Palermo al tempo del vinile

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Abstract tratto da www.darioflaccovio.it - Tutti i diritti riservati
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Daniele Sabatucci
Palermo
al tempo del vinile
Dario Flaccovio Editore
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Ad Alessia,
che anche senza musica
fa i sogni più belli
Amavamo molto la musica, ci rubava i pensieri
Massimo Melodia
A me il rock non piace
Boris Vitrano
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Daniele Sabatucci
Palermo al tempo del vinile
ISBN 978-88-7758-943-9
© 2012 by Dario Flaccovio Editore s.r.l. - tel. 0916700686
www.darioflaccovio.it
[email protected]
Sabatucci, Daniele <1981->
Palermo al tempo del vinile / Daniele Sabatucci. Palermo : D. Flaccovio, 2012.
ISBN 978-88-7758-943-9
1. Musica pop – Palermo..
782.42164 CDD-22
SBN PAL0249554
CIP – Biblioteca centrale della Regione siciliana “Alberto Bombace”
Stampa: Tipografia Priulla, Palermo, novembre 2012
RingRaziamenti
Questo libro non avrebbe visto la luce senza Alessia Di Giovanni. A lei è dedicato.
Ringrazio la mia famiglia e i miei amici, nonché la “guida spirituale” Simon Reynolds.
Ringrazio la Casa Editrice e tutti i miei colleghi.
Ringrazio Gigi Razete per il tempo dedicato alla lettura del libro e alla scrittura della prefazione; Orazio
Rosalia per l’amicizia e gli anni di lavoro insieme.
Un sentito grazie per il loro contributo e la loro disponibilità va, inoltre, a: Ernesto Bonaccorso, Valerio
Briulotta, Francesco Calabria, Fabrizio Cammarata, Roberto Cammarata, Mario Caminita, Massimo Cappello, Fabio Caronna, Pippo Cataldo, Salvino Costa, Mario Crispi, Augusto Croce di italianprog.it, Rodan
Di Maria, Giovanni Di Martino, Marilisa Dones, Fabio Finocchio, Franco Gaeta, Gianni Gebbia, Ninni
Giacobbe, Dario Giacomazzi, Lelio Giannetto, Ezio Gonzales, Eddy Governale, Beppe Grifeo, Filippo
Grillo, Antonio Guida, I Candelai (Massimo Campagna, Manfredi Giangrasso, Fabio Schillaci), Antonio
La Spina, Eldo Lauriano, Salvo Leo, Carmelo Lucà, Marcello Mandreucci, Max Lux, Alessio Marino e la
Boutique 67 – Centro Studi sul Beat Italiano, Rino Martinez, Vito Meccio, Renzo Meschis, Davide Mezzatesta, Christian Molino, Marco Monterosso, Aldo Morgante, Othello, Carmelo Pagano, Toty Patellaro,
Giacco Pojero, Guido Politi, Pippo Pollina, Maurilio Prestia, Salvo Principe, Radio Monterosso, Raf
Dj, Enzo Rao, Luca Rinaudo, Bizio Rizzo, Natale Russo, Michele Russotto, Gano Scancarello, Riccardo
Serradifalco, Sergio Serradifalco, Danilo Sulis, Dario Sulis, Paolo Taormina, Marian Trapassi, Alberto
Maurizio Truffi di Musica & Memoria, Nino Vetri, Boris Vitrano, Vortex.
Un sincero ringraziamento va inoltre a Massimo Melodia e Nico Tirone che purtroppo non hanno fatto
in tempo ad assistere alla pubblicazione di questo libro.
La casa editrice ringrazia Ninni Arcuri per avere concesso l’utilizzo in copertina di alcuni oggetti vintage
della sua collezione esposti nella mostra “Beat Pop Vintage”.
Nota: dove non esplicitamente riportate in bibliografia, le citazioni sono tratte da interviste e dichiarazioni degli
interessati raccolte direttamente dall’autore.
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Prefazione
di Gigi Razete
Sulla realtà musicale di Palermo sono state scritte molte storie
che hanno raccontato momenti salienti, poco importa se eclatanti o persi nella memoria, riguardanti la classica, il jazz e la
contemporanea.
Non riesco, invece, a ricordarne alcuna (a parte la recente
opera di Mario Bellone “Dreaming Palermo”, ma solo in video) che abbia affrontato temi e personaggi del rock, del pop
e della musica cosiddetta “giovane” che pure hanno segnato in
modo profondo, seppur dimenticato, i decenni dal dopoguerra
ad oggi e le generazioni che hanno vissuto quei tempi.
Una lacuna abbastanza macroscopica che può trovare diverse possibili ragioni, prima tra tutte la scarsa disponibilità di
documentazioni. Intanto, va constatato che nella storia del rock
palermitano (comprendendo in quest’area alquanto frastagliata
ogni possibile declinazione stilistica) non sono mai state presenti istituzioni private o pubbliche che avrebbero potuto consolidare, storicizzare e testimoniare nel tempo ciò che accadeva
in città, come invece è capitato in altri settori, seppure in modi
assai diversi, col Teatro Massimo, il Centro Django Reinhardt,
gli Amici della Musica, l’Orchestra Sinfonica Siciliana, il Brass
Group, Curva Minore, Ars Nova, Kandinskij e varie altre entità
di tutela dei linguaggi rappresentati. È ben vero che il rock,
per sua natura, è solito rifuggire ovunque da strutture più o
meno stabili che lo rappresentino, lo tutelino e lo preservino
ma a Palermo questa labilità ha assunto dimensioni patologiche.
A ciò si aggiunga la modesta ed episodica attenzione riservata
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alle realtà musicali nascenti dai quotidiani locali, più propensi a documentare nomi già consolidati piuttosto che la scena
underground. Né maggior contributo hanno fornito le riviste
specializzate, di nicchia o a diffusione popolare, più concentrate
ad illustrare gli epicentri creativi e produttivi dell’Italia centrosettentrionale che non la scena di una città musicalmente periferica come Palermo. Inoltre, come annota lo stesso Daniele
Sabatucci, i nuovi fermenti che man mano venivano ad agitare le acque internazionali del rock sono giunti (e continuano a
giungere) a Palermo, salvo poche eccezioni, inesorabilmente in
ritardo, con ciò togliendo forse slancio e interesse a raccontare storie che altrove sono già accadute e documentate. Perfino
nelle rare occasioni in cui è capitato che l’ardimento (coraggio o
temerarietà?) di qualche operatore appassionato facesse giungere in città artisti di culto o proposte di forte spessore e attualità,
ebbene anche allora Palermo e il suo scarso pubblico (scarso
come consistenza numerica e scarso come curiosità intellettuale) hanno dato risposte davvero sconfortanti, confermando
quell’inguaribile provincialismo che pretenderebbe di redimersi
solo nelle occasioni in cui “esserci” è in realtà solo vanagloria di
“apparire” (tra i tanti, un esempio recentissimo: la desolata platea dello Zsa Zsa Mon Amour dinnanzi alla quale il 12 ottobre
del 2012 si è esibito Mick Harvey, grande rocker australiano).
Da non trascurare, infine, e anche a questo accenna l’autore,
gli effetti causati da quell’ineffabile tendenza all’autoreferenzialità e all’oblio che sembra affliggere geneticamente i palermitani.
Allorché Sabatucci mi comunicò l’intenzione di porre mano
a raccontare la storia del rock a Palermo, confesso di aver
pensato immediatamente ad un atto di superbia o di giovanile infatuazione. Intanto, la sua appartenenza generazionale lo
escludeva, a parte i decenni più recenti, da ricordi diretti delle
stagioni cruciali. Per lo stesso motivo, poi, temevo che l’approv6
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vigionamento delle informazioni, reso arduo dalle considerazioni poc’anzi espresse, sarebbe avvenuto prevalentemente (o
esclusivamente) attraverso il web, oceano solitamente immenso
che però, oltre a porre seri problemi di verifica, nel caso specifico rischiava di ridursi a stagno e di offrire ben pochi appigli
in materia.
Pur avendo vissuto direttamente, sia pure con alcuni importanti iati, buona parte della storia raccontata dal mio giovane
collega, io stesso fatico a mantenere nitidi i ricordi, gli avvenimenti e i personaggi che hanno riguardato gli anni più remoti. Certo, alcune immagini sono rimaste più vivide, magari per
personali inclinazioni. Ad esempio, l’ultimo scorcio degli anni
Settanta, un periodo esaltante in cui, soprattutto per merito di
Claudio Lo Cascio e del suo Centro Reinhardt (allora ospitato
a Villa Pantelleria), un gran numero di giovani (molti dei quali
oggi affermati musicisti nei campi più diversi) vissero il sogno
di una musica che abbatteva ogni steccato e poneva sullo stesso piano di valori e creatività jazz e folk, contemporanea ed
elettronica, rock e cameristica, colta e popolare. Per una città
così torpida fu davvero un big bang vedere collidere linguaggi
fino ad allora considerati irrimediabilmente divisi e ascoltare,
spesso nello stesso evento (la formula del “Musicaincontro”),
figure, siciliane e non, tanto differenti come Luigi Nono, Rosa
Balistreri, i Rakali, Severino Gazzelloni, Marilena Monti, Franco D’Andrea, Alirio Diaz, Maurizio Lanzalaco, Giorgio Gaslini,
gli Aes Dana, Enza Lauricella, Bruno Biriaco, i Kalsa, Giovanni
Sollima, Dusko Gojkovich, Enrico Pieranunzi, gli Agricantus,
Beppe Grifeo, i Zzaccurafa, per citarne solo alcuni, oltre ad uno
stuolo di jazzisti palermitani già affermati o di futuro talento
come Enzo e Riccardo Randisi, Gianni Cavallaro, Ignazio Garsia, Gianni Gebbia, Diego Spitaleri, Stefano D’Anna, Salvatore
Bonafede, Mimmo Cafiero, Giuseppe Costa e moltissimi altri.
Un altro scorcio che mantiene nitidezza di contorni è l’esal7
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tante stagione delle proposte innovative che fiorivano in città
negli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta e che trovavano
ospitalità in vari localini off di cui si è persa quasi memoria: ad
esempio l’Ouroboros o il Punto Rosso, nei pressi dell’attuale stazione Notarbartolo. Fu proprio in quest’ultimo club, uno
stanzone senza arredi (ci si sedeva a terra) e senza alcun appeal
se non quello di essere un focolaio aperto alle proposte più “alternative” ed eccitanti, che nel 1979 giunsero Franco Battiato
e Giusto Pio. Battiato non era ancora Battiato, non indossava
ancora gessati e panciotti, calzava sandali (piuttosto malconci)
che avevano un che di francescano, i suoi piedi mostravano i segni della polvere di mille strade secondarie ma le sue parole e la
sua musica rivelavano prospettive inedite e profonde, librandosi
magicamente al di sopra di ogni coordinata di tempo e di luogo.
Come avrebbe fatto Sabatucci a ripescare memorie così labili perfino a chi le aveva vissute?
Le pagine che seguono hanno fugato in pieno le mie titubanze perché l’autore ha seguito la strada più diretta e, contemporaneamente, la più improba: quella della ricerca personale delle fonti e della loro verifica meticolosa, qualità (oggi
purtroppo sempre più desuete) che appartengono al metodo
principe tanto del sano giornalismo quanto della rigorosa ricerca musicologica. È andato a caccia di ogni documento cartaceo
e sonoro ovunque fosse possibile trovarlo (dagli archivi delle
pubblicazioni ai mercatini dell’usato) ed è andato pazientemente a scovare ogni testimone diretto o indiretto che potesse fornirgli anche solo minuscole tessere di quella storia abbastanza
sconosciuta che voleva ricomporre in complessivo mosaico. Ma
quel che più importa, ha verificato e incrociato tra loro le varie
testimonianze, scremando l’incerto, il labile e l’improbabile da
ciò che invece concordava.
Se è sorprendente la quantità e la qualità di materiale che
Sabatucci è riuscito a recuperare dall’oblio dei decenni più lon8
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tani, è inevitabile che il racconto si faccia sempre più approfondito, pieno di dettagli e costatazioni dirette man mano che ci si
avvicini al presente. Ma è proprio la storia del rock di questo
primo scorcio di secolo, anni che per la loro contemporaneità
ci danno spesso l’illusoria presunzione che tutto ci sia noto, che
ha finito invece per svelare una realtà musicale cittadina tanto
sommersa quanto, di contro, sorprendentemente frastagliata e
ricca di vivacità.
Il risultato complessivo, per farla breve, è un affresco straordinariamente vivido, affascinante e, soprattutto, unico. Una storia emozionante e avvincente per chi l’ha vissuta e decisamente
preziosa per chi, non essendoci allora, la vuol conoscere oggi.
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Introduzione
Chi si ricorda del mitico festival Palermo Pop 70? O del concerto di Frank Zappa allo stadio? Chi ha vissuto l’epoca del beat
o quella del punk, mettendo su un gruppo con gli amici? Chi è
riuscito, negli anni avventurosi in cui era un’impresa ai limiti del
possibile, a pubblicare un disco in vinile, e quanti oggi si servono di internet per fare conoscere al mondo la propria arte?
Poche città parlano di se stesse come Palermo. Allo stesso modo,
poche città sono anche maestre nel cancellare la propria storia,
le proprie tracce. Possibile che della musica pop fatta in città
da, diciamo, prima degli anni novanta non si ricordi più niente?
Possibile che le tracce dei musicisti, fossero esse dischi, concerti,
interviste, recensioni si siano perse così, come se nulla fosse accaduto? Ok, forse niente di significativo per le sorti della musica
mondiale è effettivamente accaduto. E però perché cancellarlo del
tutto, se non altro a farne un esempio – magari da non imitare –
per chi fa musica oggi? Perché Palermo, ancora una volta, rimuove le proprie radici? Un tentativo di risposta è in queste pagine.
Questo libro nasce perciò da una genesi laboriosa oltre ogni
volere e necessità. Un progetto che ha covato per anni sotto la
cenere è diventato concreto in un preciso momento storico: il
periodo a cavallo tra 2007 e 2008, quando ha preso piede ciò
che in un certo senso può essere definita una sorta di “new
wave” palermitana: una scena musicale viva, piena di idee e di
energia, consapevole dei mezzi a disposizione (o di quelli, al
contrario, mancanti) e di voglia di usarli per costruire un proprio percorso artistico.
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Una nuova verve artistica e “fattiva” (produzioni, nascita di
etichette e studi di registrazione, attività dal vivo, particolare
attenzione data dai locali alla dimensione “live” della musica
ecc.) che si è manifestata in città, con particolari esempi positivi,
identificabili in determinati soggetti tra solisti, band, promoter
ecc. E che si trasformava, per appassionati e addetti ai lavori,
soprattutto i più giovani, in un più generale senso di “eppur si
muove”, a fronte di storiche carenze strutturali (e infrastrutturali) e a fronte di una latitanza di chi – in definitiva, le istituzioni
– ha gestito in maniera non sempre chiara, o ha sostenuto in
maniera inadeguata o insufficiente, la vita culturale cittadina.
Sono due i principi basilari per capire nell’ottica giusta questa
storia: il primo è che il palermitano tipo va glorificando – al netto delle eccezioni, ovviamente – se stesso e ciò che fa in maniera
esponenziale rispetto all’effettivo valore che hanno personaggi
e azioni. Secondo lo schema per cui “io sugnu ‘u miegghiu e
l’avutri ‘un sunnu nuddu”, una specie di Marchese del Grillo,
ma con le sarde e i pinoli, l’individuo palermitano primeggia su
tutti i concittadini (per tacere della provincia). Il palermitano
primeggia poi su chiunque provenga da fuori, e così via. Anche
se poi è dall’esterno che arrivano tutti gli stimoli per produrre
qualcosa, tutta l’ispirazione, quando essa non è pura e semplice
imitazione – e nella maggior parte dei casi è così.
È questo il secondo punto, come e forse più fondamentale del
primo: è un dato che a Palermo tutto arrivi sì, ma in ritardo. E,
salvo le consuete eccezioni, sempre edulcorato. Poco o nulla vi
è di originale, bene che vada c’è invece una felice freschezza che
sa comunque di novità. Ma si tratta di pochi casi isolati.
Tutto ciò il “palermitano” inteso come categoria potremmo
dire, ironicamente, “antropologica”, non lo sa; oppure lo sa ma
non ne ha piena consapevolezza, assumendolo quasi come un
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tratto genetico, somatico della propria condizione; oppure ancora lo sa e con piena convinzione, quasi con orgoglio, lo porta
avanti.
Eppure, le ottime performance di alcuni gruppi che hanno calcato le scene nei primi anni duemila, anche se poi non concretizzatesi, o concretizzatesi solo in parte, o ancora in divenire ma
con buone prospettive ancora aperte, meritano di essere raccontate, e con esse – se pure poco o nulla hanno a che spartire
– tutto ciò che le ha precedute, bagaglio di fallimenti compreso.
Anche se, in generale, non sono pochi tra i più “navigati” che
guardano con sufficienza all’argomento. È gattopardiana anche
la musica rock a Palermo, perché sembra che ogni volta ci siano
i presupposti per la nascita di una “scena”, essa si sfaldi prima
di compiere il passo decisivo, il salto di qualità. Che poi è, per
esteso, ciò che spesso capita ai gruppi “emergenti”, che talvolta
rimangono tali in maniera permanente.
Istintivamente viene da chiedersi che senso abbia un libro su
una non-scena, un qualcosa di puramente autoreferenziale, intriso di provincialismo – altri tratti tipici di una città grande per
finta – e patrimonio di pochi adepti.
Sembra grottesco scrivere un libro sull’intero panorama musicale di una città quando questo ha lasciato pochissime testimonianze discografiche “vere” (moltissimi, in compenso, demo e
cdr di qualità spesso approssimativa, sia come suono che composizione). Sembra grottesco quando anche dove le ha lasciate,
poco e niente hanno inciso a livello più esteso – limitiamoci
all’Italia.
Questa è dunque una storia in cui le eccezioni sono eclatanti
proprio in quanto tali. Il cui zelo (talvolta “sbruffone”, altre
volte sincero), destinato a essere perdente, ne fa un paradigma
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non solo… romanticamente rock’n’roll, ma anche – con amarezza – intrinsecamente palermitano. Non sembri strano, in definitiva, che a livello di quantità vengano spesso dedicate poche
pagine agli artisti più famosi e molte, apparentemente troppe,
a quelli sconosciuti o dimenticati dopo la fama: è in questi ultimi, infatti, che spesso è maggiormente presente il legame con
la città, e maggiori sono gli spunti per raccontare un discorso
che non sia solo musicale ma, in qualche misura, “culturale”:
una storia della città da un punto di vista importante eppure
inedito e pressoché ignorato e che abbiamo ritenuto meritevole
di essere raccontato.
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Postilla
Questo libro è frutto, oltre che dello scarso materiale reperibile (particolarmente per gli anni che vanno dai cinquanta agli ottanta) attraverso i comuni
canali di documentazione come giornali, riviste, internet ecc., soprattutto
delle testimonianze dirette rese in decine di interviste dai protagonisti della
musica palermitana.
La scelta per la raccolta del materiale e per gli argomenti da trattare ha preteso che fossero fissati dei paletti: niente jazz, quindi, che ha avuto sorti migliori del pop e che comunque è un campo talmente vasto che meriterebbe
una trattazione a parte, così come l’ambito musicale “colto” (accademico
e non) e quello sperimentale, che pure hanno dato importanti frutti. Salvo,
ovviamente, i casi in cui queste esperienze abbiano avuto saldi legami con
il pop-rock. Infine, niente verrà detto di quel florido mercato parallelo di
musicisti che fanno riferimento alla tradizione melodica e soprattutto neomelodica napoletana, dando vita a un’attivissima produzione discografica e
concertistica, come dimostrano pittoresche manifestazioni nei quartieri più
popolari della città, in particolare nel centro storico.
Parecchie ore, poi, sono state passate alla ricerca di dischi pressoché introvabili o del tutto dimenticati nelle bancarelle dei mercatini dell’usato o in
magazzini polverosi e umidi tra quintali di roba incredibile e incredibilmente inutile. Un signore che di lavoro sbarazza magazzini per poi rivendere la
merce ebbe a dire: «Io ho tre tipi di musica: urrocchi, uggezzi e CantaNapoli». Tali dischi si sono presentati a volte come assolutamente inservibili,
altre in condizioni tanto perfette da sembrare freschi di stampa, ma quasi
tutti – e il riferimento è ancora a quelli più datati – sono accomunati dall’assoluta povertà o addirittura inesistenza di note di copertina, informazioni e
dettagli utili alla comprensione e ricostruzione dei fatti.
Inevitabile è, dunque, che il lavoro possa presentare delle lacune o delle
imprecisioni o che sia non perfettamente aggiornato: la memoria è labile.
Ma l’intera storia è stata ripercorsa cercando il massimo grado di accuratezza, incrociando le fonti, confrontando le versioni e ciò a cui si è arrivati
è sembrata, se non la “verità” della storia – o della cronaca – quantomeno
la sua versione più plausibile. Conoscendo certe dinamiche “palermitane”
ci può essere un timore che eventuali omissioni possano suscitare invidie
e risentimenti invece di alimentare un dibattito costruttivo. Sarebbe molto
bello se questo non succedesse, per una volta. D’altra parte, se nemmeno
dopo anni di lavoro, colloqui, letture e ascolti un nome è emerso (di un
gruppo, di un solista, di un luogo), evidentemente è stato tanto flebile da
non lasciare traccia. L’occasione, dunque, è più che mai interessante per
fare di questo libro un lavoro aperto, passibile di ulteriori revisioni, aggiustamenti e aggiunte per un futuro più ricco e migliore per le sorti musicali,
e in generale culturali, di questa città.
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Le origini e gli anni sessanta
All’inizio di tutto ci sono i night e i caffè-concerto. A dispetto
della “tradizione” che la vuole città soprattutto d’arte e di teatro, a Palermo la musica ha svolto sempre un ruolo importante.
Anche indirettamente, a volte: non molti lo sanno, ma a Cefalù ebbe casa negli anni venti, agli albori del fascismo, Aleister
Crowley, la controversa figura di artista-occultista che nella località di mare impianta per alcuni anni la sua personale versione
dell’Abbazia del Thelema di rabelaisiana memoria. Dura poco,
perché si dice vi accada di tutto (“fai quello che vuoi sarà l’unica
Legge” il motto) e il neonato regime non può tollerare abitudini
e riti bislacchi e licenziosi: nel ’23 Crowley è costretto a lasciare
l’Italia. Muore nel ’47, ma la sua influenza sul mondo del rock
sarà profonda e ai massimi livelli: i Beatles lo avrebbero inserito
sulla copertina di “Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band”,
mentre Jimmy Page, il chitarrista dei Led Zeppelin, lo avrebbe
a sua volta eletto personaggio di culto. La casa di Crowley a
Cefalù esiste ancora, in abbandono, e poco se ne parla.
Durante il fascismo il jazz, che è approdato anche in Italia, trova una grande diffusione anche se ufficialmente – per le sue
origini nere – viene contrastato da Mussolini: proprio il figlio
del Duce, Romano sarà però nei decenni a venire apprezzatissimo jazzista. Quando il secondo conflitto mondiale scoppia,
non viene meno la musica, che è comunque riuscita a circolare
grazie a radio (l’Eiar dell’epoca) e dischi. Per divertirsi nei difficili anni della guerra e della ricostruzione, il nuovo sound che
viene dall’America è l’ideale. «Sappiate che mentre nel 1941-2
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Palermo al tempo del vinile
infuriavano i bombardamenti aerei nasceva a Palermo un complesso dalla bislacca denominazione 8Peppino8, cioè otto autentici pazzi i quali si riunivano a suonare, per nulla infastiditi
dalle sirene d’allarme, purché queste non fossero troppo stonate rispetto ai loro strumenti», raccontava Claudio Lo Cascio,
decano dei jazzisti palermitani e fondatore tra l’altro della New
Jazz Society, nella sua “Storia minima del jazz palermitano”
comparsa anni fa sul Giornale di Sicilia.
Il jazz lascia i segni a Palermo. Sopratutto in un gruppo di ragazzotti che all’epoca hanno tutti meno di vent’anni. Sono tempi in cui – come ricordava nel 2007 Claudio Lo Cascio nel corso
di un concerto in suo onore tenutosi al Conservatorio, rievocando i propri trascorsi in quelle aule, negli anni cinquanta –
«se gli insegnanti ti beccavano a suonare jazz rischiavi grosso».
Proprio lui che, del resto, nel 1991 sarebbe diventato addirittura
cittadino onorario di New Orleans, ebbe il merito, perserverando, di realizzare il primo concerto jazz in città e in Sicilia
(nel 1956), il primo concerto jazz al conservatorio (1958) e per
un’istituzione di musica classica e colta come gli “Amici della
Musica” di Palermo (1962).
Curiosa, peraltro, questa chiusura di mentalità in una città i cui
rappresentanti politici avevano mostrato (qualcuno dice, malignamente, una volta tanto) una certa sensibilità nei confronti
della cultura, istituendo pochi anni prima (1951) l’Orchestra
Sinfonica Siciliana, il cui organico fu pronto per il 1958. Ma
pur sempre di musica classica si trattava, e in quanto tale di cultura “alta”. Anni dopo sorte analoga sarebbe toccata anche al
bistrattato jazz, assurto nel frattempo al rango di musica colta.
Fuori dall’ambito prettamente accademico ma rimanendo nel
settore della musica d’élite, Palermo si mostrava avamposto europeo della scena contemporanea, con le “Settimane di nuova
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Le origini e gli anni sessanta
musica” organizzate dall’associazione Amici della Musica, con
la rivista parlata “Collage. Dialoghi di cultura”, con la neoavanguardia letteraria (il Gruppo ’63) e con interessanti risvolti
anche nelle arti figurative, ben illustrati da Marina Giordano nel
libro “Palermo 60”: ad esempio, il proliferare di gallerie gestite
da giovani artisti intraprendenti.
E Boris Vitrano, altro musicista di lunghissimo corso, aggiunge:
«Nasco jazzista, una passione nata coi V-Disc dell’epoca. Poi
però mi sono innamorato e per farmi una famiglia non potevo
continuare, negli anni cinquanta non si campava col jazz. Fu
comunque una grandissima soddisfazione quando con Claudio
Lo Cascio e Enzo Randisi facemmo il concerto alla Sala Scarlatti del conservatorio. Cominciai con la fisarmonica, misi su
dei complessini, era la fine degli anni quaranta – ’48 o ’49 –
non c’era nemmeno il contrabbasso, si faceva senza. Con me
avevo due ragazzini, i fratelli Rondinella, che suonavano sax e
tromba. Li feci conoscere a Claudio Lo Cascio. Io nel frattempo ero passato alla chitarra elettrica, strumento di cui mi innamorai subito. Così nacque questa orchestrina con quattro fiati.
Successivamente ampliammo l’organico: la formazione vedeva
Claudio Lo Cascio al pianoforte, Bruno Petronio al contrabbasso, Enzo Randisi al vibrafono, Gianni Cavallaro alla batteria, io
alla chitarra, Enzo Romano al trombone, Quirino Rondinella
alla tromba e Giacomo Rondinella al sax tenore. Era il 1952.
Il repertorio andava da Monk al bebop. Facevamo concerti in
giro, al Circolo del Banco di Sicilia, oppure al Circolo ricreativo
di Sigonella, in casa degli americani… A Palermo c’era un solo
posto dove si suonava quel tipo di musica, il Winter Garden,
poi diventato Le Mirage. Io però non ci ho mai suonato, ci andavo a sentire concerti: vennero Nicola Arigliano, Tony Carini».
Già, i concerti e i locali. In una galleria d’arte del centro, Collezionarea, spiccava pochi anni fa all’entrata un manifesto degli
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Palermo al tempo del vinile
anni cinquanta. Vi erano riportati i nomi di locali dell’epoca:
alcuni suonano familiari ancora oggi: la Kalesa, il Circolo dei
forestieri in piazza Kalsa, Le Mirage Night Club in via Emerico
Amari 148, la Tavernetta dell’Orsa maggiore dell’Albergo Sole,
in corso Vittorio Emanuele 291. I night e i caffè-concerto sono
i luoghi deputati alla musica, e i primi a qualcosa in più. Il più famoso è probabilmente il Mirage di Carmelo “Lino” Cavallaro,
autentico night con signorine discinte e avanspettacolo: anzi,
l’unico con un suo spettacolo, il “floor show”, mentre – fino
al loro decadimento, più o meno attorno alla metà degli anni
settanta – la maggior parte dei locali è solo dancing.
Di rigore in questi ritrovi sono gli standard da sala, normalmente jazz leggero, liscio e cose ballabili suonati dall’orchestra
del locale, oppure i successi melodici del momento. I caffèconcerto, quelli che allietano con le orchestre il tempo libero
della “buona borghesia” palermitana, e poi i bar, non sono solo
luoghi dove la musica si suona, ma anche quelli in cui se ne
discute: in via Libertà «c’era il Bar-Ristorante Salerno, luogo di
ritrovo di quel magnifico gruppo di jazzisti palermitani, allora
giovani emergenti: Livio Civilletti, detto Gesù Cristo, con barba
e chitarra, primo esempio di capellone palermitano, Enzo Randisi, Enzo Romano, Franco Jandolina, Gianni Cavallaro, che
trascorrevano ore seduti sul muretto antistante al Bar a discutere sull’ultimo disco di Luis [sic] Armstrong»1.
Dunque Miramare, Terrazze di Mondello, Kalesa, Birreria Italia (dove suonavano gli americani), Arena Trianon, Tavernetta
dell’Hotel Sole. Il Cafè Moka, tra via Ruggero Settimo e via
Rosolino Pilo: night di sera, di giorno sala da tè. Gli stabilimenti
balneari: Bagni Italia, Bagni Virzì… Sono solo alcuni dei nomi
che negli anni successivi al dopoguerra rievocano, nel ricordo
1 Anna Maria Ruta e Ettore Sessa, “I caffè storici di Palermo”, p. 76, Dario Flaccovio Editore, Palermo 2003.
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Le origini e gli anni sessanta
di chi c’era, il sogno di una città innamorata già in tempi non
sospetti delle suggestioni musicali che arrivano dall’America. I
palermitani hanno così modo di ammirare i divi delle “canzonette” in manifestazioni come il “Paladino d’oro” all’Hotel Palace di Mondello, con cantanti molti dei quali faranno carriera.
E poi ci sono i grandi concerti: Paul Anka al Teatro Golden nel
’57, e nella stessa location anche Ella Fitzgerald e Oscar Peterson; Louis Armstrong al Biondo, al Massimo il Modern Jazz
Quartet. Tra gli artisti locali si mettono in luce soprattutto solisti come Tony Compagno, il “Sinatra palermitano”, e Filippo
Alotta, papà della cantante Francesca, voce tenorile di musica
leggera. Mentre in ambito nazionale raccoglie successi Corrado
Lojacono come cantante e attore di riviste (“Attanasio cavallo
vanesio” nel 1952 e “Alvaro piuttosto corsaro” l’anno dopo con
Renato Rascel, entrambe di Garinei e Giovannini, o l’interpretazione di Polifemo nella versione comica dell’“Odissea” del
Quartetto Cetra nel 1964): suoi alcuni successi a cavallo tra i
decenni, talvolta con lo pseudonimo di Camicasca, tra cui la
hit “Carina” e il brano “L’anellino”, presentato con Luciano
Tajoli a Sanremo nel 1962.
È in questo contesto che nascono, in città, i “complessi”.
Sappiamo che già a cavallo tra
cinquanta e sessanta ci sono
diversi gruppi “da intrattenimento”.
«Con i Lords e gli Ambiziosi si
suonava nei matrimoni, attività principale degli orchestrali
Salvino Costa e i Jolly Boys
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Palermo al tempo del vinile
italiani – raccontano Franco Gaeta e Salvino Costa, che vivono “in prima linea” quegli anni sui palchi – Ci si vedeva alla
“Casbah”, il Bar del Teatro Massimo, che si trovava accanto
al teatro, a destra. Era veramente malfrequentato e chi aveva
bisogno di un complesso per una festa andava lì e chiedeva chi
ci fosse disponibile in quel momento». Così nasceva un gruppo musicale. «All’epoca avevamo gli “impegni”, cioè le serate.
Noi suonavamo sempre al Circolo degli impiegati civili, in un
bel palazzo in corso Vittorio Emanuele gestito dagli impiegati
stessi – ricorda Costa – C’erano rigurgiti artistici incredibili a
Palermo, io avevo la Galleria 4 venti, a Milano se lo sognavano
quello che c’era a Palermo in quegli anni.
Nel 1960 Pippo Baudo presentò a Monreale il “Chiostro d’oro”, una manifestazione musicale a cui noi partecipammo come
Black Cats: cambiavamo nome e organico a seconda delle occasioni. Ci chiamavamo con diversi nomi: Five Penny, Lords,
Black Cats, Jolly Boys e il nostro repertorio erano i brani leggeri dell’epoca, quelli che andavano per la maggiore» oppure
«suonavamo al Circolo ufficiali e al Circolo sottufficiali come
Salvino Costa e il suo complesso, c’erano sempre le serate danzanti». Gli fa eco Gaeta: «Andavamo poi all’Usi, una sorta di
onlus di spie autorizzate dagli americani, che prestavano libri e
dischi, e riviste musicali come Downbeat, per le quali alcuni di
noi impazzivano».
I Lords e gli Ambiziosi suonavano dunque le hit del momento
ai matrimoni e sono di casa al Biondo per spettacoli e gare o per
accompagnare altri artisti, come Rita Pavone. Entrambe le denominazioni richiamano i “canoni” della nascente moda anglosassone ed entrambi i gruppi sono accomunati dalla presenza in
organico di Franco Gaeta, il quale era accompagnato anche da
Gianni Li Vigni (quello del negozio Diskery, purtroppo chiuso
nel 2012 dopo 37 anni), Silvio Faldetta e Marcello Massarella.
Gli Ambiziosi cambiarono comunque organico, e già nel 1963
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The Black Cats
I Lords
si presentavano con Franco Scafidi (che cantava i pezzi in inglese), Li Vigni (per i brani in italiano), Faldetta, Ceraulo e Gianbarresi. Mentre la formazione dei Lords era composta così: Salvino
Costa, Piero Romano, Nino Anastasi, Roberto Gattuso, Franco
Gaeta. Tra gli altri personaggi del giro troviamo Claudio Lo Cascio, Renato Emanuele, Franco Menchinelli, Marco Glaviano,
che prima di fare il fotografo era un apprezzato vibrafonista. E
poi Pippo Campisi, trombettista presente anche nella prima formazione del Brass Group, Gianni Li Vigni e infine Totò Palma
e “Murtatella”, «che si prendevano gli “impegni” meno pagati».
Sempre in quegli anni nascono alcuni storici negozi di dischi:
c’era già Ricordi, poi M.A.E.R. Nel 1962 nasce La Boutique della musica di Paolo Taormina, che manterrà per cinquant’anni
ininterrottamente il ruolo di “rifornitore ufficiale” per tanti appassionati in città, fino alla chiusura, anche per lui, nel 2012.
«Con Lo Cascio e Randisi – ricorda ancora Gaeta – salivamo a
Monte Pellegrino morti di freddo, chiusi in macchina andavamo a sentire Radio Montecarlo per ascoltare il jazz che iniziava
tardi. Andavamo da Ricordi, da Alba [D’Accardi, futura titolare
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Palermo al tempo del vinile
di Ellepi, altra storica discheria chiusa nel 2008, dopo 35 anni,
nda], mettendola in croce per avere certi dischi americani, tipo
Elvin Jones. Andrea Calzetti, in via Daita, era invece un negozio di strumenti musicali e il titolare, che non era palermitano,
li aggiustava anche… Vi si riunivano i musicisti. E Barba, che
vendeva dischi a 45 giri a 690 lire in via Rosolino Pilo. Finché
non aprì D’Asta in via Narciso Cozzo, che li vendeva a 670!
Mentre quelli di Ricordi erano più cari. E poi c’era il famoso
negozio di strumenti musicali Sacco».
Ma la palma di veri pionieri del pop palermitano spetta a un
gruppo di cui anche Boris Vitrano, fino ad allora alle prese col
jazz, entra a far parte: i Moritat. «A un certo punto – racconta
– si formò il primo complesso commerciale: una volta avemmo l’occasione di suonare alla Tavernetta dell’Orsa Maggiore
di Hotel Sole in corso Vittorio Emanuele. A quei tempi tutti
gli artisti che recitavano a Palermo, per esempio al Biondo, andavano ad alloggiare là. Quindi automaticamente venivano giù
in tavernetta a mangiare, faceva anche da ristorante. Ci andai
coi Moritat, il cui nome deriva da un pezzo nell’“Opera da tre
soldi” di Brecht e che erano composti da Franco Costanza al
pianoforte, Pippo Rizzo a contrabbasso e tromba, Ciccio Caruso alla batteria, me alla chitarra, Ernesto Dolcinelli a sax alto,
sax tenore e clarinetto. Questo era il primo gruppo ufficiale da
locale notturno, poi ne avevamo altri per fare matrimoni, feste
private, negli stabilimenti a Romagnolo, allo Sperone… Le orchestrine lavoravano perché su questo litorale c’era da suonare,
da Spanò, al Lido Petrucci, al Lido Virzì. Qui il repertorio era
di musica da ballo, swing, polke, mazurke, valzer. Con i Moritat,
invece, si comincia a cantare. Si entra nel night: Pippo Rizzo
cantava le canzoni melodiche e io cantavo le canzoni caratteristiche, Buscaglione, Carosone».
«Anche nei pezzi commerciali che facevamo noi il jazz mi ha
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Le origini e gli anni sessanta
sempre accompagnato. Io ero l’arrangiatore dei pezzi. Nei Moritat il leader era Franco Costanza. Avevamo alcuni suoi pezzi in
repertorio, non cantati e senza testo, da ballare. Eravamo contenti perché avevamo buoni consensi degli artisti che ci ascoltavano, qualcuno diceva di volerci portare a Roma, a Milano, ma
poi regolarmente non se ne faceva niente. Ma un impresario
tedesco ci fece davvero un contratto per suonare in Germania
e partimmo dal 1959 al 1963. Per noi fu una scelta coraggiosissima ma dettata anche dal vile guadagno: a Palermo avevamo
tremila lire al giorno al Sole, in Germania mille e cinquecento
marchi al mese. Al cambio ci guadagnavamo: prendevamo più
di un impiegato di banca. Mandavamo anche i marchi alle nostre famiglie ed eravamo felici e contenti. Facevamo una bella
vita là, anche se il gruppo per l’occasione diventò Franco Costanza Quintet, e la cosa mi dispiace un po’ perché le cose si
facevano insieme».
«Lì era completamente un’altra vita. La Germania ricostruì con
molta più veemenza che in Italia, sul modello americano: come
stare negli Stati Uniti. Io, sempre camaleontico, imparai subito il
tedesco, dopo sei mesi lo parlavo perfettamente. Facevamo un
mese per città, con l’impresario Van Ritz. I tedeschi volevano
ascoltare buona musica italiana, fatta bene, roba tipo Natalino
Otto, o quella che si sentiva nei vari festival, ma niente roba
inedita nostra. Facevamo il Tanztee [momento musicale pomeridiano, ad accompagnare appunto il tè, nDa], in due turni, poi si
chiudeva a mezzanotte. Nel turno di pomeriggio, un giorno un
cameriere ci disse che c’era un gruppo che era venuto a vederci e che lavorava a Sankt Pauli, e che faceva musica moderna,
“bordellosa”. Noi, curiosi, finendo a mezzanotte, ricambiammo la visita: siamo andati a sentirli in un localaccio vicino al
porto, credo lo Star Club. Ci indicarono chi erano: “Quei cinque seduti là”. Erano i Beatles! Andammo via di là disgustati,
suonavano con strumenti scordati, erano stonati, però c’era il
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Palermo al tempo del vinile
sound nuovo di chitarre sparate… Non mi piacevano ma ho
colto questa novità. C’erano tanti complessi rock’n’roll, ma loro
facevano qualcosa di nuovo: buttavano le basi per il beat. Quando poi fecero “She Loves You” dicemmo: “Talè, quegli imbecilli che non sapevano suonare!”. Ci rimanemmo un po’ male
ma loro si erano ripuliti, grazie anche al lavoro dei discografici.
Nel 1963 mia moglie rimase incinta per la seconda volta e non
voleva partorire là perché aveva paura che avrebbero mandato
il figlio in guerra, avevamo la psicosi del tedesco guerrafondaio.
Conclusi i contratti che avevo e tornai nella nostra Panormus».
Cosa succede nel mondo, nel frattempo? La storia è arcinota, gli
anni sessanta sono densi di eventi e personaggi cruciali: Kennedy, la guerra nel Vietnam, la crisi dei missili di Cuba, e via
avanti negli anni coi primi accenni di crisi sociale e ribellione
congiunta di giovani, studenti, lavoratori, classi medie intellettuali. In Italia, i morti del governo Tambroni e un paio di golpe
tentati sono solo alcuni episodi che connotano l’instabilità che
si riverserà con ancora maggiore violenza negli anni settanta.
In musica, l’ascesa del Mersey Beat e in particolare dei Beatles, l’avvento dei Rolling Stones e la stella splendente ma già in
declino artistico di Elvis Presley sono solo i tratti più noti di
una composita vicenda musicale che vive un decennio epocale:
gli anni sessanta sono Bob Dylan come i Velvet Underground,
i Doors, Jimi Hendrix e tutta la scena garage-psichedelica, e
molto altro ancora. Sono il decennio terminato il quale, dopo
lunghi flirt, il jazz sposerà il rock.
Anche Palermo diventa patria di tanti piccoli complessi beat,
mentre si assiste contemporaneamente alla proliferazione di locali che diventano dei cult: Grant’s, Life, Escalation, Black and
White, Il gatto nero, La tartaruga. Ma soprattutto l’Open Gate
e il Club America. Il bowling era il ritrovo dei giovani beat. Ci
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Le origini e gli anni sessanta
suonavano nel pomeriggio ed erano tantissimi i ragazzi sotto
i 19 anni ad avere un gruppo. Alcuni artisti che hanno vissuto
quell’epoca sostengono che fossero addirittura in 1000-1500
nel “giro”, con almeno 300 complessi, la cui esplosione mette
insieme figli di papà e borgatari, in un incontro tra classi sociali
(e con parecchi sacrifici per comprare gli strumenti).
«L’Open Gate tolse le inibizioni», afferma Vitrano. Si racconta che i musicisti fossero circuiti dalle ragazze con varie scuse.
«Infatti si verificò un gran numero di aborti in quel periodo. Il
pubblico era composto da gente bene per varie ragioni: solo
famiglie benestanti davano alle ragazze certe libertà e solo loro
andavano a ballare lo yé-yé, e chi si arricchì furono i medici, che
si facevano pagare tantissimo, essendo gli aborti ancora illegali».
Ma il posto allora di moda per i giovani, nascente categoria “sociale” (e commerciale), è il Bar Adriana. Qui si esibisce pure
Giuni Russo, che si fa chiamare ancora col suo vero nome,
Al Bar Adriana: Guido Di Blasi, Gianfilippo Abbaleo,
Carmelo Pagano, Nino Muratore, Toni Vinci (1964)
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Palermo al tempo del vinile
Giusy Romeo. Il Bar Adriana è a piazza Castelnuovo, dove c’è
il palchetto della musica, che per l’occasione viene recintato.
Si chiama così dal nome del bar tra via Dante e via XX Settembre. Sono però anni poveri per l’intrattenimento giovanile
e nella memoria di chi c’era la frase è sempre la stessa: la città
offre ben poco. La cosa divertente, però, è che sono in molti a
vantare il merito di avere “importato” il beat a Palermo. Infatti,
i ragazzi dei sixties, già capelloni e spesso impegnati sul profilo
politico (Palermo e la provincia sin dagli anni cinquanta erano
in prima linea nelle lotte contadine, operaie e poi studentesche),
non perdono però tempo, organizzandosi per suonare sin dagli
anni del liceo.
Come ricorda Pippo Cataldo, ex direttore artistico dell’Orchestra Sinfonica Siciliana, che vive gli anni sessanta e settanta
come protagonista della scena rock, prima locale e poi nazionale: «Tutto ciò che precede la svolta del ’70 si ricollega a un
periodo di grande fermento culturale, anche se definirlo così
può sembrare un po’ pretenzioso. Fermenti musicali che riflettevano la società e che, dal 1966, coincidevano con il pop o il
beat. La Sicilia e Palermo non erano rimasti a guardare, pur
ritrovandosi all’estrema periferia dell’Europa. Io ricordo che i
gruppi sorgevano come funghi, ce n’erano almeno un centinaio
tra Palermo e provincia». I nomi sono tanto originali e curiosi
quanto allo stesso tempo “classici”, “già sentiti”, pur essendo
invece del tutto sconosciuti o rimossi dalla memoria. Abbiamo
così anche qui, lungo tutto il decennio, i Baronetti, i Preferiti, i
Moderns, i Gattopardi, le Scimmie. Molti di essi vengono citati
(e basta, senza troppi particolari) nel libro di Tiziano Tarli “Beat
italiano”. Ne abbiamo alcuni che, a distanza di anni, verranno
riesumati in meritorie compilation che andavano scandagliando
i meandri più oscuri del beat tricolore (il cosiddetto “bitt”) per
recuperare le gemme perdute, come la serie “60’s Italian Beat
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Le origini e gli anni sessanta
Resurrection”, dodici vinili della Destionation X usciti a inizio
anni novanta: Fabio e i Novelli (“Mai più ti vedrò”); I Premiers
(“Yhe… e e e!”); gli Asteroidi (“Sesto Sincronismo”), questi
ultimi formati dai giovanissimi Nino (armonica elettronica),
Franco (basso), Tony (chitarra), Enzo (batteria) e che alcune
fonti riconducono a Castelvetrano. O in “Magic Bitpop vol. 1”,
dove Enzo Dima e gli Apaches compaiono con i brani “Dolce
Campagna” e “Se ci sei”. «Questo fiorire – prosegue Cataldo –
era un fatto quasi naturale, era un discorso legato a fenomeni
musicali che arrivavano dall’esterno. È un elemento importante
perché mette in evidenza la capacità evocatrice che la musica
dovrebbe sempre avere: la speranza, gli ideali. Nella semplicità
di quelle cose c’era la stessa intensità espressiva che può esserci
in Mozart».
Ma i gruppi, come si diceva, spuntano come funghi. Molto
spesso di età media piuttosto bassa. Un breve elenco: le Bisce, i
Burps (Bebo Cammarata, R. Riccobono, E. Guarino, F. Palma),
i Megaton, i Grifoni, i Daini, i Beat Boys, i Fantasmi (Pino Patti,
Vito Lupo, Vito Virzì, Antonio Soldano, Angelo Crocetti, ma
in un’altra formazione: Angelo Crocetti, Mimmo Carmucco,
Massimo Melodia), Giants, Ram Tam Group, Gli Avvoltoi, The
Black Pirates, The Crazy Boys, I Supersonici, I Pipistrelli, I Filibustieri, I Favoriti (Paolo Gennaro chitarra, Tony Compagno
voce, Sergio Caminita contrabbasso, Franz Cammarata batteria). C’erano poi i Misteriosi, i Diavoli, i Delta 5, i Gattopardi
777 (F. Zacco, M. Tutone, P. Borruso, M. Carbo), i The New
Secret, i Filosofi (Salvatore Pirrello chitarra, Francesco Pirrello
voce e organo, Sergio basso e Claudio batteria), The Percussion
5, Orazi e Curiazi. Nei Misteriosi suonano Enzo Rausei, Michele Seffer, Marcello Marinaro, Salvo Giralucci e Mimmo Giralucci, per una sera si unisce anche Pippo Cataldo (prassi consueta,
quella di “scambiarsi” musicisti per singole serate): fanno mu29
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Palermo al tempo del vinile
sica alla Moody Blues. Ma un’altra versione accredita il gruppo
con una formazione che vede Mimmo Taibbi al piano, Mimmo
Rovello alla batteria, Enzo Rausei alla chitarra, Guido Malta alla
voce e Massimo Melodia al basso. Ci sono i Baronetti (Ninni
Bonetta basso, Attilio Marrone chitarra ritmica, Salvo Azzarone
chitarra solista, Giuseppe Glorioso voce, Franco Sorti batteria) che fanno cover in maniera perfetta e forse anche qualche
brano loro; il cantautore Marcello Sanchez; Marchello Megna; i
Fantasmi, già citati pure loro, dove suona anche Pippo Cataldo,
col cantante Crocetti, parrucchiere, dalla voce simile a quella
del leader dei Corvi. Inoltre, abbiamo ancora Vito e i Ritmici
(Salvo Azzarone chitarra, Vito Rinella voce, Giuseppe Gambino batteria, Angelo Baio basso) e le Estensioni (Salvo Azzarone
alla chitarra, Guido Malta – che faceva parte anche del gruppo
I Cavalieri di Malta – voce e batteria, Peter Russo dei New Juice
al basso e Sandro Cottone, che aveva un gruppo ad Alcamo,
all’organo hammond). Alcuni di questi complessi, in una sorta
di revival, si sarebbero riformati negli anni successivi, solo per
il gusto di suonare un po’.
Nei Monks ci sono Michele Seffer (voce e basso), Nunzio La
Mantia (tromba), Pippo Neglia (pianoforte), Giovanni Genovese (tromba), Gaetano Bertucci (sax tenore) e Tony Mauro
(batteria), ma fanno piuttosto pezzi per fare ballare la gente, più
da night, con escursioni nel pop e nel rock. E hanno all’attivo
un disco anche loro: “La ragazza di un sogno”/“Angeli negri”,
la prima a firma Russo-Di Vita, la seconda cover di un successo
di Fausto Leali. Abbiamo poi le Ruote, che assieme al Clan 712
e ai Misteriosi si contendono la scena palermitana. «Avevamo
un cantante italo-americano, Larry Castelli – racconta Cataldo
– grazie al quale potemmo realizzare e proporre una serie di
musiche completamente sconosciute, come Grateful Dead e
Doors. C’era Giovanni Garofalo, poi Gaetano Palazzo al basso.
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Le origini e gli anni sessanta
Facevamo anche pezzi nostri, mai però messi su disco. Inaugurammo noi il Piper di Palermo nel ’68, facevamo il pomeridiano
per i giovani, mentre i Moderns inaugurarono il serale».
Nasce persino una casa discografica, probabilmente la prima
di cui si abbia memoria in città, sulla quale appare un trafiletto
nella rivista “Noi giovani” in un numero del ’68: «La Musical
Records è una nuovissima Casa discografica palermitana che si
propone di lanciare cantanti, parolieri, complessi e compositori
di musica leggera. Incidono già per questa nuova Casa discografica: Elio Alonge (che ha partecipato al Cantagiro 1965), Gli
Asteroidi, I due Menestrelli, Umberto Sacco, Rosalba Falbo,
The Black Pirates, Fabio e i Novelli, Salvo e gli Accademici». È
rimasta qualche traccia di tutto ciò? No, non è rimasto niente.
Insomma, è il boom del rock in città. Ed è simbolo di gioia
e rivoluzione, per citare gli Area. Ma c’è poco di politico in
senso stretto, è più che altro l’ondata giocosa di chi, costretto
dai lacci di una società più chiusa e arretrata di altre, assapora il
profumo e l’ebbrezza di una libertà infinita. Ci sono comunque
distinzioni nette tra chi fa night club e chi invece i “pomeriggi”.
È questo il discrimine artistico tra chi fa musica pop a Palermo.
Anche il compianto jazzista Enzo Randisi si presta a un repertorio r’n’b in qualche occasione. E ovviamente in questa rassegna non possono mancare gli Scouts, che accolgono, a un certo
punto del loro percorso, un giovane musicista che farà parlare
di sé: Carmelo Lucà. «Nel 1968 subentrai a Salvo Calista, allora
“organista”, come venivano chiamati, degli Scouts, che – trovando lavoro – lasciò il gruppo. Gli amici di piazza Marina mi
dissero dell’opportunità. Il gruppo era nato nel 1965 ed entrandoci ho voluto dare un nuovo indirizzo: loro facevano intrattenimento nei matrimoni suonando repertorio altrui. Io prima
suonavo la fisarmonica. Dopo le prime esperienze facemmo
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Gli Scouts
Palermo al tempo del vinile
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vari concorsi, tra cui “Complessissimo”, organizzato dai quotidiani Paese Sera e L’Ora, nel 1969. Gli Scouts suonarono al
Teatro Capitol, vicino al Policlinico». In un’autentica bolgia, la
finale li vide vincere sui Gattopardi, che si aggiudicarono però
il “Premio Simpatia”. Alle selezioni regionali gli Scouts si classificano primi. «La finalissima nazionale si svolse al Titan Club di
Roma e ci classificammo secondi dietro ai Romans, che erano
di un’altra categoria».
Al ritorno dall’esperienza romana agli Scouts spetta di diritto
incidere un 45 giri: “Credimi/Se credi a quello che”, quest’ultima cover dell’Equipe 84. «Il repertorio era principalmente basato sulle cover. Qualcosa di nostro però c’era. Facevamo soft
prog. Alcuni dancing del nord mi proposero dei contratti. Il
primo fu Wainer Barbati, uno degli impresari dell’agenzia Erpic. Era la fine del 1969 e ci scritturò per suonare a Padova».
Gli altri Scouts (Pippo Caccìa batteria, Pino Ferrara basso, Pino
Messina chitarra, un chitarrista-bassista, Karl Über, austriaco, e
Franco Messina alla voce, oggi scomparso) “tradirono” Lucà,
che precisa «anche se tutt’ora siamo amici. Ecco come andò:
una settimana prima di iniziare il lavoro al dancing Columbus
di Padova dissero che non erano d’accordo a rispettare questo
contratto, lasciandomi in un mare di guai. Non mi persi d’animo e siccome avevo appena conosciuto alcuni componenti dei
Titani, feci loro la proposta e accettarono. Erano forse il miglior
gruppo di Palermo, anche se poco conosciuto: Rosario Vizzini
chitarra, Renato Faldetta basso, Enzo Cusimano pianoforte e
organo e Giulio Alessi batteria. In una settimana si provò un
po’ di repertorio e, arrivati a Padova, la prima cosa che feci fu
spiegare all’impresario cosa era successo. Per l’occasione decidemmo di chiamarci Alisei, una ventata d’aria calda». Una storia
che prosegue negli anni settanta.
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Altra parabola che sorge negli anni settanta e si incrocerà successivamente anche con gli Alisei per le vicende di alcuni componenti è quella che porta alla nascita delle Nuvole gialle. Gli
esordi sono a dir poco “avventurosi”, in senso naïf. Il primo
gruppo era formato da quattro elementi: Pippo Caradonna alla
chitarra, Nino Gibiino alla chitarra, Mimmo Calantropio batteria, Toti Di Paola voce e chitarra. «La batteria che Mimmo si
era inventato – racconta Caradonna nella biografia del gruppo
– era formata da: rullante (tamburello da spiaggia con molle
metalliche applicate), grancassa (fusto di ducotone privo del coperchio), tom 1 (fustino di detersivo tondo), tom 2 (fustino di
detersivo tondo ma accorciato), piatti e charleston (piattelle del
passapomodoro). La chitarra di Nino era stata costruita da noi
stessi utilizzando materiali di recupero ed aveva la forma della
allora famosa chitarra dei Rokes, a freccia. La nostra sala prove
era la strada, o meglio un angolo di campagna, dove potevamo
suonare senza disturbare. Il nostro genere musicale era influenzato dai tanti gruppi italiani che negli anni sessanta impazzavano – Corvi, Camaleonti, Dik Dik, Equipe 84, Giganti, Rokes
– e dai gruppi inglesi come Beatles e Rolling Stones»2.
La prima registrazione a casa di un amico, Carlo Russo, che
possiede un registratore a bobina. Il brano è “Deborah” di Fausto Leali. Risultato non eccezionale ma già un successo per il
quartetto, orgoglioso di fare ascoltare il nastro ad amici e parenti. «Il nostro primo disco lo incidemmo nella cabina che avevano allestito alla stazione centrale e che permetteva con 1000 lire
di incidere la voce con eventuale musica su di un disco in vinile.
Armati di chitarre e percussioni varie entrammo in quattro nella
cabina ed eseguimmo il brano scritto da un amico che si chia2 Pippo Caradonna, “La vera storia delle nuvole gialle (ricordi by Pippo Caradonna)”, riportato in http://www.playrecstudio.it/Nuvole%20gialle/nuvolegialle%20
biografia.htm.
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mava Bugio (non ricordo il nome), il titolo del brano era “Io
come un povero”. È inutile dire che nonostante la scarsa qualità
del disco per noi rappresentava già un grande traguardo, l’unico
rammarico è quello di non averlo conservato»3.
Per motivi familiari, dopo due anni il gruppo si scioglie. Nel
1968, in un caldo pomeriggio d’estate, avviene l’incontro di
Caradonna con Piero Biancato. «Mi chiese se volevo formare
una nuova band con lui come cantante, un batterista e un altro
chitarrista, Giovanni Lo Giudice, già nelle Rocce, un gruppo
palermitano conosciuto che si era sciolto. Io accettai senza indugio, anche perché Piero era molto convincente ed entusiasta.
Ci incontrammo a casa di Giovanni, una piccola discussione
per conoscerci e poi via a suonare. Fu una esperienza indimenticabile, il batterista era alle prime armi però era molto musicale
e faceva del suo meglio, Giovanni era molto bravo, aveva un
bagaglio tecnico invidiabile ed una voce simile a quella di Nico
dei New Trolls. La vita di questo gruppo fu breve, infatti dopo
tre mesi ci fu una svolta»4.
La svolta è un nuovo incontro, quello con il gruppo dei fratelli
Paolo e Tonino Sampino, rispettivamente cantante e batterista.
«Conobbi anche il tastierista Angelino Mangano (bravino) e il
chitarrista Totò detto “mpi mpi”. Fummo invitati a suonare
con loro, ricevendo il consenso dei due fratelli che mi proposero di entrare nel loro organico. Io in un primo tempo non
volevo tradire Piero e compagni, ma poi, incoraggiato da Piero stesso, accettai. Inizia così un lungo periodo di prove, affittammo un magazzino, la domenica noleggiavamo gli strumenti
che mancavano e provavamo tutto il giorno. Eravamo pronti
3
4
Ibidem.
Ibidem.
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per affrontare il pubblico»5. Nascono The Conquerors, formati
da Tonino (batteria), Pippo (chitarra e basso), Totò “mpi mpi”
(chitarra), Paolo (voce), Angelino (organo). Nel 1969 Paolo
Sampino riceve la chiamata alle armi e la band è costretta a cercare un cantante: si aggrega Piero Biancato, la cui voce grintosa
e rockeggiante ha caratteristiche diverse di quelle di Sampino,
più potente e melodica. «Un giorno che dovevamo andare a
suonare in una festa, il nostro organista Angelino si ammalò.
Eravamo disperati, non sapevamo chi contattare. Allora Piero
ebbe un’idea: ci fece conoscere un giovane pianista, Giovanni
Alamia, era bravo ma non possedeva strumenti, lo invitammo
alle prove e fummo colpiti dalla sua tecnica. Giovanni convince
il padre a comprargli un organo Farfisa Professional e prende
definitivamente il posto di Angelino. Nel frattempo anche Totò
“mpi mpi” viene sostituito da Toto Spanò, e arriva anche Giovanni Lo Giudice che era passato al basso». La band cambia
nome: nascono Le Nuvole Gialle con Pippo Caradonna (chitarra), Toto Spanò (chitarra), Giovanni Alamia (organo), Giovanni
Lo Giudice (basso), Tonino Sampino (batteria), Piero Biancato
(voce) e ha inizio un periodo di fortuna per la band, che grazie
alle numerose serate può permettersi di comprare microfoni e
impianto di amplificazione. «Il gruppo conosce il successo e la
popolarità, nei paesi vicino Palermo le ragazze vanno in delirio
ai nostri concerti e si tingono i capelli a ciocche gialle». Toto
Spanò abbandona il gruppo, al suo posto si aggrega un sassofonista, Pino Trafficante. Siamo nel 1970 e ci saranno molti altri
cambiamenti in organico, tra cui gli innesti di Ivan Pollicino al
basso e Tony Sardisco al sax e al flauto (già bassista del gruppo
Le Utopie, composto da Nino detto “U Turcu” batteria, Nino
Di Carlo chitarra solista, Pippo Esposito chitarra ritmica, Franco Nodari organo), e Rino Martinez in veste di co-autore di
molti brani del gruppo.
5
Ibidem.
36
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***
In città, intanto, fiorisce anche il teatro, da quello sperimentale
al cabaret. Il 20 dicembre 1967 apre i battenti a Cefalù, in via
XXV Novembre, il Club “La Caverna”. Gli spettacoli sono realizzati dai soci Pippo Maranto (attore chitarrista), Gigi Nobile
(cantante chitarrista, componente di una formazione musicale
di successo: gli Apaches 91), Antonio Augello (attore), Nico
Marino (attore chitarrista), Pio Pollicino (cantante), Romilda
Palamara (attrice), Mara Vazzana (attrice), Peppe La Rosa (tecnico delle luci), Giuseppe Cicio (scenografo). Durante i fine
settimana e in estate, si unisce loro saltuariamente il palermitano Leandro Parlavecchio (attore, cantante e bassista) che diventa “effettivo” nell’estate del 1969. Vengono ribattezzati “Quelli
della Caverna” dal giornalista locale Michele Bellipanni e iniziano a proporre i loro spettacoli al Club, una settimana dopo
l’altra: “Questo pazzo, pezzo, pizzo, pozzo, puzzo mondo”,
“Il polpo di Stato”. Ben presto lasciano Cefalù per approdare
alla Kalesa di Palermo: nascono I Cavernicoli. Lo spettacolo è
“Sodoma e Camorra” e da lì si continua con “Il sesso unico”,
“Sette noci”, “I compromessi sposi”, “Cabaredia”. Melo Freni,
giornalista Rai della sede di Palermo, scrive i testi di alcuni loro
spettacoli e di diverse canzoni di stampo folk siciliano. L’attività
del gruppo proseguirà praticamente fino ai giorni nostri, con
numerose apparizioni anche nelle emittenti tv nazionali.
Nel 1968, invece, nasce il Teatro Libero di Beno Mazzone, stabile d’innovazione votato al teatro contemporaneo ancora oggi
in attività, e spesso direttamente coinvolto nella crescita della
scena musicale locale e non solo dei teatranti. Più o meno contemporaneamente fa la sua comparsa anche un’altra imprescindibile esperienza. Salvo Licata, dopo la prima esperienza al CUT
(Centro Universitario Teatrale) di Paolo Ursi, Antonio Marsala,
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Palermo al tempo del vinile
Gabriello Montemagno, poi di Michele Perriera e Gaetano Testa, tra il 1966 e il 1967 crea I Travaglini. Tra cabaret politico di
stampo tedesco e identità palermitana, i Travaglini prendono il
nome da Les Travailleurs, una compagnia del seicento-settecento di funamboli francesi. È la fucina da cui provengono Luigi
Maria Burruano, Alda Bruno, Giorgio Li Bassi, Ignazio Garsia,
Norino Buogo, Enzo Fontana, Giovanni Nanfa, Bibi Bianca
e altri. Alla fine del 1968 nasce il teatrino Aziz, in via Amari,
la cui unica stagione è inaugurata con “Scherzo per tromba,
fisarmonica e guitti”. In un amarcord della compagnia, Antonio
Marsala ricorderà le «risate spesso amare delle serate in via XX
Settembre. Serate di ogni sera perché i Travaglini stavano aperti
il martedì, mercoledì, giovedì, venerdì, sabato e la domenica,
due spettacoli pomeriggio e sera. E ne veniva di gente»6.
***
Tornando alla musica, dal calderone dei gruppi beat come dal
nulla spunta fuori uno che col Rock in realtà non c’entra molto,
perché si rifà piuttosto alla tradizione melodica italiana, e che
per qualche stagione godrà di un successo clamoroso: Nico e
i Gabbiani. A guidarli è Nico Tirone, studente di Sciacca fuori
sede che si ritrova matricola diciottenne a Palermo e in poco
tempo si inserisce nell’ambiente musicale cittadino. «Questo
gruppo cercava un cantante e subito ci siamo messi insieme.
Allora c’erano meno mezzi e meno tecniche, bastava essere intonati e avere capacità espressive e magari una voce particolare
che attirasse i discografici». L’incontro tra Tirone e gli altri, tutti
di Carini (Giulio Prestigiacomo, Franco Mannino, Vito Balsamo, Vick Cataldo), avviene all’università, facoltà di Scienze biologiche. «Facevamo le serate con un repertorio vario per fare
6 Antonio Marsala, “Amarcord dei Travaglini” in Repubblica Palermo del 24 gennaio 2008, p. 9.
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Le origini e gli anni sessanta
ballare le persone, abbiamo iniziato alle feste di paese e al ristorante Giardino, all’interno della Fiera del Mediterraneo, dove
c’era anche un dancing. La gente visitava la fiera e poi veniva a
mangiare o a ballare. Ci chiamammo subito Nico e i Gabbiani e
suonavamo roba italiana melodica, Jimmy Fontana, Little Tony
e Bobby Solo».
I cinque ragazzi siciliani preparano quindi un 45 giri, con il
brano “Ora sai”, con le tipiche sonorità beat, mentre il retro,
“Parole”, è un brano melodico considerato minore. Giulio Prestigiacomo (tastierista) rivendica la paternità del pezzo7, anche
se Tirone ha dato una versione diversa. «C’era il bassista [Vito
Balsamo, nda] che aveva scritto un testo e a un certo punto
io lo ascolto, mi piace e comincio a cantarlo. La musica era di
un milanese, un certo Friggieri: così viene fuori la canzone da
due milioni di copie, il primo successo». Li sente allo Star Club
di Misterbianco un ragazzo palermitano «che impazzisce e ci
porta a Milano, Elio Traina, un antiquario e imprenditore che
aveva contatti in quella città cercati telefonicamente. Ci fissa un
appuntamento con delle case discografiche. Portiamo con noi
il provino di “Parole”, ma riceviamo solo rifiuti perché non è
rock. Incidiamo dunque a pagamento: mille copie presso un’etichetta, una topaia, la City Records di Milano, senza distribuzione, con strumenti di fortuna». Il “mistero” della paternità del
brano è svelato dalle note presenti sul disco, che attribuiscono
il brano a Friggieri-Prestigiacomo.
Siamo nel 1967. «Ma una volta che eravamo a Milano non potevamo pensare di essere arrivati, pur essendo molto contenti
di avere inciso il disco. Avevamo una strumentazione di merda
e non potevamo fermarci là, allora – da minorenni – ci siamo
7 Biografia sul Myspace ufficiale del musicista (http://www.myspace.com/giulioprestigiacomo), consultato più volte tra il 2008 e il 2010.
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Palermo al tempo del vinile
comprati, spendendo non so quanto, l’ira di dio di strumentazione, dalle chitarre ai microfoni, agli amplificatori, e abbiamo cominciato a girare per l’Europa. Siamo partiti per l’Olanda dopo
aver cercato contatti: Eindhoven, Amsterdam, l’Aia. Dopo tre
mesi le nostre fidanzate, oggi mogli, ci chiamano al telefono e ci
dicono che siamo in radio. Noi non ci credevamo… Eravamo
andati là per rimediare soldi e pagare i debiti per gli strumenti,
ma il disco cominciava a funzionare benissimo in Italia, quindi
siamo tornati in fretta e furia. Attraversata l’Europa ci siamo
fermati al ristorante Paradiso di Viareggio. C’era una radiolina
in una mensola con Lelio Luttazzi che presentava “Hit Parade”
e a un certo punto annuncia, gridando, la novità di “Parole” direttamente al terzo posto in classifica: “Non sappiamo da dove
vengono né chi sono: Nico e i Gabbiani!”. Ti lascio immaginare
cos’è successo: abbiamo cominciato a spaccare tutto, quadri,
sedie… Il proprietario del locale chiama la polizia e ci mettono
dentro! L’indomani, all’arrivo del commissario, abbiamo chiarito la situazione e abbiamo pagato 700mila lire (lo stipendio
medio di un insegnante di allora era di 120 mila lire). Avevamo
distrutto tutto, tipo Far West, è stato uno sfogo esagerato per
la situazione in cui ci trovavamo. In hit parade restiamo 18 settimane con due milioni di copie vendute: diventiamo dei divi.
Allora andavano forte i juke box e il brano era gettonatissimo. Il
discografico aveva deciso di fare una tiratura di diecimila copie,
di cui cinquemila per i negozi: sono sparite in due giorni. Poi
centomila nei negozi: sparite in un mese, e così via».
La band comincia a girare l’Italia con spettacoli un po’ dappertutto e viene quindi rilevata dalla Ariston. «Alfredo Rossi,
proprietario dell’etichetta e fratello di Carlo Alberto [tra i più
famosi discografici italiani di sempre, nda] ci chiama per scritturarci, ma ci ha inculato perché gli abbiamo regalato le edizioni. Siccome ci aveva stampato i manifesti ci siamo sentiti dei
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Le origini e gli anni sessanta
divi, ma quelle edizioni valevano molto di più». Di fatto la band
non riesce però a bissare il successo clamoroso di “Parole” con
nessuno dei dischi che seguiranno (“Amore”/“Qualcosa resterà” del 1967, “Ritornerà l’estate”/“Amore” del 1968, “Nico
ricordami”/“Serenata celeste” del 1968), il che porterà il gruppo a essere dirottato verso la sottoetichetta First, per la quale
incidono, nel 1969, “Fiumi di parole”/“Vivo”. Con la prima
canzone partecipano al “Disco per l’estate” e, nello stesso anno,
viene pubblicato l’unico lp del gruppo, “Successi di ieri e di
oggi”, che Tirone descrive come un «33 giri di pezzi riesumati
dal produttore Corrado Lojacono, fatto di cover antiche come
“Il tango della gelosia”, ma di poco successo», a dispetto del
titolo. Poi, di colpo, la chiamata alle armi per il frontman. «Mi
arriva per il 1970 e non posso rifiutare. La leva durava 15 mesi, i
ragazzi si sono incazzati e preferirono continuare da soli». L’ultimo spettacolo del gruppo si tiene a Courmayeur il 31 dicembre del 1969. «Ma la gente non ne voleva sapere niente senza
di me e in sei mesi hanno chiuso». Durante il servizio militare,
Caterina Caselli cerca Nico Tirone e lo lancia nella sua carriera
solista. Primo disco di quella nuova era, che esce a nome Nico
e le Ali Bianche, è “Raggio di sole”/“L’uomo del tuo cuore”.
Un’era che dura fino al 12 aprile del 2012, quando Nico Tirone
muore nella sua casa di Mazara del Vallo a seguito di una lunga
malattia.
Resterà comunque il ricordo di un’esperienza incredibile, che
tutt’ora fa di Nico e i Gabbiani uno dei gruppi palermitani di
maggior successo di sempre, con numerosi tour anche all’estero. Ricordava in proposito Tirone: «La prima tournée in America coi Gabbiani fu straordinaria e piena di imprevisti. Assieme
a noi c’erano Wilma Goich ed Edoardo Vianello. In uno degli
spettacoli a Newark, in New Jersey, dopo un quarto d’ora siamo
scappati via, il posto era in cenere: i neri stavano incendiato
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Palermo al tempo del vinile
tutto per l’assassinio di Martin Luther King. È stato un evento
che ha segnato la mia vita, mi sono impressionato. Un altro
episodio avvenne al Manhattan Center, uno dei locali più belli, non c’era ancora il Madison Square Garden. Eravamo sulla
ribalta di questo grande palcoscenico, io allora ero belloccio,
facevo anche fotoromanzi… Le ragazze erano impazzite e una
riuscì a strapparmi una scarpa e scappò inseguita da un agente
dell’Fbi!».
***
Tra i vari ragazzi che all’epoca si divertono con la musica, emerge anche un giovanotto che si ritrova catapultato, praticamente
da un giorno all’altro, dall’assoluto anonimato alle ribalte più
prestigiose della musica popolare italiana: si chiama Carmelo
Pagano e anche lui, come molti coetanei dell’epoca, inizia la gavetta a scuola, da adolescente. «Abitavo in via Pisacane, a poca
distanza dalla casa di Lando Buzzanca. Quando ho cominciato
era il periodo di Beatles, Stones, Cliff Richard e dei film musicali come “Summer Holiday”, con gli Shadows, che vedevamo
all’Arena Tukory e in altri cinema della città. Verso i 15-16 anni
provavamo in un negozio di tabacchi in via del Vespro: suonavo
la chitarra e cantavo, avevo la capacità di imparare subito. Al
liceo c’erano diversi complessi, ma erano dilettanti. La prima
volta in pubblico è stata all’Oratorio di Sant’Antonino nell’intervallo della commedia di Martoglio “San Giovanni Decollato”. Cantavo “La casa del sole”, le cose che andavano di moda
all’epoca. Non avevamo neanche la batteria…».
Pagano decide di fare sul serio formando un gruppo, The Savages. Siamo nel 1964. In via Maqueda sorge l’arena Trianon, un
luogo da cui passano tutte le riviste d’avanspettacolo e i Savages
ottengono una scrittura dopo essersi fatti una buona fama in
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Le origini e gli anni sessanta
giro. Pagano si fa chiamare Remo Pagani, per fare un’assonanza con Remo Germani, il cantante. I Savages sono la classica
formazione in quartetto dell’epoca, tre chitarre (con basso) e
batteria. Il batterista è Giovanni Florà, detto Giannuzzo. Il repertorio è composto da canzoni dei Beatles, a partire da “She
Loves You”. «Suonavamo ai matrimoni come Remo Pagani &
The Savages. Parecchie volte abbiamo suonato a piazza Politeama, vicino al Tempietto della musica, al Bar Adriana. Cantavo
non solo Beatles, ma anche Morandi, Ferrer, “Cuando Calienta
el Sol”. Avevamo cambiato bassista e c’era Guido Di Blasi a
suonarlo». Negli anni sessanta vicino al porto c’erano ancora
le navi americane, e la sera i soldati andavano a sentire le canzoni dei Beatles. «Di sera c’era un po’ di movimento nei locali.
C’era già il Teatro Zappalà che faceva le commedie siciliane,
era abbastanza gradevole come situazione cittadina. Anche a
Mondello c’erano locali adatti per fare musica. C’era l’Hotel del
Sole a Valdesi. I soldati ci davano le mance, soprattutto quando
si ubriacavano, oppure ti regalavano l’accendino. Per noi era
una fortuna trovarci in mano i dieci dollari… Era davvero una
fortuna, alla Vucciria c’era uno che ci cambiava i dollari in lire…
Ancora ho qualche dollaro dell’epoca».
La gente rispondeva bene al beat, al rock di quel periodo. Non
che Palermo fosse priva di problemi. Appena poco tempo
prima, nel 1963, la mafia aveva inaugurato la lunga stagione
di stragi con l’attentato a Ciaculli. Il temperamento della popolazione è sempre piuttosto caldo, come testimoniano certi
episodi. Ma la musica sembra ancora un mondo più giocoso
e, sostanzialmente, più tranquillo e spensierato. «Una volta mi
presi una paura fottuta col mio compagno Giuseppe Bonanno.
Eravamo a vedere “Summer Holiday” all’arena Tukory. Mentre
guardiamo il film, sentiamo una cosa in dialetto, al buio… A
un certo punto circa duecento persone scatenano la rissa più
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Palermo al tempo del vinile
colossale che abbia mai visto, con le bottiglie pesanti di gazzosa
dell’epoca. Noi cercavamo di guadagnare l’uscita rasentando i
muri dell’arena, con queste bottiglie che volavano… Appena
uscimmo arrivò la celere. Per la musica non si è mai arrivati a
una cosa del genere, chi veniva era un estimatore e non si assisteva a scene così».
Il grande salto per la carriera di Pagano arriva quando lascia
il beat per diventare cantante solista. «Io ho sempre avuto l’idea di andare via da Palermo, anche per conoscere cose nuove.
Sono tornato talvolta a Palermo e dintorni, per fare delle serate.
Mi ricordo Ballarò, il Capo… Da ragazzi in dieci ci mettevamo
dentro una Seicento affittata e andavamo a Mondello a prenderci il caffè, in dieci per risparmiare perché si pagava il chilometraggio… Lì c’erano i banchetti di legno con le lampare
sopra e i venditori di polipo e ricci. Sul lungomare, dove ora c’è
la spiaggia libera, c’erano i venditori e per non salare il polipo
usavano l’acqua di mare».
La prima esperienza da solista arriva nel 1965 al concorso “Le
ugole verdi”. L’avventura fuori dalla città comincia a decollare
per il giovane cantante – la cui voce calda viene subito notata
dagli addetti ai lavori – al “Festival degli sconosciuti”, una ribalta
prestigiosa su cui c’è la mano del potente Teddy Reno. Superate
le selezioni regionali, Pagano si ritrova a Roma e, per la finale,
ad Ariccia, dove è ospite di un caro amico d’infanzia. Leggermente smarrito per l’impatto con la capitale, viene comunque
in contatto con Teddy Reno e Rita Pavone, con i quali nasce
subito una simpatia reciproca. Di più: il produttore diventa il
suo mentore. Il secondo posto nella manifestazione dietro a
Titti Bianchi è l’inizio della “vera” carriera del palermitano che,
grazie all’intercessione del suo influente manager, approda nella
più grande casa discografica dell’epoca, la potentissima RCA.
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Le origini e gli anni sessanta
Un manifesto della RCA
per Carmelo Pagano
L’etichetta americana, allora,
aveva in Italia un gruppo carico di pezzi da novanta, dai
dirigenti ai musicisti sotto contratto. La lista, parzialissima,
lascia intendere cosa significasse allora e negli anni successivi
la RCA per la musica italiana:
Domenico Modugno, Ennio
Melis, Luis Bacalov, Ennio
Morricone, Lucio Dalla, Antonello Venditti, Francesco De
Gregori, Piero Ciampi, Patty
Pravo, Gianni Morandi, Riccardo Cocciante, Paolo Conte,
Enzo Jannacci…
Peraltro, pochi mesi dopo il “Festival degli sconosciuti”, Pagano ottiene il successo che gli fa fare il definitivo salto di qualità,
vincendo la terza edizione del “Festival delle Rose” con il brano “L’amore se ne va”, scritto da Giulio D’Ercole e Alberto
Morina con musica di Piero Melfa. È proprio la RCA italiana
a organizzare la competizione, una delle più importanti, al pari
del “Festival di Castrocaro”, del “Cantagiro” o del “Disco per
l’estate”. In coppia con Luisa Casali, come si usa in quegli anni,
Pagano sbaraglia un’agguerrita concorrenza fatta da nomi già
affermati o dal futuro ricco di successi: Jimmy Fontana, Pooh,
Don Backy, Little Tony, Paul Anka, Nicola Di Bari e il superfavorito Gianni Morandi, che presenta “C’era un ragazzo che
come me amava i Beatles e i Rolling Stones”. Un presagio, quasi: catapultato in questa sorta di empireo del panorama pop
italiano, Pagano si trova a tu per tu con gli idoli dell’adolescenza. Come ha dichiarato a Christian Calabrese in una bella in45
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Palermo al tempo del vinile
tervista per Hit Parade Italia: «Non riuscivo a pensare a quello
che mi stava succedendo, a maggior ragione quando incontrai
per la prima volta Gianni Morandi, il mio cantante preferito!
Da studente, con il complesso che avevo formato insieme ad
alcuni miei amici, cantavo le sue canzoni, e adesso lo avevo di
fronte!8». E lo superava in concorso, per giunta!
Acclamato dal pubblico, Pagano subisce però le critiche della
stampa giovanile per un brano giudicato eccessivamente morbido rispetto alle nuove tendenze del tempo. «Mentirei se dicessi
di non esserne dispiaciuto! – racconta l’interessato – Posso anche comprendere che, essendomi presentato con “L’amore se
ne va”, un brano melodico, non rispecchiavo l’immagine di ciò
che ci si aspettava in un momento in cui furoreggiava la musica
beat9». Ma si giustifica dicendo: «Riuscivo a dare qualcosa di
più cantando canzoni romantiche: mi piacevano, era il periodo
di “Figlio unico”, “In ginocchio da te”… La mia è stata una
precisa scelta artistica10».
Mettendo in secondo piano queste critiche il successo, fra le
altre cose, ha delle conseguenze importanti, perché “L’amore se
ne va” diventa una hit mondiale nella versione inglese di Dusty
Springfield, “Give Me Time”. L’anno di grazia 1966 fa registrare altre due situazioni positive: una nuova vittoria in concorso,
stavolta al “Festival della canzone invernale” di Torino, e l’esordio discografico col 45 giri “L’amore se ne va”/“Questa volta”.
Ed è proprio il territorio discografico il passaggio successivo su
cui si confronta Pagano per consolidare i riscontri ottenuti nelle
esibizioni dal vivo. Negli studi di via Tiburtina ogni esperienza
8 Christian Calabrese, “Intervista a Carmelo Pagano”, riportata in http://www.
hitparadeitalia.it/voli/articoli/i_pagano.htm
9
10
Ibidem.
Ibidem.
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è un apprendimento, ed è legata anche a episodi spassosi. In
questi anni è celebre il bar della RCA, dove stazionavano gli
artisti già in scuderia, ma anche quelli alla ricerca di un dirigente
da accalappiare per sottoporgli i propri brani: tutto l’ambiente è
raccontato con numerosi aneddoti da Maurizio Becker nel libro
“C’era una volta la RCA”. Un bar che riserva ricordi divertenti
anche per Pagano, il quale ne racconta uno nella già citata intervista allorché il grande pianista Arthur Rubinstein capita in sala
di registrazione per incidere un disco: «Eravamo un gruppo di
persone, adesso non mi ricordo con precisione chi, sicuramente
oltre a me vi erano il direttore artistico Melis ed altri avventori.
Stavamo consumando qualcosa quando, tra il brusio di sottofondo, nella sala del bar entrò una ragazza molto appariscente,
ma un po’ volgare. Portava una minigonna cortissima, stivaloni
alla coscia e trucco marcato. Insomma, rispecchiava un certo
“tipo” che a quel tempo andava di moda. Sapemmo poi che
stava facendo un provino, uno dei tanti che si facevano alla
RCA. Bene! In un angolo della sala, tranquillamente seduto in
una poltroncina davanti ad un tavolinetto basso, vi era Arthur
Rubinstein che sorseggiava con gusto una Coca-Cola. Adesso
viene il bello, si fa per dire. La ragazza, forse in difficoltà per
l’ambiente in cui si trovava, per darsi un tono, si avvicinò al
grande maestro, che di sicuro non conosceva, e facendogli un
leggero “puffettino” sulla guancia gli disse in dialetto romano:
“Ah nonnè… Te piace la Coca-Cola, eh?”. Un silenzio tombale
cadde nella sala! Rubinstein la guardò freddamente senza avere
una benché minima reazione. Inutile dirti che la ragazza guardandosi intorno capì che aveva fatto qualcosa di grave… Ci
sentimmo sprofondare al suo posto!».11
Il mondo della discografia è duro, la RCA pare un porto di
mare e la concorrenza è spietata tanti sono gli artisti che pro11
Ibidem.
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vano a sfondare con i propri pezzi o affidandosi ai numerosi
autori dell’epoca. Inizialmente Pagano non sembra risentirne,
anzi: pare lanciatissimo. Il nuovo disco ha come lato A la canzone “Il giorno tutto giusto”, contenuta nella colonna sonora
del film “Spia spione”, interpretato da Lando Buzzanca. Nel
lato B, il tema del film eseguito da Bruno Canfora e dalla sua
orchestra. È il primo contatto di Pagano col mondo del cinema.
«Canfora cercava una voce alla James Bond e mi ha fatto fare
il provino per una canzone sua. Io ero alla RCA, io e il cantante Dino avevamo fatto il provino». A quel punto, l’etichetta discografica decide che il giovane palermitano è pronto per
la più importante ribalta della musica leggera italiana, il Teatro
Ariston di Sanremo. Nella “città dei fiori” Carmelo arriva però
con una decisione non lineare. Il suo nome, infatti, viene tirato
in ballo da Teddy Reno dopo una girandola di possibili partecipanti: prima Johnny Rivers, poi gli Hollies e, solo dopo che
questi ultimi sono stati scartati, salta fuori la chance per il giovane emergente12. Il quale sembra inconsciamente risentire della
scelta, tanto più che non gradisce particolarmente la canzone,
né la partner che gli è stata affiancata, l’altra esordiente Roberta
Amadei. E così “Devi aver fiducia in me” non raggiunge la finale, per Pagano l’esperienza si rivela ben poco divertente ed è
la prima battuta d’arresto in quella che sembrava un’ascesa irresistibile. «Avevo troppo poca esperienza per impormi. Se avessi
dovuto scegliere avrei preferito partecipare con Orietta Berti…
Se non altro sarei stato “nazionalpopolare”»13. E aggiunge: «Mi
sono ritrovato a Sanremo in un clima di poca chiarezza e forse
con il senno del poi sarebbe stato meglio non andarci! Non avevo neanche un lato B inedito! Qualche giorno prima era uscito
Verdier il Vampiro, “Carmelo Pagano – Devi Avere Fiducia In Me (Sanremo
1967) / Scialpi – Bella Età (Sanremo 1987)”, riportato in http://cverdier.blogspot.
com/2009/02/carmelo-pagano-devi-avere-fiducia-in-me.html
12
13
Ibidem.
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il mio secondo singolo, colonna sonora del film “Spia Spione”. Cos’ha fatto la RCA? Ha messo come lato B la facciata A
del disco appena uscito, fermando in questo modo le eventuali
vendite del 45 giri»14.
Si tratta peraltro, quella del 1967, dell’edizione del Festival di
Sanremo funestata dal suicidio di Luigi Tenco, che Pagano
aveva cominciato a frequentare proprio in quel periodo: «Potrei parlare di sincera simpatia per Nicola di Bari, Patty Pravo,
Bobby Solo, Rita Pavone, Edoardo Vianello, Domenico Modugno eccetera. Un ricordo speciale lo conservo di Luigi Tenco.
Nell’ambiente era considerato un tipo taciturno, introverso e
un po’ scontroso, con me invece parlava e scherzava volentieri.
Delle volte, quando entravo nel bar interno della RCA, sentivo
una voce gridare alle mie spalle: Carmeluzzu! Mi giravo… era
lui! Mi è rimasto il grande rimpianto di non avere avuto il tempo
di coltivare e rafforzare quel rapporto»15.
Archiviata la deludente parentesi sanremese, la tappa successiva
è rappresentata da un altro importante concorso dell’epoca, il
“Cantagiro”: il brano che viene presentato è “Va”, che finisce
anche sul terzo 45 giri, con lato B “Vivrò”, versione in italiano
di “My Prayer” dei Platters. Nello stesso periodo si moltiplicano le sue apparizioni televisive: tra queste, “Settevoci”, condotto da Pippo Baudo, e “Il signore ha suonato?”, presentato
dal maestro Enrico Simonetti. E sempre nel 1967 c’è la nuova
esperienza cinematografica in “Soldati e capelloni” di Ettore
Maria Fizzarotti, con Peppino De Filippo, Aroldo Tieri, Lia
Zoppelli, Gianni Agus e Fiorenzo Fiorentini, seguita l’anno
successivo dalla partecipazione a “Vendo cara la pelle”, sempre
14
Ibidem.
15
Christian Calabrese, “Intervista a Carmelo Pagano”, op. cit.
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di Fizzarotti. È il 1968 ed è un nuovo anno importante per Carmelo Pagano: l’esperienza RCA si chiude col 45 giri “Torna con
me”/“Tema dal Concerto di Varsavia”. Passa poi alla Ariston
Records, dove incide “Il mio amore vivrà”/“Mi hai dato un’anima”, quest’ultima scritta per lui dal compianto Umberto Bindi,
e pubblica il 33 giri “Melodie eterne”. «Tutto andava troppo
veloce per me: un giovane siciliano, provinciale, sprovveduto,
un po’ sempliciotto se vuoi, per alcuni versi immaturo e certamente impreparato ad entrare nel favoloso mondo dello spettacolo. Diciannove anni, allora, erano davvero pochi! Oggi è tutta
un’altra cosa!»16. Sul suo rapporto con l’etichetta discografica
racconta: «Io ero venuto fuori vincendo il Festival delle Rose,
dove c’erano i migliori cantanti dell’epoca: foto, prime pagine,
giornali. All’epoca la RCA aveva un cast certo non indifferente. Ci sono rimasto male che nel libro sulla RCA non sia stato
nominato. Non l’ho capito. Me lo spiego solo pensando che
abbiano dovuto puntare sul certo e non rischiare su di me, che
ero stato l’outsider quando loro non se l’aspettavano. Si sono
trovati impreparati».
La parabola artistica di Pagano prende a questo punto una piega
discendente. Le uscite discografiche restano costanti al ritmo
di un 45 giri all’anno: “Chi vede te”/“La notte del sì” per Ariston nel 1969, “Magia”/“Un amore per i miei sogni” per Jet nel
1970, “Ad un tratto impazzirei”/“Ehi, guardami un po’” per
Beat Records Company nel 1971, “Io non vivrò”/“Tu sei lì che
mi aspetti” per Picci nel 1972. Quest’ultimo è l’atto finale. «Non
avevo una posizione tale che mi consentisse di stare vent’anni
senza fare niente e così ho scelto di trovare la mia strada facendo un altro lavoro completamente diverso, diventando procacciatore d’affari per una compagnia di assicurazioni e poi passando all’organizzazione produttiva, fino a diventare con gli anni
16
Ibidem.
50
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