Il sionismo non è l'ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE 1 di 9 http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1082 NO AL SUPERMAN...ISMO ISRAELIANO Il sionismo non è l’ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE sabato 5 agosto 2006. [...] Israele è tutto fuorché un paese «normale». La sua collocazione geografica è in Medio Oriente ma in questo momento la sua vocazione è occidentale. Per certi aspetti potrebbe essere uno stato degli Stati Uniti, anche se più di metà della sua popolazione viene da stati arabi e il 17% di essa è arabo-palestinese. La sua politica, in grande misura coincide con quella delle amministrazioni americane. [...] Lettera di un ebreo a Israele di Moni Ovadia * Yad Vashem è il museo dell’Olocausto di Gerusalemme, il sacrario della Shoah, ma per gli israeliani è ben altro che questo. Quel luogo è per molti aspetti, il topos del senso stesso dell’esistenza di Israele come stato ebraico. Ogni cittadino, ogni fanciullo, ogni soldato, si reca in pellegrinaggio in quel luogo per assumere il pieno statuto identitario di ebreo israeliano. Ogni persona, dal semplice turista o viaggiatore, al più illustre politico in visita in Israele, quale che sia la ragione della sua presenza, sa che ha il dovere di rendere omaggio alle vittime dello sterminio nazista recandosi a Yad Vashem. Con quel solenne pellegrinaggio, il visitatore riconosce il suggello con cui lo stato d’Israele assume su di sé un’intera eredità. Per un grandissimo numero di ebrei che si riconoscono nelle istituzioni ufficiali, Israele diviene acriticamente e senza mediazioni, passato, presente e futuro. Per essi la diaspora perde significato in sé per divenire appendice di un ritorno in pectore anche se procrastinato sine die. Di fatto, essi si sentono israeliani in standby. Le recenti drammatiche vicende mediorientali, richiedono una rimessa in questione di questi assetti israelo-ebraici e delle dinamiche psicologico-culturali che vi sottostanno. Il movimento sionista ha avuto fra i suoi obbiettivi primari quello di normalizzare gli ebrei, collocandoli in una terra con la quale avevano un’antico legame e facendone un popolo come gli altri. Quando il primo ebreo fu arrestato per furto e messo in prigione nella neonata entità statuale ebraica, il padre fondatore e primo capo del governo, David Ben Gurion, esultò: «Siamo un paese normale!». Mai affermazione fu più rovinosamente scentrata. Israele è tutto fuorché un paese «normale». La sua collocazione geografica è in Medio Oriente ma in questo momento la sua vocazione è occidentale. Per certi aspetti potrebbe essere uno stato degli Stati Uniti, anche se più di metà della sua popolazione viene da stati arabi e il 17% di essa è arabo-palestinese. La sua politica, in grande misura coincide con quella delle amministrazioni americane. È stato fondato da scampati alle persecuzioni antisemite zariste e degli stati autoritari centro-orientali e da sopravvissuti alla Shoà, ha piena dunque titolarità a quella eredità, ma gli ebrei sterminati dai nazisti erano quanto c’è di più lontano da quello che è oggi l’ebreo israeliano. Quelli parlavano lo yiddish ed erano a proprio agio in molte altre lingue, vivevano a cavallo dei confini, erano cosmopoliti, ubiqui, inquieti, refrattari alle logiche militari, poco interessati, quando non ostili ai nazionalismi, erano smunti, fragili, dediti allo studio, alle professioni liberali, intellettuali, al piccolo o grande commercio, appartenevano alla categoria dei paria perseguitati emarginati, erano dalla parte degli sconfitti. L’israeliano delle nuove generazioni si esprime in ebraico moderno, una lingua costruita desantificando l’ebraico biblico e piegandolo alle esigenze di una nazione e la sua seconda lingua è l’inglese. 03/01/2007 13.46 Il sionismo non è l'ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE 2 di 9 http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1082 L’israeliano sta con i vincitori, è forte, determinato, orgogliosamente nazionale, militarmente molto preparato, capace di essere agricoltore e soldato quanto intellettuale e tecnico, ma anche taxista, ingegnere, negoziante o impiegato, operaio e persino occupante e poliziotto di un altro popolo, cosa inconcepibile per un ebreo della diaspora che subì lo sterminio. Oggi, che nuovamente un leader fanatico di un paese islamico chiede la cancellazione dello stato sionista dalla carta geografica, in Israele e nella diaspora, si evoca il legame con la Shoà in modo univoco e schematico quasi a volere stabilire un parallelo inaccettabile con il ghetto di Varsavia. Ma ancorché Israele viva in stato di grande difficoltà e subisca il terrorismo e l’aggressione di Hezbollah sulla carne della propria gente, pensare di rappresentare la tragica eredità dello sterminio solo con un modello rigido per giustificare l’uso indiscriminato della propria soverchia forza militare e radere al suolo intere città provocando quasi esclusivamente morti civili, è scambiare etica per propaganda. Se Israele vuole assumere l’eredità di quell’ebraismo ridotto in cenere, deve assumerne la piena eredità morale, cessare di vessare ed imprigionare un altro popolo, diventare più piccolo, molto più democratico, abbandonare la mistica della potenza, diventare leader del processo di pace ed assumere la funzione di ponte fra occidente e Medio Oriente. * www.unita.it, Pubblicato il 05.08.06 [] > Il sionismo non è l’ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE 18 novembre 2006, di Federico La Sala [mailto:[email protected]] Le parole di Grossman e il coraggio della pace di Moni Ovadia * Ho aderito alla manifestazione per la pace che si terrà oggi a Milano e vi parteciperò personalmente. Le mie ragioni, nell’ordine, sono queste: fine dell’occupazione e della colonizzazione delle terre palestinesi, compresa Gerusalemme est, concordata nei tempi e nei modi dalle due parti con pari dignità e sotto l’egida delle istituzioni della comunità internazionale, cessazione delle ostilità in ogni forma, garantita dall’interposizione di una forza di pace sotto le bandiere dell’Onu, trattativa con tutte le parti in causa del conflitto medio orientale nel quadro di una conferenza internazionale, creazione dello Stato Palestinese con massicci investimenti culturali, sociali ed economico-finanziari per riattivare il circuito virtuoso dello sviluppo, pace definitiva nel quadro della riconosciuta esistenza e piena sicurezza di ogni paese dell’area. Ritengo che questo sia l’ordine logico in cui procedere. Non è sensato chiedere alla dirigenza sotto assedio o in prigione, di un popolo ridotto in condizioni disperate, che vive sotto occupazione, colonizzato ed imprigionato, di assumersi responsabilità definitive. Ma se qualcuno sapesse arrivare agli stessi risultati per altre vie riceverebbe ugualmente la mia approvazione e, verosimilmente, quella di quanti in tutto il mondo si battono per vedere la fine dello spargimento di sangue, delle violenze e dell’ingiustizia, in quelle terre martoriate. Fatta questa premessa, è molto importante a mio parere fare chiarezza su alcuni punti chiave. Se qualcuno intende trasformare questa occasione in una dimostrazione contro Israele tout court, mi dissocerò da chiunque lo faccia. 03/01/2007 13.46 Il sionismo non è l'ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE 3 di 9 http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1082 Io manifesto aspramente contro la politica del governo israeliano, non contro lo Stato d’Israele e tanto meno contro il suo popolo. Ripudio sin d’ora qualsiasi forma di violenza, pratica o simbolica, tipo il rogo delle bandiere, che trovo stupida, indegna, controproducente, figlia di una logica narcisistica e non politica. Non mi farò tuttavia intimidire dalle eventuali reprimende o criminalizzazioni di chi strumentalizza i gesti violenti per liquidare un intero movimento e continuerò con tutte le mie forze a sostenere le ragioni della pace. Sarò con i suoi stendardi come essere umano universale, come cittadino italiano e come ebreo. Come essere umano universale perché la pace è la più grande delle benedizioni che l’umanità possa ricevere, come cittadino italiano in piena sintonia con la nostra mirabile Costituzione ed in questo momento con l’ottima azione diplomatica del nostro governo rappresentato egregiamente dal ministro degli Esteri Massimo D’Alema, di D’Alema condivido anche la sollecitazione rivolta agli ebrei democratici ad unirsi all’appello dello scrittore israeliano David Grossman e trovo le critiche rivoltegli da molti esponenti della comunità ebraica ingenerose e surrettizie, segno di una iper reattività immotivata e un po’ sterile. Come ebreo sfilerò perché l’amore per l’altro e particolarmente per lo straniero è l’humus fondante di tutta l’etica che promana dalla Torah e perché, senza l’afflato universalista e la passione per l’accoglimento dell’alterità nelle forme più alte della giustizia, l’intero ebraismo regredisce ad un pensiero tribale. La pace è l’imperativo categorico che fa uscire il nostro simile dalle tenebre del non uomo, la pace in Medio Oriente unisce ai valori intrinseci propri di ogni pace un significato simbolico dirompente di cui oggi abbiamo grande bisogno per riprendere il cammino a fianco dei nostri fratelli dell’Islam. * www.unita.it, Pubblicato il: 18.11.06 Modificato il: 18.11.06 alle ore 10.44 [] > Il sionismo non è l’ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE 9 agosto 2006, di federico la sala [mailto:[email protected]] Due interventi: Rossanda, La paura dell’altro; Dominijanni, Ribaltare la Shoah? (il manifesto, 08.08.2006) La paura dell’altro di Rossana Rossanda Condivido la collera di Angelo d’Orsi verso chi accusa di antisemitismo ogni critica alle scelte del governo israeliano. Non succede nei confronti di nessun altro paese. Non era neanche mai successo prima degli anni ’70. Né l’accusa ci viene da parte di chi ha sofferto di persona delle leggi razziali e delle deportazioni, se è scampato ai campi di sterminio. Penso che ci sia voluta la guerra dei sei giorni e un vero e proprio cambio generazionale, più ancora che qualche scivolata dell’estrema sinistra degli anni ’70, nello scordare la tragica percezione di sé da parte degli ebrei; sono episodi che si contano sulle dita d’una mano. Mentre non è accettabile il sospetto che alcuni nuovi esponenti della comunità ebraica gettano di continuo su ogni parola detta dalla sinistra che non approva né l’occupazione dei territori, né l’unilateralismo dei ritiri e dei muri, né la guerra al Libano, mentre aprono con entusiasmo le porte agli eredi 03/01/2007 13.46 Il sionismo non è l'ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE 4 di 9 http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1082 della destra, fascisti inclusi. D’Orsi ha ragione anche nell’infastidirsi del silenzio con il quale lasciamo passare queste accuse, come se avessimo da vergognarci di qualcosa, noi, i soli che si sono battuti assieme agli ebrei. Se il movimento operaio e comunista è stato alle origini antisionista lo è stato per motivi opposti alla discriminazione, perché riteneva ogni questione nazionale secondaria rispetto al battere il capitale. Ma così pensavano anche Rosa Luxemburg e ai suoi amici tedeschi, i molti ebrei del Bund polacco, quelli che facevano parte del gruppo dirigente leninista e perfino staliniano fino al dopoguerra. Antisionismo e antisemitismo non sono stati affatto la stessa cosa. Quanto all’Italia, se le leggi razziali passarono senza vere proteste degli antifascisti, era perché non si potevano esprimere. L’antifascismo poi unificò tutti; la mia generazione è venuta su, se mai, con la ripugnanza a distinguere fra religioni ed etnie, la rivalutazione delle differenze le è estranea, il che le viene, se mai, rimproverato. Ha colpito quelli come me il bisogno di tornare alle proprie radici dopo la sconfitta del 1968, che era stato forse approssimativamente universalista. Accresciuto in molti giovani dalla percezione di essere sopravvissuti al destino dei loro genitori o nonni . Per chi andava in cerca delle radici c’era nell’ebraismo un grande «in più», la scoperta d’una tradizione sapienziale che dette a molti una nuova dimensione del vivere. Risalgo negli anni perché se l’accusa di antisemitismo è tutto sommato stupida, mi sembra oggi tessuta in una vicenda assai più grande e sofferente che non siano gli strepiti d’un Giuliano Ferrara. C’è nella coscienza di Israele il senso d’un eterno essere in pericolo cui non sa rispondere che con la forza delle armi, la guerra preventiva e la protezione degli Stati Uniti, compiendo un errore fatale verso i paesi che la circondano. Angelo d’Orsi parla della lettera d’una giovane libanese, io ho sotto gli occhi quasi con le stesse parole nell’email d’una giovane e a me assai cara israeliana, e tutte e due hanno paura l’una del paese dell’altra. Sono giovani, nate là, e poco sanno di come si sia arrivati a questa ultima tragedia. La libanese ha sperimentato la crudele invasione israeliana, e poi l’occupazione siriana ed è terrorizzata dall’offensiva di Israele condotta fuori di ogni regola di guerra, con un’enormità di distruzioni e vittime civili, che viene detta contro gli Hezbollah e colpisce lei fra i libanesi, e non viene fermata da nessuno. La israeliana ha alle spalle secoli di negazioni e sofferenze, arrivate fino alla Shoah, ha imparato a scuola che gli arabi che circondano il suo paese non ne hanno mai accettato l’esistenza, dall’Iran con Israele confina ed è infinitamente più grande, Ahmadjnejad contiua a ripeterglielo, alcuni suoi amici sono morti per l’attacco dei kamikaze palestinesi e lei ha contato nell’ultimo mese i missili di Hezbollah. Nessuna delle due donne riesce a figurarsi l’altra. Sono terrorizzate. Lo stesso pensano in Israele gli amici di Peace Now e uomini che ammiriamo come Yehoshua, Grossmann e perfino Amos Oz: pensano che «stavolta la guerra è giusta» - anche se gli pare che come «ammonimento al popolo libanese basti». Intanto quella del 1967 era finita in sei giorni, mentre adesso gli Hezbollah tengono testa da oltre tre settimane a uno degli eserciti più preparati del mondo. Va a spiegare la spirale degli avvenimenti e il meccanismo delle rappresaglie all’una e all’altra. Va a far capire alla mia giovane amica israeliana che Israele occupa la Palestina da quasi quaranta anni e ha fatto dei giovani di quel popolo, il più colto e laico del Medioriente, che non sono mai stati un giorno liberi, seguaci di un fondamentalismo che ne esprime la 03/01/2007 13.46 Il sionismo non è l'ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE 5 di 9 http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1082 collera. Va a farle capire che anche l’arabismo è ormai vittima di un fondamentalismo che apparteneva solo a minuscoli gruppi, prima che la politica del suo paese in Palestina, e poi quella americana in Afganistan e poi l’invasione dell’Afganistan e poi dell’Iraq lo moltiplicasse, così come l’attuale guerra moltiplicherà gli Hezbollah. Va a farle capire che questi prima del 1982 non esistevano. Né i kamikaze durante la prima Intifada. Va a persuaderla che l’accettazione da parte israeliana di uno stato palestinese avrebbe da decenni staccato la spina che avvelena il Medio Oriente, e fatto dimenticare che Israele vi è stato installato a forza dalle potenze occidentali per garantire in qualche modo gli ebrei da una nuova Shoah di cui noi, l’Europa, eravamo soli colpevoli. Installato in un mondo che della Shoah nulla era tenuto a sapere e tanto meno di una terra promessa qualche migliaio di anni fa a sconosciuti da un Dio sconosciuto. E dalla quale venivano cacciati coloro che per duemila anni vi avevano lavorato. Va a farle capire oggi che la giovane Israele doveva vincere la diffidenza dei vicini, o almeno dopo la guerra dei sei giorni stare a quelle risoluzioni dell’Onu che adesso invoca contro i libanesi. Qualche settimana fa Luciana Castellina scriveva su queste colonne: Io ho paura per Israele. Io non ho paura per la sua esistenza, noi tutti la difenderemmo a ogni costo. Ho paura delle sofferenze che Israele impone e si impone in una spirale di errori. Mi fa impressione il colono che dice rassegnato: «Ebbene, se Israele deve vivere grazie alla spada, viva con la spada», ma mi riempie di collera Claude Lanzmann, quello del film sulla Shoah, che protesta su Le Monde perché Israele è stata accusata di esagerare in Libano. Come, Israele non esagera, non può esagerare, il sangue fatto versare agli ebrei non sarà mai abbastanza compensato da altro sangue - gli ebrei sono stati colpiti in modo che il loro paese ha tutti i diritti e nessun dovere verso gli altri. Sono parole dementi come quelle del presidente iraniano, il reciproco l’una dell’altra. Ma il premier Olmert le sta praticando. E come Sharon non si accorge non solo dell’odio che si tira addosso, ma dell’errore strategico che fa. Rabin è stato ammazzato e dimenticato. Di questa sciagurata spirale l’agitazione di parte della comunità ebraica italiana è un frammento derisorio. Ma è vero - ha ragione d’Orsi - che dovremmo smettere di stare in silenzio perché la matassa è complicata e ancora recente la perdita di innocenza del nostro paese. La posta in gioco è troppo alta, il pericolo troppo bruciante, il ricatto troppo stupido. Bisogna dirlo alto e forte che il governo di Israele sbaglia. Che si deve fermare. Che l’amministrazione americana è il suo più pericoloso alleato e consigliere. Che la comunità internazionale è stata finora troppo corriva. E che se c’è una discontinuità che urge per il centrosinistra al governo è questa. Se ne faccia carico. Ribaltare la Shoah? di Ida Dominijanni Sottrarsi al ricatto della Shoah e dare voce a un grido liberatorio contro la politica di Israele: sul manifesto del 3 agosto e su Liberazione del 4 Angelo d’Orsi propone questa sorta di «programma minimo» per la sinistra - intellettuali, politici, giornali e comuni mortali in grado di sottrarsi al «chiacchiericcio opinionistico» che ci martella con la sicurezza di Israele e in nome della Shoah giustifica la sua aggressività in Medioriente, la sua pulizia etnica verso i palestinesi e la sua arroganza verso l’Onu. A costo di alimentare il chiacchiericcio, mi permetto di dissentire fermamente. Prima che sul merito, su una pratica intellettuale che perimetra la sinistra coi picchetti, 03/01/2007 13.46 Il sionismo non è l'ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE 6 di 9 http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1082 gerarchizza intellettuali e senso comune, identifica verità e razionalità senza nulla apprendere dallo scacco della ragione in cui sulla questione mediorientale tutti, intellettuali e ordinary people, siamo presi e persi. Sulla Shoah e sull’antisemitismo «scientifico» novecentesco che portò alla macchina dello sterminio di Hitler, molti intellettuali di sinistra, argomenta d’Orsi, hanno le carte in regola e le credenziali in ordine: energie, saggi, volumi dedicati a analizzare, condannare, combattere. Insomma: abbiamo dato. Basta questo per sentircene affrancati? Basta per decidere che siamo in un’altra epoca e in un mondo rovesciato, in cui «le vittime si sono trasformate in carnefici» e le energie, l’analisi, la denuncia e la condanna vanno spostati tutte e solo dall’altra parte? Tutte e solo, sottolineo. Perché è ovvio che su molti degli argomenti di d’Orsi siamo d’accordo: sull’aggressività e la cecità strategica della politica di Israele; sulla cecità politica della comunità israelitica italiana; sull’uso a dir poco strumentale della Shoah da parte della destra e dei giornali di destra (e non solo) italiani. Ribaltando lo schema retorico di d’Orsi verrebbe però da dire: non abbiamo già denunciato più e più volte tutto questo su questo giornale (e altrove)? Non abbiamo anche qui le carte in regola e le credenziali in ordine? E dunque in che dovrebbe consistere quell’appello a sottrarsi al ricatto della Shoah che d’Orsi ci rivolge, e da quale spostamento dovrebbe sgorgare quell’ulteriore grido d’indignazione che ci chiede di lanciare? Temo che la chiave stia in quel presunto ribaltamento delle vittime in carnefici, che domanderebbe e autorizzerebbe il ribaltamento di cui sopra dell’epoca, del mondo, delle ragioni e dei torti. Con due conseguenze nefaste. La prima è lo schiacciamento - antisemita e antidemocratico - del popolo ebreo sul governo israeliano, schiacciamento speculare all’integralismo che d’Orsi denuncia nello stato di Israele. La seconda è la valutazione delle poste in gioco in Medioriente che ne consegue. Se le vittime si sono trasformate in carnefici, il conto è facile: tutti i torti a Israele, tutte le ragioni ai palestinesi e al Libano. Ma è così? Davvero, fermo restando il giudizio sulla politica israeliana, non c’è anche il problema del riconoscimento e della sicurezza di Israele? Davvero, fermo restando il giudizio sulla deriva integralista di Israele, non c’è anche il problema del fondamentalismo di Hamas e Hezbollah? Davvero su Hamas e Hezbollah possiamo farci scudo della religione democratica e della fede nella legittimazione elettorale, o non è piuttosto la fede democratica a essere scossa dalla legittimazione elettorale di Hamas e Hezbollah? Davvero l’11 settembre e la guerra in Iraq non ci obbligano a guardare al Medioriente con lenti modificate? La tragedia mediorientale non sta in un ribaltamento dei torti e delle ragioni: sta in una loro, spesso indecidibile, complicazione. Lo scacco della ragione sta qui, e brucia le migliori carte e le migliori credenziali. Qual è l’eredità della Shoah in gioco nella discussione pubblica sul Medioriente, e per chi gioca? L’ha scritto domenica Sveva Haertter su queste pagine: la Shoah ha colpito il popolo ebraico ma pesa su tutta l’umanità. E’ un crimine dell’umanità contro l’umanità: nella sua memoria non ne va solo del destino delle sue vittime, ma della colpa europea. Non ne va solo dell’antisemitismo novecentesco, ma di qualsivoglia biopolitica che faccia tutt’uno di una razza, una religione e uno stato. Non abbiamo svoltato pagina in un hegeliano e razionale ribaltamento del secolo e delle ragioni: quella pagina si sta tragicamente e irrazionalmente riaffacciando, per fortuna senza la macchina hitleriana dello sterminio, per disgrazia in più punti del mondo e su tutti i fronti del micro-mondo mediorientale. La sua memoria non parla a una parte o all’altra: parla a ciascuna e a noi spettatori, o tace per tutti. 03/01/2007 13.46 Il sionismo non è l'ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE 7 di 9 http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1082 [] > Il sionismo non è l’ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE 6 agosto 2006, di Federico La Sala [mailto:[email protected]] Il sonno dogmatico di Barbara Spinelli (La Stampa, 6/8/2006) Gli israeliani lo sperimentano sulla propria pelle ogni giorno, da quando il 12 luglio si son trovati nell’obbligo di rispondere a un attacco Hezbollah che non ha più come scusa i territori occupati, ma è un’aggressione che minaccia esistenzialmente Israele ed è al contempo laboratorio di uno scontro Iran-Usa: in questa guerra libanese sono in realtà soli, nonostante le attestazioni solidali che vengono da Bush e Blair. Non si sentono rassicurati neppure dall’accordo, ambiguo, che si delinea fra Parigi e Washington al Consiglio di sicurezza Onu. Quella congerie di stati cui viene dato il nome falso di comunità internazionale si agita, domanda la «piena cessazione di ostilità», ma non osa chiedere che essa sia «immediata» e simultanea. Nell’immediato devono cessare gli attacchi Hezbollah e le operazioni offensive israeliane: una formula che consente a Israele di restare in Libano per operazioni difensive, ma che non gli risparmierà aggressioni. Difficilmente infatti Hezbollah non sconfitto - accetterà la tregua. Alcuni governi europei son pronti a schierare soldati per aiutare l’esercito libanese a conquistare il monopolio della violenza ai confini meridionali, ma è improbabile che intervengano finché la tregua sarà ambigua: un’ambiguità cui l’amministrazione Usa non sembra rinunciare. Quel che Bush desidera è la continuazione della guerra contro Hezbollah, fatta da Israele o da altri: gli strumenti impiegati possono cambiare ma non l’obiettivo, e l’obiettivo è una guerra-test con l’Iran, con la Siria, per interposte persone. È come se l’amministrazione volesse proprio quello che sta accadendo: lo stato d’Israele sprofondato in un conflitto che sta perdendo, il Libano che è stato scardinato e offeso, l’Iran e la Siria che manovrando Hezbollah son divenuti attori di primo piano in Medio Oriente e nell’Islam, e in quanto tali vengono messi in guardia e minacciati. Poi c’è il conflitto in Iraq, da cui l’odierna catastrofe discende e che il Libano ha obnubilato: anche qui, è forte l’impressione di un voluto ampliamento dei disastri. Ogni giorno muoiono 100 civili in Iraq, ma è la guerra in Libano che occupa le prime pagine dei giornali. In America, lo spazio televisivo dedicato a Baghdad è caduto del 60 per cento fra il 2003 e questa primavera. Una manna, per il governo americano: fin quando dura la piaga libanese, Washington non dovrà rispondere del caos suscitato - tramite Iraq - in Medio Oriente e nel mondo. Non son pochi gli israeliani che cominciano a intuire il terribile ingranaggio in cui rischiano di restar impigliati: un ingranaggio che fa del loro Paese il tassello della strategia Usa di esportazione della democrazia e di mondiale guerra antiterrorista, e che ha finito col debilitare Israele anziché proteggerlo. Una strategia che ha tutta l’aria di trattare Israele come un mezzo, non un fine come Bush pretendeva. Lo storico Tom Segev s’indigna sulle colonne di Haaretz, denunciando una politica americana che lascia solo Israele, che lo aizza in guerre perdenti, che ha perduto ogni autorità nel mondo. Daniel Levy che ha partecipato a numerosi negoziati di pace (Oslo, Taba, accordi di Ginevra) scrive che Israele non può continuare a subire una linea dettata fin dal ’96 da neoconservatori come Richard Perle e Douglas Feith (Haaretz 4-8-06). E ricostruisce quella linea, che i neocon suggerirono all’allora Premier Netanyahu e che aveva come scopo la fine delle trattative di pace e una 03/01/2007 13.46 Il sionismo non è l'ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE 8 di 9 http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1082 rivoluzione nei rapporti tra Israele e Usa. Oggi, essi adoperano la guerra libanese per rifarsi della bancarotta irachena. Molti (Tom Segev, Avi Schlaim sull’Herald Tribune) sostengono che l’America non aiuta più Israele, dal momento che l’aizza invece di disciplinarlo: «Mai nella nostra storia è accaduto che Washington ci spronasse così poco all’autocontrollo», scrive Schlaim, ed è il motivo per cui gli Stati Uniti «sono ormai parte del problema e non della sua soluzione». Segev sospetta che le modalità della guerra libanese nascano da un coordinamento con Washington e ricalchino il modello Iraq, con effetti perniciosi: anche questa guerra sembrava facilissima, anch’essa era tassello d’una vasta lotta contro l’asse del male, e la degenerazione insidia anche lei. Uscire dall’Asse del Bene, ritrovare la realtà di questioni e guerre che hanno origini locali: è questa l’opportunità, per i critici dell’America in Israele, di uscire dal sonno dogmatico che l’alleanza esclusiva con Washington impone agli israeliani. Il sonno dogmatico sacrifica l’esperienza, sull’altare di concetti generali e globalizzanti; non vede il particolare, dunque il reale. Secondo Levy, questo è il vizio dei neoconservatori che da un decennio propugnano un Nuovo Medio Oriente, una rottura netta con le passate politiche israeliane (così s’intitola il documento del ’96, A Clean Break). Il loro obiettivo: spingere i governi israeliani ad abbandonare la strategia di restituzione dei territori; incitarli a regolare i conti con Siria, Iran, Autorità palestinese; convincerli a cercare un’autosufficienza che spezzi le pratiche del contenimento e della cooperazione internazionale tornando ai vecchi equilibri di potenza. La cosa più esiziale è stata quando questa visione s’è intrecciata con quella degli evangelicali, in cui Bush si riconosce. Gli evangelicali americani sono filo-israeliani solo in apparenza. Nei loro affreschi messianici la nazione ebraica deve disporre di territori possibilmente vasti, per poter accogliere il secondo avvento di Cristo. Un avvento non promettente per gli ebrei: nei Tempi Finali Israele sarà convertito, distrutto. Anche per gli evangelicali Israele è un mezzo, non un fine. Chi aspira all’uscita dal sonno dogmatico chiede passi politici sostanziali anche se scabrosi, per il Libano. Chiede che si negozi col nemico (fu Rabin a dirlo, dopo gli accordi di Oslo nel ’93: «Con chi dobbiamo negoziare, se non con il nemico? La pace non si fa con gli amici!»). Chiede il ritorno alla diplomazia, alla restituzione delle terre, e se la guerra è necessaria: che sia la continuazione di una politica, non di una non-politica. L’uso americano d’Israele è un male che può rivelarsi grande, ed è la ragione per cui Segev e altri sperano disperatamente nell’Europa: «La spinta su Israele perché eserciti autocontrollo non viene più da Washington, ma dagli europei». Il senso delle realtà locali sono gli europei ad averlo. Bisogna negoziare con Iran, con Siria: gli europei ne sono convinti e sapranno farlo. La maniera in cui Israele viene adoperato (come non-persona) è utile a tutti coloro che si sentono orfani di lotte ideologiche fra bene e male, fra destra e sinistra. Israele è pedina dispensabile, in quest’ordine del giorno interamente occidentale. «Anche se l’America conquistasse l’Iran, a Israele resterà pur sempre l’obbligo di vivere accanto ai palestinesi», spiega Segev. Il che vuol dire: Israele deve capire di cosa è fatto l’odio Hezbollah in Libano, deve distinguerlo da quello di Hamas nelle terre occupate, deve tener conto che la Siria reclama con ragione la restituzione delle alture del Golan. Hezbollah è una malattia difficilmente estirpabile perché non è solo una cellula terrorista: in Libano è al governo e ha un’agenda politica, si occupa di sanità e scuola in regioni povere, è profondamente scontento per come gli sciiti sono emarginati, nonostante l’alta loro forza demografica (40-50 per cento della 03/01/2007 13.46 Il sionismo non è l'ebraismo!!! Lettera di Moni Ovadia a ISRAELE 9 di 9 http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=1082 popolazione. Gli equilibri attuali si basano sul censimento del 1932, che premiava sunniti e cristiani). Secondo Robert Pape, studioso di terrorismo a Chicago, il partito di Dio è proteiforme, raccoglie tutti coloro che hanno combattuto i 18 anni d’occupazione israeliana. Nel suo libro sul terrorismo, ha studiato da vicino il profilo di 38 Hezbollah kamikaze: «Ho scoperto che solo 8 erano fondamentalisti islamici. 27 appartenevano a gruppi di sinistra (Partito comunista, Unione socialista araba), 3 erano cristiani, tutti erano libanesi» (New York Times 3-8-06. Il libro s’intitola: Dying to Win - Morire per Vincere, Usa 2005): Studiare più da vicino e non da lontano: uscire dai sonni dogmatici comincia così, aiutando davvero Israele. Ed è significativo che siano studiosi di terrorismo come Pappe a mostrare la strada. O come Jessica Stern, che suggerisce di non mescolare Iraq e Libano, guerra globale anti-terrore e guerre locali: «Gli errori fatti su un fronte guastano l’efficacia nell’altro, anche perché gli eventi (Guantanamo, Abu Ghraib, Cana) vengono filmati, confermando l’idea che l’Occidente stia combattendo una guerra contro l’Islam» (The Boston Globe, 1-8-06). Da questo punto di vista, scrive Stern, i terroristi hanno vinto. Il Gihàd è divenuto una «moda globale», non diversa dai violenti ritmi del gangsta rap: si nutre di bambini morti, di risentimento, pervadendo le zone di conflitto come le città d’Occidente. Ignorare questi pericoli è sonno dogmatico. Lo dice Thomas Friedman, che approvò la guerra in Iraq e ora invita a riconoscerne il fiasco. Essa ha moltiplicato il terrorismo, ha irrobustito l’Iran suscitando negli sciiti una sete di rivincita mondiale, e ha lasciato solo Israele. Dunque oggi non resta che trattare con l’Iran oltre che con la Siria, «così come la Casa Bianca trattò nel 2003 con la Libia» (New York Times 2-8-06). Non si può ottenere da Ahmadinejad la rinuncia all’atomica, e al tempo stesso tenere l’Iran sotto tiro. Bisogna dargli precise garanzie di sicurezza, simili a quelle date a Gheddafi. Bisogna instaurare con Teheran una guerra fredda, fondata sul suo contenimento anziché sul suo arretramento forzato (roll-back). Si dirà che il comunismo sovietico non colpiva come oggi vengon colpiti Israele e Occidente. Ma l’Urss non aggrediva alla maniera di Hezbollah perché contenimento e dissuasione avevano funzionato, non perché esistessero buone condotte da premiare. È questa dissuasione che oggi non funziona e per questo Washington barcolla come un ubriaco, fra la brama di abbattere regimi avversari e il desiderio - limitato ma più praticabile - di modificare i loro comportamenti. 03/01/2007 13.46