LACUNE DELLA DISCIPLINA SULLA TESTIMONIANZA ASSISTITA Cass. pen. 2005, 2, 713 MARCELLO DANIELE Ricercatore di Procedura penale nell'Università di Padova SOMMARIO: 1. La riduzione del diritto al silenzio ad opera della l. n. 63 del 2001. - 2. L'applicazione analogica della disciplina sulla testimonianza assistita. - 3. La compatibilità a testimoniare degli imputati in procedimenti definiti con sentenza di non luogo a procedere o con archiviazione. 1. La riduzione del diritto al silenzio ad opera della l. n. 63 del 2001. - È noto che la l. n. 1° marzo 2001, n. 63 ha tentato una sfida difficile: trasformare l'imputato che renda dichiarazioni sulla responsabilità altrui in un vero e proprio testimone. È altrettanto noto il motivo che ha indotto il legislatore ad accettare questa sfida. Era necessario far fronte all'abuso del diritto al silenzio da parte di quegli imputati che accusavano i loro complici nella fase delle indagini, per poi chiudersi, se esaminati in un dibattimento ai sensi dell'art. 210 c.p.p., in un totale mutismo. Comportamento inaccettabile alla luce del principio del contraddittorio nella formazione della prova sancito dall'art. 111 comma 4 Cost., il quale ha non solo un'implicazione di tipo "negativo" (l'irrilevanza probatoria delle dichiarazioni raccolte unilateralmente durante le indagini), ma anche un'implicazione di tipo "positivo": l'esigenza che il dibattimento sia un luogo di parola; affinché il giudice possa avere a sua disposizione la maggior quantità possibile di informazioni(1). Il problema principale che la l. n. 63 del 2001 ha dovuto risolvere era quello di eliminare il diritto al silenzio dell'imputato sul fatto altrui, mantenendolo, al contempo, sul fatto proprio. A tal fine, questa legge si è fondata su un calcolo prognostico: quando il legame tra la posizione di chi accusa e quella di chi viene accusato è di tipo "forte", come nel caso della coimputazione del medesimo reato, è molto alto il pericolo che l'imputato, riferendo sulla responsabilità altrui, si trovi a parlare anche della responsabilità propria; per converso, quando il legame tra le due posizioni è di tipo "debole", come nel caso della imputazione per due reati distinti uniti da un vincolo di connessione o di collegamento, diminuisce anche il rischio di un'autoincriminazione(2). Così, gli artt. 197 lett. a) e 197 bis comma 1 c.p.p. prevedono che i coimputati a norma dell'art. 12 comma 1 lett. a) c.p.p. (3) possono essere sentiti come "testimoni assistiti" solo quando nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di patteggiamento, mentre gli artt. 197 lett. b) e 197 bis comma 2 c.p.p. dispongono che gli imputati di un reato connesso ai sensi dell'art. 12 comma 1 lett. c) c.p.p. (4) o di un reato collegato ex art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p. (5) possono essere sentiti come testimoni assistiti anche quando il procedimento a loro carico non si sia ancora concluso, a condizione che, avvertiti in base all'art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p., rendano «dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri» (6). Questa disciplina, è stata giudicata del tutto ragionevole dalla Corte costituzionale, la quale non appare priva di ragionevolezza: la Corte ha posto in rilievo, per un verso, che l'incompatibilità a testimoniare per i coimputati che non siano ancora usciti dal processo a loro carico appare giustificata «in ragione della peculiare situazione derivante dall'unicità del fatto-reato e dei conseguenti profili di indubbia interferenza con la posizione dell'imputato», e, per un altro verso, che l'obbligo di avvertire gli imputati di reato connesso o collegato ai sensi dell'art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p. «deriva dalla necessità di garantire che il dichiarante compia una scelta libera e consapevole in ordine alle conseguenze delle proprie dichiarazionierga alios» (7). Tuttavia, se si esaminano le regole in materia di testimonianza assistita con maggiore attenzione, si scopre una serie notevole di lacune, che costringe gli organi inquirenti e giudicanti a svolgere dei complicati accertamenti incidentali per individuare quale sia il corretto status del dichiarante, e che finisce per rallentare lo svolgimento dei processi (8). 2. L'applicazione analogica della disciplina sulla testimonianza assistita. - Benché sia piuttosto articolata, la disciplina dell'acquisizione della veste di testimone assistito nel caso degli imputati di reato connesso o collegato che abbiano reso dichiarazioni erga alios nel corso del procedimento a loro carico non è espressamente richiamata in alcune specifiche situazioni. Sorge, di conseguenza, il problema se essa sia applicabile analogicamente. In senso negativo, si è posto in evidenza come l'acquisizione della veste di testimone assistito implichi un obbligo di verità penalmente sanzionato. L'estensione analogica della disciplina della testimonianza assistita condurrebbe, dunque, ad una lesione della determinatezza delle norme penali sulla falsa testimonianza (art. 372 c.p.), la cui applicabilità verrebbe a dipendere da una scelta discrezionale dell'interprete (9). Si tratta di un argomento che, tuttavia, non appare risolutivo. È vero che l'acquisizione della veste di testimone assistito nel caso disciplinato dall'art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p. appare legata a presupposti non ben definiti dal legislatore, e che questa imprecisione si ripercuote inevitabilmente sulle fattispecie penali poste a tutela dell'obbligo testimoniale (10). Ma si tratta di un problema che riguarda la disciplina della testimonianza assistita in sé considerata, e che non dipende, a rigore, dall'applicazione analogica di quest'ultima. L'estensione analogica di una fattispecie che pure sia imprecisa può ritenersi consentita se avvenga sulla base di presupposti che, invece, siano ben determinati. E in questo caso, si deve tenere conto della circostanza che l'acquisizione della veste di testimone in capo a chi renda dichiarazioni erga alios nel corso di un interrogatorio appare subordinata alla presenza di due requisiti molto chiari: a) lo status di persona indagata o di imputato, con il relativo diritto al silenzio (art. 64 comma 3 lett. b c.p.p.), e b) il diritto all'assistenza difensiva, il quale risulta assicurato, per tutti i tipi di interrogatorio, dall'art. 364 commi 3 e 4 c.p.p., ed ha la funzione di compensare la perdita del diritto al silenzio. Presenti tali requisiti, si può ritenere che l'art. 64 2 comma 3 lett. c) c.p.p. possa essere applicato, senza che ciò incrementi in alcun modo il tasso di discrezionalità dell'operazione(11) (11). Ciò considerato, ci si deve anzitutto chiedere se la disciplina della testimonianza assistita risulti applicabile nel caso in cui l'imputato venga sentito in giudizio nell'ambito del processo a suo carico ai sensi degli artt. 208, 209 e 503 c.p.p. Dal punto di vista formale, l'esame delle parti regolato dall'art. 503 c.p.p. è un atto diverso dall'interrogatorio. Tuttavia, nella sostanza questo tipo di esame risulta caratterizzato da entrambi i requisiti che contraddistinguono l'assunzione dello status di testimone assistito: da un lato, le dichiarazioni vengono rese da un imputato, il quale non ha l'obbligo di rispondere secondo verità (12); dall'altro, le dichiarazioni vengono rese in presenza del difensore, garanzia che, nella fase del dibattimento, risulta inderogabile (art. 484 comma 2 c.p.p.). Pertanto, si può affermare che, pur mancando nell'art. 503 c.p.p. un esplicito richiamo all'art. 64 c.p.p., è necessario che il giudice, prima che inizi l'esame, avverta l'imputato che, se renderà dichiarazioni sulla responsabilità altrui, assumerà l'ufficio di testimone (13). Del resto, se il dichiarante erga alios può mutare la sua veste nel corso delle indagini, a fortori lo stesso deve poter avvenire nel contesto di un esame che viene svolto in contraddittorio di fronte al giudice (14). Un secondo problema da affrontare concerne l'applicabilità della disciplina della testimonianza assistita nel caso in cui l'indagato o l'imputato di reato connesso o collegato, rilasciando dichiarazioni spontanee agli organi inquirenti o al giudice, si trovi a rendere affermazioni che investono la responsabilità altrui. La soluzione di questo problema è agevole quando le dichiarazioni spontanee siano effettuate nel contesto dell'udienza preliminare (art. 421 comma 2 c.p.p.) o del dibattimento (art. 494 c.p.p.). In tali casi, dato che le dichiarazioni sono rese da un imputato e con la necessaria presenza del difensore (15), pare consentito affermare che il giudice debba previamente avvertire la persona ai sensi dell'art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p. Per converso, il discorso si complica quando le dichiarazioni spontanee siano effettuate nel contesto delle indagini. Molti, infatti, ritengono che le dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 350 comma 7 c.p.p. integrino una fattispecie autonoma rispetto a quella delle sommarie informazioni disciplinate dai commi 1-4 del medesimo articolo e che, come tali, non siano fornite della garanzia dell'assistenza obbligatoria del difensore (16). Inoltre, quest'ultima non sembrerebbe prevista neppure per le dichiarazioni spontanee al pubblico ministero regolate dall'art. 374 c.p.p. (17). Mancando il diritto all'assistenza difensiva, come si è detto, risulta assente una delle condizioni minime perché l'assunzione dell'ufficio testimoniale possa avvenire. Ne deriva che, quando ad accusare altre persone sia un indagato di reato connesso o collegato che stia rilasciando dichiarazioni spontanee alla polizia giudiziaria o al pubblico ministero, l'organo inquirente ha l'obbligo di interrompere il dichiarante ed interrogarlo ai sensi dell'art. 64 c.p.p., dando 3 avviso al difensore «almeno ventiquattro ore» prima del compimento dell'atto (art. 364 comma 3 c.p.p.) (18). Del resto, l'eventualità che le dichiarazioni spontanee si tramutino in un vero e proprio interrogatorio è prevista dall'art. 374 comma 2 c.p.p., il quale dispone che «quando il fatto per cui si procede è contestato a chi si presenta spontaneamente e questi è ammesso a esporre le sue discolpe, l'atto così compiuto equivale per ogni effetto all'interrogatorio», dovendosi applicare, in tale ipotesi, «le disposizioni previste dagli articoli 64, 65 e 364». Infine, la questione dell'estensione analogica delle norme in materia di testimonianza assistita si pone quando chi, sentito come persona informata sui fatti ex art. 362 c.p.p., renda dichiarazioni sulla responsabilità altrui, e solo in seguito diventi imputato di un reato connesso o collegato. Non ci si riferisce, naturalmente, all'ipotesi in cui il dichiarante avrebbe dovuto fin dall'origine essere sentito come indagato o imputato: qui si verserebbe nella situazione patologica disciplinata dall'art. 63 comma 2 c.p.p., con la conseguenza che le dichiarazioni effettuate sarebbero inutilizzabili a qualunque fine (19). L'ipotesi che viene in esame è, invece, quella in cui gli indizi a carico del dichiarante emergano solo dopo che siano state rese le dichiarazioni in qualità di persona informata sui fatti. A questo proposito, era stata sollevata una questione di illegittimità costituzionale degli artt. 197-bis e 210 comma 6 c.p.p., nella parte in cui prevedono che, per poter assumere la veste di testimone, il dichiarante debba in ogni caso essere previamente avvertito ai sensi dell'art. 64 comma 2 lett. c) c.p.p. Ad avviso del giudice a quo, in un caso del genere dovrebbe essere sufficiente, ai fini del mutamento di status, la sola circostanza di aver liberamente scelto di rendere dichiarazioni sul fatto altrui nell'ambito dell'assunzione di informazioni ex art. 362 c.p.p. (20). La Corte costituzionale ha, tuttavia, posto opportunamente in rilievo come non si debba trascurare che la circostanza che «la persona informata sui fatti ha l'obbligo di rispondere secondo verità, alle domande rivoltele dal pubblico ministero, e che, se rifiuta di rispondere o dichiara il falso, commette il reato di false informazioni, previsto e sanzionato dall'art. 371-bis c.p.» (21)). E, in difetto dell'assunzione della veste di persona indagata od imputata, manca una delle condizioni minime perché il mutamento di qualifica possa avvenire: non è detto, infatti, che, se fosse stato fin dall'origine interrogato ai sensi dell'art. 64 c.p.p., il dichiarante avrebbe ugualmente reso affermazioni eteroaccusatorie. Sicchè, appare inevitabile che questi, una volta aperto il procedimento a suo carico, venga nuovamente sentito ed avvertito in base all'art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p., o, se sia già stata esercitata l'azione penale, in base all'art. 210 comma 6 c.p.p. (22), pur trattandosi di una soluzione che non risulta ineccepibile dal punto di vista del rispetto dell'economia processuale. 3. La compatibilità a testimoniare degli imputati in procedimenti definiti con sentenza di non luogo a procedere o con archiviazione. - Al momento di inviduare le ipotesi di compatibilità a testimoniare dei coimputati e degli imputati di reato connesso o collegato, gli artt. 197 e 197-bis c.p.p. non prevedono alcuna esplicita 4 regola in riferimento agli imputati od indagati il cui procedimento sia stato definito con sentenza di non luogo a procedere o con archiviazione. Si discute, pertanto, se questi ultimi soggetti possano legittimamente deporre come testimoni. Prima delle modifiche dell'art. 197 c.p.p. ad opera della l. n. 63 del 2001, la Corte costituzionale aveva affermato che i coimputati e gli imputati di reato connesso ex art. 12 c.p.p. prosciolti in udienza preliminare o la cui posizione fosse stata archiviata risultassero incompatibili a testimoniare. L'art. 197 lett. a) c.p.p., infatti, prevedeva un'eccezione all'incompatibilità nel solo caso dell'imputato nei cui confronti fosse stata pronunciata sentenza di proscioglimento divenuta irrevocabile. Al contrario, la sentenza di non luogo a procedere e l'archiviazione - si diceva - non godono di un'irrevocabilità assoluta: qualora, nel corso di un'eventuale testimonianza, il dichiarante renda affermazioni sulla propria responsabilità, potrebbe essere disposta la revoca della sentenza (art. 434 c.p.p.) o la riapertura delle indagini (art. 414 c.p.p.) (23). L'incompatibilità a testimoniare doveva invece ritenersi insussistente - aveva successivamente rilevato la Corte costituzionale - in riferimento all'imputato di un reato collegato ex art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p., una volta intervenuta l'archiviazione. In tale situazione, il testo previgente dell'art. 197 lett. b) c.p.p. si limitava a prevedere l'incompatibilità a testimoniare in capo a chi fosse persona imputata od indagata, non stabilendo - a detta della Corte - «alcuna previsione circa "la durata" della relativa qualità». Se ne poteva dedurre che l'incompatibilità sussistesse «soltanto nei confronti di coloro che, e per il tempo in cui, rivestono la qualità di persone imputate o indagate (in virtù della generale estensione prevista dall'art. 61 c.p.p.) di un reato collegato a quello per cui procede»; di conseguenza, l'intervenuta archiviazione del procedimento probatoriamente collegato produceva «l'effetto di dissolvere la correlazione qualificata tra le regiudicande e, con essa, l'incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone» (24). A seguito delle modifiche introdotte dalla l. n. 63 del 2001, la questione va affrontata distinguendo a seconda che il vincolo tra le posizioni di chi accusa e di chi viene accusato sia di tipo "forte" o debole". Nel caso di legame "forte", l'art. 197 lett. a) c.p.p. dispone che i coimputati del medesimo reato non possono essere assunti come testimoni «salvo che nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell'articolo 444» (25). È prevista, dunque, una clausola di salvezza a favore di una precisa tipologia di coimputati che siano usciti dal procedimento a loro carico. Se ne può ricavare, a contrario, che tale eccezione non valga per tutti i coimputati che, pur usciti dal procedimento a loro carico, non rientrino nella tipologia considerata. Ed è proprio il caso dei coimputati prosciolti in udienza preliminare o la cui posizione sia stata archiviata, i quali, pertanto, risultano incompatibili a testimoniare (26), potendo solo essere esaminati ai sensi dell'art. 210 c.p.p. (27). I termini del discorso mutano in riferimento al legame "debole": l'art. 197 lett. b) c.p.p. prevede che gli imputati di un reato connesso ex art. 12 comma 1 lett. c) o 5 di un reato collegato ex art. 371 comma 2 lett. b) c.p.p., «prima che nei loro confronti sia stata pronunciata sentenza irrevocabile» (28), non possono deporre come testimoni, salvo che, ritualmente avvertiti ai sensi dell'art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p., rendano dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità altrui. Questa disposizione sancisce un'incompatibilità a testimoniare limitata dal punto di vista sia soggettivo che temporale: l'incompatibilità vale solo nei confronti di chi sia ancora imputato od indagato, ed anteriormente alla pronuncia di una sentenza irrevocabile. Si può ritenere, quindi, che nulla sia stabilito in relazione ai soggetti prosciolti in udienza preliminare o il cui procedimento sia stato archiviato: questi ultimi non sono più né imputati né indagati, per cui non risulta presente il requisito soggettivo richiesto dalla norma. Tale silenzio normativo può essere interpretato in diversi modi, a seconda di come si effettui il giudizio di bilanciamento tra il diritto al silenzio dell'imputato, garantito dall'art. 24 Cost., e la necessità che chi abbia accusato altre persone non possa avvalersi in dibattimento della facoltà di tacere, secondo quanto deriva dal principio del contraddittorio nella formazione della prova ex art. 111 comma 4 Cost. Nell'intento di privilegiare questa seconda esigenza, in giurisprudenza si è sostenuto che l'imputato di reato connesso o collegato in relazione a cui sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere debba assumere la veste di testimone comune. In mancanza di un'espressa incompatibilità - si è affermato si riespanderebbe la generale capacità di testimoniare prevista dall'art. 196 c.p.p. (29). Oltretutto, il dichiarante risulterebbe adeguatamente tutelato dal privilegio sancito dall'art. 198 comma 2 c.p.p., ai sensi del quale «il testimone non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale»(30). Questa interpretazione potrebbe, in molti casi, avere un effetto semplificatorio: accogliendola, ne deriverebbe che le dichiarazioni rese da questi soggetti nell'ambito della testimonianza dibattimentale potrebbero, da sole, fondare la decisione di merito; non varrebbe, infatti, la regola della corroboration prevista dall'art. 192 comma 3 c.p.p., la quale opera, in virtù del richiamo operato dall'art. 197-bis comma 6 c.p.p., solo in riferimento ai testimoni assistiti, e non in relazione ai testimoni comuni. Si tratta, tuttavia, di una lettura che non appare convincente. La capacità, a rigore, non può essere derogata dall'incompatibilità: la prima è conferita dal legislatore ad «ogni persona», mentre la seconda viene disposta in riferimento a soggetti che, pur in astratto capaci di testimoniare, hanno rivestito un certo status nel corso del procedimento (31). Non si può ritenere, dunque, che le regole in materia di incapacità siano in grado di influire su quelle in materia di incompatibilità: il regime di quest'ultima deve essere desunto da altri indici normativi. Ciò considerato, molti sostengono che gli imputati di reato connesso o collegato nei cui confronti sia stata disposta sentenza di non luogo a procedere o 6 archiviazione sarebbero incompatibili a testimoniare: se questi soggetti assumessero la veste di testimoni, potrebbero trovarsi costretti a rendere risposte autoincriminanti, provocando una riapertura del procedimento a proprio carico ai sensi degli artt. 434 o 414 c.p.p. (32). Una disciplina del genere, peraltro, pur dando piena attuazione alla garanzia del nemo tenetur se detegere, originerebbe un grave inconveniente: l'imputato, venuto a conoscenza dell'esistenza di un potenziale testimone a suo carico, potrebbe attribuirgli falsamente un reato connesso o collegato, in modo da impedirgli, una volta intervenuta l'archiviazione o la sentenza di non luogo a procedere, di assumere l'ufficio di testimone (33). L'impostazione in base alla quale l'imputato prosciolto in udienza preliminare o la cui posizione sia stata archiviata sarebbe incompatibile a testimoniare, tuttavia, può essere superata in forza di un argomento letterale che appare decisivo: la seconda frase dell'art. 197-bis comma 4 c.p.p. prevede che l'imputato di un reato connesso o collegato, divenuto testimone assistito per aver reso dichiarazioni a carico di altri ex art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p., «non può essere obbligato a deporre su fatti che concernono la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti» (34). L'espressione «si è proceduto» sembrerebbe riferirsi ai casi in cui il dichiarante sia uscito dal procedimento a suo carico; e non può trattarsi dell'ipotesi in cui il dichiarante sia stato giudicato con sentenza irrevocabile, la quale appare già regolata dalla prima frase dell'art. 197-bis comma 4 c.p.p. (35). Quindi, per attribuire un significato autonomo all'espressione «si è proceduto», si deve concludere che la facoltà di astenersi dal deporre prevista dalla seconda frase dell'art. 197-bis comma 4 c.p.p. riguardi anche gli imputati di reato connesso o collegato in riferimento a cui sia stata pronunciata sentenza di non luogo a procedere o provvedimento di archiviazione, alla condizione che abbiano già acquisito la veste di testimone per aver reso affermazioni erga alios in pendenza del procedimento a loro carico. Ciò significa che questi soggetti devono essere esaminati come testimoni assistiti, con la conseguenza che dovranno essergli applicate tutte le regole previste dall'art. 197 bis c.p.p. (36). Lo stesso, invece, non può dirsi per gli imputati di reato connesso o collegato che, usciti dal procedimento a loro carico a seguito della pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere o di un'archiviazione, non abbiano reso in precedenza dichiarazioni sulla responsabilità altrui, e quindi non siano già divenuti testimoni assistiti: questi soggetti, infatti, non risultano compresi nell'area del privilegio ex art. 197-bis comma 4 c.p.p., sicchè sembra difficile negare che l'incompatibilità a testimoniare, nei loro confronti, sussista. Di qui una tensione con l'art. 3 Cost., in quanto la possibilità di acquisire lo status di testimone assistito viene irragionevolmente a dipendere dalla mera eventualità che gli imputati di reato connesso o collegato abbiano reso affermazioni erga alios prima che il procedimento a loro carico si sia chiuso con sentenza di non luogo a procedere o con archiviazione. 7 (*) Relazione svolta all'incontro su «La prova dichiarativa. Questioni applicative ancora aperte della legge sul giusto processo», organizzato dall'Ufficio dei Referenti per la formazione dei magistrati della Corte d'appello di Torino (Torino, 26 gennaio 2004). (1) Cfr. FERRUA, Introduzione, in Dir. pen. proc., 2001, p. 585 (2) La distinzione tra legame "forte" e "debole" è di NOBILI, Giusto processo e indagini difensive: verso una nuova procedura penale?, in Dir. pen. proc., 2001, p. 9. (3) Si tratta del caso di reato commesso da più persone in concorso o cooperazione tra loro, o dell'evento determinato da più persone con condotte indipendenti. (4) La "connessione" si ha quando «se dei reati per cui si procede gli uni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri». (5) Il "collegamento" ricorre quando si tratta di reati «dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o per conseguirne o assicurarne al colpevole o ad altri il prezzo, il prodotto o l'impunità, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre, ovvero se la prova di un reato o di una sua circostanza influisce sulla prova di un reato o di un'altra circostanza». (6) In merito a tale disciplina, v. AMATO, Più numerosi gli avvertimenti all'indagato, in Guida dir., 2001, n. 13, p. 37 ss.; AMODIO, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell'imputato sul fatto altrui, in questa rivista, 2001, p. 3587 ss.; ANDREAZZA, Profili problematici di applicazione dell'art. 197-bis c.p.p., in Dir. pen. proc., 2003, p. 240 ss.; APRILE-SILVESTRI, La formazione della prova penale dopo le leggi sulle indagini difensive e sul "giusto processo", Giuffrè, 2002, p. 208 ss.; BARGIS, Primi appunti sulla restrizione del diritto al silenzio nella l. 1° marzo 2001 n. 63, in Bargis, Studi di diritto processuale penale, vol. I, "Giisto processo" italiano e Corpus juris europeo, Giappichelli, 2002, p. 57 ss.; BRESCIANI, Commento all'art. 6 l. 1° marzo 2001, n. 63, in Leg. pen., 2002, p. 192 ss.; BRICCHETTI, Le figure soggettive della legge sul giusto processo, in Dir. pen. proc., 2001, p. 1269 ss.; CANTONE, Il giusto processo. Commento organico alla legge 1° marzo 2001, n. 63, Simone, 2001, p. 39 ss.; CAPRIOLI, Commento all'art. 5 l. 1° marzo 2001, n. 63, in Leg. pen., 2002, p. 177 ss.; CARCANO-MANZIONE, Il giusto processo. Commento alla legge 1° marzo 2001, n. 63, Giuffrè, 2001, p. 6 ss., 19 ss.; CASCINI, Contraddittorio e limiti del diritto al silenzio (prime note a margine della legge 1° marzo 2001 n. 63), in Questione giustizia, 2001, p. 302 ss.; CHIAVARIO, Premessa, in Leg. pen., 2002, p. 145 ss.; C. CONTI, L'imputato nel procedimento connesso. Diritto al silenzio e obbligo di verità, Cedam, 2003, p. 185 ss.; CORBETTA, Principio del contraddittorio e diritto al silenzio, in Dir. pen. proc., 2001, p. 678 ss.; CORDERO, Procedura penale, 7a ed., Giuffrè, 2003, p. 753 ss.; D'ANDRIA, Le nuove qualifiche soggettive create dalla l. n. 63 del 8 2001 e la riforma dell'art. 64 c.p.p., in questa rivista, 2002, p. 845 ss.; DANIELE, La testimonianza "assistita" e l'esame degli imputati in procedimenti connessi, in Aa.Vv., Il giusto processo, tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di Kostoris, Giappichelli, 2002, p. 196 ss.; DI BITONTO, Diritto al silenzio: evoluzione o involuzione?, in Dir. pen. proc., 2001, p. 1027 ss.; DI MARTINO, L'incompatibilità a testimoniare: problemi vecchi e nuovi, in Ind. pen., 2002, p. 1033 ss.; FANULILAURINO, Le mobili frontiere del testimone comune, del testimone assistito e del dichiarante ex art. 210 c.p.p. Dubbi interpretativi e difficoltà applicative, in Arch. n. proc. pen., 2003, p. 399 ss.; FERRUA, Introduzione, cit., p. 585 ss.; FINOTTO, La nuova disciplina dell'incompatibilità a testimoniare, in Giust. pen., 2002, III, c. 469 ss.; GREVI, Prove, inCONSO-GREVI, Compendio di procedura penale, 2a ed., Cedam, 2003, p. 313 ss.; ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone, in Ind. pen., 2002, p. 387 ss.; KOSTORIS, Solo un incremento dell'incidente probatorio puà attenuare le contraddizioni del rito penale, in Guida dir., 2001, n. 24, p. 10 ss.; MADDALENA, "Giusto processo" e funzione dell'accusa, con particolare riferimento alla criminalità organizzata, in Aa.Vv., Il giusto processo, cit., p. 360 ss.; MAGI, Le figure normative del dichiarante: in particolare il testimone assistito, in Questione giustizia, 2002, p. 1290 ss.; MAMBRIANI, Giusto processo e non dispersione delle prove, La Tribuna, 2002, p. 578 ss.; MANZIONE, Commento all'art. 2 5 l. 1° marzo 2001, n. 63, in Leg. pen., 2002, p. 153 ss.; MAZZA, L'interrogatorio e l'esame dell'imputato nel suo procedimento, Giuffrè, 2004, p. 135 ss., 319 ss.; MOROSINI, Il "testimone assistito" tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l'autoincriminazione (art. 197-bis c.p.p.), in Aa.Vv., Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e sulla valutazione della prova, a cura di Tonini, Cedam, 2001, p. 304 ss.; NAPPI, Guida al codice di procedura penale, 9a ed., Giuffrè, 2004, p. 440 ss.; NOBILI, Giusto processo, cit., p. 7 ss.; ORLANDI, Dichiarazioni dell'imputato su responsabilità altrui: nuovo statuto del diritto al silenzio e restrizioni in tema di incompatibilità a testimoniare, in Aa.Vv., Il giusto processo, cit., p. 153 ss.; RUSSO, Considerazioni sulla legge n. 63 del 2001 nella testimonianza di uno dei suoi protagonisti, ivi, p. 330 ss.; SANNA, L'esame dell'imputato sul fatto altrui, tra diritto al silenzio e dovere di collaborazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, p. 484 ss.; SANTORO, Il cambio da coimputato a teste esalta il confronto, in Guida dir., 2001, n. 13, p. 41 ss.; SCALFATI, Aspetti dell'acquisizione dibattimentale di fonti dichiarative, in Ind. pen., 2003, p. 629 ss.; TONINI, Manuale di procedura penale, 5a ed., Giuffrè, 2003, p. 244 ss.; VIGONI, Ius tacendi e diritto al confronto dopo la l. n. 63 del 2001: ipotesi ricostruttive e spunti critici, in Dir. pen. proc., 2002, p. 87 ss. (7) C. cost., 20 novembre 2002, n. 485. V. anche Id., 19 giugno 2002, n. 291, la quale ha posto in rilievo come le numerose garanzie previste dall'art. 197-bis c.p.p. a favore del testimone assistito siano funzionali al pieno rispetto del principio del nemo tenetur se detegere, considerato «un corollario essenziale dell'inviolabilità del diritto di difesa». (8) V. MARINI-PEPINO, Crisi di un modello o crisi del processo? (Spunti introduttivi, ovvero un tentativo di contestualizzazione), in Questione giustizia, 2001, p. 1029. 9 (9) Cfr. C. CONTI, Esame dell'imputato e avvisi ex art. 64 c.p.p.: la Consulta suggerisce l'interpretazione "analogica", in Dir. pen. proc., 2004, p. 185 ss.; MAMBRIANI, Giusto processo, cit., p. 583 ss. (10) Cfr. C. CONTI, Esame dell'imputato, cit., p. 185 ss., la quale pone in evidenza come gli accertamenti che il giudice è tenuto ad effettuare ai sensi degli artt. 64, 197 e 197-bis c.p.p. rendano «evanescenti i confini del delitto di falsa testimonianza». (11) I termini del discorso mutano in riferimento all'inutilizzabilità prevista dall'art. 64 comma 3-bis c.p.p.: quest'ultima, come tutte le inutilizzabilità di ordine speciale, non è suscettibile di operare in ipotesi alle quali il legislatore non si sia espressamente riferito: cfr. C. CONTI, Esame dell'imputato, cit., p. 187 ss. e MAMBRIANI, Giusto processo, cit., p. 583 ss., nonchè, per considerazioni più generali, GALANTINI, L'inutilizzabilità della prova nel processo penale, Cedam, p. 167 ss., e SCELLA, Prove penali e inutilizzabilità. Uno studio introduttivo, Giappichelli, 2000, p. 173 ss. Essa, quindi, non può operare neppure quando il regime degli avvertimenti ex art. 64 comma 3 lett. c c.p.p. sia esteso analogicamente. (12) Anche se, considerato che l'esame è stato chiesto od accettato dall'imputato, il silenzio può avere un suo specifico peso probatorio; in tal senso, l'art. 209 comma 2 c.p.p. prevede che «se la parte rifiuta di rispondere a una domanda, ne è fatta menzione nel verbale»: v. CORDERO, Procedura, cit., p. 254. (13) In questo senso, v. P. FERRUA, Introduzione, cit., p. 590. Tale tesi è stata accolta da C. cost., 23 maggio 2003, n. 191, la quale ha affermato che appare legittimo «far leva su di una interpretazione che consente di rendere applicabile la disciplina degli avvisi anche all'istituto dell'esame». Altrimenti, al fine di ottenere il mutamento della veste del dichiarante, sarebbe necessario effettuare un interrogatorio «del tutto superfluo sul piano investigativo e neppure giustificato da esigenze di tutela del diritto di difesa». V. ancheBARBARANO, Esame dell'imputato e garanzie, in Dir. e giust., 2003, n. 24, p. 88 ss. (14) Cfr. C. CONTI, Esame dell'imputato, cit., p. 184, la quale, ritenendo che l'applicazione analogica delle norme in materia di testimonianza assistita non sia consentita, afferma che tale irragionevole disparità di trattamento dovrebbe essere eliminata dal legislatore o da una declaratoria di incostituzionalità dell'art. 208 c.p.p. nella parte in cui non rinvia all'art. 64 c.p.p. (ivi, p. 187). (15) La presenza del difensore dell'imputato è obbligatoria in dibattimento ai sensi dell'art. 484 comma 2 c.p.p., ed in udienza preliminare in forza dell'art. 420 comma 1 c.p.p. 10 (16) Cfr. GARUTI, La nuova fisionomia dell'udienza preliminare, in AA.VV., Il processo penale dopo la riforma del giudice unico, a cura di Peroni, Cedam, 2000, p. 380; SCAPARONE, Indagini preliminari ed udienza preliminare, in CONSO-GREVI, Compendio, cit., p. 480. In senso contrario, v. CERESA GASTALDO, Le dichiarazioni spontanee dell'indagato alla polizia giudiziaria, Giappichelli, 2002, p. 110 ss., 149 ss.; MAZZA, L'interrogatorio e l'esame dell'imputato, cit., p. 260 ss. (17) Questa conclusione deriva dalla circostanza che l'art. 374 comma 2 c.p.p. richiama le regole sull'assistenza del difensore stabilite dall'art. 364 c.p.p. solo in riferimento al caso della trasformazione delle dichiarazioni spontanee in interrogatorio: v. GAETA, Commento all'art. 374 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, a cura di Giarda e Spangher, vol. II, Ipsoa, 2001, p. 266. (18) In senso analogo, ORLANDI, Dichiarazioni dell'imputato, cit., p. 167 ss. In mancanza di questo adempimento, si deve ritenere che le dichiarazioni spontanee non possano determinare l'assunzione della veste di testimone: cfr. PAULESU, Commento all'art. 350 c.p.p., in Codice di procedura penale commentato, a cura di Giarda e Spangher, vol. II, cit., p. 110. (19) V. KOSTORIS, Commento all'art. 63 c.p.p., in Commento al nuovo codice di procedura penale, coord. da Chiavario, vol. I, Utet, 1989, p. 325 ss. (20) V. Trib. Biella, ord. 19 novembre 2001, in Dir. pen. proc., 2002, p. 748 ss. (21) C. cost., 24 ottobre 2002, n. 451, recependo i rilievi di C. CONTI,Emersione "tardiva" del collegamento probatorio e status del dichiarante in dibattimento, in Dir. pen. proc., 2002, p. 752 ss. (22) V. C. CONTI, Emersione "tardiva" del collegamento probatorio, cit., p. 752 ss. (23) Così, C. cost., 4 marzo 1992, n. 108. (24) C. cost., 11 luglio 2000, n. 294. Un'apertura in tal senso era già stata fatta da C. cost., 4 marzo 1992, n. 109, la quale aveva affermato che, nel caso di reato collegato, l'incompatibilità doveva ritenersi sussistente solo quando il giudice rilevasse in concreto «l'esistenza di una vera e propria interferenza sul piano probatorio tra due procedimenti». (25) Il corsivo è nostro. (26) Cfr. MAMBRIANI, Giusto processo, cit., p. 597; VIGONI, Ius tacendi, cit., p. 100. In senso contrario, v. DI MARTINO, L'incompatibilità a testimoniare, cit., p. 1037, secondo cui questi soggetti sarebbero compatibili a testimoniare in virtù della generale capacità ex art. 196 c.p.p. Ma, come si vedrà tra breve in riferimento agli imputati di reato connesso o collegato, l'incompatibilità non può essere 11 considerata una deroga alla capacità di testimoniare. (27) L'art. 210 comma 1 c.p.p., infatti, si riferisce ai coimputati nei cui confronti «si è proceduto» (ciò avviene quando il procedimento a loro carico si sia concluso con una decisione irrevocabile, con una sentenza di non luogo a procedere o con un provvedimento di archiviazione), e «che non possono assumere l'ufficio di testimone»: cfr. CAPRIOLI, Commento all'art. 5, cit., p. 186. In senso contrario, App. Milano, 5 febbraio 2003, Silocchi, in Foro ambr., 2003, p. 323, secondo cui non vi sarebbe «incompatibilità con l'ufficio di testimone per l'indagato del medesimo reato la cui posizione sia stata archiviata, poiché le relative norme sono di natura eccezionale e non possono estendersi a soggetti in esse non contemplati perché non più inquisiti». (28) Il corsivo è nostro. (29) V. Trib. Messina, 9 luglio 2002, R. A ed altri, in Giur. Merito, 2003, p. 750 ss.; Trib. Foggia, 8 febbraio 2002, ivi, 2002, p. 1309. (30) In senso analogo, prima delle modifiche introdotte dalla l. n. 63 del 2001, v. DOMINIONI, Un nuovo idolum theatri: il principio di non dispersione probatoria, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1997, p. 757 ss. (31) Cfr. C. CONTI, La riduzione dell'incompatibilità a testimoniare (art. 197 c.p.p.), in AA.VV., Giusto processo, cit., p. 292, nota 25. In generale, sul concetto di capacità processuale, v. CONSO, voce Capacità, diritto processuale penale, in Enc. dir., vol. VI, Giuffrè, 1960, p. 134 ss. (32) V. C. cost., 24 ottobre 2002, n. 452, in riferimento all'imputato di un reato collegato prosciolto in udienza preliminare per difetto di querela. Cfr. anche C. cost., 12 marzo 2003, n. 76, nonché C. cost., 30 giugno 2003, n. 250, in cui si rileva che il provvedimento di archiviazione ex art. 411 c.p.p. si riferisce a situazioni tra loro non omogenee, che si atteggiano in modo differente quanto alla loro normale forza di resistenza rispetto ad una eventuale riapertura delle indagini ai sensi dell'art. 414 c.p.p., «e potrebbero quindi suggerire una disciplina differenziata in tema di compatibilità con l'ufficio di testimone»; operazione che, tuttavia, la Corte ritiene di non poter compiere, perché diversamente sarebbe «chiamata a compiere una complessa e analitica ricostruzione del sistema delle incompatibilità ad assumere l'ufficio di testimone, svolgendo funzioni ed operando scelte discrezionali che rientrano nelle attribuzioni del legislatore». In dottrina, v., con diverse sfumature, AMODIO, Giusto processo, cit., p. 3590; APRILE-SILVESTRI, La formazione della prova, cit., p. 225 ss.; BARGIS, Il regime della connessione, riunione e separazione dei processi, in Bargis, Studi di diritto processuale penale, vol. I, cit., p. 77 ss.; BRESCIANI, Commento all'art. 6, cit., p. 210 ss.; CAPRIOLI, Commento all'art. 5, cit., p. 186 ss.; C. CONTI, La riduzione dell'incompatibilità a testimoniare, cit., p. 293 ss.; CORDERO, 12 Procedura, cit., p. 754; FERRUA, Introduzione, cit., p. 588 ss.; FINOTTO, La nuova disciplina, cit., c. 479 ss.; GREVI, Prove, cit., p. 315; MADDALENA, "Giusto processo", cit., p. 369 ss.; RUSSO, Considerazioni, cit., p. 335 ss.; SANTORIELLO, Calunnia, autocalunnia e simulazione di reato, Cedam, 2004, p. 175 ss.; TETTO, Capacità di testimoniare e garanzie difensive del dichiarante, in Dir. pen. proc., 2004, p. 370 ss. In giurisprudenza, Trib. Milano, 28 maggio 2001, Barbaro e altri, in Aa.Vv., Giusto processo e prove penali, Ipsoa, 2001, p. 375 ss. (33) Cfr. APRILE-SILVESTRI, La formazione della prova, cit., p. 226 ss.; BRICCHETTI, Le figure soggettive, cit., p. 1277 ss.; MADDALENA, "Giusto processo", cit., p. 370 ss.; SANTORIELLO, Calunnia, cit., p. 177, il quale afferma che il legislatore dovrebbe introdurre, per far fronte a questo problema, una disciplina analoga a quella prevista dall'art. 371-bis c.p. in ordine al reato di false informazioni al pubblico ministero: il procedimento penale aperto a seguito della denuncia per calunnia proposta dall'originario imputato o indagato dovrebbe restare «sospeso fino a quando il giudizio nel quale sarebbero state pronunciate le accuse calunniose non sia stato definito con "sentenza di primo grado ovvero il procedimento sia stato anteriormente definito con archiviazione o con sentenza di non luogo a procedere"». (34) Il corsivo è nostro. Per una diversa impostazione, v. Trib. Monza, 3 ottobre 2001, in www.penale.it, in cui si legge che agli imputati giudicati con sentenza divenuta irrevocabile andrebbero assimilati gli imputati di reato collegato nei cui confronti sia stato emesso decreto di archiviazione, specie quando ciò sia avvenuto per prescrizione del reato, «in quanto l'avvenuta estinzione del reato preclude comunque il riesame in senso eventualmente più sfavorevole della posizione del teste assistito». Tuttavia, il Tribunale trascura il fatto che un'eventuale riapertura delle indagini ex art. 414 c.p.p. potrebbe condurre ad individuare un titolo di reato in relazione a cui la causa estintiva non operi più, con la conseguenza che il decreto di archivazione per estinzione per reato non può considerarsi dotato della stessa forza di resistenza di quella delle sentenze irrevocabili. (35) Vi si prevede che un coimputato o un imputato di reato connesso o di reato collegato, giudicato con decisione irrevocabile, quando sia sentito come testimone assistito, non può «essere obbligato a deporre sui fatti per i quali è stata pronunciata in giudizio sentenza di condanna nei suoi confronti, se nel procedimento egli aveva negato la propria reponsabilità ovvero non aveva reso alcuna dichiarazione». (36) Cfr. FANULI-LAURINO, Le mobili frontiere del testimone assistito, cit., p. 408 ss.; MAGI, Le figure normative del dichiarante, cit., p. 1314. Per un'analoga soluzione, ma con un diverso procedimento interpretativo, v. BRICCHETTI, Le figure soggettive, cit., p. 1277 ss., il quale afferma che, una volta acquisito lo status di testimone assistito ai sensi dell'art. 64 comma 3 lett. c) c.p.p., «nessuna norma 13 prevede che il provvedimento d'archiviazione (o la sentenza di non luogo a procedere) determina la cessazione di tale status». 14 Corte Costituzionale , 21 Novembre 2006, n. 381 LA CORTE COSTITUZIONALE TESTIMONIANZA ASSISTITA RIAPRE IL DIBATTITO SULLA Cass. pen. 2007, 2, 491 Maria Lucia Di Bitonto SOMMARIO: 1. Premessa. - 2. I risultati cognitivi del processo penale nella discutibile posizione della Corte costituzionale. - 3. I rapporti tra regola di valutazione di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. ed assoluzione per non aver commesso il fatto: un collegamento non appropriato. - 4. I vaghi contorni dell'irragionevolezza. - 5. Prospettive de lege ferenda. 1. PREMESSA A seguito dell'entrata in vigore del nuovo art. 111 Cost. la dottrina aveva subito segnalato che l'esordio di tale previsione - "la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge" - avrebbe comportato da parte della Corte costituzionale un maggiore cautela nei giudizi di costituzionalità riguardanti la materia processuale, onde evitare il più possibile quelle decisioni di tipo manipolativo volte a sindacare non tanto l'eventuale contrasto con specifiche previsioni costituzionali della norma impugnata, quanto lo stesso merito dell'opzione legislativa fatta propria dal Parlamento nell'esercizio della propria discrezionalità legislativa (1). Un simile auspicio assumeva particolare pregnanza in una materia come quella processuale penale che aveva sperimentato, nei primissimi anni di vigenza della finora unica codificazione repubblicana, una controriforma della disciplina del nuovo codice di procedura penale del 1988 ad opera del giudice delle leggi (2), appellatosi "al principio di ragionevolezza ed al sino allora non conosciuto (per lo meno tra i principi costituzionali) principio di non dispersione della prova" (3). Com'è noto, il vaglio sulla ragionevolezza delle leggi fondato sull'art. 3 Cost. presenta contorni assai incerti, ed è sempre concreto il rischio di sconfinare e interferire con le prerogative esclusive del legislatore, facendo passare per costituzionalmente obbligate soluzioni che tali non sono (4). Tale pronostico, poi, ha una probabilità di avverarsi assai elevata in materia processuale. I codici di procedura costituiscono sempre un sistema normativo caratterizzato da una serie di bilanciamenti ed interazioni, ove concorrono disposizioni non solo esplicite ma anche implicite, da prendere in considerazione in stretta interrelazione tra loro (5). Ne discende, quindi, che il sindacato di ragionevolezza possa condurre ad esiti completamente opposti a seconda che l'esame della singola previsione oggetto del giudizio di costituzionalità sia condotto alla stregua dell'ordito sistematico in cui la stessa è inserita oppure no. È così accaduto che la Corte costituzionale, facendo leva sul controllo di legittimità condotto alla stregua dell'art. 3 Cost., abbia finito "per sovvertire le premesse sistematiche su cui si basava il testo originario del nuovo codice di 15 procedura penale, sostituendo ai principi direttivi espressi nella legge delega una diversa visione del modello processuale da adottare" (6), facendo uso del proprio potere di invalidare tutte le norme di cui non condivide la valutazione di opportunità effettuata dal legislatore (7). Fu sufficiente intervenire su un numero relativamente esiguo di articoli del codice per ribaltare il principio della tendenziale irrilevanza probatoria degli atti d'indagine (8) - necessario corollario di un sistema processuale che intenda collocare nel dibattimento il baricentro dell'accertamento penale - e così "trasformare l'inchiesta preliminare in una istruzione sommaria non garantita, cioè in un modello inquisitorio che neppure il legislatore del 1930 avrebbe osato proporre o imporre" (9). Alla luce di tali precedenti, dopo l'entrata in vigore di una novella costituzionale nata proprio per contrastare le discutibili linee interpretative poste a base delle sentenze costituzionali appena evocate - che a ragione si ritiene abbiano determinato la polemica reazione del Parlamento esplosa nel novembre del 1998, a seguito dell'ennesima declaratoria di incostituzionalità(10) aderente agli orientamenti espressi qualche anno prima (11) -, era naturale aspettarsi un atteggiamento di self-restraint da parte del giudice delle leggi, il quale, fino alla pronuncia in commento, era riuscito ad astenersi dal disquisire sulla asserita manifesta irragionevolezza delle opzioni normative poste a base delle varie previsioni del codice di procedura penale via via sottoposte al giudizio di conformità alla Carta fondamentale. Infatti, nelle declaratorie d'incostituzionalità per inosservanza dell'art. 3 Cost. relative ad articoli del codice di procedura penale - che pure sono state pronunciate dopo il 2000 - il giudizio d'illegittimità della norma impugnata non si è mai basato sulla asserita violazione del principio di ragionevolezza della soluzione legislativa adottata, ma è dipeso dalla riscontrata disparità di trattamento tra imputati conseguente al pregiudizio della posizione difensiva - rilevante alla stregua dell'art. 24, comma 2, Cost. - provocata dalle norme invalidate(12). La pronuncia oggetto delle presenti riflessioni, invece, è tutta incentrata su asseriti profili d'irragionevolezza, ed esordisce affermando che l'accoglimento della questione di legittimità denunciata si imponga per ragioni logiche, prima che giuridiche. Un simile incipit fa tornare alla mente consolidate massime dottrinali (13): "... che il processo formalmente non sia che un giudizio, significa che in esso la realtà giuridica si svolge nella forma della logica... È per questo che mentre la perfetta e rigorosa conformità alla logica corrisponde al principio di giustizia, il suo opposto trova la espressione nell'arbitrio". Ma è solo una fugace impressione: al contrario, i passaggi attraverso cui si articola il percorso giustificativo della declaratoria d'illegittimità costituzionale si risolvono, per lo più, in una serie di affermazioni discutibili se non addirittura errate, ben lungi dal costituire quelle "buone ragioni" necessarie a ritenere "razionalmente giustificato" il decisum del giudice delle leggi (14). Onde sgombrare subito il campo da facili fraintendimenti, non si vuole contestare il contenuto degli esiti normativi cui pervengono i giudici della Consulta. Un quadro positivo che assimili ai testimoni le persone assolte con 16 sentenza irrevocabile di assoluzione per non aver commesso il fatto risulta assolutamente plausibile e, peraltro, vanta nel nostro ordinamento decenni di "onorata" vigenza. Era quanto stabiliva non solo il codice di procedura penale del 1930, ma anche quello del 1988 fino alla novellazione ad opera della l. 1° marzo 2001, n. 63, che ha profondamente mutato il regime delle incompatibilità a testimoniare degli imputati, restringendo l'area del diritto al silenzio ad essi riconosciuto ed istituendo la figura del cosiddetto testimone assistito, vale a dire dell'imputato che assume obblighi testimoniali. Quel che invece non sembra irrefutabilmente sostenibile è che un tale regime configuri una regolamentazione normativa costituzionalmente necessaria. 2. I RISULTATI COGNITIVI DEL PROCESSO PENALE NELLA DISCUTIBILE POSIZIONE DELLA CORTE COSTITUZIONALE Secondo il giudice delle leggi, l'applicazione della regola di valutazione enunciata nell'art. 192, comma 3, c.p.p. alla deposizione testimoniale resa dalla persona originariamente imputata in procedimento connesso o collegato e poi irrevocabilmente assolta per non aver commesso il fatto "si appalesa in sé priva di qualsiasi giustificazione sul piano razionale ... perché, nei confronti di tale persona, l'ordinamento ha già acclarato l'inesistenza di qualunque correlazione con il fatto oggetto della verifica processuale, significativa agli effetti della responsabilità penale". L'assoluzione dell'imputato per non aver commesso il fatto, quindi, attesterebbe "in modo incontrovertibile la sicura estraneità di quel soggetto rispetto alla regiudicanda", così elidendo "ogni possibile "stato di relazione" con la vicenda processuale, nel cui ambito è resa la testimonianza". Tali affermazioni, nella loro tetragona assertività, appaiono indice di una scarsa percezione della complessità del fenomeno processuale penale e della problematica, se non addirittura ambigua, valenza dell'accertamento in esso compiuto. Il processo penale non è un congegno per distribuire patenti di onorabilità e costruire verità ufficiali. L'esigenza cognitiva che viene soddisfatta mediante il sofisticato sistema gnoseologico in cui consiste tale processo serve a salvaguardare l'immunità del cittadino incolpevole da punizioni arbitrarie (15) e l'accertamento della verità in funzione della tutela della libertà rappresenta la primaria fonte di legittimazione del potere del giudice penale, alle cui pronunce l'ordinamento attribuisce la forza di limitare la libertà delle persone, altrimenti inviolabile. Per questo il grado di certezza conseguito in esito al giudizio quale indispensabile premessa della sentenza da adottare non costituisce uno standard valevole per tutti i tipi di pronunce, ma dipende dai contenuti di esse. La decisione penale deve essere assistita dal pieno accertamento dei fatti solo quando il giudice intenda condannare. Solamente in questo caso è necessario un accertamento di colpevolezza che risulti provato "al di là di ogni ragionevole dubbio": la presunzione d'innocenza, infatti, impone che il giudizio di reità sia fondato su un solido quadro probatorio, che appaia idoneo a ribaltare la qualità di non colpevole riconosciuta a tutti prima della condanna definitiva (16). Per l'assoluzione, invece, non è necessario affermare indubitabilmente l'estraneità dell'imputato ai fatti che gli sono contestati, ma basta che le prove di 17 colpevolezza che lo hanno raggiunto non risultino sufficienti ad escludere il dubbio della sua innocenza(17). Peraltro, neppure con riguardo alle sentenze di condanna, che pure debbono essere sorrette da un quadro probatorio idoneo a qualificare come certo il riconoscimento della responsabilità penale dell'imputato, può dirsi che la pronuncia del giudice affermi il vero. Di tale pronuncia si può solo dire che pro veritate habetur: essa, cioè, rappresenta niente più che un mero surrogato della verità, che diviene socialmente accettabile esclusivamente in ragione delle particolari modalità di accertamento impiegate. E infatti, il giudicato penale non si estende all'accertamento contenuto nella sentenza, inerendo esclusivamente al momento imperativo della decisione giurisdizionale, non già ai giudizi di fatto o di diritto che ne costituiscono le premesse (18). Il che significa che per l'ordinamento nemmeno l'intervenuta irrevocabilità della sentenza, sia pure di condanna, è in grado di conferire all'accertamento in essa contenuto il crisma della verità indiscutibile, in quanto il giudizio fondato su prove è, per definizione, epistemologicamente incerto (19). In conclusione, asserire che nei confronti del destinatario di una pronuncia di assoluzione per non aver commesso il fatto l'ordinamento abbia attestato in maniera incontrovertibile l'estraneità di tale persona ai fatti contestati appare un'affermazione scorretta, contrastante con i peculiari caratteri dell'accertamento penale. 3. I RAPPORTI TRA REGOLA DI VALUTAZIONE DI CUI ALL'ART. 192, COMMA 3, C.P.P. ED ASSOLUZIONE PER NON AVER COMMESSO IL FATTO: UN COLLEGAMENTO NON APPROPRIATO Nemmeno merita di essere condivisa l'opinione secondo cui l'applicabilità del criterio valutativo stabilito nell'art. 192, comma 3, c.p.p. contraddirebbe la restitutio in integrum dovuta all'innocente, configurando "una degradazione del valore di garanzia proprio dell'assoluzione definitiva", sì da risolversi nella "irragionevole perpetuazione degli effetti del processo in quanto tale, prescindendo totalmente dal relativo epilogo". Presupposto di un simile ragionamento, infatti, è che la regola di giudizio in parola operi una sorta di capitis deminutio della persona le cui dichiarazioni debbano essere valutate "unitamente agli altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilità". Ma un tale assunto risulta completamente smentito dalla lettera della legge, visto che nessun dato positivo consente di accreditare l'idea che la menzionata previsione presupponga un giudizio di riprovazione del legislatore nei confronti dell'autore della deposizione da sottoporre alla regola de qua. Parimenti discutibile è l'idea che l'applicazione della regola di valutazione di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. all'imputato assolto per non aver commesso il fatto consista in un'aprioristica valutazione negativa del contributo probatorio da quest'ultimo offerto. Ed invero, quando l'ordinamento disconosce l'attitudine conoscitiva di un mezzo di prova per la sua intrinseca inattendibilità, ne stabilisce l'esclusione dalle risultanze utilizzabili dal giudice per assumere la decisione. La previsione della cautela valutativa di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p., invece, lungi dal 18 disconoscere l'importanza del contributo probatorio delle dichiarazioni cui deve essere applicata, esprime soltanto un'indicazione di carattere metodologico (20), che peraltro ha codificato un consolidato canone argomentativo elaborato dalla giurisprudenza, la quale da sempre - pur in mancanza di una corrispondente previsione legale - applica il criterio di valutazione in parola anche alla deposizione della parte lesa, vale a dire ad una persona rispetto alla quale non è mai stata configurabile una situazione d'incompatibilità con l'ufficio di testimone, come quella che ha invece riguardato l'imputato successivamente assolto. Senza considerare, poi, che si può plausibilmente dubitare del fatto che nella concreta esperienza giudiziaria la regola di valutazione de qua funga effettivamente da limite per l'autorità giudiziaria (21). Com'è stato incisivamente rilevato, "dove il narrante sia creduto, le conferme non mancano mai; sono miriadi i possibili indizi e ne basta uno anche remoto; non vigono soglie minime, né avrebbe senso imporle, sicché i giudici hanno le mani libere"(22). Del resto, ogni dato probatorio va accuratamente esaminato in collegamento con le altre risultanze processuali, sì da verificare se da esse risulti confermato o smentito (23); e in effetti, il tema centrale del dibattito interpretativo relativo all'art. 192, comma 3, c.p.p. è tutto incentrato sulla natura e sull'oggetto dei riscontri (24), vale a dire sulla peculiare fisionomia che deve assumere la valutazione unitaria della prova (25) con riguardo alle dichiarazioni rese da chi rivesta o abbia rivestito la qualità di imputato in procedimento connesso o collegato. A parte queste considerazioni, che pongono in risalto l'inesattezza del discorso giustificativo della decisione svolto dalla Corte costituzionale, occorre rilevare come quest'ultima abbia completamente omesso di prendere in considerazione quella che è stata generalmente riconosciuta dagli interpreti come la vera ratio dell'applicabilità del criterio di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. al testimone assistito. Il deficit di attendibilità in astratto riferibile alla deposizione di quest'ultimo dipende dalla previsione d'inutilizzabilità delle eventuali dichiarazioni rese contra se (art. 197-bis, comma 5, c.p.p.), e questa circostanza, deresponsabilizzando la fonte dichiarativa, ne riduce corrispondentemente anche la credibilità (26). Se, dunque, l'applicabilità dell'art. 192, comma 3, c.p.p. dipende dall'irresponsabilità del dichiarante, la cui deposizione non può essere utilizzata contro chi l'ha resa, non c'è ragione per farla venir meno in relazione all'imputato assolto per non aver commesso il fatto. Anch'egli, infatti, beneficia dell'inutilizzabilità contra se delle proprie dichiarazioni, in quanto il giudicato che lo riguarda esplica effetti preclusivi che tuttavia rimangono inoperanti in una cospicua serie di situazioni. Ed invero la sentenza di assoluzione "per non aver commesso il fatto" non esplica effetto vincolante extrapenale con riguardo ad una pluralità di fattispecie (27), vale a dire: nel caso in cui il danneggiato non si sia costituito nel 19 giudizio penale o non sia stato posto nelle condizioni di farlo (arg. ex art. 652, comma 1, c.p.p.); in caso di esercizio di un'azione civile diversa da quella di danno (28); nel caso in cui la sentenza di assoluzione si fondi su una prova assunta con incidente probatorio al quale il danneggiato non sia stato consentito di partecipare, sempre che non abbia fatto accettazione anche tacita della prova de qua (art. 404 c.p.p.); in caso di giudizio amministrativo contabile (29); nonché - secondo la prevalente opinione di dottrina e giurisprudenza (30) - anche nel caso in cui l'assoluzione dell'imputato sia stata determinata dalla mancanza, contraddittorietà o insufficienza delle prove a carico. Ne risulta, così, che pure nei confronti dell'imputato assolto per non aver commesso il fatto si registrano profili di "irresponsabilità" che avrebbero legittimato l'applicazione della regola di valutazione in parola. In conclusione, alla luce delle considerazioni appena svolte, non pare avere alcun apprezzabile fondamento il rapporto di reciproca esclusione configurato dalla declaratoria d'illegittimità costituzionale in esame tra l'esperibilità del criterio di giudizio di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. e la dichiarazione resa da imputato assolto per non aver commesso il fatto. 4. I VAGHI CONTORNI DELL'IRRAGIONEVOLEZZA A concludere la serie di argomenti posti a sostegno del giudizio d'irragionevolezza formulato, la Corte costituzionale richiama quale tertium comparationis la disciplina di assunzione e valutazione della prova stabilita nell'art. 210 c.p.p. La previsione dell'assistenza difensiva e del criterio valutativo di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. stabiliti con riguardo ai coimputati definitivamente assolti per non aver commesso il fatto avrebbe il difetto di assimilare le dichiarazioni rese da questi ultimi alle deposizioni provenienti dai soggetti indicati nell'art. 210 c.p.p., vale a dire di persone il cui pieno coinvolgimento con i fatti oggetto del giudizio giustifica, da un lato, la configurazione di un'ipotesi di incompatibilità con l'ufficio di testimone; dall'altro, il riconoscimento della facoltà di non rispondere. Anche questa volta, l'iter motivazionale non coglie nel segno e l'argomento usato opera non tanto quale effettivo presupposto logico della decisione, bensì quale mero espediente retorico, usato per conferire apparente rigore formale ad autonome scelte di valore del giudice delle leggi (31). Invero, la parziale omologazione della testimonianza assistita all'esame di persona imputata in procedimento connesso non è presa in considerazione dalla Corte costituzionale per quello che essa effettivamente rappresenta. Tale assimilazione costituisce un aspetto insopprimibile di una regolamentazione che si caratterizza proprio per dare vita ad una fattispecie il cui carattere originario sta tutto nel mettere insieme elementi provenienti da istituti molto diversi tra loro. Per questo la testimonianza assistita è stata efficacemente definita come "l'ibridazione di un ibrido"(32), una via di mezzo fra la testimonianza vera e propria e l'esame ex art. 210 c.p.p., che a sua volta prevede una disciplina a metà strada tra l'imputato e il testimone. Per coniugare il principio del nemo tenetur se detegere con la necessità di acquisire fonti penalmente responsabili e tenute a rispondere secondo verità le 20 incongruenze sono inevitabili, in quanto la disciplina che ne discende deve prevedere l'assunzione dell'ufficio di testimone da parte di persone che hanno rivestito o rivestono ancora la qualifica di imputato, e che dunque sono persone che in ragione della propria posizione non dovrebbero presentare alcuna naturale vocazione testimoniale. È quindi fatale che il legislatore proceda per assimilazioni, visto che se si avesse riguardo ai peculiari caratteri distintivi di ciascuna delle categorie dei dichiaranti rientranti nel genus "testimone assistito" si dovrebbero corrispondentemente moltiplicare le figure testimoniali ed i relativi regimi di ammissione, assunzione e valutazione della prova. D'altra parte, che simili assimilazioni portino con sé qualche inconcludenza non risulta in alcun modo evitabile. Come ha avuto modo di rilevare in altra occasione la stessa Corte costituzionale, però, l'irragionevolezza rilevante ai fini dell'art. 3 Cost. non può venire identificata in qualsiasi incoerenza, disarmonia o contraddittorietà, che una determinata previsione normativa possa lasciar trasparire sotto alcuni profili o per talune conseguenze, dovendosi tale sindacato arrestare "in presenza di una riscontrata correlazione tra precetto e scopo che consenta di rinvenire, nella "causa" o "ragione" della disciplina, l'espressione di una libera scelta che soltanto il legislatore è chiamato a compiere", tanto più quando la questione di legittimità costituzionale riguardi una norma contenuta in sistemi normativi complessi, all'interno dei quali il contemperamento tra i vari interessi non costituisce mai il frutto di soluzioni univoche (33). Nel caso di specie, tali condizioni di esenzione dal vaglio di ragionevolezza risultavano tutte, in quanto la disciplina della testimonianza assistita si inserisce in un più complesso sottosistema normativo - in cui concorrono l'avvenuta riduzione dell'ambito del diritto al silenzio ed il conseguente restringimento dell'area delle incompatibilità - nel quale la previsione oggetto del giudizio di costituzionalità è strettamente correlata alla più generale scelta del legislatore di estendere gli obblighi testimoniali in capo all'imputato, in adesione alla diffusa opinione dottrinale emersa dopo la modifica dell'art. 111 Cost. secondo la quale il recepimento del principio del contraddittorio nella formazione della prova imporrebbe l'allargamento dell'estensione del novero dei soggetti titolari di obblighi testimoniali (34). Che si tratti di una scelta legislativa impeccabile è lecito dubitare, sia per l'oggetto principale di essa - vale a dire la determinazione di ridurre gli spazi del diritto al silenzio, andando così ad intaccare una tradizionale modalità di esplicazione del diritto di difesa (35) - sia per il carattere inevitabilmente disarmonico dei congegni normativi volti a realizzarla (36). Nemmeno può negarsi che una simile opzione contrasti con altri valori fondamentali consacrati nella prima parte della Costituzione(37). Ma deve escludersi che le soluzioni normative adottate possano tacciarsi di manifesta irragionevolezza, com'è dimostrato non solo dalla debolezza degli argomenti impiegati dalla Corte costituzionale per sostenere il contrario; ma anche dalla circostanza che nel copioso dibattito interpretativo suscitato dalla 21 novellazione del 2001 nessuno, nemmeno i più critici, hanno mai inteso avanzare dubbi di costituzionalità sotto tale profilo (38). In definitiva, non si può fare a meno di criticare il modus operandi della Corte costituzionale, per l'eccesso di disinvoltura con cui ha qualificato come irragionevole la normativa impugnata. Ancora una volta il giudice delle leggi, invece che inserirsi negli itinerari suggeriti dal dibattito dottrinale registrato sui vari aspetti della disciplina processuale sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale, ha preferito fare leva su opinabili percorsi interpretativi, non confortati dalle indicazioni provenienti dall'insieme della cultura giuridica di riferimento. 5. PROSPETTIVE DE LEGE FERENDA Il tentativo di riportare nell'alveo della "ragionevolezza" la regolamentazione delle testimonianze di coloro che abbiano rivestito o ancora rivestano la qualifica di imputato si muove in direzione opposta a quella idealmente perseguita dalla Corte costituzionale, il cui decisum amplifica invece che ridurre i profili di contraddittorietà e incongruenza della relativa disciplina. Sia pure con qualche disarmonia - ed al prezzo, per alcuni inaccettabile, di intaccare gli ambiti del diritto al silenzio - il legislatore del 2001 era riuscito nell'intento di assimilare il più possibile ai testimoni le fonti dichiarative originariamente incompatibili con l'ufficio testimoniale. L'onnicomprensività quanto a tipologie soggettive dei dichiaranti - della testimonianza assistita aveva il merito di raggruppare sotto un unico regime le deposizioni di quanti, pur coinvolti a vario titolo nella vicenda processuale in corso di svolgimento, fossero chiamati a rendere testimonianza; e tale reductio ad unitatem conseguiva lo scopo di delineare un unico mezzo di prova completamente assimilabile alla testimonianza, salvo che per taluni aspetti di secondario rilievo, quali l'assistenza difensiva "passiva" (39) e l'assoggettamento ad una metodica valutativa per così dire rafforzata. L'unitarietà della qualifica formale del testimone assistito, inoltre, spiegava la generale applicabilità sia dell'assistenza difensiva, sia del criterio di valutazione fissato nell'art. 192, comma 3, c.p.p., da giustificarsi in ragione del nesso logicoprobatorio tra la vicenda che riguarda l'esaminato ed il fatto oggetto di accertamento nel processo in cui viene assunta la testimonianza(40). Nulla escludeva, poi, che in sede di elaborazione interpretativa sulla natura dei riscontri alle dichiarazioni rese dal teste assistito la regula juris di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. si conformasse alla natura "testimoniale" della dichiarazione da valutare (41), con il risultato di ridurre al minimo, se non escludere del tutto, le discrepanze valutative tra la testimonianza vera e propria e quella erga alios resa dall'imputato (42). A dispetto di simili osservazioni, l'irruzione del decisum del giudice delle leggi sul quadro positivo messo a punto nel 2001 mette a nudo la forzatura e la finzione in cui si è cimentato il legislatore. Se l'intervento di quest'ultimo era tutto incentrato sull'idea che non potesse non avere natura testimoniale la deposizione erga alios dell'imputato, la Corte costituzionale scalfisce la solidità di tale assunto. 22 Con l'introduzione di una nuova figura di dichiarante distinta sia dal testimone - in ragione dell'applicabilità del regime di cui all'art. 197-bis c.p.p. - sia dal testimone assistito tradizionale - stante l'inapplicabilità dell'assistenza difensiva e del criterio valutativo di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p., il giudice delle leggi ha finito per distinguere tra le varie deposizioni quelle "più testimoniali" (43) delle altre sull'implicito assunto che, al di là delle qualifiche formali che possano essere attribuite loro, gli imputati non sono testimoni. Letta in controluce la decisione in commento tradisce un ulteriore sottinteso: se, infatti, le deposizioni degli imputati risultano essere ontologicamente qualcosa di diverso da quelle testimoniali, l'omologazione formale tra le due tipologie di dichiaranti non può avere altro scopo che quella, eminentemente pratica, di evitare che la funzionalità di un sistema processuale che accoglie il principio del contraddittorio nella formazione della prova venga compromessa dalla possibilità di sottrarsi al contraddittorio riconosciuta ai titolari del diritto al silenzio (44). Il che significa che la compressione del diritto al silenzio operata dalla l. 1° marzo 2001, n. 63 troverebbe la sua giustificazione esclusivamente nella prospettiva di consentire al pubblico ministero la soddisfazione dell'onere probatorio di cui è gravato, propiziando l'acquisizione in dibattimento della deposizione degli imputati in procedimenti connessi o collegati che abbiano reso in precedenza dichiarazioni a carico di altro imputato (45). Ma se così è, il contrasto tra la Costituzione e la testimonianza assistita è ben più radicale, e non riguarda affatto i profili presi in esame nell'attuale pronuncia, bensì la stessa possibilità di limitare il diritto al silenzio dell'imputato per imporre a quest'ultimo un dovere di collaborazione con il pubblico ministero, vietato alla luce della presunzione d'innocenza e del carattere inviolabile - e dunque inderogabile e indisponibile - del diritto di difesa (46). Non sorprende che tali aspetti risultino trascurati dalla stragrande maggioranza dei giudici di merito - che si esimono dal sollevare le relative questioni di legittimità - e dalla stessa Corte costituzionale, che in più di un'occasione si è mostrata in sintonia con le propensioni "ideologiche" della magistratura (47). La procedura penale ha sempre dovuto fare i conti - in maniera più o meno conscia - con l'irrefrenabile impulso ad estrarre la verità dall'imputato ed a sollecitarne la collaborazione (48): colpevole o innocente quest'ultimo è depositario di una verità la cui emersione nel processo basterebbe a garantire il risultato giusto (49). Nondimeno, tanto più alla luce della complicazione introdotta dalla nuova figura di dichiarante di matrice "costituzionale", occorre chiedersi ancora se la finzione dell'imputato che diventa testimone giovi davvero alla coerenza sistematica del processo penale vigente ed alla sua efficienza; o se invece non sia preferibile abbandonare l'esperienza intrapresa nel 2001 e prevedere che le persone accusate di un reato possano assumere la veste testimoniale esclusivamente quando risultino destinatarie di una sentenza irrevocabile - sia essa di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena su richiesta 23 delle parti - in ragione del venir meno di un apprezzabile interesse difensivo che ne sconsigli l'assoggettabilità agli obblighi testimoniali. (1) FERRUA, Il contraddittorio è salvo, ora va circoscritto il diritto al silenzio, in Dir. e giust., 2000, n. 37, p. 82; ID., Ottima accoglienza a Corte per il "111", ivi, 2000, n. 39, p. 37. Conformemente C. CONTI, Giusto processo (dir. proc. pen.), in Enc. dir., Agg., vol. V, 2001, p. 628. Nel senso che l'esplicita previsione nell'art. 111, comma 1, Cost. di una riserva di legge processuale sia da intendersi come l'affermazione di un limite alla giurisprudenza creativa della Corte costituzionale, in quanto "il legislatore deve avere la possibilità di disegnare regole del procedere senza l'incubo della censura di illegittimità" v. TROCKER, Il valore costituzionale del "giusto processo", in AA.VV., Il nuovo art. 111 della Costituzione e il giusto processo civile, a cura di Civinini e Verardi, Franco Angeli Editore, 2001, p. 40. Per talune osservazioni critiche a tale prospettazione v. CECCHETTI, Giusto processo (dir. cost.), in Enc. dir., Agg., vol. V, 2001, p. 614. (2) In proposito si è parlato di sistema "affossato" (CORDERO, Procedura penale, 8¦ ed., Giuffrè, 2006, p. 706 ss.); di processo penale riformato dalla Corte costituzionale (IACOVIELLO, Prova e accertamento del fatto nel processo penale riformato dalla Corte costituzionale, in questa rivista, 1992, p. 2028); di demolizione del principio fondamentale del rito accusatorio (AMODIO, Rovistando tra le macerie della procedura penale, in questa rivista, 1993, p. 2942) o di decodificazione giurisprudenziale (AMODIO, Il processo penale tra disgregazione e recupero del sistema, in Ind. pen., 2003, p. 11). (3) Tali espressioni sono riprese da VASSALLIIntroduzione al tema, in AA.VV., Il giusto processo, Accademia nazionale dei Lincei, 2003, p. 23. In termini analoghi v. anche ILLUMINATI, I principi generali del sistema processuale penale italiano, in Pol. dir., 1999, p. 310. (4) LAVAGNA, Ragionevolezza e legittimità costituzionale, in Studi in memoria di Carlo Esposito, Cedam, 1973, p. 1573; LUTHER, Ragionevolezza (delle leggi), in Dig. d. pubbl., vol. XII, 1997, p. 360. Nel senso che il grado più alto di politicità, e quindi di discrezionalità, delle sentenze della Corte costituzionale si riscontra nelle pronunce emesse nell'ambito del sindacato sulla ragionevolezza v. BARILE - CHELI - GRASSI, Istituzioni di diritto pubblico, 8¦ ed., Cedam, 1998, p. 369. (5) CHIAVARIO, Norma (dir. proc. pen.), in Enc. dir., vol. XXVIII, 1978, p. 459, nota 121; FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, 2¦ ed., vol. I, Giuffrè, 1965, p. 496; ILLUMINATI, Giudizio, in Conso - Grevi, Compendio di procedura penale, 3¦ ed., Cedam, 2006, p. 661 s. (6) ILLUMINATI, I principi generali, cit., p. 310. (7) Nel senso che la Corte costituzionale attraverso il sindacato sulla ragionevolezza delle scelte legislative abbia aperto a se stessa la via a giudicare 24 liberamente e a proprio piacimento della costituzionalità delle leggi v. ESPOSITO, La Corte costituzionale come giudice della non arbitrarietà della legge, in Giur. cost., 1962, p. 450. V. anche SCACCIA, Gli "strumenti" della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Giuffrè, 2000, p. 399, ove si rileva che "il giudice delle leggi può decidere in maniera assolutamente libera e incontrollata attraverso lo strumento della ragionevolezza". Nel senso che in occasione di pronunce della Corte costituzionale fondate sul giudizio di ragionevolezza "non sia per nulla agevole tracciare un confine tra la censura per l'arbitrium legis e l'interferenza con il legittimo esercizio, da parte del legislatore, delle sue più tipiche prerogative" v. CHIAVARIO, Dichiarazioni a carico e contraddittorio tra l'intervento della Consulta e i progetti di riforma costituzionale, in Leg. pen., 1998, p. 931; nonché, in piena adesione a tale posizione, MARZADURI, Appunti sulla riforma costituzionale del processo penale, in AA.VV., Scritti in onore di Antonio Cristiani, Giappichelli, 2001, p. 435. Sulla giurisprudenza della Corte costituzionale incentrata sul principio di ragionevolezza in materia processuale penale v. TASSI, Il sindacato di ragionevolezza della Corte costituzionale sul sistema processuale penale, in Riv. it. dir. proc. e pen., 2002, p. 223 ss. (8) ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 661. Osserva, in proposito, FERRUA, Anamorfosi del processo accusatorio, ora in Studi sul processo penale. Anamorfosi del processo accusatorio, Giappichelli, 1992, p. 157: "dal processo inquisitorio o misto al processo accusatorio il cammino è lungo e faticoso ... Non è vero l'inverso. Dal processo accusatorio all'inquisitorio, il passaggio è agevole, lo si percorre rapidamente. Non occorrono grandi riforme o, meglio, queste si operano con pochi ritocchi, per via di omissioni e corpi di forbice. Basta eliminare qualche divieto di lettura, e il gioco è fatto". (9) DE LUCA, L'inchiesta preliminare, in AA.VV., Il codice di procedura penale. Esperienze, valutazioni e prospettive, Giuffrè, 1994, p. 48. (10) C. cost., 2 novembre 1998, n. 361, in Giur. cost., 1998, p. 3153 ss., con note di GEMMA - PELLATI, Processo e verità: un'altra decisione sostanzialmente coerente della Corte; SCAPARONE, Diritto al silenzio e diritto al controesame del coimputato; VENTURA, Escussione delle prove e contraddittorio; ZANON, La Corte, il legislatore ordinario e quello di revisione, ovvero del diritto all'"ultima parola" al cospetto delle decisioni d'incostituzionalità. (11) FERRUA, Il -giusto processo', Zanichelli, 2005, p. 15 s. (12) V. in questo senso C. cost. 13 giugno 2000, n. 186, in Giur. cost., 2000, p. 1612 ss., che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 616 c.p.p., "nella parte in cui non prevede che la Corte di cassazione, in caso di inammissibilità del ricorso, possa non pronunciare la condanna in favore della cassa delle ammende, a carico della parte privata che abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità"; C. cost. 14 luglio 2000, n. 283, ivi, 2000, p. 2186 ss., che ha dichiarato l'illegittimità 25 costituzionale dell'art. 37, comma 1, c.p.p. "nella parte in cui non prevede che possa essere ricusato dalle parti il giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilità dell'imputato, abbia espresso in altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto"; C. cost., 18 novembre 2000, n. 504, ivi, 2000, p. 3903 ss., che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 460, comma 4, c.p.p., "nella parte in cui non prevede la revoca del decreto penale di condanna e la restituzione degli atti al pubblico ministero, anche nel caso in cui non sia possibile la notificazione del domicilio dichiarato a norma dell'art. 161 c.p.p."; C. cost., 4 aprile 2001, n. 95, ivi, 2001, p. 599 ss., con nota di SPANGHER, L'omesso interrogatorio di garanzia nei termini di legge fa perdere efficacia sia alle misure coercitive, sia a quelle interdittive, che ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 302 c.p.p., "nella parte in cui non prevede che le misure coercitive, diverse dalla custodia cautelare, e quelle interdittive, perdono immediatamente efficacia se il giudice non procede all'interrogatorio entro il termine previsto dall'art. 294, comma 1-bis, c.p.p." ; C. cost., 16 aprile 2002, n. 120, ivi, 2002, p. 930 ss., con nota di GARUTI, Sulla decorrenza del termine per la richiesta di trasformazione del giudizio immediato in abbreviato, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 458, comma 1, c.p.p., "nella parte in cui prevede che il termine entro cui l'imputato può chiedere il giudizio abbreviato decorre dalla notificazione del decreto di giudizio immediato, anziché dall'ultima notificazione all'imputato o al difensore, rispettivamente del decreto ovvero della data fissata per il giudizio immediato"; C. cost., 16 maggio 2002, n. 195, ivi, 2002, p. 1543 ss. con nota di COPPETTA, Il consenso dell'imputato minorenne alla sentenza di non luogo a procedere, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 32, comma 1, d.P.R. n. 448 del 1988 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), come modificato dall'art. 22 l. n. 63 del 2001 (Modifiche al codice penale ed al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell'art. 111 cost.), "nella parte in cui, in mancanza del consenso dell'imputato, preclude al giudice di pronunciare sentenza di non luogo a procedere che non presuppone un accertamento di responsabilità"; C. cost., 25 luglio 2002, n. 394,ivi, 2002, p. 2884 ss. e p. 3330, con note di MAZZA, L'affidamento "qualificato" e i limiti alla retroattività normativa in materia processuale penale, e di PIAZZA, La Corte con una "discutibile" ragionevolezza statuisce il divieto di retroattività della nuova portata del "patteggiamento" sui giudizi disciplinari connessi, che ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 10, comma 1, l. 27 marzo 2001 n. 97, nella parte in cui dispone l'applicabilità degli artt. 1 e 2 della stessa legge (concernenti gli effetti della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti nel giudizio disciplinare) ai patteggiamenti perfezionatisi anteriormente alla sua entrata in vigore; C. cost., 21 luglio 2004, n. 253, ivi, 2004, p. 2593 ss., con note di BARBIERI, Termini di durata della custodia cautelare: equiparata la posizione del soggetto in stato di custodia cautelare all'estero a seguito di domanda di estradizione presentata dallo Stato italiano alla posizione del soggetto in stato di custodia cautelare in Italia, e di MARGARITELLI, Custodia cautelare 26 all'estero e decorrenza dei termini di fase, che ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 722 c.p.p., "nella parte in cui non prevede che la custodia cautelare all'estero, in conseguenza di una domanda di estradizione presentata dallo Stato, sia computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3, c.p.p."; C. cost., 22 luglio 2005, n. 299, ivi, 2005, p. 2917 ss., con note di DOLSO, Prognosi sul futuro delle interpretative di rigetto, e di CERESA-GASTALDO, Sull'operatività del termine "massimo di fase" ex art. 304 comma 6 c.p.p. in caso di regressione del procedimento: è costituzionalmente illegittimo l'art. 303 comma 2 c.p.p., nella parte in cui non consente il computo della custodia cautelare sofferta nelle fasi diverse, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 303, comma 2, c.p.p. "nella parte in cui non consente che i periodi di custodia cautelare derivanti da errores in judicando o in procedendo che hanno comportato la regressione del procedimento, sofferti in momenti processuali diversi dalla fase o dal grado in cui il procedimento è regredito, siano computati ai fini dei termini massimi di fase determinati dall'art. 304 comma 6 c.p.p.". (13) FOSCHINI, Sistema del diritto processuale penale, vol. II, 1¦ ed., Giuffrè, 1961, p. 168 s. (14) FERRUA, Il giudizio penale: fatto e valore giuridico, in AA.VV., La prova nel dibattimento penale, Giappichelli, 2¦ ed., 2005, p. 301. (15) FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, 3¦ ed., 1996, p. 553. (16) ILLUMINATI, La presunzione d'innocenza dell'imputato, Zanichelli, 1979, p. 116 ss. (17) Giova precisare che, non essendo la certezza mai raggiungibile in concreto, lo standard probatorio della colpevolezza è fissato al livello della probabilità elevatissima, vale a dire di una probabilità che pur non raggiungendo la certezza riduce al livello dalla "implausibilità" le probabilità contrarie: in questi termini IACOVIELLO, Motivazione della sentenza penale, in Enc. dir., Agg., vol. IV, 2000, p. 766. (18) DE LUCA, Giudicato (diritto processuale penale), in Enc. giur. Treccani, vol. XV, 1988, p. 2 s. (19) IACOVIELLO, Motivazione, cit., p. 755. In argomento v., esaurientemente, FERRUA, Il giudizio penale, cit., p. 310 ss. (20) In tal senso v. Sez. I, 28 aprile 1997, Matrone, in questa rivista, 1998, p. 2420. (21) Oltre all'Autore menzionato nella nota seguente v. KOSTORIS, Giudizio (diritto processuale penale), in Enc. giur. Treccani, vol. XV, 1997, p. 11; nonché DANIELE, La testimonianza "assistita" e l'esame degli imputati in procedimenti 27 connessi, in AA.VV., Il giusto processo tra contraddittorio e diritto al silenzio, a cura di Kostoris, Giappichelli, 2002, p. 216. (22) CORDERO, Procedura penale, cit., p. 628. (23) FERRUA, Il giudizio penale, cit., p. 326. (24) NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, Giuffrè, 9¦ ed., 2004, p. 223 ss. Per un approfondito ed esauriente studio sulla regola di valutazione in parola v. DEGANELLO, I criteri di valutazione della prova penale. Scenari di diritto giurisprudenziale, Giappichelli, 2005, p. 129 ss. (25) Nel senso che la valutazione unitaria della prova sia da considerare un principio cardine del processo penale, perché sintesi di tutti i canoni interpretativi dettati dall'art. 192 c.p.p. v. Sez. VI, 28 settembre 1992, Runci, in Arch. n. proc. pen., 1993, p. 334. Analogamente v. Sez. V, 25 giugno 1996, Cuiuli, ivi, 1997, p. 245, secondo cui nella valutazione della prova il giudice deve prendere in considerazione ogni singolo fatto ed il loro insieme in modo non parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio; verificando se essi, ricostruiti in sé e posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in una costruzione logica, armonica e consonante che consenta, attraverso la valutazione unitaria del contesto, di attingere la verità processuale, cioè la verità limitata, umanamente accertabile e umanamente accettabile del caso concreto. Viola tale principio il giudice che, dovendo giudicare in tema di maltrattamenti da parte di un insegnante nei confronti degli alunni, abbia smembrato i singoli episodi sottoposti alla sua valutazione rinvenendo per ciascuno giustificazioni sommarie od apodittiche e omettendo di considerare se nel suo insieme la condotta non fosse tale da realizzare un metodo educativo fondato sull'intimidazione e la violenza. Del medesimo segno anche Sez. II, 5 dicembre 2002, Schiavone, in Guida dir., 2003, n. 15, p. 96, ove si afferma che nella valutazione della prova il giudice deve prendere in considerazione ogni singolo fatto e il loro insieme, non in modo parcellizzato e avulso dal generale contesto probatorio, verificando se essi, ricostruiti in sé e posti vicendevolmente in rapporto, possano essere ordinati in una costruzione logica, armonica e consonante che consenta, attraverso la valutazione unitaria del contesto, di attingere la verità processuale, cioè la verità limitata, umanamente accertabile e umanamente accettabile del caso concreto. Con particolare riferimento alle prove dichiarative v. Sez. un., 4 febbraio 1992, Ballan, in questa rivista, 1992, p. 2662, nella quale si stabilisce che la valutazione dell'attendibilità delle dichiarazioni processualmente rilevanti - da qualunque parte provengano esige un'analisi che non può arrestarsi alla sommaria considerazione della personalità dei dichiaranti, ma richiede un'attenzione ai rapporti tra essi intercorsi, agli interessi che li possono avere mossi a dire o a negare, ai moventi che li possono avere spinti e in definitiva a tutte le circostanze rilevanti nelle quali le dichiarazioni sono state rese. 28 (26) In questo senso v. ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone, in Ind. pen., 2002, p. 406; SANNAL'esame dell'imputato sul fatto altrui, tra diritto al silenzio e dovere di collaborazione, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2001, p. 493; MOROSINI, Il "testimone assistito" tra esigenze del contraddittorio e tutela contro l'autoincriminazione (art. 197-bis c.p.p.), in AA.VV., Giusto processo. Nuove norme sulla formazione e valutazione della prova, a cura di Tonini, Cedam, 2001, p. 325; DANIELE, La testimonianza "assistita", cit., p. 213; CONTI, L'imputato nel procedimento connesso. Diritto al silenzio ed obbligo di verità, Cedam, 2003, p. 296; BRESCIANI, Commento all'art. 6 l. 1/3/2001, n. 63, in Leg. pen., 2002, p. 220. (27) Su tali profili si veda SCELLA, Art. 652, in Conso - Grevi, Commentario breve al codice di procedura penale, Cedam, 2005, p. 2209 ss. (28) Cass. civ., Sez. III, 26 febbraio 1999, n. 1678, in Foro it., 2000, I, c. 2934 ss. (29) Sui rapporti tra il giudicato di assoluzione e il giudizio amministrativocontabile v. SCELLA, Art. 652, cit., p. 2212. (30) GHIARA, Art. 652, in Commento al nuovo codice di procedura penale, coordinato da Chiavario, Utet, 1991, vol. VI, p. 456; SPANGHER, Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, in AA.VV., Nuovi profili nei rapporti fra processo civile e processo penale, Giuffrè, 1995, p. 57; TONINI, Manuale di procedura penale, Giuffrè, 6¦ ed., 2005, p. 758 s.; Cass. civ., Sez. III, 9 maggio 2000, n. 5885, in Dir. e giust., 2000, n. 19, p. 48; Cass. civ., Sez. I, 30 marzo 1998, n. 3330, in Foro it., 1998, I, c. 2913 ss. Con specifico riguardo ai rapporti tra assoluzione ex art. 530, comma 2, c.p.p. e procedimento disciplinare v. DE GREGORIO, Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche (l. 27.3.2001 n. 97), in Leg. pen., 2002, p. 620; nonché T.a.r. Lazio, 18 settembre 1993, Acampora, in I TAR, 1993, I, p. 3543 ss. (31) Sul frequente impiego nel giudizio sulla ragionevolezza delle leggi, per finalità eminentemente "retoriche", dello schema ternario consistente nel raffronto della disciplina impugnata con altra norma individuata quale termine di paragone v. SCACCIA, Gli "strumenti" della ragionevolezza, cit., p. 106 ss. Si richiama a tale prassi della giurisprudenza costituzionale anche TASSI, Il sindacato di ragionevolezza, cit., p. 228. (32) ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone, cit., p. 403. (33) C. cost., 28 marzo 1996, in Giur. cost., 1996, p. 819 ss. con note di RIVELLO, "Graziata" dalla Corte costituzionale la nuova anomala disciplina circa il computo dei termini delle misure cautelari in caso di "contestazioni a catena" per fatti diversi, e di A. MOSCARINI, Un buon uso della tecnica di ragionevolezza in tema di applicazione delle misure cautelari. Conformemente v. TASSI, Il sindacato di ragionevolezza, cit., p. 267 s. In senso critico rispetto ai "paletti" del giudizio di ragionevolezza evocati dal giudice delle leggi e richiamati nel testo v. GREVI, Il nuovo art. 297 29 comma 3° c.p.p. di fronte alla Corte costituzionale: una sentenza deludente ed elusiva del giudizio di ragionevolezza, in questa rivista, 1996, p. 2098 ss. (34) GREVI, Processo penale, "giusto processo" e revisione costituzionale, in questa rivista, 1999, p. 3321; GREVI, Giusto processo: subito norme coerenti per evitare il rischio della paralisi, in Guida dir., 2000, n. 2, p. 14; FERRUA, Il processo penale dopo la riforma dell'art. 111 della Costituzione, in Questione giustizia, 2000, p. 60; TONINI, "Giusto processo", diritto al silenzio ed obbligo di verità, in Ind. pen., 2000, p. 35 s.; C. CONTI, Le due "anime" del contraddittorio nel nuovo art. 111 Cost., in Dir. pen. proc., 2000, p. 199. Occorre ricordare, però, che secondo altra parte della dottrina l'attenuazione degli spazi da riservare al diritto al silenzio dell'imputato non configurava affatto una scelta costituzionalmente imposta dal nuovo art. 111 Cost.: in questo senso v. ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone, cit., p. 389; MAZZA, L'interrogatorio e l'esame dell'imputato nel suo procedimento, Giuffrè, 2004, p. 322 s.; SANNA, L'esame dell'imputato sul fatto altrui, cit., p. 481; DANIELE, Primi contrasti sull'applicazione dell'art. 111 Cost. e sul principio del contraddittorio, in questa rivista, 2000, p. 2452; nonché, volendo, DI BITONTO, Diritto al silenzio: evoluzione o involuzione?, in Dir. pen. proc., 2001, p. 1028 s. (35) Nel senso che la riduzione dell'area del diritto al silenzio ed il corrispondente ampliamento degli obblighi testimoniali in capo all'imputato costituiscano un grave vulnus alla posizione difensiva v. ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone, cit., p. 387. (36) Nel senso che la disciplina della testimonianza dell'imputato si presenti esageratamente complicata v. ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone, cit., p. 397. (37) Sui profili d'illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 24, comma 2, e 27, comma 2, Cost. si rinvia a ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone, cit., p. 380 ss.; MAZZA, L'interrogatorio e l'esame dell'imputato, cit., p. 332 ss.; nonché, volendo, a DI BITONTO, Diritto al silenzio, cit., p. 1027 ss. (38) In termini critici nei confronti dell'estensione della regola di valutazione di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. alle dichiarazioni rese dagli imputati che abbiano assunto l'ufficio di testimone v. GREVI, Prove, in Conso - Grevi, Compendio, cit., p. 325 s. Analogamente CORBETTA, Principio del contraddittorio e riduzione del diritto al silenzio, in Dir. pen. proc., 2001, p. 685 s.; DI MARTINO, L'incompatibilità a testimoniare: problemi vecchi e nuovi, in Ind. pen., 2002, p. 1047; MOROSINI, Il "testimone assistito", cit., p. 325 s.; CONTI, L'imputato nel procedimento connesso, cit., p. 300. (39) Invero, l'art. 197-bis c.p.p. non riconosce al difensore il diritto a partecipare all'esame (che è invece attribuito ex art. 210, comma 4, c.p.p. a quello dei soggetti imputati in procedimento connesso che non possono assumere l'ufficio testimoniale): egli può solo presenziare all'assunzione della testimonianza, 30 eventualmente formulando richieste, osservazioni e riserve a tutela della posizione del proprio assistito: su tale aspetto v. GREVI, op. ult. cit., p. 316; BRESCIANI, Commento, cit., p. 212 s.; DANIELE, La testimonianza "assistita", cit., p. 201; TRIGGIANI, Art. 197-bis, in Giarda - Spangher, Codice di procedura penale commentato, Ipsoa, 2001, p. 1089; CONTI, L'imputato nel procedimento connesso, cit., p. 281 s. L'eventuale mancanza di tale assistenza difensiva, poi, non è sanzionata con alcuna forma d'invalidità:DANIELE, op. ult. cit., p. 201 s. (40) AMODIO, Giusto processo, diritto al silenzio e obblighi di verità dell'imputato sul fatto altrui, in questa rivista, 2001, p. 3591. Nel senso che tale regola di giudizio sarebbe stata comunque applicabile, pur in mancanza di espressa previsione, v. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 762. (41) Nel senso che anche la deposizione testimoniale sia da valutare unitamente agli altri elementi che ne confermino l'attendibilità v. CORDERO, Procedura penale, cit., p. 629 e p. 762. (42) Per uno spunto in questo senso v. FERRUA, Introduzione al commento della legge n. 63 del 2001, in Dir. pen. proc., 2001, p. 591, secondo il quale la circostanza che la deposizione sia stata resa nella veste testimoniale orienta in maniera peculiare la valutazione di attendibilità di cui all'art. 192, comma 3, c.p.p. Analogamente DANIELE, La testimonianza "assistita", cit., p. 215, il quale rileva che siano sufficienti riscontri non individualizzanti quando le dichiarazioni da valutare siano pronunciate sotto l'obbligo di dire la verità. (43) Sotto tale profilo la Corte costituzionale pare muoversi sulla medesima linea interpretativa espressa dalla dottrina che ha inteso rilevare come la figura dell'imputato testimone - con la sola eccezione dei casi in cui l'imputato testimone sia stato irrevocabilmente assolto - sia più affine all'imputato di reato connesso o collegato che al testimone toutcourt: in tal senso v. FERRUA, Introduzione, cit., p. 591. (44) FERRUA, Effettività del contraddittorio. Nell'inerzia del legislatore la palla torna alla Corte costituzionale, in Questione giustizia, 2000, p. 992 s.; GREVI, Spunti problematici sul nuovo modello costituzionale di "giusto processo" penale (tra "ragionevole durata", diritti dell'imputato e garanzia del contraddittorio), in Pol. dir., 2000, p. 443 s. (45) Evidenziano tale aspetto ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone, cit., p. 394; MAZZA, L'interrogatorio e l'esame dell'imputato, cit., p. 331 s.; SANNA, L'esame dell'imputato sul fatto altrui, cit., p. 482; DI BITONTO, Diritto al silenzio, cit., p. 1028. (46) In argomento v. gli Autori citati nella nota 37. (47) Ad esempio, secondo ILLUMINATI, Giudizio, cit., p. 660, la giurisprudenza costituzionale del 1992 richiamata all'inizio sarebbe spiegabile alla luce delle 31 difficoltà incontrate dalla giurisprudenza nell'applicazione del nuovo metodo accusatorio, che avrebbero indotto la Corte costituzionale a farsi "interprete del malessere manifestatosi all'interno di una parte consistente, anche se non maggioritaria, della magistratura". (48) FERRAJOLI, Diritto e ragione, cit., p. 625; ILLUMINATI, L'imputato che diventa testimone, cit., p. 388. (49) CORDERO, Procedura penale, Giuffrè, 1987, p. 472; CORDERO, Scrittura e oralità, in Tre studi sulle prove penali, Giuffrè, 1963, p. 200 s. 32