo grande bisogno per riprendere il
cammino a fianco dei nostri fratelli dell’Islam.
* www.unita.it, Pubblicato il: 18.11.06 Modificato il: 18.11.06 alle ore 10.44
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9 agosto 2006, di federico la sala [mailto:[email protected]]
Due interventi: Rossanda, La paura dell’altro; Dominijanni, Ribaltare la Shoah? (il
manifesto, 08.08.2006)
La paura dell’altro di Rossana Rossanda
Condivido la collera di Angelo d’Orsi verso chi accusa di antisemitismo ogni critica
alle scelte del governo israeliano. Non succede nei confronti di nessun altro paese.
Non era neanche mai successo prima degli anni ’70. Né l’accusa ci viene da parte di
chi ha sofferto di persona delle leggi razziali e delle deportazioni, se è scampato ai
campi di sterminio. Penso che ci sia voluta la guerra dei sei giorni e un vero e proprio
cambio generazionale, più ancora che qualche scivolata dell’estrema sinistra degli
anni ’70, nello scordare la tragica percezione di sé da parte degli ebrei; sono episodi
che si contano sulle dita d’una mano. Mentre non è accettabile il sospetto che alcuni
nuovi esponenti della comunità ebraica gettano di continuo su ogni parola detta dalla
sinistra che non approva né l’occupazione dei territori, né l’unilateralismo dei ritiri e
dei muri, né la guerra al Libano, mentre aprono con entusiasmo le porte agli eredi
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della destra, fascisti inclusi.
D’Orsi ha ragione anche nell’infastidirsi del silenzio con il quale lasciamo passare
queste accuse, come se avessimo da vergognarci di qualcosa, noi, i soli che si sono
battuti assieme agli ebrei. Se il movimento operaio e comunista è stato alle origini
antisionista lo è stato per motivi opposti alla discriminazione, perché riteneva ogni
questione nazionale secondaria rispetto al battere il capitale. Ma così pensavano
anche Rosa Luxemburg e ai suoi amici tedeschi, i molti ebrei del Bund polacco, quelli
che facevano parte del gruppo dirigente leninista e perfino staliniano fino al
dopoguerra. Antisionismo e antisemitismo non sono stati affatto la stessa cosa.
Quanto all’Italia, se le leggi razziali passarono senza vere proteste degli antifascisti,
era perché non si potevano esprimere. L’antifascismo poi unificò tutti; la mia
generazione è venuta su, se mai, con la ripugnanza a distinguere fra religioni ed
etnie, la rivalutazione delle differenze le è estranea, il che le viene, se mai,
rimproverato. Ha colpito quelli come me il bisogno di tornare alle proprie radici dopo
la sconfitta del 1968, che era stato forse approssimativamente universalista.
Accresciuto in molti giovani dalla percezione di essere sopravvissuti al destino dei
loro genitori o nonni . Per chi andava in cerca delle radici c’era nell’ebraismo un
grande «in più», la scoperta d’una tradizione sapienziale che dette a molti una nuova
dimensione del vivere.
Risalgo negli anni perché se l’accusa di antisemitismo è tutto sommato stupida, mi
sembra oggi tessuta in una vicenda assai più grande e sofferente che non siano gli
strepiti d’un Giuliano Ferrara. C’è nella coscienza di Israele il senso d’un eterno
essere in pericolo cui non sa rispondere che con la forza delle armi, la guerra
preventiva e la protezione degli Stati Uniti, compiendo un errore fatale verso i paesi
che la circondano.
Angelo d’Orsi parla della lettera d’una giovane libanese, io ho sotto gli occhi quasi
con le stesse parole nell’email d’una giovane e a me assai cara israeliana, e tutte e
due hanno paura l’una del paese dell’altra. Sono giovani, nate là, e poco sanno di
come si sia arrivati a questa ultima tragedia. La libanese ha sperimentato la crudele
invasione israeliana, e poi l’occupazione siriana ed è terrorizzata dall’offensiva di
Israele condotta fuori di ogni regola di guerra, con un’enormità di distruzioni e
vittime civili, che viene detta contro gli Hezbollah e colpisce lei fra i libanesi, e non
viene fermata da nessuno. La israeliana ha alle spalle secoli di negazioni e
sofferenze, arrivate fino alla Shoah, ha imparato a scuola che gli arabi che
circondano il suo paese non ne hanno mai accettato l’esistenza, dall’Iran con Israele
confina ed è infinitamente più grande, Ahmadjnejad contiua a ripeterglielo, alcuni
suoi amici sono morti per l’attacco dei kamikaze palestinesi e lei ha contato
nell’ultimo mese i missili di Hezbollah.
Nessuna delle due donne riesce a figurarsi l’altra. Sono terrorizzate. Lo stesso
pensano in Israele gli amici di Peace Now e uomini che ammiriamo come Yehoshua,
Grossmann e perfino Amos Oz: pensano che «stavolta la guerra è giusta» - anche se
gli pare che come «ammonimento al popolo libanese basti». Intanto quella del 1967
era finita in sei giorni, mentre adesso gli Hezbollah tengono testa da oltre tre
settimane a uno degli eserciti più preparati del mondo. Va a spiegare la spirale degli
avvenimenti e il meccanismo delle rappresaglie all’una e all’altra. Va a far capire
alla mia giovane amica israeliana che Israele occupa la Palestina da quasi quaranta
anni e ha fatto dei giovani di quel popolo, il più colto e laico del Medioriente, che
non sono mai stati un giorno liberi, seguaci di un fondamentalismo che ne esprime la
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collera. Va a farle capire che anche l’arabismo è ormai vittima di un
fondamentalismo che apparteneva solo a minuscoli gruppi, prima che la politica del
suo paese in Palestina, e poi quella americana in Afganistan e poi l’invasione
dell’Afganistan e poi dell’Iraq lo moltiplicasse, così come l’attuale guerra
moltiplicherà gli Hezbollah. Va a farle capire che questi prima del 1982 non
esistevano. Né i kamikaze durante la prima Intifada. Va a persuaderla che
l’accettazione da parte israeliana di uno stato palestinese avrebbe da decenni
staccato la spina che avvelena il Medio Oriente, e fatto dimenticare che Israele vi è
stato installato a forza dalle potenze occidentali per garantire in qualche modo gli
ebrei da una nuova Shoah di cui noi, l’Europa, eravamo soli colpevoli. Installato in un
mondo che della Shoah nulla era tenuto a sapere e tanto meno di una terra promessa
qualche migliaio di anni fa a sconosciuti da un Dio sconosciuto. E dalla quale
venivano cacciati coloro che per duemila anni vi avevano lavorato. Va a farle capire
oggi che la giovane Israele doveva vincere la diffidenza dei vicini, o almeno dopo la
guerra dei sei giorni stare a quelle risoluzioni dell’Onu che adesso invoca contro i
libanesi.
Qualche settimana fa Luciana Castellina scriveva su queste colonne: Io ho paura per
Israele. Io non ho paura per la sua esistenza, noi tutti la difenderemmo a ogni costo.
Ho paura delle sofferenze che Israele impone e si impone in una spirale di errori. Mi
fa impressione il colono che dice rassegnato: «Ebbene, se Israele deve vivere grazie
alla spada, viva con la spada», ma mi riempie di collera Claude Lanzmann, quello del
film sulla Shoah, che protesta su Le Monde perché Israele è stata accusata di
esagerare in Libano. Come, Israele non esagera, non può esagerare, il sangue fatto
versare agli ebrei non sarà mai abbastanza compensato da altro sangue - gli ebrei
sono stati colpiti in modo che il loro paese ha tutti i diritti e nessun dovere verso gli
altri. Sono parole dementi come quelle del presidente iraniano, il reciproco l’una
dell’altra. Ma il premier Olmert le sta praticando. E come Sharon non si accorge non
solo dell’odio che si tira addosso, ma dell’errore strategico che fa. Rabin è stato
ammazzato e dimenticato.
Di questa sciagurata spirale l’agitazione di parte della comunità ebraica italiana è un
frammento derisorio. Ma è vero - ha ragione d’Orsi - che dovremmo smettere di stare
in silenzio perché la matassa è complicata e ancora recente la perdita di innocenza
del nostro paese. La posta in gioco è troppo alta, il pericolo troppo bruciante, il
ricatto troppo stupido. Bisogna dirlo alto e forte che il governo di Israele sbaglia. Che
si deve fermare. Che l’amministrazione americana è il suo più pericoloso alleato e
consigliere. Che la comunità internazionale è stata finora troppo corriva. E che se c’è
una discontinuità che urge per il centrosinistra al governo è questa. Se ne faccia
carico.
Ribaltare la Shoah? di Ida Dominijanni
Sottrarsi al ricatto della Shoah e dare voce a un grido liberatorio contro la politica di
Israele: sul manifesto del 3 agosto e su Liberazione del 4 Angelo d’Orsi propone
questa sorta di «programma minimo» per la sinistra - intellettuali, politici, giornali e
comuni mortali in grado di sottrarsi al «chiacchiericcio opinionistico» che ci martella
con la sicurezza di Israele e in nome della Shoah giustifica la sua aggressività in
Medioriente, la sua pulizia etnica verso i palestinesi e la sua arroganza verso l’Onu. A
costo di alimentare il chiacchiericcio, mi permetto di dissentire fermamente. Prima
che sul merito, su una pratica intellettuale che perimetra la sinistra coi picchetti,
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gerarchizza intellettuali e senso comune, identifica verità e razionalità senza nulla
apprendere dallo scacco della ragione in cui sulla questione mediorientale tutti,
intellettuali e ordinary people, siamo presi e persi.
Sulla Shoah e sull’antisemitismo «scientifico» novecentesco che portò alla macchina
dello sterminio di Hitler, molti intellettuali di sinistra, argomenta d’Orsi, hanno le
carte in regola e le credenziali in ordine: energie, saggi, volumi dedicati a
analizzare, condannare, combattere. Insomma: abbiamo dato. Basta questo per
sentircene affrancati? Basta per decidere che siamo in un’altra epoca e in un mondo
rovesciato, in cui «le vittime si sono trasformate in carnefici» e le energie, l’analisi,
la denuncia e la condanna vanno spostati tutte e solo dall’altra parte? Tutte e solo,
sottolineo. Perché è ovvio che su molti degli argomenti di d’Orsi siamo d’accordo:
sull’aggressività e la cecità strategica della politica di Israele; sulla cecità politica
della comunità israelitica italiana; sull’uso a dir poco strumentale della Shoah da
parte della destra e dei giornali di destra (e non solo) italiani. Ribaltando lo schema
retorico di d’Orsi verrebbe però da dire: non abbiamo già denunciato più e più volte
tutto questo su questo giornale (e altrove)? Non abbiamo anche qui le carte in regola
e le credenziali in ordine? E dunque in che dovrebbe consistere quell’appello a
sottrarsi al ricatto della Shoah che d’Orsi ci rivolge, e da quale spostamento
dovrebbe sgorgare quell’ulteriore grido d’indignazione che ci chiede di lanciare?
Temo che la chiave stia in quel presunto ribaltamento delle vittime in carnefici, che
domanderebbe e autorizzerebbe il ribaltamento di cui sopra dell’epoca, del mondo,
delle ragioni e dei torti. Con due conseguenze nefaste. La prima è lo schiacciamento
- antisemita e antidemocratico - del popolo ebreo sul governo israeliano,
schiacciamento speculare all’integralismo che d’Orsi denuncia nello stato di Israele.
La seconda è la valutazione delle poste in gioco in Medioriente che ne consegue. Se
le vittime si sono trasformate in carnefici, il conto è facile: tutti i torti a Israele,
tutte le ragioni ai palestinesi e al Libano. Ma è così? Davvero, fermo restando il
giudizio sulla politica israeliana, non c’è anche il problema del riconoscimento e
della sicurezza di Israele? Davvero, fermo restando il giudizio sulla deriva integralista
di Israele, non c’è anche il problema del fondamentalismo di Hamas e Hezbollah?
Davvero su Hamas e Hezbollah possiamo farci scudo della religione democratica e
della fede nella legittimazione elettorale, o non è piuttosto la fede democratica a
essere scossa dalla legittimazione elettorale di Hamas e Hezbollah? Davvero l’11
settembre e la guerra in Iraq non ci obbligano a guardare al Medioriente con lenti
modificate? La tragedia mediorientale non sta in un ribaltamento dei torti e delle
ragioni: sta in una loro, spesso indecidibile, complicazione. Lo scacco della ragione
sta qui, e brucia le migliori carte e le migliori credenziali.
Qual è l’eredità della Shoah in gioco nella discussione pubblica sul Medioriente, e per
chi gioca? L’ha scritto domenica Sveva Haertter su queste pagine: la Shoah ha colpito
il popolo ebraico ma pesa su tutta l’umanità. E’ un crimine dell’umanità contro
l’umanità: nella sua memoria non ne va solo del destino delle sue vittime, ma della
colpa europea. Non ne va solo dell’antisemitismo novecentesco, ma di qualsivoglia
biopolitica che faccia tutt’uno di una razza, una religione e uno stato. Non abbiamo
svoltato pagina in un hegeliano e razionale ribaltamento del secolo e delle ragioni:
quella pagina si sta tragicamente e irrazionalmente riaffacciando, per fortuna senza
la macchina hitleriana dello sterminio, per disgrazia in più punti del mondo e su tutti
i fronti del micro-mondo mediorientale. La sua memoria non parla a una parte o
all’altra: parla a ciascuna e a noi spettatori, o tace per tutti.
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6 agosto 2006, di Federico La Sala [mailto:[email protected]]
Il sonno dogmatico
di Barbara Spinelli (La Stampa, 6/8/2006)
Gli israeliani lo sperimentano sulla propria pelle ogni giorno, da quando il 12 luglio si
son trovati nell’obbligo di rispondere a un attacco Hezbollah che non ha più come
scusa i territori occupati, ma è un’aggressione che minaccia esistenzialmente Israele
ed è al contempo laboratorio di uno scontro Iran-Usa: in questa guerra libanese sono
in realtà soli, nonostante le attestazioni solidali che vengono da Bush e Blair. Non si
sentono rassicurati neppure dall’accordo, ambiguo, che si delinea fra Parigi e
Washington al Consiglio di sicurezza Onu. Quella congerie di stati cui viene dato il
nome falso di comunità internazionale si agita, domanda la «piena cessazione di
ostilità», ma non osa chiedere che essa sia «immediata» e simultanea.
Nell’immediato devono cessare gli attacchi Hezbollah e le operazioni offensive
israeliane: una formula che consente a Israele di restare in Libano per operazioni
difensive, ma che non gli risparmierà aggressioni. Difficilmente infatti Hezbollah non sconfitto - accetterà la tregua. Alcuni governi europei son pronti a schierare
soldati per aiutare l’esercito libanese a conquistare il monopolio della violenza ai
confini meridionali, ma è improbabile che intervengano finché la tregua sarà
ambigua: un’ambiguità cui l’amministrazione Usa non sembra rinunciare.
Quel che Bush desidera è la continuazione della guerra contro Hezbollah, fatta da
Israele o da altri: gli strumenti impiegati possono cambiare ma non l’obiettivo, e
l’obiettivo è una guerra-test con l’Iran, con la Siria, per interposte persone. È come
se l’amministrazione volesse proprio quello che sta accadendo: lo stato d’Israele
sprofondato in un conflitto che sta perdendo, il Libano che è stato scardinato e
offeso, l’Iran e la Siria che manovrando Hezbollah son divenuti attori di primo piano
in Medio Oriente e nell’Islam, e in quanto tali vengono messi in guardia e minacciati.
Poi c’è il conflitto in Iraq, da cui l’odierna catastrofe discende e che il Libano ha
obnubilato: anche qui, è forte l’impressione di un voluto ampliamento dei disastri.
Ogni giorno muoiono 100 civili in Iraq, ma è la guerra in Libano che occupa le prime
pagine dei giornali. In America, lo spazio televisivo dedicato a Baghdad è caduto del
60 per cento fra il 2003 e questa primavera. Una manna, per il governo americano:
fin quando dura la piaga libanese, Washington non dovrà rispondere del caos
suscitato - tramite Iraq - in Medio Oriente e nel mondo.
Non son pochi gli israeliani che cominciano a intuire il terribile ingranaggio in cui
rischiano di restar impigliati: un ingranaggio che fa del loro Paese il tassello della
strategia Usa di esportazione della democrazia e di mondiale guerra antiterrorista, e
che ha finito col debilitare Israele anziché proteggerlo. Una strategia che ha tutta
l’aria di trattare Israele come un mezzo, non un fine come Bush pretendeva. Lo
storico Tom Segev s’indigna sulle colonne di Haaretz, denunciando una politica
americana che lascia solo Israele, che lo aizza in guerre perdenti, che ha perduto
ogni autorità nel mondo. Daniel Levy che ha partecipato a numerosi negoziati di pace
(Oslo, Taba, accordi di Ginevra) scrive che Israele non può continuare a subire una
linea dettata fin dal ’96 da neoconservatori come Richard Perle e Douglas Feith
(Haaretz 4-8-06). E ricostruisce quella linea, che i neocon suggerirono all’allora
Premier Netanyahu e che aveva come scopo la fine delle trattative di pace e una
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rivoluzione nei rapporti tra Israele e Usa. Oggi, essi adoperano la guerra libanese per
rifarsi della bancarotta irachena.
Molti (Tom Segev, Avi Schlaim sull’Herald Tribune) sostengono che l’America non
aiuta più Israele, dal momento che l’aizza invece di disciplinarlo: «Mai nella nostra
storia è accaduto che Washington ci spronasse così poco all’autocontrollo», scrive
Schlaim, ed è il motivo per cui gli Stati Uniti «sono ormai parte del problema e non
della sua soluzione». Segev sospetta che le modalità della guerra libanese nascano da
un coordinamento con Washington e ricalchino il modello Iraq, con effetti perniciosi:
anche questa guerra sembrava facilissima, anch’essa era tassello d’una vasta lotta
contro l’asse del male, e la degenerazione insidia anche lei. Uscire dall’Asse del
Bene, ritrovare la realtà di questioni e guerre che hanno origini locali: è questa
l’opportunità, per i critici dell’America in Israele, di uscire dal sonno dogmatico che
l’alleanza esclusiva con Washington impone agli israeliani.
Il sonno dogmatico sacrifica l’esperienza, sull’altare di concetti generali e
globalizzanti; non vede il particolare, dunque il reale. Secondo Levy, questo è il vizio
dei neoconservatori che da un decennio propugnano un Nuovo Medio Oriente, una
rottura netta con le passate politiche israeliane (così s’intitola il documento del ’96,
A Clean Break). Il loro obiettivo: spingere i governi israeliani ad abbandonare la
strategia di restituzione dei territori; incitarli a regolare i conti con Siria, Iran,
Autorità palestinese; convincerli a cercare un’autosufficienza che spezzi le pratiche
del contenimento e della cooperazione internazionale tornando ai vecchi equilibri di
potenza. La cosa più esiziale è stata quando questa visione s’è intrecciata con quella
degli evangelicali, in cui Bush si riconosce. Gli evangelicali americani sono
filo-israeliani solo in apparenza. Nei loro affreschi messianici la nazione ebraica deve
disporre di territori possibilmente vasti, per poter accogliere il secondo avvento di
Cristo. Un avvento non promettente per gli ebrei: nei Tempi Finali Israele sarà
convertito, distrutto. Anche per gli evangelicali Israele è un mezzo, non un fine.
Chi aspira all’uscita dal sonno dogmatico chiede passi politici sostanziali anche se
scabrosi, per il Libano. Chiede che si negozi col nemico (fu Rabin a dirlo, dopo gli
accordi di Oslo nel ’93: «Con chi dobbiamo negoziare, se non con il nemico? La pace
non si fa con gli amici!»). Chiede il ritorno alla diplomazia, alla restituzione delle
terre, e se la guerra è necessaria: che sia la continuazione di una politica, non di una
non-politica. L’uso americano d’Israele è un male che può rivelarsi grande, ed è la
ragione per cui Segev e altri sperano disperatamente nell’Europa: «La spinta su
Israele perché eserciti autocontrollo non viene più da Washington, ma dagli europei».
Il senso delle realtà locali sono gli europei ad averlo. Bisogna negoziare con Iran, con
Siria: gli europei ne sono convinti e sapranno farlo. La maniera in cui Israele viene
adoperato (come non-persona) è utile a tutti coloro che si sentono orfani di lotte
ideologiche fra bene e male, fra destra e sinistra. Israele è pedina dispensabile, in
quest’ordine del giorno interamente occidentale.
«Anche se l’America conquistasse l’Iran, a Israele resterà pur sempre l’obbligo di
vivere accanto ai palestinesi», spiega Segev. Il che vuol dire: Israele deve capire di
cosa è fatto l’odio Hezbollah in Libano, deve distinguerlo da quello di Hamas nelle
terre occupate, deve tener conto che la Siria reclama con ragione la restituzione
delle alture del Golan. Hezbollah è una malattia difficilmente estirpabile perché non
è solo una cellula terrorista: in Libano è al governo e ha un’agenda politica, si occupa
di sanità e scuola in regioni povere, è profondamente scontento per come gli sciiti
sono emarginati, nonostante l’alta loro forza demografica (40-50 per cento della
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Il sionismo non è l'ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE
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http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1082
popolazione. Gli equilibri attuali si basano sul censimento del 1932, che premiava
sunniti e cristiani). Secondo Robert Pape, studioso di terrorismo a Chicago, il partito
di Dio è proteiforme, raccoglie tutti coloro che hanno combattuto i 18 anni
d’occupazione israeliana. Nel suo libro sul terrorismo, ha studiato da vicino il profilo
di 38 Hezbollah kamikaze: «Ho scoperto che solo 8 erano fondamentalisti islamici. 27
appartenevano a gruppi di sinistra (Partito comunista, Unione socialista araba), 3
erano cristiani, tutti erano libanesi» (New York Times 3-8-06. Il libro s’intitola: Dying
to Win - Morire per Vincere, Usa 2005):
Studiare più da vicino e non da lontano: uscire dai sonni dogmatici comincia così,
aiutando davvero Israele. Ed è significativo che siano studiosi di terrorismo come
Pappe a mostrare la strada. O come Jessica Stern, che suggerisce di non mescolare
Iraq e Libano, guerra globale anti-terrore e guerre locali: «Gli errori fatti su un
fronte guastano l’efficacia nell’altro, anche perché gli eventi (Guantanamo, Abu
Ghraib, Cana) vengono filmati, confermando l’idea che l’Occidente stia combattendo
una guerra contro l’Islam» (The Boston Globe, 1-8-06). Da questo punto di vista,
scrive Stern, i terroristi hanno vinto. Il Gihàd è divenuto una «moda globale», non
diversa dai violenti ritmi del gangsta rap: si nutre di bambini morti, di risentimento,
pervadendo le zone di conflitto come le città d’Occidente. Ignorare questi pericoli è
sonno dogmatico.
Lo dice Thomas Friedman, che approvò la guerra in Iraq e ora invita a riconoscerne il
fiasco. Essa ha moltiplicato il terrorismo, ha irrobustito l’Iran suscitando negli sciiti
una sete di rivincita mondiale, e ha lasciato solo Israele. Dunque oggi non resta che
trattare con l’Iran oltre che con la Siria, «così come la Casa Bianca trattò nel 2003
con la Libia» (New York Times 2-8-06). Non si può ottenere da Ahmadinejad la
rinuncia all’atomica, e al tempo stesso tenere l’Iran sotto tiro. Bisogna dargli precise
garanzie di sicurezza, simili a quelle date a Gheddafi. Bisogna instaurare con Teheran
una guerra fredda, fondata sul suo contenimento anziché sul suo arretramento
forzato (roll-back). Si dirà che il comunismo sovietico non colpiva come oggi vengon
colpiti Israele e Occidente. Ma l’Urss non aggrediva alla maniera di Hezbollah perché
contenimento e dissuasione avevano funzionato, non perché esistessero buone
condotte da premiare. È questa dissuasione che oggi non funziona e per questo
Washington barcolla come un ubriaco, fra la brama di abbattere regimi avversari e il
desiderio - limitato ma più praticabile - di modificare i loro comportamenti.
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